EMERGENZA EDUCATIVA: una soluzione c`è

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EMERGENZA EDUCATIVA: una soluzione c`è
EMERGENZA EDUCATIVA:
una soluzione c’è
VITA IN FAMIGLIA
luogo di incontro generazionale, di relazioni e sentimenti interpersonali
2009-2010
Atti degli incontri
C’è chi si diverte a scrivere sui muri delle case, c’è chi si diverte ad attraversare a piedi
l’autostrada, c’è chi si diverte a passare con il rosso, c’è chi si diverte a spaccare le
panchine dei parchi, c’è chi si diverte a fare sesso in classe, c’è chi si diverte a guidare da
ubriaco, c’è chi si diverte a sfasciare le aule, c’è chi si diverte a picchiare i disabili e poi
tutto ovviamente si mette su youtube…
Ma dove abbiamo sbagliato? Cosa abbiamo dimenticato di insegnare ai nostri figli?
Eppure facciamo sacrifici per mandarli a calcio, a basket, in piscina, a danza, a musica…
Noi siamo convinti che la soluzione alla emergenza educativa c’è ed è alla nostra portata.
Gli incontri per il ciclo “Vita in Famiglia” che abbiamo proposto quest’anno hanno proprio
questo obiettivo: riscoprire i valori che sono alle base delle nostre convinzioni e con
questi cercare di trasformare i vari ambiti in cui vivono i nostri figli in luoghi educativi,
soffermandoci su due in particolare (l’Oratorio e lo Sport) per poter proporre un nuovo
modo di fare famiglia: aprendoci alla società invece di chiuderci nel nostro privato.
Le testimonianze ascoltate sono state illuminanti: la soluzione ai problemi educativi
l’abbiamo in casa.
Abbiamo perciò ritenuto di trascrivere e stampare gli interventi degli incontri e, convinti
che sia uno strumento veramente utile, consegniamo a Voi queste pagine.
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INDICE
Prefazione ………………………………………………………………………………….. pag. 01
Presentazione del progetto – Daniela Clerici ……………………………
pag. 03
La responsabilità educativa.
Come accogliere questa sfida
Presentazione – Mattia Ramella ……………………………………………….
Testimonianza – Mario Palmaro ……………………………………………….
pag. 04
pag. 08
La responsabilità educativa.
L’oratorio: quale progetto educativo
Presentazione – Mattia Ramella ……………………………………………….
Testimonianza – Alessandro Bernasconi ………………………………….
pag. 14
pag. 14
La responsabilità educativa.
Lo sport: solo gioco?
Testimonianza – Domenico Serino …………………………………………..
pag. 22
La responsabilità educativa.
Come la famiglia si apre all’impegno sociale?
Testimonianza – Laura Puricelli e Giulio Bertolini …………………..
pag. 35
Conclusioni – Mattia Ramella …………………………………………………..
pag. 39
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Presentazione del progetto da parte della Dr.ssa Daniela Clerici, pubblicato su “Cislago”
(periodico di informazione Comunale – marzo 2010)
Emergenza educativa: UNA SOLUZIONE C’E’
Viviamo in una società in cui sembra essere particolarmente difficile affrontare la vita in
modo sereno, soprattutto quando si parla di “figli” e di “educazione”.
Se fosse sufficiente limitarsi ad una buona “istruzione” sarebbe facile: basterebbe
scegliere una scuola adeguata (pubblica o privata) ed, opplà!, il gioco è fatto: i figli
tornano da scuola, fanno i compiti, studiano… e noi siamo contenti.
Purtroppo, però, non è così: si parla di “bullismo”, di ragazzi che crescono maleducati, di
educatori che non sanno più come comportarsi, di genitori che non ce la fanno più; in
una parola è la cosiddetta “emergenza educativa”.
Si sono organizzati incontri, dibattiti, tavole rotonde (anche a Cislago), ma sembra che
non ci sia una soluzione: tutti noi siamo sempre più consapevoli delle difficoltà in cui ci
dibattiamo, ma… c’è sempre un ma.
Ed allora noi abbiamo fatto una riflessione: cos’è che differenzia il modo di vivere odierno
da quello di “quand’eravamo giovani noi”? Certo è cambiato praticamente tutto: gli
strumenti che hanno i nostri figli oggi a disposizione noi non pensavamo nemmeno
esistessero, la TV, il PC, internet…: basta un click per entrare in contatto con il mondo
intero!
Ma è stato sufficiente questo cambiamento “esteriore” per modificare un modo di vivere?
