licenziamenti – conferenze 13-12-12 e 21-1-13

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licenziamenti – conferenze 13-12-12 e 21-1-13
A L B E RT O M A S S A I A
LA NUOVA NORMATIVA IN MATERIA
DI LICENZIAMENTI E CONTRATTI DI LAVORO ATIPICI
INTRODOTTA DALLA LEGGE N. 92/2012
______________________________________________________________
INCONTRO ALLA CAMERA DEL LAVORO DI PALERMO
13 DICEMBRE 2012
INCONTRO ALLA CAMERA DEL LAVORO DI TORINO
21 GENNAIO 2013
Sommario.
Premessa: la struttura ed i presupposti della legge n. 92/2012.
Parte I: la nuova normativa sui licenziamenti.
1)
L’azione della legge n. 92/2012 sulla materia dei licenziamenti.
2)
La forma del licenziamento individuale e la procedura d’irrogazione.
3)
Le diverse tipologie di licenziamento individuali.
4)
Le tutele per il lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nelle leggi n. 604/1966 e n.
300/1970, prima della controriforma del 2012.
5)
Le tutele per il lavoratore in caso di licenziamento illegittimo ora previste dalla legge n. 92/2012.
6)
Alcune recenti sentenze in materia di licenziamenti secondo la nuova legge del 2012
7)
La nuova procedura per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo introdotta dalla legge
n. 92/2012.
8)
Le modifiche apportate dalla legge del 2012 alla legge n. 223/1991 sui licenziamenti collettivi.
9)
L’impugnazione del licenziamento ed il processo avanti il giudice del lavoro con il nuovo rito
abbreviato.
Parte II: la nuova normativa sui contratti di lavoro atipici.
10)
L’azione della legge n. 92/2012 sulla materia dei contratti di lavoro atipici.
11)
Il lavoro a tempo determinato nella legge 230/1962 (abrogata nel 2001).
12)
Il lavoro a tempo determinato nel decreto legislativo 368/2001 e successive modifiche, prima
della legge del 2012.
13)
Le modifiche apportate al lavoro a tempo determinato dalla legge n. 92/2012.
14)
Il contratto d’inserimento nel decreto legislativo 276/2003 – abrogazione ai sensi della legge n.
92/2012.
15)
Il contratto di apprendistato nel decreto legislativo 167/2011 – modifiche ai sensi della legge n.
92/2012.
16)
Il contratto a tempo parziale nel decreto legislativo 61/2000 – modifiche ai sensi della legge n.
92/2012.
17)
Il lavoro intermittente dalla legge n. 276/2003 alla legge n. 92/2012 (sintesi).
18)
Il lavoro a progetto nel decreto legislativo 276/2003 – modifiche ai sensi della legge n. 92/2012
19)
Le partite IVA nella legge n. 92/2012 (sintesi).
20)
L'associazione in partecipazione dagli artt. 2549-2554 codice civile alla legge n. 92/2012
(sintesi).
21)
Il lavoro accessorio dalla legge n. 276/2003 alla legge n. 92/2012 (sintesi).
22)
Il tirocinio formativo o stage - dalla legge n. 197/1996 alla legge n. 92/2012 (sintesi)
11
Premessa: la struttura ed i presupposti della legge n. 92/2012.
La legge n. 92/2012 reca il titolo “disposizioni in tema di riforma del mercato del lavoro in
una prospettiva di crescita”.
Si compone di soli 4 articoli – per il consueto escamotage di rendere più facile la votazione
in parlamento, peraltro avvenuta in tempi assai celeri e con amplissima maggioranza – che tuttavia
contano in totale ben 270 commi. Riportiamo di seguito le rubriche degli articoli:
-
Art. 1: disposizioni generali, tipologie contrattuali, flessibilità in uscita, tutele del
lavoratore.
Art. 2: ammortizzatori sociali.
Art. 3: tutele in costanza di rapporto di lavoro.
Art. 4: ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro.
Al di là della terminologia sicuramente tanto à la mode quanto eufemistica utilizzata dal
legislatore, si possono identificare quattro distinte tematiche: licenziamenti, contratti di lavoro
atipici, assicurazione sociale per l’impiego, cassa integrazione; a queste si può aggiungere una
tematica residuale, una sorta di “varie”.
La tecnica legislativa è purtroppo quella consueta da parecchi anni a questa parte. Non si
tratta di un testo di legge organico, ma è una sterminata congerie di modifiche ed integrazioni a
numerosissime leggi già esistenti e più volte modificate nel corso degli anni, con un quadro
normativo sempre più intricato.
Già abbiamo visto come il titolo della legge contenga il concetto di “crescita” , una delle
“parole d’ordine” ricorrenti negli ultimi anni. Una ridondanza di parole d’ordine o di luoghi
comuni si ritrova poi nell’incipit della legge, che si presenta come una dichiarazione d’intenti, che
viene esposta in dettaglio nell’art. 1 commi da 1 a 8. Così, il primo periodo del 1° comma recita:
“La presente legge dispone misure ed interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo
e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione in quantità e qualità, alla
crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione.”
Da tali parole, emerge un ottimismo talmente estremo che appare d’incerta connessione con
la realtà sociale di questi anni, un ottimismo che sembra riecheggiare le suggestioni del più ingenuo
liberismo ottocentesco. E’ un ottimismo che ignora o finge d’ignorare argomenti quali la necessità
di investimenti pubblici e privati, di riconversione industriale, d’innovazione tecnologica.
Dall’incipit della legge pare di cogliere la fiducia che una crescita sociale ed economica ed un
aumento dell’occupazione di qualità ed in quantità possano derivare dal solo mercato del lavoro. Il
fideismo nel mercato capace di regolarsi da solo – o appena corretto da qualche miglioria introdotta
dalla stato – e capace di creare ricchezza , secondo il nostro ottimista legislatore si applica quindi al
mercato del lavoro.
Scendendo appena un poco in dettaglio, l’art.1 continua con una dichiarazione d’intenti
sinceramente apprezzabile circa il rilievo prioritario del lavoro dipendente a tempo indeterminato,
indicato come “contratto dominante”; continua poi indicando l’apprendistato come modalità
prevalente d’ingresso per i giovani nel mondo del lavoro. Quindi passa ad esprimere quello che
può identificarsi come la vera chiave politica dell’intera legge: un bilanciamento o uno scambio fra
maggiori tutele nella fase d’ingresso del contratto di lavoro – vale a dire un temperamento della
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precarietà – ed un maggiore flessibilità nella fase di uscita del contratto di lavoro – vale a dire una
maggiore facilità di licenziamento, presentata come un adeguamento “contestuale alle mutate
esigenze del mutato contesto – scambio a cui si aggiunge una revisione degli ammortizzatori
sociali.
In queste pagine, esamineremo due soli degli argomenti della legge n. 92/2012: le modifiche
apportate ai licenziamenti ed i contratti di lavoro atipici, trattandosi degli argomenti di maggior
peso in considerazione dei presupposti alla base della legge.
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PARTE I – LA NUOVA NORMATIVA SUI LICENZIAMENTI
1)
L’azione della legge n. 92/2012 sulla materia dei licenziamenti.
La legge n. 92/2012 è intervenuta in maniera radicale sulla materia dei licenziamenti
individuali, che era ancora disciplinata dalle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970 “statuto dei
lavoratori”, che come è ben noto furono i primi importanti interventi legislativi attuati in Italia per
riequilibrare i rapporti di forza fra lavoratore e parte padronale in tema di licenziamenti individuali.
In estrema sintesi, tale intervento non ha riguardato le tipologie di licenziamento - che sono
rimaste sostanzialmente identiche – ma è intervenuta soprattutto sulle tutele per il lavoratore in caso
di licenziamento illegittimo, che erano previste dal ben noto art. 18 della legge n. 300/1970, tutele
che sono state pesantemente decurtate.
Non a caso, la rubrica originaria dell'art. 18 era “reintegrazione nel posto di lavoro”; con la
legge n. 92/2012 è diventata “tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo”. La
scomparsa del termine “reintegrazione” esprime una scelta politica di tutta evidenza: parlare di
“controriforma” e non di “riforma” a proposito di tale legge deriva da una constatazione oggettiva,
non da retorica politica.
La legge del 2012 è poi intervenuta con qualche modifica alla legge n. 604/1966
nell’articolo riguardante la forma dei licenziamenti ed ha altresì inserito nella legge del 1966 una
procedura precontenziosa per i soli licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Non è invece
intervenuta nella procedura di irrogazione dei licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo
soggettivo.
Al fine di un’esposizione logica, è necessario esaminare in primo luogo l’argomento della
forma del licenziamento e della procedura d’irrogazione dello stesso; in secondo luogo si passerà
alle diverse tipologie di licenziamento (rimaste grosso modo immutate); quindi si esaminerà
l’argomento centrale rappresentato dalle tutele per il lavoratore (prima e dopo la legge del 2012) e
di seguito alle ulteriori tematiche relative ai licenziamenti.
2)
La forma del licenziamento individuale e la procedura d’irrogazione.
La legge n. 604/1966 (art. 2), delineava con due norme molto semplici – anzi, forse troppo
semplici e semplicistiche - i requisiti di forma che doveva avere il licenziamento.
Così, la legge stabiliva che la comunicazione del licenziamento dovesse avvenire in forma
scritta. Inoltre, la legge attribuiva al lavoratore il diritto di conoscere le motivazioni del
licenziamento stesso; il lavoratore poteva pertanto formulare apposita richiesta entro 15 giorni dal
licenziamento, richiesta alla quale il datore di lavoro doveva dare risposta entro 7 giorni.
La legge n. 92/2012 (art. 1 comma 37) si è limitata ad introdurre una ragionevole modifica
alla normativa del 1966. Con questa modifica, si è previsto che la comunicazione del licenziamento
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deve avvenire in forma scritta e deve altresì contenere sin dall’inizio le motivazioni del
licenziamento stesso.
La legge del 1966 non dettava alcuna particolare procedura per l’irrogazione dei
licenziamenti individuali. La successiva legge n. 300/1970 (art.7) introdusse invece una procedura
per le sanzioni disciplinari non espulsive. Il singolare decalage che si era creato fra le sanzioni non
espulsive (per le quali esisteva una procedura più tutelante) ed i licenziamenti fu risolto dalla Corte
Costituzionale. Con le due sentenze n. 204/1982 e n. 427/1989 – strutturate come pronunce
interpretative - la Consulta estese ai licenziamenti disciplinari le tutele procedurali già previste dalla
legge n.300/1970 “statuto dei lavoratori” per le sanzioni disciplinari non espulsive, qualunque fosse
il numero dei dipendenti dell’azienda.
Pertanto, come per ogni sanzione disciplinare, la procedura di licenziamento individuale si
apre con una contestazione scritta, alla quale il lavoratore ha 5 giorni di tempo per rispondere in
forma scritta oppure per mezzo di un colloquio se del caso assistito da un sindacalista. Dopo di che,
fatte le valutazioni del caso, il datore di lavoro può comminare il licenziamento.
Tale quadro normativo non è stato modificato dalla legge n.92/2012 almeno per quanto
riguarda i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo; mentre per i licenziamenti
per giustificato motivo oggettivo si è introdotta una procedura precontenziosa avanti le Direzioni
Territoriali del Lavoro.
3)
Le diverse tipologie di licenziamento individuali.
Come abbiamo anticipato, le diverse forme di licenziamento individuali sono tuttora quelle
previste dalla legge n. 604/1966. La legge n. 604/1966 (artt. 1 e 3) ha tipizzato tre distinte forme di
licenziamento individuale.
 Una prima forma è quella del licenziamento per giusta causa secondo le previsioni di cui
all’art. 2119 codice civile, vale a dire “qualora si verifichi una causa che non consenta la
prosecuzione, anche provvisoria del rapporto” di lavoro.
 Una seconda forma è quella del licenziamento per giustificato motivo soggettivo,
determinato da “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di
lavoro”.
 Una terza ed ultima ipotesi è quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa”.
Cercando di chiarire le diverse tipologie previste dalla legge n. 604/1966, il licenziamento
per giusta causa trova la sua ratio in un’inadempienza del lavoratore così grave da far venire meno
il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro e tale da giustificare quindi l’immediata
risoluzione del rapporto di lavoro stesso. La differenza con il giustificato motivo soggettivo è in
realtà alquanto sfumata, correlata alla maggiore o minore gravità dell’inadempienza. E’ comunque
da evidenziare come la principale conseguenza pratica della distinzione fra le due tipologie sia
rappresentata dalla spettanza del preavviso nel solo caso di licenziamento per giustificato motivo.
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Cercando di chiarire ulteriormente il citato concetto di inadempienza, pur con la necessaria
approssimazione, si può sostenere che il licenziamento per giustificato motivo soggettivo sia per lo
più applicato a fronte di irregolarità nelle giustificazioni di assenze, di recidive in irregolarità
“minori”, oltreché dell’evanescente fattispecie dello scarso rendimento. Invece, l’ampia casistica
dei comportamenti dolosi di malversazione, riconducibili alle diverse fattispecie di reati contro il
patrimonio previsti dal codice penale – furto, appropriazione indebita, truffa, eccetera – è
usualmente sanzionata con il licenziamento per giusta causa, qualunque sia la modalità pratica o
l’ammontare più o meno elevato delle somme indebitamente distratte 1.