Noi pensiamo che la causa (o, almeno, una causa) di questa emergenza educativa sia
stato il “prosciugarsi” delle fonti di educazione, il venir meno di tanti ambiti educativi.
Siamo convinti che tanti momenti, che potrebbero essere motivi di crescita educativa,
sono diventati dei “problemi” e che forse tanti momenti, che pensiamo essere educativi o
anche solo di intrattenimento, sono invece solo “riempitivi” e forse diseducativi.
Ed allora ci siamo chiesti: ci sono ancora degli “ambiti educativi” che possono dare una
mano ai genitori nell’educare i propri figli?
In altre parole: si può ancora parlare di Cislago come di “comunità educante”, o meglio
come insieme di “comunità educanti”?
La risposta questa domanda è fondamentale e noi riteniamo possa essere positiva.
Abbiamo quindi pensato di proporre a tutti questa nostra soluzione e lo faremo in una
serie di incontri finalizzati proprio a conoscere quali sono gli “ambiti educativi” in Cislago
e come possono essere tali.
Saranno incontri impegnativi, perché impegnativo è il problema; abbiamo quindi pensato
di farci aiutare dal dr. Mattia Ramella, uno psicologo che lavora ormai da anni con i
ragazzi delle nostre scuole.
Non stiamo proponendo delle “conferenze”, ma dei momenti di lavoro in cui verrà
testimoniato che è possibile vivere ed educare, anche oggi.
Daniela Clerici
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Venerdì 16 aprile 2010
La responsabilità educativa: come accogliere questa sfida
Presentazione: Mattia Ramella.
Buona sera a tutti.
La mia introduzione sarà solamente una breve riflessione, frutto della mia esperienza che
si è giocata in questi anni in tanti ambiti diversi e che rischia di essere frenetica.
Si gioca nell’ambito della parrocchia, dell’oratorio, nella scuola sia come psicologo che
come sportello di ascolto; si gioca nello sport, anche come allenatore, e nella famiglia,
come per tutti noi.
Credo che la famiglia sia l’origine dell’educazione e che sia chiamata ad educare: da lì
parte poi l’educazione.
Il significato della parola educazione
Il significato originario della parola viene dal latino e-ducere, che significa condurre fuori,
liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto, ma qualcosa – io aggiungerei - che
già c’è.
Si intende il processo (l’educazione è un processo relazionale, fatto di relazione, e la
parola “processo” indica il contenuto del tempo: implica relazione ed implica tempo)
attraverso il quale l’individuo riceve e impara quelle particolari regole di comportamento,
i principi morali che sono condivisi nel gruppo famigliare (quindi torna il termine
famiglia-individuo) nel più ampio contesto societario, quindi della società, in cui è
inserito.
La definizione poi continua con le regole di comportamento e i principi morali
Viviamo in un periodo di emergenza educativa, in cui si dice che i valori non ci sono più,
non ci sono più principi morali: questa definizione dice che non si può educare senza
principi morali.
Penso che non sia scontato dirlo in questo momento e stasera cerchiamo di capire
insieme quali sono questi principi da trasmettere, che un bambino, un ragazzo, un
giovane, un adulto riceve e impara, può ricevere e imparare.
Il concetto di emergenza e incertezza.
Ho preso spunto dalle parole del Papa, che davvero sono di estrema chiarezza.
“Educare non è mai stato facile, oggi sembra diventare sempre più difficile; lo sanno
bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità
educative. Si parla perciò di una grande emergenza educativa, confermata dagli
insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide,
capaci di collaborare con gli altri, (quindi le relazioni), di dare un senso alla propria vita
(qui si va proprio al significato fondamentale della nostra vita)”.
Un’altra frase che ritengo mia, perché l’ho sentita tante volte, l’ho pensata tante volte;
quando capita di fermarsi a parlare con altre persone, adulti in particolare, non passa
giorno che, ad un certo punto, non si arrivi a parlare o dei figli, o più in generale dei
ragazzi o dei giovani, e di quello che combinano. Una delle frasi più ripetute in tali
colloqui, e non solo, è questa: “Non ci sono più valori”.
Ma una domanda sorge subito: se non ci sono valori come si possono trasmettere e
ricevere quei principi morali e regole di comportamento che stavano proprio nella
definizione di educazione? Dobbiamo forse rinunciare? E’ una domanda che credo tanti si
stanno ponendo o si siano posti in questo momento; anch’io tante volte me la sono
posta, di fronte a certe fatiche educative.