E’ altresì necessario chiarire almeno per sommi capi i concetti di dolo e colpa, che sono
richiamati dall’art. 40 del CCNL del credito come punti di riferimento per quantificare la gravità
delle sanzioni disciplinari ed appaiono rilevanti ai fini della distinzione fra sanzioni non espulsive e
licenziamento. Inoltre, i concetti di dolo e colpa appaiono utili ai fini dell’art. 2106 del codice
civile che fissa la norma generale secondo cui le sanzioni disciplinari sono applicate tenendo della
gravità dell’infrazione. Senza esagerate sottigliezze giuridiche, il dolo consiste nella coscienza e
volontà di causare l’evento dannoso; invece la colpa consiste in un comportamento non deliberato
ma causato da negligenza, impudenza, imperizia o per inosservanza di leggi o regolamenti. La
colpa è quindi valutata a seconda del grado di diligenza richiesta al soggetto che deve adempiere
l’obbligazione. Quindi, si avrà responsabilità per colpa grave quando non si è rispettata la diligenza
minima; si avrà responsabilità per colpa lieve o lievissima quando non si è rispettato un livello di
diligenza più elevato. Nell’attività bancaria, è inutile evidenziare come sia richiesto un grado di
diligenza particolarmente elevato e quindi la valutazione della colpa è molto rigorosa.
In ordine alla congruità fra l’inadempienza e la sanzione del licenziamento piuttosto che di
altre sanzioni non espulsive, è necessario ricordare come prima dell'entrata in vigore della legge n.
92/2012, la giurisprudenza di Cassazione era consolidata su alcuni punti fermi. Innanzitutto, la
Suprema Corte riteneva che il giudice di merito dovesse necessariamente procedere alla valutazione
della proporzione fra i fatti contestati e la sanzione, secondo il principio stabilito dall’art. 2106
codice civile; tale valutazione era condotta in riferimento a tutte le circostanze del caso concreto,
tenendo conto del fatto in sé, delle intenzioni soggettive del dipendente, della posizione gerarchica
del medesimo e del conseguente grado di affidamento richiesto dalla mansioni esercitate; tale
valutazione spettava unicamente ai giudici di merito e se sorretta da congrua motivazione era
insindacabile dalla Corte di Cassazione 2. Vedremo come la nuova legge ponga una pesante ipoteca
su tale interpretazione della giurisprudenza.
Passando infine al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, esso è riconducibile a
due distinti fattispecie: 1) l'impossibilità per il lavoratore di prestare la propria opera, ad esempio
per malattia che si protrae oltre il periodo di comporto oppure per sopravvenuta inidoneità alle
mansioni; 2) la soppressione del posto di lavoro. La distinzione rispetto al licenziamento collettivo
– disciplinato dalla legge n. 223/1991, che prevede una specifica procedura - è essenzialmente
quantitativa: infatti, il licenziamento è da intendersi come collettivo se coinvolge almeno 5
lavoratori nell’arco di 120 giorni in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito
della stessa provincia. Se non si raggiungono tali limiti dimensionali, si realizza la fattispecie del
licenziamento plurimo per giustificato motivo oggettivo.
Oltre al requisito della soppressione del posto di lavoro, deve esistere un nesso causale fra il
licenziamento ed il posto di lavoro soppresso e deve altresì risultare impossibile il repechage, vale
1
Corte di Cassazione sez. lavoro, sentenze 22/11/2012 n. 20613; 10/11/2011 n. 23422; 3/1/2011 n. 37; 2/2/2009
n. 2579.
2
Corte di Cassazione sez. lavoro, sentenze 7/4/2011 n. 7948; 13/4/2010 n. 8737; 22/6/2009 n. 14586;
18/12/2008 n. 29668; 8/1/2008 n. 144; 27/9/2007 n. 20221.
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a dire l’assegnazione del lavoratore ad un altro posto nell’ambito dell’impresa. Secondo la
giurisprudenza, il giudice del lavoro non può sindacare i criteri organizzativi e produttivi addotti dal
datore di lavoro, ma può tuttavia verificarne l’effettività 3.
4)
Le tutele per il lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nelle leggi n.604/1966 e n.
300/1970, prima della controriforma del 2012.
Come è noto, la legge del 1966 è basata, per il caso dei licenziamento illegittimo, non sulla
cosiddetta. “tutela reale”, bensì sulla cosiddetta “tutela monetaria”.
Così, all'art.8 stabilisce in linea di principio che nel caso in cui non ricorrano gli estremi del
licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, scatta l'obbligo di riassunzione del
lavoratore; tuttavia lo stesso articolo offre al datore di lavoro l'alternativa di un risarcimento
monetario, rendendo quindi la reintegra sul posto di lavoro un'ipotesi meramente teorica.
La legge fissa quindi l'importo del risarcimento, che è compreso fra 2,5 e 6 mensilità di
stipendio; per l'esatta quantificazione il giudice deve tenere conto del numero dei dipendenti
occupati, delle dimensioni dell'impresa, dell'anzianità di servizio del comportamento e delle
condizioni delle parti. La legge prevede che l'indennità possa arrivare a 10 mensilità qualora il
lavoratore abbia oltre 10 anni di anzianità e prevede infine un risarcimento fino a 14 mensilità per il
caso di un lavoratore che abbia più di 20 anni di anzianità e sia addetto ad un'azienda con oltre 15
dipendenti.
La normativa del 1966 è rimasta vigente, per quanto affiancata da quella introdotta dalla
legge n. 300/1970; dopo il 1970 è utilizzabile per i casi in cui l'obbligo di reintegro non sussiste a
causa delle dimensioni dell'azienda e tale ambito di applicazione è rimasto tale anche dopo la legge
del 2012.
Come è ben noto, pochi anni dopo l'emanazione della legge n. 604/1966, la normativa a
tutela dei lavoratori in materia di licenziamenti individuali è stata radicalmente innovata dalla legge
n. 300/1970 (successivamente modificata in particolare dalla legge n. 108/1990), che all'art. 18 ha
introdotto la cosiddetta “tutela reale”.
Così, in caso di licenziamento illegittimo in quanto privo di giusta causa o giustificato
motivo e in caso di licenziamento nullo in quanto dettato da motivi politici o sindacali o religiosi, la
legge del 1970 aveva stabilito che il giudice del lavoro ordinasse il reintegro in servizio del
lavoratore licenziato.
Oltre al reintegro, il lavoratore aveva diritto a:
 un'indennità monetaria a titolo di risarcimento del danno, commisurata alla retribuzione dal
giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione (in ogni caso pari almeno
a 5 mensilità di stipendio);
 il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al
momento dell'effettiva reintegrazione.
3
Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenze 8/10/2012 n. 17087; 2/10/2012 n. 16743; 10/9/2012 n.15104;
9/7/2012 n. 11465; n. 9656 / 2012; 15/5/2012 n. 7515; 15/5/2012 n. 7512; 14/5/2012 n. 7474; 18/4/2012 n. 6026;
24/2/2012 n. 2874.
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La legge del 1970 offre al lavoratore licenziato illegittimamente, la possibilità di rinunciare
al reintegro sul posto di lavoro e di optare invece per un'indennità pari a 15 mensilità di
retribuzione, che si aggiungono al risarcimento del danno quantificato con le regole di cui sopra.
Il completo revirement segnato dalla legge del 1970 rispetto a quella del 1966 è di tutta
evidenza, ma è comunque da sottolineare vista la fondamentale importanza politica e giuridica.
Infatti, la legge del 1966 lasciava al datore di lavoro la scelta fra il reintegro in servizio e la
monetizzazione: nella realtà pratica il reintegro era quindi una possibilità meramente teorica.
All'opposto, la legge del 1970 ha attribuito tale scelta al lavoratore, rendendo il reintegro una
possibilità concreta e riequilibrando così i rapporti di forza fra lavoratore e parte padronale nel
rapporto di lavoro. Soprattutto, la legge del 1970 era del tutto lineare: la reintegra sul posto di
lavoro era sempre prevista in tutti i casi di licenziamento illegittimo, stabilendo quindi una norma di
carattere davvero generale. La legge del 2012 è intervenuta con una radicale modifica di tale
impianto normativo: la tesi politica che generò la legge del 1970 era basata sull’idea che la
reintegrazione per il caso di licenziamento illegittimo fosse una garanzia necessaria per l’esercizio
di tutti i diritti in capo ai lavoratori; la scelta politica alla base della legge del 2012 è su posizioni di
completa antitesi.
5)
Le tutele per il lavoratore in caso di licenziamento illegittimo ora previste dalla legge n.
92/2012
Come abbiamo anticipato, la legge del 2012 è intervenuta con un’azione di
“spacchettamento” delle tutele per il caso di licenziamento illegittimo: le tutele sono state
frammentate, sminuzzate in numerose distinzioni e suddistinzioni, che hanno altresì un riverbero
sulle tipologie di licenziamento che pure sono rimaste formalmente immutate.
In considerazione della complessità del quadro normativo, al fine di un’esposizione il più
possibile chiara è necessario procedere in maniera schematica, analizzando per punti le 4 principali
categorie di tutela introdotte dalla legge del 2012 (art. 1 comma 42), che ha riscritto in gran parte il
ben noto art. 18 della legge n. 300/1970.
A) “Tutela reale”: reintegro e risarcimento pieno del danno (nuovo art. 18 commi 1, 2 e 3).
Si applica anche alle aziende che non raggiungono i limiti dimensionali minimi ed ache ai
dirigenti (come già previsto dalla legge n. 108/1990 per i licenziamenti discriminatori).
Si verifica nei casi in cui il licenziamento è :
 discriminatorio (legge n. 108/1990 art.3) e quindi in via esemplificativa, intimato da motivi
politici, sindacali, razziali, religiosi, di orientamento sessuale ecc.;
 intimato in concomitanza di matrimonio (d.lgs. n. 198/2006 art. 35);
 intimato in violazione delle leggi a tutela della maternità e paternità (d.lgs. n. 151/2001 art.
54);
 riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge (ma l’elencazione contenuta nel
nuovo art. 18 sembra esaustiva);
 determinato da motivo illecito determinante (art. 1345 codice civile), l'esempio più
immediato è il licenziamento per ritorsione;
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 intimato in forma orale.
La sentenza che dichiara la nullità del licenziamento comporta:
 il reintegro sul posto di lavoro;
 il risarcimento del danno per un importo pari ad un minimo di 5 mensilità di stipendio, senza
che vi sia un limite massimo (dedotto quanto percepito per lo svolgimento di altri lavori
durante il periodo di estromissione);
 il versamento dei contributi per il periodo di estromissione.
Il alternativa al reintegro, il lavoratore può scegliere:
 un'indennità monetaria pari a 15 mensilità di stipendio;
 all’indennità si aggiunge il risarcimento del danno, come sopra quantificato.
B) “Tutela reale”: reintegro e risarcimento del danno in misura ridotta (nuovo art. 18 commi 4 e 7).
Si verifica nei casi di seguito descritti.
Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa sia privo degli estremi
del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotta dal datore di lavoro;
in particolare, la mancanza della giusta causa o del giustificato motivo si verifica nel caso in
cui:
*
il fatto contestato non sussiste;
*
il fatto contestato rientra fra quelli per cui i contratti collettivi o i codici disciplinari
prevedono una sanzione conservativa.
Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo difetta di giustificazione nei casi intimati
per inidoneità fisica o psichica del lavoratore o di superamento del periodo di comporto per
malattia (vale a dire nei casi in cui il comporto non è stato superato oppure il lavoratore è
ancora idoneo al lavoro).
Il fatto posto alla base del giustificato motivo oggettivo è manifestamente insussistente.
I licenziamenti collettivi ai sensi della legge n. 223/1991 presentano una violazione dei
criteri di scelta dei lavoratori stabiliti dalla legge stessa (caso previsto dalla legge n. 92/2012
art. 1 comma 46, che ha modificato la legge n. 223/1991 art.5).
La sentenza che dichiara la nullità del licenziamento comporta:
 il reintegro sul posto di lavoro;
 tuttavia, nel caso in cui il giustificato motivo oggettivo è manifestamente insussistente la
scelta se reintegrare o meno il lavoratore spetta al giudice (il giudice “può applicare” la
disciplina del comma 4);
 il risarcimento del danno per un importo pari ad un massimo di 12 mensilità di stipendio,
senza che vi sia un limite minimo (dedotto quanto percepito per lo svolgimento di altri
lavori durante il periodo di estromissione oppure quanto avrebbe potuto percepire
dedicandosi con diligenza alla ricerca di un altro lavoro);
 il versamento dei contributi per il periodo di estromissione.
Il alternativa al reintegro, il lavoratore può scegliere:
 un'indennità monetaria pari a 15 mensilità di stipendio;
 all’indennità si aggiunge il risarcimento del danno, come sopra quantificato.
C) “Tutela monetaria”: indennità onnicomprensiva (nuovo art. 18 comma 5).
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Si verifica nei casi in cui il licenziamento è :
 privo degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotta dal datore
di lavoro, per casi diversi da quelli previsti dal comma 4;
 privo degli estremi del giustificato motivo oggettivo, per casi diversi da quelli previsti dal
comma 7;
 in violazione delle procedure stabilite per i licenziamenti collettivi dalla legge n. 223/1991
(caso previsto dalla legge n. 92/2012 art. 1 comma 46, che ha modificato la legge n.
223/1991 art.5).
La sentenza che accerta l'irregolarità del licenziamento comporta:
 la risoluzione del rapporto di lavoro;
 il pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva per un importo pari ad un minimo
di 12 ed un massimo di 24 mensilità di stipendio.
D) “Tutela monetaria”: indennità onnicomprensiva ridotta (nuovo art. 18 comma 6).
Si verifica nei casi in cui il licenziamento è :
 inefficace per mancanza di motivazione (legge n. 604/1966 art. 2) oppure per vizi di
procedura (legge n. 604/1966 art. 7, nuova procedura avanti la DTL - legge n. 300/1970 art.
7, procedura per le sanzioni disciplinari).
La sentenza che accerta l'irregolarità del licenziamento comporta:
 la risoluzione del rapporto di lavoro;
 il pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva per un importo pari ad un minimo
di 6 ed un massimo di 12 mensilità di stipendio.