In questa incertezza sentita, percepita, vissuta, come è possibile orientarsi?
Sto pensando a quali erano le parole chiave, i principi, ciò che più sentivo dentro di me,
quelle certezze, quei pilastri, direi, che guidano il mio essere educatore, che per me è sì
una professione, però è davvero, credo, uno stile di affrontare gli eventi, di vivere le
situazioni.
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Allora, le coordinate fondamentali per me sono queste: questa è una bussola, per me
fondamentale.
Intanto, est-ovest: vocazione, perché davvero ci sentiamo chiamati, nessuno si
improvvisa, nessuno può da sé educare; è frutto forse di una chiamata, di un dono, di un
dono ricevuto, è frutto di una provocazione, di una domanda che dobbiamo forse essere
disposti ad accogliere, forse essere più attenti ad ascoltare, e questo è il primo punto
fondamentale.
A partire da questa chiamata, che è sentita e non si può fare finta di non sentire, di non
ascoltare, passando per l’amore e la verità (è una chiamata di amore e di verità), si va
sul versante della missione; quindi quando capisco che la chiamata è una chiamata
autentica, quando capisco che ciò che ho ricevuto va trasmesso, allora diventa davvero
una missione quella di educare, diventa una missione insostituibile, una missione di cui
non posso fare a meno.
Perché se io ho ricevuto una verità, che io sento come profondamente autentica, non
posso rinunciare a trasmetterla alla persone che sono in relazione con me, che vivono
con me.
Per le coordinate invece nord-sud e ho pensato alla libertà e alla responsabilità.
Tutte queste cose sono assolutamente interconnesse: la libertà per me è appunto il
poter essere autentico con quello che dico, il poter sentire che ciò che ho ricevuto possa
essere donato all’altro in modo libero, senza costrizioni, in modo anche libero nel senso
del rispetto della libertà dell’altro.
E qui si gioca la responsabilità: se sono dentro queste coordinate il mio essere
responsabile credo sia lo scegliere liberamente, scegliere liberamente di impegnarmi
profondamente in quello che faccio, in quello che dico, in quello che trasmetto.
Chiaramente al centro ci sono nuove verità; se io non conosco, non attivo queste fonti,
non posso trasmettere niente, non posso sentire una chiamata a mettermi in gioco, a
trasmettere; non posso sentirmi libero, e viene meno anche l’impegno, perché se non ho
un fondamento, una base solida, non mi sento a mia volta amato e non ho contatto con
la verità e non ha più senso nessuna di queste coordinate.
Almeno questo è quello che io sperimento tutti i giorni nella mio essere educatore.
In quali ambiti dunque trasmettere, in quali ambiti educare?
Ho preso uno stralcio dalla proposta dell’anno oratoriano di quest’anno: “C’E’ DI PIU’” in
cui si diceva: “Quanto agli educatori, sapranno valorizzare quanto c’è, quanto già c’è.
Tutti noi, nei nostri ambiti quotidiani, siamo chiamati ad educare e gli ambiti ci sono già,
sono già presenti nella nostra vita: lo sappiamo, li sentiamo, li viviamo: accettare le
situazioni, le persone per quello che sono”. E’ proprio qui che entra in gioco la libertà
personale e anche il rispetto dell’altro: partendo dalla realtà per costruire il futuro, nella
libertà della proposta e della risposta.
In “C’è di più”, quel “di più” è chiaramente quel centro vitale delle coordinate di cui
parlavamo prima.
Leggo un breve stralcio di una lettera pastorale, di qualche anno fa, che era indirizzata ai
giovani da Renato Corti , vescovo di Novara, che mi aveva guidato agli inizi del mio
percorso di responsabile della pastorale giovanile dell’oratorio della mia parrocchia;
Renato Corti diceva: “Attraverso la ricca soggettività della Chiesa, diventa possibile
raggiungere i giovani in molti ambiti del loro vissuto scuola, lavoro, sport, tempo libero,
impegno sociale e politico, solidarietà, mondialità, situazione di disagio, fino alle scelte di
fondo che intercettano la fede, la vocazione, la famiglia e la professione”.
Allora viene da dire che gli ambiti ci sono già; non andiamo a scoprire nuovi ambiti né
abbiamo bisogno di creare nuove cose, ma è la nostra situazione quotidiana, la nostra
situazione di tutti i giorni.
Credo sia lì che si gioca la nostra sfida di essere educatori e dell’aver il coraggio di
educare. Dunque credo che la sfida non sia tanto quella di cercare gli ambiti, ma sia
quella di trasformare un ambito che già c’è in un luogo educativo.