Dopo aver esaminato le diverse forme di tutela del lavoratore licenziato illegittimamente,
introdotte dalla legge n. 92/2012, è necessario un breve corollario in ordine ai limiti dimensionali
dell'impresa in relazione all'applicazione delle tutele medesime. Tali limiti sono inseriti nel nuovo
art. 18 commi 8 e 9.
La “tutela reale” con risarcimento pieno del danno (nuovo art. 18 commi 1-3) si applica a
prescindere dalle dimensioni dell'impresa.
Invece, le altre tutele (nuovo art. 18, commi 4-7) si applicano ai datori di lavoro che
occupano:
 in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio, reparto nel quale si è verificato il
licenziamento almeno 15 lavoratori (5 se trattasi d'imprenditore agricolo);
 nello stesso comune almeno 15 lavoratori (5 se trattasi d'imprenditore agricolo) anche se le
singole unità produttive non raggiungono tale limite;
 in ogni caso più di 60 dipendenti.
I limiti dimensionali si computano tenendo conto dei lavoratori a tempo parziale, per la
quota di orario svolto. Non si computano invece il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il
2° grado in linea diretta e collaterale.
E' appena il caso di precisare come i nuovi commi 8 e 9 mantengono l’impianto normativo
precedente.
11
00
*********
Dopo questa presentazione schematica, passiamo ora ad alcune osservazioni. Iniziamo con
quella che abbiamo definito come tutela reale con risarcimento pieno. A livello giornalistico è stata
in qualche caso presentata come un ampliamento della tutela, estesa anche alle imprese al di sotto
dei noti limiti dimensionali previsti a suo tempo dall'art. 18 della legge n. 300/1970; in realtà tale
affermazione è infondata, in quanto l'estensione come sopra prospettata era già stata attuata con la
legge n. 108/1990 che modificò in meglio la legge del 1970. Da un punto di vista politico e
giuridico, la tutela reale per i licenziamenti che possiamo definire - con larga approssimazione come discriminatori è certamente un principio di civiltà e quindi la norma è indiscutibile. Tuttavia,
dal punto di vista strettamente concreto, è davvero ingenuo pensare che nella realtà un datore di
lavoro dichiari nella lettera di licenziamento che il medesimo è motivato da una ragione politica,
sindacale, o a causa del matrimonio o ancora dagli altri casi previsti dalla norma; sicuramente le
motivazioni discriminatorie saranno più o meno abilmente taciute e camuffate con argomenti
disciplinari. L'onere della prova, che grava sul lavoratore, è decisamente difficile, anche in
considerazione del fatto che la giurisprudenza richiede che la volontà discriminatoria sia stata la
causa determinante ed esclusiva del licenziamento 4. Non a caso, la giurisprudenza in tema di
licenziamenti discriminatori sino ad oggi è molto rara. Il risultato ultimo è che la norma in
questione troverà un'applicazione estremamente limitata.
Riguardo alla norma che prevede la tutela reale con risarcimento ridotto, si possono fare
osservazioni in qualche modo simili a quelle formulate a proposito dell'altra forma di tutela reale.
Pur apprezzando il significato giuridico del testo, è ingenuo pensare ad un datore di lavoro che
intima un licenziamento basato su fatti totalmente inesistenti o su un errore di calcolo nel periodo di
comporto. Nella realtà pratica è assai probabile che il licenziamento sia costruito su un addebito
reale ma di tenue entità rispetto alla sanzione del licenziamento. A questo punto appare decisivo il
punto successivo della legge: il reintegro scatta quando il fatto contestato è previsto e punito con
una sanzione disciplinare più lieve del licenziamento. Tuttavia, difficilmente i contratti collettivi o i
codici disciplinari prevedono una sequenza onnicomprensiva dei comportamenti sanzionabili e delle
sanzioni correlate agli stessi; una costruzione giuridica di tal genere è tipica del codice penale e
delle leggi penali, ma è rara nel diritto del lavoro, dove normalmente si prevede una normativa assai
sintetica e spesse volte anche datata ed ereditata da contratti e accordi assai risalenti nel tempo,
limitata all'elencazione meramente indicativa di alcuni comportamenti sanzionati oltreché
un'elencazione delle sanzioni disciplinari, usualmente senza una precisa correlazione fra
comportamenti e sanzioni.
Purtroppo, bisogna osservare come il testo iniziale della legge n. 92/2012, sul punto
specifico, oltre al riferimento ai contratti collettivi ed ai codici disciplinari, faceva altresì un
generico riferimento alla legge. Ne derivava la possibilità di applicare l'art. 2106 codice civile –
che prevede l'applicazione graduale delle sanzioni disciplinari – consentendo così al giudice di
prevedere il reintegro in caso di licenziamento che presentasse una sproporzione fra l'addebito e la
sanzione espulsiva, secondo una previsione ormai consolidata in giurisprudenza. Tuttavia,
nell'ultimo passaggio parlamentare il rimando alla legge è stato cancellato, con la conseguenza che
l'interpretazione giurisprudenziale prima descritta sarà probabilmente abbandonata in tutto o in
parte.
Sempre riguardo alla tutela reale con risarcimento ridotto, un'altra questione
giurisprudenziale da tener presente riguarda il principio del repechage affermatosi nella
giurisprudenza in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. In sintesi, la
4
Corte di Cassazione sez. lavoro, sentenze 28/3/2011 n. 7046; 21/12/2004 n. 23683; 26/5/2001 n. 7188.
11
11
giurisprudenza riteneva che in caso di soppressione di un posto di lavoro, la parte padronale dovesse
dimostrare di non poter reimpiegare il lavoratore licenziato in alcuna altra posizione. Non è chiaro
il coordinamento fra la norma di legge ed il citato principio giurisprudenziale.
Merita poi un'osservazione la disciplina del risarcimento del danno, che prevede un importo
massimo (12 mensilità di stipendio). Tale impostazione ha per effetto quello di scaricare sul
lavoratore il rischio derivante dalla lunghezza dei tempi processuali: qualunque sia la durata della
causa del lavoro – anche parecchi anni se se percorrono tutti i gradi di giudizio sino alla Cassazione
- si applica il plafond delle 12 mensilità di risarcimento. Sempre in merito al risarcimento del
danno, la norma prevede che dal risarcimento stesso si debba defalcare non solo quanto il lavoratore
ha percepito per lo svolgimento di altri lavori durante il periodo di estromissione, ma anche quanto
avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di un altro lavoro. Non è
assolutamente chiaro quale sia l'applicazione reale di tale indicazione di legge; di certo si coglie un
moralismo francamente fuori luogo, come se il legislatore avesse timore di un intento speculativo
del lavoratore, ritenendolo più interessato a restare disoccupato e a lucrare un possibile risarcimento
piuttosto che trovare un nuovo posto di lavoro.
In conclusione, considerando tutto quanto abbiamo evidenziato, entrambe le forme di
reintegra sul posto di lavoro previste dalla legge n. 92/2012 con una quantità di suddistinzioni,
appaiono di limitata applicazione pratica.
A questo punto, sulle due forme di tutela monetaria con indennità onnicomprensiva più
elevata piuttosto che ridotta, non resta molto da dire. Innanzitutto, dobbiamo osservare come siano
costruite come norme di carattere residuale, di chiusura: si applicano in tutti i rimanenti casi in cui
non può avvenire la reintegrazione sul posto di lavoro. L'ovvia conseguenza, è che avranno
amplissima applicazione. Il caso più evidente è quello dei casi in cui il giudice reputa il
licenziamento sproporzionato rispetto alla tenuità dei fatti contestati, ma il codice disciplinare non
prevede una correlazione fra comportamento irregolare e sanzione. Allo stesso modo, rientreranno
probabilmente nella sola tutela monetaria i casi di licenziamenti a seguito di procedura non
tempestiva e così pure i licenziamenti comminati in violazione al principio dell’immodificabilità
della contestazione 5.
Alla fine il nucleo principale dei casi di reintegra riguarda i licenziamenti discriminatori.
Tale impostazione è discutibile sia sul piano logico che sul piano politico. Sul piano logico, la
discriminazione è identificata come un fatto assolutamente negativo e non tollerabile – ciò è di per
se condivisibile – che giustifica la reintegra sul posto di lavoro; tutto il resto è confinato in una
“zona grigia” che si può monetizzare; quindi, si è scelto e “ritagliato” una fattispecie certamente
grave ma numericamente esigua, “dimenticando” tutti gli altri casi che sono poi quelli che si
presentano con la più larga frequenza. Sul piano politico, l’effetto di questa distorsione logica è
evidente: si è realizzata un’ampia decurtazione delle tutele. Il taglio logico e politico è abbastanza
simile a quello sostenuto dai governi di centro destra in tema di precariato: si è identificato il
cosiddetto “lavoro nero” come fatto assolutamente negativo e non tollerabile, mentre il lavoro
precario è stato accolto nell’ordinamento in una congerie di forme previste dai decreti legislativi n.
368/2001 e 276/2003.
6)
Alcune recenti sentenze in materia di licenziamenti secondo la nuova legge del 2012
5
Corte di Cassazione sez. Lavoro, sentenze 22/3/2011 n. 6499; 18/1/2011 n. 1145; 26/10/2010 n. 21912;
18/11/2009 n. 24329; 26/11/2008 n. 28280; 26/11/2007 n. 24584.
11
22
Meritano di essere segnalate le prime sentenze di merito emesse in materia di licenziamenti
intimati secondo le nuove norme del 2012.
Il primo caso è l’ordinanza del Tribunale di Mantova del 27/9/2012, riguardante un caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo (caso di una lavoratrice licenziata in un’industria
agroalimentare per inidoneità lavorativa alle mansioni di selezionatrice di patate, inidoneità
sostenuta dal medico aziendale). Il licenziamento è stato impugnato sostenendo la discriminazione
sindacale in quanto la lavoratrice era sindacalista della CGIL e per assenza del presupposto
dell’inidoneità alla mansione, in quanto la commissione della ASL aveva accertato solo
un’inidoneità parziale.
Il Tribunale di Mantova ha escluso che il licenziamento fosse
discriminatorio, ma ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento per assenza del giustificato
motivo oggettivo, in quanto non si era in presenza di un caso di inidoneità assoluta.
Di notevole interesse è l’ordinanza del Tribunale di Bologna del 15/10/2012 –che ha avuto
un qualche rilievo mediatico - riguardante un licenziamento disciplinare originato da un’email
inviata da un lavoratore ad un dirigente ritenuta dall’azienda oltraggiosa e tale da far cadere il
vincolo fiduciario. Il Tribunale ha dichiarato il licenziamento illegittimo per l’insussistenza del
fatto contestato; in particolare, il Tribunale ha fatto riferimento non al fatto materiale (lo scambio di
email, oggettivamente esistente) bensì al fatto giuridico (il contenuto dell’email in cui il lavoratore
dichiarava che “parlare di programmazione in quest’azienda è come parlare di psicologia con un
maiale”), fatto ritenuto privo di valenza giuridica.
Una successiva ordinanza del Tribunale di Bologna del 19/11/2012, ha affrontato il caso di
un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per soppressione del posto di lavoro ed
impossibilità di repechage a causa dell’indisponibilità della lavoratrice a passare da orario a tempo
parziale ad orario pieno. Il Tribunale ha dichiarato illegittimo tale licenziamento argomentando
dalla previsione della legge n. 61/2000 che esclude espressamente che il rifiuto del lavoratore a
convertire il rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno e viceversa possa essere causa di
licenziamento. Ne consegue che il licenziamento è stato considerato dettato da motivo illecito e di
carattere ritorsivo, con conseguente reintegrazione sul posto di lavoro.
Di segno opposto rispetto alla pronuncia di Bologna, si segnala l’ordinanza del Tribunale di
Genova del 16/11/2012, che ha invece confermato un licenziamento disciplinare, originato dal
danneggiamento di un furgone aziendale. Il Tribunale ha respinto la tesi del lavoratore, secondo il
quale il licenziamento era discriminatorio e ritorsivo, in quanto faceva seguito ad alcune assenze per
malattia e da ultimo all’annuncio di un ricovero per operazione chirurgica. Il Tribunale di Genova,
una volta accertato il danneggiamento del furgone per un errore di manovra, ha poi fatto riferimento
alla sentenza n. 7046/2011 della Corte di Cassazione. Secondo tale sentenza, una volta accertata
l’oggettiva esistenza dei fatti necessari per radicare il diritto di recesso, eventuali profili di
arbitrarietà e irrazionalità restano irrilevanti.
Infine, merita un cenno la vicenda di Pomigliano, anche per la rilevanza politica e sindacale.
E' necessario precisare da subito che non riguarda strettamente la normativa sui licenziamenti, ma
rispetto ad essa si pone in modo speculare. In estrema sintesi, il fatto consisteva nella messa in
cassa integrazione della generalità dei lavoratori dello stabilimento FIAT di Pomigliano (circa
4300) e nella successiva riassunzione di una quota di tali lavoratori da parte di Fabbrica Italia
Pomigliano nel medesimo stabilimento e fra i circa 1900 lavoratori così riassunti non c'era un solo
iscritto alla FIOM-CGIL.
Il comportamento della Fabbrica Italia Pomigliano è stato dichiarato illegittimo
dall'ordinanza della Corte d'Appello di Roma del 9/10/2012, che ha confermato la precedente
11
33
ordinanza del Tribunale di Roma. In particolare, la Corte d'Appello ha dichiarato che le modalità di
assunzione attuate in modo da realizzare un'esclusione totale degli iscritti FIOM-CGIL
rappresentano una discriminazione collettiva vietata ai sensi del decreto legislativo n. 216/2003.
Pertanto, la Corte d'Appello ha ordinato l'assunzione dei 19 lavoratori che avevano presentato
ricorso e di altri 126 lavoratori da selezionare esclusivamente fra gli iscritti FIOM-CGIL.