E questo vuol dire cercare di capire come fare diventare un ambito, che è un concetto
credo generale, in un luogo educativo: la parola “luogo” personalmente mi evoca
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accoglienza, mi evoca uno star bene, mi evoca un qualcosa di abitato, di profondamente
vivo.
Quindi come trasformare un ambito che già c’è in un luogo educativo?
E pensando ad una immagine di luogo educativo non ho potuto fare a meno di pensare a
queste parole del Vangelo “Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in
pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la
pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa
non cadde, perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non
le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.
Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa,
ed essa cadde, e la sua rovina fu grande".
Come esempio di “fondamento sulla roccia” ho pensato alle virtù cristiane che sono dei
principi morali, regole di comportamento da trasmettere.
Se ne parla poco, se ne parla davvero poco! Però ultimamente - ripensando anche a
quella che è stata la mia esperienza di questi cinque, sei, sette anni in cui ho iniziato a
sentirmi, ad essere educatore, a quella che è stata la linea dell’educatore -, ho pensato
che è necessario fare un percorso all’inverso; partendo dal concreto, dal fare, e tornando
un po’ indietro al pensare, ho cercato di arrivare all’essenziale, cioè a capire quali sono
davvero le fondamenta, quali sono i principi fondamentali del mio essere educatore.
Ho trovato nel cammino della fede cattolica questa definizione: “Le virtù morali vengono
acquisite umanamente (quindi richiedono un’attenzione specifica all’uomo in quanto
uomo); sono i frutti, i germi di atti moralmente buoni, dispongono tutte le potenzialità
dell’essere umano”; mi viene in mente quella definizione principale di “educazione” che
era presa da Wikipedia e non dal catechismo della Chiesa cattolica: quel qualcosa di
nascosto – e-ducere -, quel far uscire qualcosa di nascosto… tutte le potenzialità
dell’essere umano devono entrare in comunione con l’amore divino, che è al centro di
quelle che erano le coordinate.
Una testimonianza concreta: mi viene in mente la giustizia, la virtù della giustizia;
per me, nei diversi ambiti vissuti in questi anni, è significato “vivere l’accoglienza in
modo giusto”.
Quindi la giustizia come accoglienza, che rende l’ambito, qualsiasi ambito, un luogo
educativo.
Leggo la definizione e poi faccio degli esempi personali che riguardano i diversi ambiti in
cui ho vissuto, con il mio lavoro.
“La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e
al prossimo ciò che è loro dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata virtù dalla religione;
la giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle
relazioni umane l’armonia che promuove l’equità nei confronti delle persone e del bene
comune”.
A me pare molto, molto vicina a quel concetto di educare che abbiamo indicato prima,
soprattutto nella seconda parte quando si diceva: rispettare i diritti di ciascuno, stabilire
l’armonia che promuove l’equità nei confronti delle persone, del bene comune.
I termini sono quasi simili, come se le parole fossero le stesse; però in quest’ultimo caso
acquisiscono qualcosa di più, qualcosa di forte.
Cosa è per me “giustizia”
Vi faccio degli esempi concreti, che potranno sembrare banali, però penso, adesso che
sta arrivando l’estate, come responsabile dell’oratorio, penso ai numerosi ragazzi
adolescenti che entrano nelle porte dell’oratorio con l’inizio dell’estate, e penso a coloro
che hanno seguito per tutto l’anno la catechesi, che frequentano costantemente la
messa, che si accostano ai sacramenti, che davvero sono impegnati, anche la domenica,
nell’animazione, che sono sempre presenti. Penso a quelli che frequentano l’oratorio
solo come posto in cui giocare, in cui ritrovarsi, ma magari non sono assidui alla
catechesi, magari fanno un po’ fatica a pensare di andare a messa, e poi penso a quelli
che non si fanno vedere tutto l’anno… però sono lì, sono lì d’estate, sono lì: camminano,
gironzolano poco fuori dal cancello, stanno poco distanti ad osservare.
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Penso a tutti questi ragazzi e credo che “accoglienza” significhi, in questo caso (ed è
quello che cerco di fare ogni anno) dare la possibilità a tutti, proprio per cercare di far
venir fuori quelle potenzialità che ci sono in ciascuno…Chiaramente avranno ruoli diversi.