L'aspetto giuridico che può essere applicato anche ai licenziamenti è l'argomentazione
statistica a prova della discriminazione; è peraltro ovvio che nel caso concreto il dato statistico era
davvero abnorme, a fronte della scelta padronale di un'esclusione totale dei lavoratori iscritti ad un
sindacato non beneviso. Inoltre, nel caso concreto si è aggiunta la dichiarazione contenuta nel
ricorso presentato da Fabbrica Italia Pomigliano, secondo cui l'azienda considerava come un
requisito indispensabile per l'assunzione “la convinzione personale attinente l'accettazione delle
regole contenute nel contratto di Pomigliano.”Considerando il contrasto fra l'azienda e la FIOM
riguardo proprio al contratto di lavoro, la Corte d'Appello ha considerato tale dichiarazione come
confessoria della discriminazione attuata per motivi riguardanti le convinzioni sindacali e personali
dei lavoratori iscritti alla FIOM.
7)
La nuova procedura per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo introdotta
dalla legge n. 92/2012
La legge del 2012 (art. 1 comma 40) ha largamente rimaneggiato l’art. 7 della legge n.
604/1966, introducendo ex novo una procedura specifica che riguarda i licenziamenti per
giustificato motivo oggettivo, intimati da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali previsti
dall'art. 18 della legge n. 300/1970.
Deve trattarsi di licenziamenti individuali; possono anche essere plurimi – vale a dire una
pluralità di licenziamenti individuali – ma non si deve sperare la soglia dei 5 licenziamenti per unità
produttiva oppure per provincia fissata dall’art. 24 lex 223/1991, sopra la quale scatta la procedura
dei licenziamenti collettivi.
La procedura avviene secondo lo schema che ora descriviamo in sintesi.
Il datore di lavoro deve far precedere il licenziamento da una comunicazione inviata alla
Direzione Territoriale del Lavoro (DTL) del luogo ove il lavoratore presta servizio ed inviata altresì
per conoscenza al lavoratore coinvolto. Tale comunicazione deve indicare l'intenzione di licenziare
il lavoratore, i motivi del licenziamento e le eventuali misure per ricollocare il lavoratore.
La DTL, entro 7 giorni dalla comunicazione, spedisce al lavoratore ed al datore di lavoro la
convocazione davanti alla commissione di conciliazione prevista dall'art. 410 codice di procedura
civile. Le parti possono farsi assistere da un rappresentante delle organizzazioni datoriali o
sindacali (rispettivamente) alle quali aderiscono o hanno conferito mandato, oppure da un avvocato
o da un consulente del lavoro.
La procedura si deve chiudere entro 20 giorni dalla data di spedizione della convocazione
delle parti avanti la commissione di conciliazione, salvo che le parti trovino un’intesa per fissare un
termine successivo. In caso di documentato impedimento del lavoratore a partecipare alla
conciliazione, la procedura può essere sospesa al massimo per 15 giorni.
11
44
Se la conciliazione si chiude con un accordo di risoluzione consensuale del rapporto di
lavoro, si applicano le previsioni dell'assicurazione sociale per l’impiego ed il lavoratore è altresì
affidato ad un’agenzia del lavoro al fine di favorire la ricollocazione.
Se la conciliazione fallisce e così pure nel caso in cui la DTL non comunichi la
convocazione nel citato termine di 7 giorni, il datore di lavoro dispone il licenziamento., che potrà
essere impugnato dal lavoratore in sede giurisdizionale. Peraltro, nella successiva causa di lavoro,
il comportamento tenuto dalla parti durante il tentativo di conciliazione – ad esempio l’offerta di un
risarcimento da parte del datore di lavoro – è valutato dal giudice anche in relazione all’eventuale
indennità risarcitoria per il caso di licenziamento illegittimo.
Inoltre l’art. 1 comma 41 della legge n. 92/2012 – che non si pone come una modifica della
legge del 1966 ma ne rappresenta una sorta di integrazione al di fuori dell’articolato della stessa –
stabilisce che licenziamento nel caso sopra descritto decorre dal giorno della comunicazione
dell'avvio del procedimento; corollario di tale previsione è che il periodo della procedura è
considerato come servizio lavorativo ai fini del preavviso.
La stessa norma in materia di decorrenza vale per il caso di licenziamento disciplinare,
anche se non è chiaro come la retroattività si coordini con la procedura disciplinare di cui all’art. 7
della legge n. 300/1970 valida anche per le sanzioni sia conservative che espulsive.
Esprimere un giudizio sulla procedura stragiudiziale introdotta dalla legge del 2012 non è
facile, in quanto a pochi mesi dall’entrata in vigore mancano gli elementi di riscontro. In prima
battuta appare evidente l’opportunità che il lavoratore sia accompagnato da un avvocato di fiducia
oppure da un vertenziere, in modo da non subire la sproporzione del rapporto di forza con la
controparte. Inoltre, l’efficacia o meno della procedura dipenderà in gran parte dal ruolo che sarà
giocato dai funzionari della DTL chiamati a condurre le trattative fra le parti.
A titolo meramente indicativo, le notizie informali giunte dalla DTL di Torino nel periodo
fra luglio e la metà di dicembre 2012 riguardano all'incirca i seguenti ordini di grandezza: sono state
richieste 300 procedure che hanno coinvolto 340 lavoratore e di queste richieste ne sono state evase
200, con i seguenti risultati:
circa 10 richieste dichiarate inammissibili, perché relative a licenziamenti per fine comporto
oppure perché promosse da aziende sotto i limiti dimensionali minimi oppure ancora perché
non rientranti nella competenza territoriale della DTL di Torino;
circa 10 posizioni archiviate perché abbandonate o perché una delle parti non si è presentata;
circa 25 lavoratori riassunti (in alcuni casi per ritiro del licenziamento);
circa 100 mancati accordi con conseguente licenziamento;
circa 55 accordi monetari (5 per cifre comprese fra euro 100.000 e 50.000; 12 per cifre
comprese fra euro 50.000 ed euro 20.000; 6 per cifre comprese fra euro 20.000 e 10.000; gli
altri da euro 10.000 a scendere).
8)
Le modifiche apportate dalla legge del 2012 alla legge n. 223/1991 sui licenziamenti
collettivi.
Al fine di cogliere le modifiche apportate dalla legge del 2012, è opportuno collocarle in un
breve resumé sull’argomento dei licenziamento collettivi previsti dalla legge n. 223/1991.
11
55
In primo luogo, l’ambito di applicazione di tale legge (art. 24) riguarda le imprese con
oltre15 dipendenti , che dispongano almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni in ogni unità
produttiva oppure in più unità produttive nell’ambito della stessa provincia.
In secondo luogo, la legge del 1991 è incentrata su una procedura complessa (art. 4); che
può essere avviata da un’impresa che sia stata ammessa alla cassa integrazione e che non sia in
grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi. Tale procedura si può sintetizzare come
segue.
L’impresa deve dare preventiva comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali ed
alle associazioni di categoria; tale comunicazione deve indicare:
i motivi che determinano l’eccedenza di manodopera;
i motivi tecnici, produttivi, organizzativi che rendono necessari i licenziamenti collettivi;
il numero, la collocazione aziendale, i profili professionali dei lavoratori eccedenti e di
quelli abitualmente impiegati;
i tempi di attuazione del piano di riduzione del personale;
le misure previste per fronteggiare le conseguenze sociali del piano di riduzione del
personale.
Entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione, le organizzazioni sindacali e l’impresa
procedono ad un esame congiunto della situazione, valutando anche forme di contratti di solidarietà.
Tale procedura deve esaurirsi entro 45 giorni dal ricevimento della comunicazione. L’impresa deve
comunicare alla Direzione Provinciale del Lavoro il risultato della consultazione e l’eventuale esito
negativo.
In caso di mancato accordo, la Direzione Provinciale del Lavoro convoca le parti per un
ulteriore esame della situazione, che deve chiudersi entro 30 giorni dalla ricezione della
segnalazione dell’impresa alla DPL.
L’eventuale accordo sindacale raggiunto durante la procedura può anche prevedere il
demansionamento dei lavoratori in deroga all’art. 2103 codice civile a fronte del mantenimento del
posto di lavoro.
Una volta raggiunto l’accordo o esaurita la procedura con esito negativo, l’impresa dispone i
licenziamenti, nel rispetto dei termini di preavviso. I licenziamenti devono essere accompagnati da
una comunicazione alla DPL, alla Commissione Regionale per l’Impiego, ai sindacati ed alle
associazioni di categoria; tale comunicazione deve contenere l’elenco dei lavoratori licenziati e
l’indicazione per ogni nominativo della residenza, della qualifica, dell’inquadramento, dell’età, dei
carichi di famiglia, delle modalità applicative dei criteri di scelta. Nel testo originario della legge
del 1991 la comunicazione doveva essere contestuale ai licenziamenti; la legge del 2012 (art. 1
comma 44) ha invece previsto che possa avvenire entro 7 giorni.
Inoltre, la legge del 2012 (art. 1 comma 45) ha previsto che eventuali vizi di forma della
comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo possono essere sanati da un
eventuale accordo sindacale intervenuto nel corso della procedura. Si tratta di un’innovazione
discutibile, perché un accordo del genere può rendere difficile la successive impugnazione dei
licenziamenti in sede giudiziale.
Nella sintesi della procedura di licenziamento collettivo si è fatto riferimento ai criteri di
scelta che l’impresa deve seguire per identificare i lavoratori da licenziare. L’art. 5 della legge del
11
66
1991 identifica tre criteri: carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecniche produttive organizzative.
La contrattazione collettiva può stabilire criteri di scelta diversi.
L’art. 5 della legge del 1991 stabilisce altresì le tutele per i casi di licenziamenti collettivi
illegittimi; le tutele sono state indebolite dalla legge del 2012 (art. 1 comma 46) e di esse abbiamo
dato conto nel paragrafo specifico sulle tutele per il caso di licenziamenti illegittimi.
9)
L’impugnazione del licenziamento ed il processo avanti il giudice del lavoro con il
nuovo rito abbreviato.
Il testo originario della legge n. 604/1966 (art. 6) prevedeva semplicemente che il lavoratore
potesse impugnare il licenziamento – usualmente a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno entro 60 giorni dalla ricezione del licenziamento stesso.
La successiva legge n. 183/2010 – il c.d. “collegato lavoro” - ha aggiunto la previsione che
l'impugnazione dovesse essere seguita dal deposito del ricorso avanti il giudice del lavoro entro il
successivo termine di 270 giorni, introducendo a danno dei lavoratori una norma palesemente
sfavorevole rispetto alle norme ordinarie stabilite in materia di prescrizione e decadenza dal codice
civile. Infine, la legge del 2012 ha ulteriormente decurtato il termine da 270 a 180 giorni.
La legge del 2012 (art.1 commi 47-69) ha altresì introdotto una procedura specifica per i
processi del lavoro aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti di cui al nuovo art. 18 della
legge n. 300/1970, anche quando devono esser risolte questioni relative alla qualificazione del
rapporto di lavoro (ad esempio nel caso lavori dipendenti camuffati da lavori a progetto). La nuova
procedura si applica alle cause instaurate dopo l’entrata in vigore della legge del 2012.
In estrema sintesi, la procedura si svolge con le modalità che andiamo ad esporre.
Innanzitutto, con il nuovo rito non possono essere proposte domande diverse da quelle
relative alla legittimità del recesso; ciò comporterà l’inevitabile frazionamento delle domande
correlate a quella relativo al recesso.
Il licenziamento è impugnato con ricorso al tribunale; entro 40 giorni dal ricevimento del
ricorso il giudice fissa con decreto l’udienza; il ricorso ed il decreto del giudice che fissa l’udienza
devono essere notificati alla controparte almeno 25 giorni prima dell’udienza; la parte resistente
deve costituirsi almeno 5 giorni prima dell’udienza.
Esaurite le udienze, la prima fase del processo si chiude con l’emanazione da parte del
giudice di un’ordinanza immediatamente esecutiva di accoglimento oppure di rigetto del ricorso del
lavoratore licenziato.
A questo punto, per la parte soccombente è possibile impugnare l’ordinanza che decide sul
licenziamento. L’impugnazione avviene con ricorso da depositare avanti allo stesso tribunale che
ha emanato l’ordinanza, entro 30 giorni dalla notifica o dalla comunicazione dell’ordinanza stessa.
Il ricorso non può contenere domande diverse da quelle formulate in precedenza. Entro 60 giorni
dal ricevimento del ricorso il giudice fissa con decreto l’udienza; il ricorso ed il decreto del giudice
11
77
che fissa l’udienza devono essere notificati alla controparte almeno 30 giorni prima dell’udienza; la
parte resistente deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza.
Al termine delle udienze, il giudice decide il ricorso con sentenza, che deve essere
depositata, completa delle motivazioni, entro 10 giorni dall’udienza di discussione.
La procedura continua con gli ulteriori gradi di giudizio: ricorso in corte d’appello – da
depositare entro 30 giorni dalla notifica o comunicazione della sentenza di primo grado e con
successivo decreto di fissazione dell’udienza entro 60 giorni – e infine ricorso in corte di cassazione
– da depositare entro 60 giorni dalla notifica o comunicazione della sentenza d’appello e con
successivo decreto di fissazione dell’udienza entro 6 mesi – sino alla passaggio in giudicato.
Senza soffermarsi sui dettagli procedurali, ciò che emerge è la ristrettezza di tutti i termini,
che all’apparenza è un vantaggio per la parte debole, che ovviamente è il lavoratore. Il rischio
almeno teorico che può derivare è una valutazione superficiale e frettolosa delle cause più
complesse. Un altro rischio più concreto è invece quello che un rito accelerato per le cause di
licenziamento comporti un rallentamento generalizzato delle altre cause di lavoro.
Ma soprattutto, tale intervento legislativo non affronta alcuna delle problematiche che
almeno in alcuni tribunali rendono il processo del lavoro eccessivamente lungo: la carenza di
organici e di mezzi, la mancanza di termini perentori nell’attuale processo del lavoro – per cui i
termini processuali qualificati come ordinatori sono spesso disattesi – l’esistenza di prassi locali in
palese contrasto con lo spirito della legge istitutiva del processo del lavoro, la proliferazione di
controversie seriali per lo più di natura previdenziale e di modesto importo. In assenza d’interventi
su tali disfunzioni, è difficile che il nuovo rito abbia effetti incisivi sui tempi del processo del
lavoro.
In ogni caso, solo la concreta applicazione di tale nuove norme procedurali consentirà un
giudizio circa la loro reale efficacia nel panorama complessivo delle cause di lavoro.
************
11
88
PARTE II – LA NUOVA NORMATIVA SUI CONTRATTI DI LAVORO ATIPICI
L’azione della legge n. 92/2012 sulla materia dei contratti di lavoro atipici.
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

La legge n. 92/2012 è intervenuta sulle seguenti tipologie ci contratti di lavoro atipici:
contratto a tempo determinato;
contratto d'inserimento;
apprendistato;
lavoro a tempo parziale;
lavoro intermittente;
lavoro a progetto;
partite IVA;
associazione in partecipazione;
lavoro accessorio;
tirocini formativi o stage.
A parte l'abrogazione del contratto d'inserimento, gli interventi della legge del 2012 si
pongono come un'ennesima azione di modifica e integrazione – alcune favorevoli ai lavoratori, altre
sfavorevoli, altre ancora marginali - delle precedenti leggi, contribuendo a creare un quadro
normativo sempre più intricato
11) Il lavoro a tempo determinato nella legge 230/1962 (abrogata nel 2001).
La legislazione in tema di lavoro a tempo determinato appare di particolare significato
politico – si può dire che tale tipologia contrattuale rappresenti un caposaldo del precariato – e
quindi è necessario fare un breve rimando alla legge del 1962 abrogata nel 2001 proprio per
cogliere l'evoluzione politica di tale tipologia contrattuale.
In sintesi, la legge n. 230/1962 stabiliva espressamente come il contratto di lavoro fosse da
considerarsi a tempo indeterminato, mentre il lavoro a tempo determinato fosse l’eccezione alla
regola, possibile solamente in alcuni casi specifici.
I casi in cui era possibile l’apposizione di un termine erano i seguenti:
lavorazioni stagionali;
sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto;
esecuzione di opere o servizi definiti nel tempo e con carattere straordinario o occasionale;
lavorazioni a fasi successive che richiedessero maestranze con specializzazioni diverse da
quelle esistenti nell’impresa;
 lavorazioni nel settore dello spettacolo;
 assunzioni di dirigenti tecnici o amministrativi.




11
99
Il contratto poteva essere prorogato una sola volta, con il consenso del lavoratore, per un
tempo non superiore alla durata iniziale, per la medesima attività iniziale e solo in caso di esigenze
contingenti e imprevedibili.
Infine, il contratto s’intendeva a tempo indeterminato nei seguenti casi:
 qualora il rapporto di lavoro continuasse oltre il termine;
 qualora il lavoratore fosse riassunto a tempo determinato entro un periodo di 15 giorni
oppure di 30 giorni, rispettivamente in caso di contratto di durata inferiore o superiore a 6
mesi;
 in ogni caso di assunzioni successive finalizzate ad eludere la legge.
La legge n. 197/1996 introdusse una diversa disciplina – pure abrogata nel 2001 - sulla
trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Così fu previsto che, qualora il rapporto di
lavoro si prolungasse oltre il termine, il datore di lavoro fosse tenuto a versare una maggiorazione
retributiva; solo dopo il 20° o 30° giorno – a seconda che il contratto avesse durata inferiore o
superiore a 6 mesi - scattava l’obbligo di trasformazione a tempo indeterminato. Inoltre, l’intervallo
di tempo fra due successivi contratti a tempo determinato fu modificato. Infine, fu riformulata la
norma di chiusura relativa ai casi di elusione di legge.
12) Il lavoro a tempo determinato nel decreto legislativo 368/2001 e successive modifiche,
prima della legge del 2012.
La legislazione del 2001 è tuttora in vigore; tuttavia è stata oggetto di reiterate modifiche
successive, ispirate da altalenanti intenti politici, ma che non hanno inciso in profondità
sull’impostazione della legge. Al fine di una maggiore chiarezza logica è comunque opportuna
un'esposizione per punti, dapprima relativa alla normativa del 2001 ed alle modifiche antecedenti al
2012 e poi – in un successivo paragrafo – relativa alle modifiche apportate dalla legge n. 92/2012.
Principi generali e causale (art.1).
La legislazione del 2001 – tuttora in vigore – ha rovesciato l’impostazione della legge del
1962, rendendo possibile l’apposizione di un termine al contratto di lavoro in tutti i casi in cui
sussistano esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. A fronte di tali
esigenze – talmente generiche da apparire onnicomprensive – la legge non ha neppure previsto che
siano temporanee. Ne è derivato che il lavoro a tempo determinato dopo la legislazione del 2001 ha
conosciuto una diffusione amplissima, che sarebbe stata impossibile in base alla precedente legge
del 1962. La magistratura del lavoro è intervenuta più volte sull’argomento; fra l’altro ha stabilito
che l’onere della prova delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine al rapporto di lavoro
spetta al datore di lavoro; ha stabilito altresì che tali ragioni devono essere oggettive e verificabili 6.
La legge n. 247/2007 (art. 1 c. 39) ha aggiunto all’inizio dell’art. 1 del decreto legislativo
368/2001 un principio politico e giuridico di assoluto rilievo: si stabilisce infatti come il contratto di
lavoro subordinato sia stipulato di regola a tempo indeterminato. Fissato questo principio, la
riforma del 2007 non è purtroppo intervenuta sul punto più significativo della legislazione del 2001
6
Corte di Cassazione sez. Lavoro, sentenze 25/5/2012 n. 8286; 24/5/2011 n. 11358; 11/5/2011 n. 10346.
22
00
e nulla ha innovato circa la causale prevista dallo stesso art. 1 quale giustificazione per apporre un
termine al rapporto di lavoro.
Anzi, un successivo intervento peggiorativo sulla causale è stato apportato con la legge n.
133/2008 (art. 21) che ha aggiunto la previsione per cui le esigenze previste possono anche essere
riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro. Si tratta di un intervento che ha lo scopo di
allargare ancora di più la causale già del tutto generica e di rendere così meno incisiva l’azione della
magistratura del lavoro.
Divieti di stipula (art.3).
A fronte di una possibilità così ampia di stipulare contratti a termine, il decreto del 2001 ha
introdotto all’art.3 alcuni limitati divieti alla stipula:
 sostituzione di lavoratori in sciopero;
 presso le imprese in cui nei 6 mesi antecedenti si siano attuati licenziamenti collettivi ai
sensi della legge n. 223/1991;
 presso unità produttive in cui siano operanti interventi di cassa integrazione guadagni;
 presso imprese che non abbiano effettuato la valutazione del rischio in materia di igiene e
sicurezza ai sensi del decreto n. 626/1994.
Proroghe (art.4) – superamento del termine (art. 5)
I soli contratti di durata inferiore a 3 anni possano essere prorogati una sola volta, per una
durata massima di 3 anni comprensivi della durata iniziale e delle proroghe, per ragioni oggettive
per la stessa attività iniziale.
Qualora il rapporto di lavoro si prolunghi oltre il termine, è prevista una maggiorazione
retributiva nel caso in cui il rapporto si prolunghi sino a 20 giorni oppure sino a 30 giorni (a
seconda che il contratto abbia durata inferiore o superiore a 6 mesi), dopo di che scatta la successiva
trasformazione a tempo indeterminato. Peraltro, nel decreto del 2001 non esiste più una norma di
chiusura che imponga la trasformazione a tempo indeterminato nei casi di una sequenza di contratti
elusiva delle norme di legge, come previsto invece dalla legge del 1962.
Durata (art.5, dopo le modifiche del 2007)
Il decreto del 2001 non prevedeva una durata massima per tale tipologia di contratto di
lavoro. La legge n. 247/2007 (art.1 comma 40) ha invece introdotto un nuovo comma nell’art. 5
che prevede per i contratti a tempo determinato una durata massima di 36 mesi comprensiva di
proroghe e rinnovi - indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto
e l'altro - purché il lavoratore svolga mansioni equivalenti, presso lo stesso datore di lavoro. Una
volta superato tale limite temporale, il contratto si considera a tempo indeterminato. In deroga a
quanto sopra, la legge del 2007 consente comunque che un ulteriore successivo contratto a termine
possa essere stipulato per una sola volta dopo il termine di 36 mesi, a condizione che la stipula
avvenga presso la direzione provinciale del lavoro e con l'assistenza di un rappresentante di una
delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
La legge n. 133/2008 ha poi introdotto la possibilità di derogare con la contrattazione
collettiva alla norma della riforma del 2007 che prevede la durata massima di 36 mesi e il
cosiddetto “rinnovo assistito” del contratto.
22
11
Successione di contratti, intervalli (art.5)
Nel testo iniziale del 2001, due successivi contratti a tempo determinato dovevano essere
separati da un intervallo minimo di 10 oppure 20 giorni a seconda della durata del contratto
inferiore o superiore ai 6 mesi. In caso contrario, il contratto era da considerarsi a tempo
indeterminato.
Precedenza nelle assunzioni (art.5, dopo le modifiche del 2007)
La legge n. 247/2007 ha altresì attribuito al lavoratore che abbia svolto un’attività lavorativa
a tempo determinato per più di 6 mesi, il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo
indeterminato effettuate dal medesimo datore di lavoro entro i successivi 12 mesi. La legge n.
133/2008 ha introdotto la possibilità di derogare con la contrattazione collettiva anche a questa
previsione della riforma del 2007.
Indennizzo per il caso di conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato
(art. 4bis, dichiarato illegittimo).
La legge n. 133/2008 aveva inserito una disposizione transitoria processuale (art. 4bis), da
applicare ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima, e fatte salve le
sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni in materia di casuali che
rendono possibile il contratto a tempo determinato e proroghe dei contratti stessi. In caso di tali
violazioni accertate dal giudice, il lavoratore non aveva più diritto alla conversione del contratto di
lavoro a tempo determinato ma soltanto ad un'indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità
di stipendio, secondo i criteri della legge n. 604/1966. Si trattava di una norma “tagliata su misura”
per azzerare il contenzioso particolarmente numeroso in taluni settori – ad esempio le Poste – e
dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 214/2009 a causa della disparità di
trattamento che introduceva.
Poco dopo, la legge n. 183/2010 (art. 32 comma 5) , il c.d. “collegato lavoro” ha effettuato
un repechage con qualche modifica di tale norma dichiarata incostituzionale. Così, la legge del
2010 ha previsto un’indennità omnicomprensiva pari ad un minimo di 2,5 ed un massimo di 12
mensilità quale risarcimento per il lavoratore in caso di conversione di un contratto a tempo
determinato. E’ da ricordare come siano usciti alcuni articoli su “Il Sole 24 Ore” nei quali si
sosteneva che tale indennità sia sostitutiva del reintegro. Tuttavia, dai lavori parlamentari risulta
che l’intenzione del legislatore fosse quella di prevedere un’indennità forfetaria che si aggiunge al
reintegro; è da notare come la forfetizzazione sia a danno del lavoratore qualora il periodo di
disoccupazione successivo alla scadenza del contratto a tempo determinato sia stato superiore ai 12
mesi.
13) Le modifiche apportate al lavoro a tempo determinato dalla legge n. 92/2012.
La legge n. 92/2012 (art. 1 commi 9 sgg.) è intervenuta con numerose modifiche al decreto
legislativo n. 368/2001, con risultati che appaiono contraddittori, a volte migliorativi e a volte
peggiorativi della normativa previdente.
Causale (art.1)
22
22
La legge del 2012 ha introdotto la possibilità che il primo contratto di lavoro a tempo
determinato – anche in forma di somministrazione - stipulato fra un datore di lavoro ed un
lavoratore sia del tutto privo di casuale. Tale contratto senza causale può avere una durata massima
di 12 mesi e non è rinnovabile. La circolare ministeriale n. 18/2012 ha precisato che il divieto di
rinnovo vale anche per il caso di contratto della durata inferiore ai 12 mesi, mentre sarebbe
applicabile la previsione della “franchigia” di 30 o 50 giorni in caso di superamento del termine.
In alternativa a questa previsione di legge, la contrattazione collettiva può prevedere
l’assenza di causale anche per i contratti successivi nei seguenti casi:
 avvio di una nuova attività;
 lancio di un nuovo prodotto o servizio;
 rilevante cambiamento tecnologico;
 fase supplementare di un progetto di ricerca;
 rinnovo di una commessa consistente.
Peraltro, la successiva legge n. 221/2012, all’art. 28, ha ulteriormente allentato i vincoli per le
imprese con caratteristiche di “start up innovative”. In particolare, si è previsto che il contratto a
tempo determinato (anche in somministrazione) possa essere stipulato a fronte di una causale
assolutamente generica riconducibile allo svolgimento di attività inerenti o strumentali all’oggetto
sociale dell’impresa.
Durata (art.5).
Si è mantenuta la durata massima di 36 mesi e la successiva “proroga assistita” introdotta
dalla legge del 2007; si è precisato al fine del computo di tale durata ricadono anche i periodi di
lavoro a tempo determinato effettuati sotto forma di somministrazione.