La giustizia credo che sia questo, in questo caso; è un concetto difficile, però, a mio
modo, cerco di viverlo nella quotidianità di un oratorio estivo, dando la possibilità a tutti
di entrare, cioè di trasformare l’ambito, un ambito possibile che è quello dell’oratorio, in
un luogo; chiudendo le porte credo che non si possa parlare di accoglienza, che non si
possa parlare di rispettare i diritti di ciascuno, che non si possa parlare di stabilire
relazioni umane.
Far finta di niente credo che non sia equo, non sia giusto!
E allora è importante che la proposta sia chiara, occorre stabilire bene quali ruoli hanno
quelli che hanno sempre frequentato, che si sono sempre impegnati, dando però la
possibilità, ad esempio, di partecipare alle riunioni degli animatori con me, a fine
giornata, non solo a coloro che sono lì ad educare tutte le domeniche, ma anche a coloro
che sono ai margini, a coloro che sono lì, che camminano intorno, che osservano, che
davvero sembrano alla ricerca del luogo.
Ecco perché una cosa che credo sia fondamentale, e di cui mi sto sempre più accorgendo,
è che non è vero che ci sono persone a cui non importa nulla, che ai giovani non importa
niente; in realtà credo che i giovani abbiano proprio bisogno di proposte in età educativa
e le chiedono, chiedano loro stessi di trovare un luogo, di avere un luogo, che è diverso
dal frequentare un ambito.
Un altro esempio può essere quello dello sport.
Ho fatto per tre anni l’allenatore in una squadra di piccoli amici, dai 5-6-7 anni, e
capite che lavorare per i bambini di questa età significa lavorare anche con i loro genitori,
perché sono attaccati; era molto curioso, quando io mi spostavo nel campo, i genitori mi
seguivano, sui confini della rete, cercavano di essere lì, vicini, quasi a voler entrare anche
loro (e spesso lo hanno fatto); qualche volta ho dovuto dire: “Siamo qua per i bambini,
non siamo qua per voi! In questo momento ci siete anche voi in questo luogo: e voi
dovete fare la vostra parte, che è fondamentale, che è la prima parte, però adesso è il
momento dei bambini, è il momento per loro di crescere, di creare gli spazi giusti”.
Ecco, credo che in questo caso la giustizia e l’accoglienza sia saper riconoscere il ruolo di
ciascuno, saper riconoscere le potenzialità di ciascuno, nel rispetto dello sviluppo
evolutivo, quindi nel rispetto dell’evoluzione, dello sviluppo della persona.
In quel momento gli adulti stanno crescendo come genitori, e il punto comune è proprio
questo: la crescita in questo caso.
I bambini stanno crescendo, si stanno formando come bambini; io stesso sto crescendo,
mi sto formando come allenatore, come educatore.
Quindi riconoscere questa specificità, che non è assolutamente scontato, perché spesso i
genitori si mettono al posto dei bambini, e spesso i bambini vengono chiamati a delle
responsabilità che sono fuori dalla loro portata.
Oppure l’allenatore si ferma solo ad un aspetto tecnico invece di andare a considerare la
persona; credo che riconoscere tutti questi aspetti è anche avere il coraggio di mettersi
in gioco con delle proposte chiare.
Ad esempio avevo fatto per i bambini di 6 anni una proposta: quando giocavo io che ero
piccolo, non c’era problema nel senso che mi ricordo che mi portava mio nonno, mi
lasciava nello spogliatoio ed io mi arrangiavo, ma adesso io mi sono ritrovato ad allenare
con genitori che seguono il bambino nello spogliatoio, lo cambiano, lo vestono e quindi
sono lì, sono presenti. La proposta che avevo fatto era quella appunto, garantendo io la
presenza di un adulto, di lasciare i bambini da soli, perchè imparino a cambiarsi, anche
dilatando i tempi.
C’erano genitori che entravano e dicevano: “Ma no, no, si fa troppo tardi!”, però così
facendo riducevano quel tempo, in cui il bambino poteva davvero conoscere i suoi
compagni, poteva davvero socializzare, poteva davvero sentirsi in crescita.
Questo è un esempio di proposta che secondo me può voler dire accoglienza.
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Devo dire che i genitori poi hanno capito questa proposta e hanno capito che era una
proposta anche per loro, per vivere meglio il loro essere genitore, il loro essere i primi
educatori.
E poi la famiglia, la famiglia che è il primo ambito.