Superamento del termine (art. 5)
La norma del 2001 che consentiva di splafonare oltre il termine sino a 20 oppure 30 giorni (a
seconda che il contratto abbia durata inferiore o superiore a 6 mesi) dietro pagamento di una
maggiorazione retributiva è stata modificata prevedendo un termine più lungo di 30 oppure 50
giorni (sempre a seconda della durata del contratto), con un evidente favor nei confronti del datore
di lavoro. Solo dopo la scadenza di tale termine più lungo scatta il diritto alla conversione a tempo
indeterminato.
Successione di contratti, intervalli (art.5).
L’intervallo minimo fra due successivi contratti è stato aumentato a 60 e 90 giorni a seconda
della durata del contratto inferiore o maggiore di 6 mesi.
Tuttavia, l’intervallo fra due contratti può essere ridotto a 20 e 30 giorni – sempre a seconda
della durata – in sede di contrattazione collettiva nei casi già elencati per la possibilità di assenza di
causale:
 avvio di una nuova attività;
 lancio di un nuovo prodotto o servizio;
 rilevante cambiamento tecnologico;
 fase supplementare di un progetto di ricerca;
22
33
 rinnovo di una commessa consistente;
 altri casi individuati dalla contrattazione.

In assenza di contrattazione collettiva, dopo 12 mesi dall’entrata in vigore della legge n.
92/2012, si provvederà con decreto ministeriale.
Termine d’impugnazione (legge n. 604/1966, art.6, come modificata nel 2010).
Ricordiamo come la legge n. 183/2010, il c.d. “collegato lavoro” abbia esteso il termine
d’impugnazione di 60 giorni già esistente per i licenziamenti – risaliva alla legge del 1966 – anche
ai licenziamenti derivanti dalla qualificazione del rapporto di lavoro o dall’apposizione di un
termine. Ricadono quindi in tale fattispecie le cause relative alla nullità del termine dei contratti a
tempo determinato.
La legge n.92/2012 ha ampliato il termine per l’impugnazione dei contratti a tempo
determinato da 60 a 120 giorni; si tratta di un’innovazione di rilievo, perché l’esperienza ha
dimostrato come un lavoratore a termine sia restio ad impugnare immediatamente la causale del
rapporto di lavoro, per evitare di perdere l’opportunità di un nuovo contratto presso lo stesso datore
di lavoro. Peraltro, la stessa norma ha ridotto il termine per il successivo ricorso in tribunale da
270 a 180 giorni.
Indennizzo per il caso di conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato
(legge n. 183/2010 art. 32).
Abbiamo ricordato come la legge n. 183/2010 art. 32 avesse riproposto l’indennizzo a forfait
in aggiunta al reintegro quale risarcimento per il lavoratore in caso di conversione stabilito dal
giudice di un contratto da tempo determinato a tempo indeterminato.
La legge n.92/2012 ha fornito un’interpretazione autentica di tale norma, precisando che
l’indennizzo compreso fra 2,5 e 12 mensilità è onnicomprensivo, senza che sia possibile aggiungere
altri risarcimenti per danni ulteriori. Questo con il palese intento di bloccare alcune sentenze
favorevoli ai lavoratori che erano state recentemente emesse da alcune corti di merito 7 e rafforzare
l’orientamento giurisprudenziale contrario già emerso in alcune sentenze di Cassazione 8 .
Appare evidente l’aspetto oscillante ora a favore del lavoratore ora a favore del datore di
lavoro di tale complesso di modifiche attuate dalla legge del 2012. Così, si possono apprezzare dal
lato del lavoratore la precisazione che anche i lavori a somministrazione entrano nel computo della
durata massima di 36 mesi; così pure per l’allungamento dell’intervallo minimo fra due contratti a
termine (anche se ciò è relativo, il datore di lavoro può sempre assumere un diverso lavoratore a
termine, almeno in tutti quei frequenti casi in cui la formazione non è così lunga e impegnativa); lo
stesso per l’allungamento per il termine d’impugnazione. Tutte le altre modifiche appaiono a
favore del datore di lavoro.
In ogni caso, appare evidente la contraddizione fra la dichiarazione d’intenti del ruolo
primario del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ciò aveva un preciso riscontro politico e
giuridico nell’impostazione della legge del 1962, che fissava una casistica ben precisa e limitata in
cui era lecita l’apposizione di un temine al rapporto di lavoro. Una volta stabilita una causale del
7
8
Corte d’Appello di Roma, sentenza 2/2/2012; Tribunale di Napoli, sentenza 16/11/2011.
Corte di Cassazione sez. Lavoro, sentenze 2/4/2012 n. 5241; 2/3/2012 n. 3305; 31/1/2012 n. 1411.
22
44
tutto generica e indeterminata, si offre al datore di lavoro la scelta – con margini amplissimi – fra
l’assunzione a tempo indeterminato o determinato, con le ovvie conseguenze. La previsione di un
primo contratto “acausale” aggrava tale situazione ed inoltre smentisce nei fatti la dichiarazione
d’intenti circa la preminenza dell’apprendistato come contratto d’ingresso nel mondo del lavoro. Gli
stessi correttivi sulla durata massima o sugli intervalli fra due contratti – di per sé apprezzabili sono il palese risultato della mancanza di volontà di affrontare il vero nodo dei contratti a termine,
che è appunto la causale. Tale scelta politica è stata fatta con il decreto legislativo del 2001 e non è
mai stata messa in discussione nei successivi interventi legislativi, compreso ovviamente quello del
2012. A fronte di tale situazione, il dichiarato ruolo primario del contratto di lavoro a tempo
indeterminato diventa una mera petizione di principio totalmente smentita dalle reali scelte politiche
sulla materia.
14) Il contratto d’inserimento nel decreto legislativo 276/2003 – abrogazione ai sensi della
legge n. 92/2012.
Si trattava di un contratto a carattere formativo introdotto dalla legislazione del 2003 (legge
n. 30/2003 art.2 e decreto legislativo n. 276/2003 artt. 54-59), che in queste pagine ci limitiamo a
descrivere con una breve sintesi.
Con tale contratto potevano essere assunti i seguenti soggetti (art.54):

giovani di età fra i 18 e i 29 anni

disoccupati di lunga durata di età fra i 29 e 32 anni;

disoccupati di età superiore ai 50 anni;

disoccupati da almeno 2 anni;

donne di qualunque età residenti in aree ad alto tasso di disoccupazione;

persone affette da grave handicap fisico o mentale.
La stessa norma precisava che il datore di lavoro potesse assumere con il contratto
d’inserimento soltanto nel caso in cui avesse mantenuto in servizio almeno il 60% dei lavoratori il
assunti in precedenza con tale contratto ed il cui contratto stesso fosse scaduto nei 18 mesi
precedenti.
La durata del contratto d’inserimento era fissata in un minimo di 9 mesi e in un massimo di
18 mesi; il contratto non era rinnovabile ma erano ammesse proroghe nei limiti della citata durata
massima (art.57).
Il contratto d’inserimento prevedeva un progetto individuale d’inserimento, che doveva
essere definito nei contenuti dalla contrattazione collettiva (art. 55).
In analogia con l’apprendistato, il contratto d’inserimento prevedeva un sottoinquadramento
di due livelli rispetto all’inquadramento spettante al lavoratore per le mansioni svolte.
Infine, il decreto legislativo prevedeva due norme di rinvio. Per quanto riguarda i benefici
economici riconosciuti alle aziende, si applicavano quelli già previsti per i contratti di formazione
lavoro (art.59). Per quanto riguardava invece la disciplina del rapporto di lavoro, si applicavano le
norme fissate dal decreto legislativo n. 368/2001 per i contratti a tempo determinato (art.58).
22
55
La legge n. 92/2012, art. 1 commi 14 sgg. ha ora previsto l’abrogazione degli art. 54-59 del
decreto del 2003 che disciplinavano tale tipologia contrattuale. Le norme relative saranno
applicabili alle assunzioni effettuate entro il 31/12/2012. Si tratta di una scelta legislativa
ragionevole, coerente con l'intenzione di prevedere il contratto di apprendistato come il contratto
tipico d'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.
15) Il contratto di apprendistato nel decreto legislativo 167/2011 – modifiche ai sensi della
legge n. 92/2012.
Il contratto di apprendistato ha conosciuto una renaissance con il decreto legislativo
n.276/2003, che ha introdotto una nuova normativa che affiancava quella della legge n. 25/1955;
successivamente è stato ridefinito con il testo unico approvato con il decreto legislativo n.167/2011,
che – fra l'altro - ha abrogato e sostituito le normative del 1955 e del 2003. Da ultimo, la legge n.
92/2012 (art. 1 commi 16 sgg.) ha apportato qualche modifica abbastanza marginale a questa
tipologia di contratto di contratto.
Anche in questo caso, è necessario premettere una sintetica descrizione dell'apprendistato.
Il decreto del 2011 prevede tre tipologie di apprendistato: apprendistato professionalizzante
o contratto di mestiere; apprendistato di alta formazione e ricerca; apprendistato per la qualifica ed
il diploma professionale (art.1). A queste tre tipologie si aggiunge l’apprendistato per la
riqualificazione di lavoratori in mobilità, esclusi dai processi produttivi.
La disciplina generale di cui all’art.2 del decreto, rinviando ai contratti collettivi di lavoro,
ha evidenziato ben 11 principi essenziali. I più importanti sono i seguenti: inquadramento
dell’apprendista sino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante; presenza di un tutore
aziendale; possibilità di aumentare il periodo di apprendistato per malattia o infortunio superiore a
30 giorni; possibilità di recesso solo per giusta causa o per giustificato motivo; facoltà di libero
recesso al termine del periodo di apprendistato; limite di assunzione di apprendisti nel numero pari
al totale delle maestranze presenti nell'impresa ovvero 3 se il datore di lavoro ha meno di 3
dipendenti.
L'apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale (art.3) , riguarda i soggetti tra i
15 ed i 25 anni di età – anche per l’assolvimento dell’istruzione obbligatoria - e la durata del
contratto, stabilita dalle Regioni d’intesa con le parti sociali, non può essere superiore ai 3 anni (4
nel caso di diploma regionale quadriennale dell’apprendista).
L'apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere (art.4) , riguarda i soggetti tra i 18
ed i 29 anni ( 17 anni per gli apprendisti in possesso di una qualifica professionale). La durata del
contratto e così pure la definizione della formazione sono rimesse ai contratti collettivi di lavoro
d’intesa con le Regioni, ma il decreto prevede un massimo di 3 anni che si possono elevare a 5 per
particolari professionalità nell’artigianato.
L'apprendistato di alta formazione e ricerca (art.5) riguarda i soggetti tra i 18 ed i 29 anni (
17 per i soggetti in possesso di qualifica professionale), assunti per attività di ricerca, per il
conseguimento di titoli di studio universitario e di alta formazione (compresi i dottorati di ricerca, di
specializzazione tecnologica, di praticantato per l’accesso a professioni). La regolamentazione e la
22
66
durata del contratto è rimessa alle normative regionali, d’intesa con le parti sociali ,ovvero a
convenzioni stipulate dal datore di lavoro con le Università o le istituzioni formative e di ricerca.
Infine, il decreto prevede l'apprendistato per i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità (art.7),
stabilendo che possono essere assunti in apprendistato anche i lavoratori in mobilità, ai fini della
loro qualificazione o riqualificazione professionale. Tuttavia, più che introdurre una nuova tipologia
di apprendistato, è più corretto osservare che, tale possibilità, si limita ad ampliare la platea dei
destinatari, seppur con qualche particolarità.
Fatta questa breve sintesi, le modifiche apportate dalla legge n. 92/2012 si possono
riassumere nelle seguenti, tutte concentrate nell'art. 2 del decreto del 2011 e come tali modificative
dei principi generali dell'apprendistato.
 E' stata introdotta una durata minima 6 mesi (salvo quanto previsto per le attività
stagionali).
 In caso di recesso, durante il preavviso, si continua ad applicare la normativa
sull'apprendistato.
 Il rapporto fra apprendisti e lavoratori qualificati è confermato in 1:1 (per le imprese con
meno di 10 dipendenti), è aumentato a 3:2 (per le imprese sopra i 10 dipendenti).
 Si dichiara che non è più possibile assumere apprendisti mediante somministrazione a tempo
determinato.
 Per le imprese con almeno 10 dipendenti, la possibilità di assumere apprendisti è vincolato
alla conferma di almeno il 30% degli apprendisti (nei primi 3 anni di vigenza della legge del
2012) e poi del 50% degli apprendisti (dopo 3 anni di vigenza della legge del 2012). In caso
di mancato rispetto del vincolo, è comunque possibile assumere un numero di apprendisti
pari a quelli confermati più uno.
Nel complesso tali modifiche non appaiono così rilevanti nel complessivo quadro
normativo. Purtroppo, è invece da segnalare come la circolare ministeriale n.18/2012 abbia
dichiarato che le norme di legge sulla percentuale di conferma degli apprendisti superino quelle
stabilite nei contratti collettivi e questo anche se le norme dei contratti collettivi siano più
favorevoli. Si tratta di una tesi assai discutibile, che si traduce in una chiusura nei confronti di una
pattuizione contrattuale fra le parti nonostante quando la pattuizione è a favore della parte debole.
16) Il contratto di lavoro a tempo parziale nel decreto legislativo 61/2000 – modifiche ai sensi
della legge n. 92/2012.
Il contratto di lavoro a tempo parziale è disciplinato dal decreto legislativo n. 61/2000, per
quanto ripetutamente modificato nel corso degli anni; da ultimo la legge n. 92/2012 (art.1 comma
20) è intervenuta sulla materia con due modifiche abbastanza marginali.
Ricordiamo come il decreto legislativo n. 61/2000 abbia abrogato la precedente legge n.
863/1984, accogliendo diverse istanze liberiste riguardanti il lavoro straordinario e la possibilità di
modificare l’articolazione oraria del rapporto di lavoro., vale a dire le cosiddette clausole elastiche e
flessibile. Ci soffermeremo brevemente su questi due aspetti particolari.
Per quanto riguarda lo straordinario – o meglio, per usare la dizione del legislatore, “lavoro
supplementare” - la legge del 2012 non è intervenuta. Ricordiamo come il decreto legislativo n.
61/2000 (artt. 1 e 3) avesse attribuito al datore di lavoro di richiedere prestazioni di lavoro
22
77
supplementare, nel limite massimo dell’orario di lavoro normale (definito dallo stesso decreto in 40
ore settimanali) 9. Il decreto rinviava alla contrattazione collettiva la previsione del limite su base
giornaliera e annua delle ore di lavoro supplementari e l’identificazioni delle cause per cui poteva
essere richiesto. Una forma di bilanciamento degli interessi – prevista dalla normativa del 2000 e
poi abrogata - era rappresentata dalla volontarietà del lavoro supplementare: il rifiuto del lavoratore
non poteva infatti essere colpito da sanzione disciplinare né tantomeno da licenziamento.
L’intervento legislativo di modifica della legislazione del tempo parziale, attuato dal
governo di centro destra nel 2003, si concentrò ovviamente sul lavoro supplementare e sulle
clausole elastiche e flessibili, come esplicitamente indicato nella legge delega n. 30/2003. Così, in
materia di lavoro supplementare, il decreto legislativo n. 276/2003 ha esteso la possibilità di
richiederlo anche in caso di contratto di lavoro a tempo determinato; ha rinviato ai contratti
collettivi la fissazione delle ore massime di lavoro supplementare, le causali per cui possono essere
richieste, le conseguenze in caso di superamento dei limiti stessi, abrogando l’automatica
maggiorazione salariale in questo ultimo caso; ha escluso la necessità del consenso del lavoratore
nel caso in cui le prestazioni supplementari siano previsti dalla contrattazione collettiva; infine, per
il caso di rifiuto delle prestazioni supplementari ha escluso il licenziamento, mentre implicitamente
ha ammesso le altre forma di sanzione disciplinare che erano invece escluse nella normativa
precedente (d. lgs. n. 61/2000, art. 3 commi 1-5). Tale quadro normativo delineato nel 2003 è
tuttora in vigore.
L’altra importante concessione alle istanze liberiste introdotta dal decreto legislativo n.
61/2000 era rappresentata dall’introduzione delle cosiddette “clausole elastiche”, che erano state
sempre bloccate dalla giurisprudenza sotto la vigenza della legge del 1984. L’art. 3 ha consentito
così al datore di lavoro di variare la collocazione dell’orario del lavoratore a tempo parziale rispetto
a quanto inizialmente pattuito nel contratto di lavoro. E’ da sottolineare come la previsione
riguardasse soltanto la collocazione temporale dell’orario e non anche la durata della prestazione
lavorativa 10. Stabilito tale principio, la normativa del 2000 - come già per il lavoro supplementare aveva previsto alcuni bilanciamenti e limitazioni, poi abrogati. Nella formulazione iniziale, le
clausole elastiche dovevano essere previste nei contratti collettivi; il lavoratore doveva essere
preavvisato delle modifiche d’orario con almeno 10 giorni di anticipo; l’applicazione delle clausole
elastiche comportava una maggiorazione retributiva; l’applicazione delle clausole elastiche doveva
essere altresì approvata dal lavoratore con apposito patto scritto, dal quale poteva recedere per
documentati ragioni 11; infine sia il lavoro supplementare che le clausole elastiche erano possibili
soltanto in caso di contratto a tempo indeterminato.
La legislazione del 2003 è intervenuta pesantemente sul quadro normativo sopra descritto; la
successiva legge n. 247/2007 ascrivibile al successivo governo Prodi ha apportato qualche
temperamento, ma il successivo cambio di maggioranza parlamentare ha comportato un ulteriore
revirement liberista sull’argomento con la legge n. 133/2008. Abbiamo evidenziato come il decreto
legislativo del 2000 prevedesse le clausole elastiche relative alla collocazione temporale della
prestazione lavorativa. Il decreto legislativo n. 276/ 2003 ha confermato tale previsione –
mutandone la denominazione in “clausole flessibili” – ed ha previsto un nuovo genere di “clausole
9
10
11
Ciò per il caso di tempo parziale orizzontale; per il caso di tempo parziale verticale, il decreto del 2000
estende l’applicazione delle norme sul lavoro straordinario.
Si considerino i seguenti due esempi: il primo caso riguardo lo spostamento dell’orario di lavoro dal mattino al
pomeriggio, ferma restando la durata prefissata, ad esempio in 5 ore giornaliere; il secondo caso riguarda
invece il prolungamento della giornata lavorativa da 5 a 8 ore oppure la riduzione della stesa da 5 a 2 ore.
Il decreto del 2000 prevedeva tre ragioni: esigenze familiari, esigenze di salute, necessità di attendere ad altra
attività lavorativa; inoltre, stabiliva che i contratti collettivi potessero prevedere anche motivi di studio ed altre
ragioni. Inoltre, prevedeva che il lavoratore potesse recedere dal patto non prima di 5 mesi dalla stipula e
dando un preavviso di un mese al datore di lavoro.
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88
elastiche”, relative alle variazioni in aumento della durata della prestazione lavorativa; la normativa
del 203 ha lasciato alla contrattazione collettiva la determinazione di condizioni, modalità e limiti
delle clausole elastiche e flessibili (art. 3 comma 7). Il decreto del 2003 prevedeva che in assenza
di contrattazione collettiva le clausole elastiche e flessibili potessero essere previste da pattuizioni
individuali (art. 8 comma 2ter); tale disposizione è stata abrogata dalla legge del 2007. Inoltre, il
preavviso necessario per l’applicazione delle clausole in questione è stato ridotto a 2 soli giorni
dalla legislazione del 2003 e poi elevato a 5 giorni dalla legge del 2007 (art. 3 comma 8). E’ ancora
necessario un apposito patto scritto, ma è abrogata la possibilità in capo al lavoratore di recedere dal
patto medesimo (art. 3 comma 9). Infine, anche le clausole elastiche e flessibili, al pari del lavoro
supplementare sono dichiarate compatibili con il contratto a tempo determinato (art. 3 comma 10).
Un’ultima segnalazione circa le innovazioni apportate dalla legge 247/2007, riguardava
l’attribuzione al Governo della delega ad emanare entro un anno un decreto legislativo in materia
d’incentivi all’occupazione, che – fra l’altro – avrebbe dovuto contenere, in materia di lavoro a
tempo parziale, una disposizione di rilevante interesse. In particolare, secondo la legge del 2007, il
decreto legislativo avrebbe dovuto prevedere aumenti contributivi per i contratti con orario inferiore
alle 12 ore settimanali al fine di promuovere, soprattutto nei settori dei servizi, la diffusione di
contratti con orario giornaliero più elevato. Tuttavia, la legge n. 133/2008 ha abrogato tale
previsione, che poteva ridurre la diffusione di contratti di lavoro ad orario ridottissimo e salario
egualmente ridotto ai minimi termini.
Le modifiche ora introdotte dalla legge n. 92/2012 riguardano ancora una volta uno dei punti
controversi del contratto a tempo parziale, vale da dire le clausole elastiche e flessibili, e possono
rappresentare un temperamento.
Così, i CCNL dovranno regolare le condizioni e le modalità con cui lavoratore può chiedere
il superamento o la modifica delle clausole elastiche e flessibili. Inoltre, i lavoratori potranno
chiedere la revoca delle clausole di cui sopra nei casi previsti dall'art. 12 bis del d.lgs. 61/2000
(lavoratori affetti da malattie oncologiche; assistenza a coniuge, figli, genitori affetti da malattie
oncologiche; assistenza a convivente disabile al 100%; genitore convivente con figlio minore di
anni 13) ed in caso di lavoratori studenti.
17) Il lavoro intermittente dalla legge n. 276/2003 alla legge n. 92/2012 (sintesi).
Riguardo al contratto di lavoro intermittente, precisiamo subito come abbia conosciuto una
vicenda legislativa forse unica nel quadro legislativo italiano. Esso è stato introdotto dal decreto
legislativo n. 276/2003; successivamente è stato abrogato dalla legge n. 247/2007; infine è stato
reintrodotto dalla legge n. 133/2008 che ha abrogato la norma contenuta nella legge del 2007 ed
espressamente ripristinato le norme previgenti; la legge n. 92/2012 (art. 1 commi 21-22) è
intervenuta con qualche modifica.
Il contratto di lavoro intermittente è definito dagli artt. 33 e 34 del decreto del 2003 come un
contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può
utilizzare la prestazione lavorativa, secondo le esigenze della parte padronale identificate dalla
contrattazione collettiva oppure da un decreto ministeriale in caso d’inerzia delle parti sociali.
Tale forma contrattuale appare alquanto indefinita e per di più presenta parecchie varianti.
Per citare le principali, il contratto di lavoro intermittente può essere:
- a tempo indeterminato oppure determinato (art.33);
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-
-
-
finalizzato allo svolgimento di attività discontinue o intermittenti (art.34);
finalizzato a prestazioni lavorative da rendersi durante periodi che secondo la legge del 2012
devono essere prefissati dalla contrattazione collettiva (il fine settimana, le ferie estive, le
vacanze natalizie e pasquali o altri ancora), prescindendo dal tipo di attività lavorativa
discontinua o no (artt. 34 e 37);
finalizzato all’assunzione con tale forma contrattuale di soggetti con meno di 25 o più di 55
anni di età (il limite è stato elevato dalla legge del 2012) anche pensionati ed anche in questo
caso prescindendo dal tipo di attività lavorativa discontinua o no (art. 34);
con pagamento d’indennità e obbligo di risposta del lavoratore alla chiamata, oppure senza
pagamento d’indennità e senza obbligo di risposta da parte del lavoratore (art. 36).
L'art. 35 rimanda al contratto individuale – in forma scritta – l'identificazione degli elementi
rilevanti del rapporto di lavoro: fra gli altri, la durata del contratto, il richiamo alla causa per cui era
possibile la stipula, il luogo e la modalità di disponibilità, il preavviso con cui viene richiesta la
prestazione lavorativa stessa, l'ammontare dell'eventuale indennità di disponibilità e dell'eventuale
retribuzione per la prestazione lavorativa.
Degno di nota è l’art. 38: stabilisce che al lavoratore intermittente, nei periodi di effettivo
lavoro, deve essere riconosciuto un trattamento normativo, economico e previdenziale pari a quello
dei lavoratori di pari livello e pari mansioni. Tali trattamenti sono riconosciuti secondo il principio
della proporzionalità con la prestazione lavorativa eseguita; si tratta dell’unico aspetto che possa
avvicinare – molto alla lontana – il lavoro intermittente con il lavoro a tempo parziale.
La legge del 2012 ha apportato qualche modifica marginale: ha previsto che prima dell'inizio
della prestazione, o di “un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30 giorni,” il
datore di lavoro deve darne comunicazione alla DTL con sms, fax, e-mail, o con ulteriori modalità
che potranno essere stabilite con decreto dei Ministeri del Lavoro e della Funzione Pubblica
Da questa sommaria descrizione, appare evidente come tale contratto non sia basato sulla
scambio fra salario e prestazione lavorativa, bensì fra salario (eventuale) e disponibilità ad
un'eventuale prestazione lavorativa; appare addirittura come una tipologia lavorativa non
immediatamente riconducibile ad un contratto di lavoro dipendente.
18) Il lavoro a progetto nel decreto legislativo 276/2003 – modifiche ai sensi della legge n.
92/2012 (sintesi).
Il lavoro a progetto rappresenta una delle più importanti novità introdotte dalla legislazione
del 2003 nel panorama dei contratti di lavoro. Tale forma ha sostituito le collaborazioni coordinate
e continuative - note al pubblico con l’ironico acronimo di “co.co.co.” - che nonostante la larga
diffusione, tale da farne il sinonimo del precariato in Italia, non avevano quasi disciplina normativa.
Il contratto di lavoro a progetto è stato prospettato dal decreto legislativo n. 276/2003 (art.
61) come la forma tipica alla quale devono essere ricondotti i rapporti di collaborazione coordinata
e continuativa. Lo stesso articolo ha identificato gli elementi che caratterizzano il nuovo tipo di
rapporto di lavoro: essi sono il coordinamento con l’organizzazione del committente; la
continuatività; la collaborazione prevalentemente personale; l’assenza di vincolo di subordinazione;
l’autogestione del lavoratore, chiamato a produrre un risultato indipendentemente dal tempo
impiegato. Inoltre, l’art. 61 ha introdotto un significativo elemento di novità rappresentato dalla
presenza di uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso. Si tratta di un elemento che
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00
appare determinante per la qualificazione del contratto: il successivo art. 69 stabilisce infatti che il
contratto di lavoro a progetto instauratosi senza l’identificazione di tali elementi, si converte in
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato 12. Tale elemento è altresì determinante in
riferimento all’estinzione del contratto di lavoro a progetto, che ai sensi dell’art. 67 si verifica al
momento della realizzazione del progetto o programma o fasi di esso 13.
Peraltro, l’aspetto caratterizzante del lavoro dipendente è stato usualmente identificato dalla
giurisprudenza – ormai consolidata da numerose sentenze della Corte di Cassazione - nella
sottoposizione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo, sanzionatorio esistente in capo al
datore di lavoro; inoltre, qualora l’esame dei requisiti di cui sopra non sia dirimenti, la
giurisprudenza ricorre a criteri ulteriori, quali le caratteristiche intrinseche della prestazione
lavorativa, le modalità di retribuzione, la presenza di un rigido orario di lavoro 14 . Pur con tutte le
difficoltà interpretative che possono sorgere nell’applicazione di tali parametri all’odierna realtà del
lavoro precario, tale elaborazione giurisprudenziale appare tuttora come la più rispondente a criteri
di diritto e di ragionevolezza.
La legge n. 92/2012 (art. 1 commi 23 sgg.) è intervenuta con diverse modifiche, che
recepiscono le interpretazioni della giurisprudenza sull’argomento e appaiono tali da limitare
almeno in parte gli abusi che hanno fino ad ora caratterizzato l’utilizzo di tale forma contrattuale.
Così, la legge ribadisce che la collaborazione deve essere effettivamente riconducibile ad
uno o più progetti, con gestione autonoma del collaboratore, fatte salve forme di coordinamento con
il committente; l'assenza di un effettivo progetto comporta che quel rapporto si considera
subordinato a tempo indeterminato. Rispetto alla legislazione precedente è stato quindi abrogato il
rimando alle fasi di un progetto, che rendeva possibile un’ulteriore frammentazione.
Il progetto non può coincidere con la mera riproposizione dell'oggetto sociale del
committente, deve essere collegato ad un risultato finale indipendentemente dal tempo impiegato,
non può comportare compiti meramente esecutivi e/o ripetitivi (anche come individuati dai contratti
collettivi), non può comportare l’esecuzione di attività svolte con modalità analoghe a quelle svolte
da personale dipendente, salvo che per prestazioni di elevata professionalità anche individuate dai
CCNL e salvo prova contraria fornita dal committente. Tale complesso di norme recepiscono
sostanzialmente alcuni dei prevalenti indirizzi della giurisprudenza che aveva dichiarato irregolari
le collaborazioni a progetto con tali caratteristiche, stabilendo la natura di contratto di lavoro
dipendente a tempo indeterminato.
La legge del 2012 introduce la facoltà della contrattazione collettiva nazionale, o decentrata
se delegata, di determinare i valori minimi del compenso, anche articolati per settore e profili,
rapportati ai valori salariali corrispondenti; in assenza di contrattazione, il compenso non può
comunque essere inferiore ai minimi salariali stabiliti per figure analoghe. Oltre a questo, la legge
interviene sul regime contributivo. Si tratta di un intervento in realtà non adeguato: le
collaborazioni a progetto hanno rappresentato sino ad oggi uno dei più diffusi esempi di precariato
perché – fra le altre cose - comportano l’erogazione di una retribuzione più basse rispetto a quella
12
13
14
Peraltro, in caso di contenzioso, l’art. 69 limita il potere di accertamento del giudice alla sola esistenza del
progetto o programma o fasi di esso, senza che sia possibile sindacare le scelte tecniche, organizzative,
produttive del committente.
Per quanto ovvio, entrambe le parti – lavoratore e committente – possono recedere ex art. 67 prima dalla
conclusione del progetto, per giusta causa o per le altre cause prevenite in contratto. Si tratta insomma di un
contratto in cui vale il principio di recesso ad nutum.
Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenze 26/10/2012 n. 18469; 02/05/2012 n. 6643; 30/08/2011 n. 17833;
26/07/2011 n. 16254.
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11
erogata ad un lavoratore dipendente. Se si volesse davvero scoraggiare tale forma di precariato,
sarebbe necessario che fosse più costoso rispetto ad un rapporto di lavoro dipendente.
La legge del 2012 conferma che il recesso anticipato è consentito sempre per giusta causa;
inoltre, è possibile per il committente nel caso in cui emerga un’oggettiva inidoneità professionale
da parte del collaboratore; tale possibilità deve però essere prevista nel contratto individuale.
Tutte le nuove regole che abbiamo sintetizzato valgono per i contratti stipulati dopo l'entrata
in vigore della legge.
19) Le partite IVA nella legge n. 92/2012 (sintesi).
La legge n.92/2012 (art. 1 comma 26) ha inserito un nuovo articolo 69-bis nel decreto
legislativo n. 276/2003, introducendo alcune norme per limitare almeno in parte il ricorso abusivo a
questo istituto, norme di cui diamo una rapida sintesi.
Salvo prova contraria, le partite IVA si considerano collaborazioni a progetto quando
ricorrano almeno 2 dei seguenti 3 presupposti:
1) che l'attività abbia una durata superiore a 8 mesi per 2 anni consecutivi con lo stesso
committente;
2) che il corrispettivo derivante, anche se formalmente fatturato a soggetti diversi, rappresenti
più dell'80% dei corrispettivi totali percepiti per 2 anni consecutivi;
3) che il lavoratore disponga di una postazione lavorativa fissa presso una sede del
committente.
.
Al verificarsi di tale situazione, il rapporto si considera di collaborazioni a progetto, con
l'applicazione dei relativi vincoli; ne discende che in caso di assenza di un progetto, si determina
l'ulteriore conseguenza di considerare il rapporto come di lavoro subordinato. Tali norme si
applicano ai contratti stipulati dopo l'entrata in vigore della legge n. 92/2012 e dopo 12 mesi per i
contratti già in corso.
La presunzione di falsa partita IVA, come sopra delineata, non si applica quando:
 la prestazione sia connotata da competenze teoriche elevate ovvero da capacità tecnicopratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze;
 l'attività sia svolta da soggetto titolare di redditi annui da lavoro autonomo non inferiore a
1,25 volte il minimale contributivo dei lavoratori autonomi (per l'anno 2012, euro 18.662,5);
 l'attività rientra fra quelle professionali per le quali l'ordinamento prevede l'iscrizione ad
albi, ordini professionali, registri, ruoli ecc.
20) L'associazione in partecipazione dagli artt. 2549-2554 codice civile alla legge n. 92/2012
(sintesi).
L'associazione in partecipazione è prevista da alcune norme del codice civile del 1942,
tuttora in vigore; il codice ne dà la seguente definizione all'art. 2549: “Con il contratto di
associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili
della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto.”
33
22
L'apporto dell'associato può essere sia una prestazione lavorativa che una dazione di denaro
o altri beni utili all'impresa o all'affare. L'art. 2553 codice civile stabilisce che “salvo patto
contrario, l'associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, ma le
perdite che colpiscono l'associato non possono superare il valore del suo apporto.”
Tale forma contrattuale è stata utilizzata come forma di lavoro precario, specie in catene di
negozi in franchising; gli addetti di tali negozi erano associati in partecipazione dell'impresa che
aveva la proprietà o almeno la gestione dei negozi.
La legge n. 92/2012 (art. 1 comma 28) ha ora aggiunto un secondo comma all'art. 2549
codice civile che abbiamo prima citato. Il nuovo comma stabilisce che il numero massimo degli
associati, il cui apporto consista anche in una prestazione lavorativa, sia di 3, cui si possono
aggiungere coloro che siano legati da rapporto coniugale, di parentela entro il 3° grado o affinità
entro il 2°. Se si superano i limiti, tutti gli associati che prestano lavoro si considerano dipendenti a
tempo indeterminato.
La legge del 2012 ha stabilito peraltro che i contratti già in essere, se sottoposti a
certificazione, possono continuare fino alla scadenza. Inoltre, ha stabilito che i rapporti nei quali il
compenso non sia effettivamente collegato agli utili dell'impresa, o dell'affare, o non vi sia la
consegna del rendiconto previsto dal codice civile (al termine dell'affare o con cadenza almeno
annuale se dura oltre l'anno) si presumono di lavoro dipendente a tempo indeterminato. La stessa
presunzione si applica qualora il lavoro svolto non sia connotato da competenze teoriche elevate o
rilevanti capacità tecnico-pratiche.
E’ da segnalare l’accordo sindacale siglato il 16/7/2012 presso la Golden Lady Company
SpA ai sensi dell’art. 8 della legge n. 148/2011. Tale impresa si avvaleva per la gestione dei propri
negozi di circa 1200 lavoratori con contratto di associazione in partecipazione con apporto di solo
lavoro. Le parti hanno pattuito un differimento degli effetti della nuova normativa introdotta dalla
legge n. 92/2012 per un anno dopo l’entrata in vigore della legge stessa. Dopo tale proroga,
l’impresa provvederà alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro, convertendoli in contratti di lavoro
dipendente a tempo indeterminati oppure – se ne ricorrono i presupposti – in contratti di
apprendistato.
21) Il lavoro accessorio dalla legge n. 276/2003 alla legge n. 92/2012 (sintesi).
Il lavoro accessorio è previsto dal titolo VII del decreto legislativo n. 276/2003, titolo che
disciplina altresì il lavoro a progetto. Entrambe queste forme contrattuali sono riconducibili al
cosiddetto lavoro parasubordinato, come tali contraddistinti da numerosi elementi tipici del lavoro
autonomo, ma che in molti casi hanno poco o nulla del lavoro autonomo non essendo nient’altro
che la modestissima veste giuridica del lavoro subordinato precario.
Le fattispecie lavorative che rientrano nella tipologia del lavoro accessorio sono identificate
dall’art. 70 15. In sintesi, si tratta di: lavori domestici; giardinaggio, pulizie e manutenzione
d'immobili; realizzazione di manifestazioni sportive, culturali, caritatevoli e lavori d’emergenza e
solidarietà; lavori svolti da studenti inferiori ai 25 anni nei periodi di vacanza; attività agricole
stagionali effettuate da pensionati e studenti; collaborazione nell’ambito dell’impresa familiare
limitatamente a commercio, turismo, servizi; attività di consegna porta a porta e di vendita
15
L’elenco di cui all’art. 70 è stato integrato dalle leggi n. 80/2005 e n. 248/2005 e poi sostituito dalla legge n.
133/2008
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ambulante di giornali. L’art. 71 identificava i soggetti che potevano svolgere attività di lavoro
accessorio: ma tale articolo è stato abrogato dalla legge n. 133/2008 (art.22) e quindi allo stato
attuale il lavoro accessorio può essere svolto da chiunque.
La peculiarità del lavoro accessorio è identificabile nelle modalità di retribuzione, che
rappresentano una novità nell’ordinamento italiano. L’art. 72 prevede infatti l’esistenza di un
concessionario che metta in vendita al pubblico buoni per prestazioni di lavoro accessorio; i
lavoratori vengono pagati per le proprie prestazioni con tali buoni; i lavoratori presentano i buoni al
concessionario e questi li converte in denaro e provvede altresì a versare i contributi a INPS e
INAIL, trattenendosi una commissione. Il decreto del Ministero del Lavoro del 30 settembre 2005
aveva quindi stabilito in 10 euro il valore di ciascun buono.
La legge n.92/2012 (art. 1 commi 32-33) è ora intervenuta apportando le seguenti modifiche,
che ridefiniscono la normativa generale.
 S'intende per lavoro accessorio quello meramente occasionale che produce un compenso
complessivo non superiore a 5mila euro per anno solare.
 Nei confronti di imprenditori commerciali e professionisti possono essere rese attività per
compensi non superiori a 2mila euro per anno solare.
 In agricoltura, il lavoro accessorio può essere svolto in attività stagionali da pensionati e
studenti con meno di 25 anni; inoltre, a favore di imprese “familiari”, ma non da parte di chi
nell'anno precedente era iscritto negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.
 Il committente può anche essere un soggetto pubblico.
 Il lavoro accessorio vale ai fini del rilascio o del rinnovo della carta di soggiorno.
 L'aliquota contributiva sarà rideterminata.
 i buoni utilizzati per pagare il lavoro accessorio dovranno essere orari, numerati
progressivamente e datati.
22) Il tirocinio formativo o stage dalla legge n. 197/1996 alla legge n. 92/2012 (sintesi).
Il tirocinio formativo, detto anche stage, è stato introdotto nell’ordinamento italiano dalla
legge n. 197/1996.
Tale figura contrattuale si basa su una convenzione fra un ente promotore (usualmente una
scuola, un’università, un’agenzia per l’impiego) ed un datore di lavoro. Si tratta infatti di un
contratto che riguarda i giovani che abbiano terminato l’obbligo scolastico e non rappresenta un
rapporto di lavoro: pertanto, non comporta un diritto alla retribuzione, ma solo un rimborso spese e
l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e per la responsabilità civile.
Il decreto ministeriale n. 142/1998 – attuativo della citata legge del 1997 – ha poi stabilito il
contenuto del progetto formativo di orientamento che deve essere allegato alla convenzione fra
promotore e datore di lavoro, ed altresì la durata massima dello stage, che deve essere di 4, 6, 12, 24
mesi a seconda delle caratteristiche soggettive degli stagisti.
La legge n. 148/2011 (art. 11) ha precisato che i tirocinii formativi e di orientamento non
curricolari possono avere una durata massima di 6 mesi e possono riguardare solo i neodiplomati e
neolaureati, entro 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio. Peraltro, la Corte Costituzionale
con la recente sentenza n.287/2012 ha stabilito l'incostituzionalità di tale articolo, per il motivo che
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la normativa in questione si pone in contrasto con l'art.117 della Costituzione, andando ad invadere
la competenza per materia delle Regioni.
La legge n. 92/2012 ( art. 1 commi 34 sgg.) si limita a prevedere un accordo fra Stato e
Regioni, da sottoscrivere entro 180 giorni dall'entrata in vigore della legge, per definire linee guida
che dovranno attenersi ai seguenti principi:
revisione generale della normativa in materia;
individuazione di modalità con cui il tirocinante presta la propria attività, al fine di
prevenire e contrastare gli abusi;
individuazione degli elementi qualificanti del tirocinio ed effetti conseguenti alla loro
mancanza;
riconoscimento di un’indennità proporzionata alla prestazione svolta; con la precisazione
che la mancata corresponsione dell'indennità comporta in ogni caso una sanzione
amministrativa da 1.000 a 6.000 euro.
Il più interessante appare ovviamente l’ultimo punto, che prevede per la prima volta una
forma di retribuzione, qualificando quindi anche il tirocinio formativo o stage come un contratto di
lavoro per quanto atipico.
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