Mi viene in mente la mia famiglia, mi viene in mente proprio la giustizia nel
riconoscimento dei ruoli: del ruolo materno, del ruolo paterno, del ruolo del figlio; devo
dire che mi sono sentito - nella mia crescita - profondamente figlio, mentre adesso
spesso vedo bambini che sono o pari ai genitori o vissuti veramente alla loro ombra (ma
adesso sto parlando veramente da psicologo - è anche questa la mia professione); però
davvero mi capita spesso di vedere un bambino che viene trattato come un adulto: è una
cosa che tocco con mano, un’esperienza, e quindi è una situazione difficile, di cui mi sto
rendendo conto.
Quindi credo che la giustizia sia proprio riconoscere la specificità di ciascuno in ogni
momento della vita, quindi l’essere figlio, l’essere padre, l’essere madre.
Questi erano degli esempi anche per riprendere quelli che saranno i temi dei prossimi
incontri, delle prossime serate.
“Un ambito può diventare casa, ovvero luogo educativo, solo se fondato sulla roccia che
dà senso e significato alla vita. Possiamo sperare che l’educazione cattolica assuma
sempre più valore. La prossima generazione di cattolici dovrà distinguersi come una
generazione che è in grado di conoscere la differenza tra il bene e il male e, quando
messi alla prova, avere il coraggio di fare il bene.”
E allora si sente dire non ci sono più valori: ma forse i valori ci sono eccome, ci sono e
sono forti! Bisogna solo forse, e qua c’è un po’ una provocazione che poi riprenderà il dr.
Palmaro.
Forse bisogna avere il coraggio di proporli questi valori, bisogna avere il coraggio e la
forza di non rinunciare a proporli e avere questo coraggio è una sfida quotidiana.
Come accoglierla?
E questa è la domanda aperta che consegno nelle mani sagge di Mario.
Testimonianza : Mario Palamaro
Buonasera a tutti, inizio da dove ha finito Mattia: avere questo coraggio è una sfida
quotidiana: come accoglierla?
L’educazione presentata come sfida è un tema che sentiamo ripetere abbastanza di
frequente, tanto è vero che anche la conferenza episcopale ha lanciato proprio non molti
mesi fa un vero e proprio progetto su questo tema della sfida educativa e lo ha fatto in
realtà inserendosi in una discussione sull’educazione-come-sfida che dura già da diversi
anni.
Educare è effettivamente una sfida e la parola “sfida” fa venire in mente qualcosa di
difficile, di complicato, di impegnativo.
Allora io direi, in primo luogo, che educatori sono in particolare i genitori: io stasera mi
rivolgerò in modo particolare a loro perché mi sento, in qualche modo, parte in causa,
essendolo anche io e mi sembra, per molti versi, una categoria quasi eroica, quella del
genitore: innanzitutto perche venire alla sera ad ascoltare una conferenza già è un atto di
eroismo, e poi perché nella vita di tutti i giorni ci si rende conto che educare è diventato
più difficile che in passato.
Ovviamente su questa mia affermazione ci potrebbero essere subito delle obiezioni, delle
obiezione anche fondate, perché la difficoltà e la fatica di educare è anche una costante
della storia dell’uomo.
Educare non è mai stato facile, non è un’azione agevole, non è qualche cosa che viene da
sé, ma è qualche cosa che comporta una lotta, una sfida.
La parabola del figliol prodigo ed il rischio educativo.
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La parabola che questa sera magari evocheremo più volte, che racconta del rapporto tra
il padre misericordioso e i due figli, di cui uno è noto come prodigo; è una parabola che
rappresenta bene, tra tante altre cose, la constatazione - che a Gesù era ben presente
duemila anni fa - che educare i figli voleva dire anche avere un figlio che a un certo
punto prende e se ne vuole andare via e chiede la sua parte di eredità.
E quando Gesù racconta questa parabola non era dopo il ‘68, dopo la rivoluzione
sessuale: era appunto, duemila anni fa.
Quindi vuol dire che da un lato educare è sempre stato impegnativo, è sempre stato
difficile e ha sempre comportato, dice qualcuno autorevolmente, appunto il rischio
educativo; è cioè una fatica senza garanzie sicure, è un impegno nel quale nessuno ti dà,
come invece succede quando vai a fare un investimento in banca, la garanzia che ti
ridaranno tutto quello che hai investito; ovviamente non è sempre così, ma insomma alle
volte può capitare.
Allora questa fatica è una fatica di sempre, perché l’uomo (e questa è già una verità che
mettiamo lì, come educatori; una verità importante da ricordarci), perché l’uomo non
cambia mai. Cioè l’uomo è portatore dentro di sé di un sigillo, di una caratterizzazione
umana; i filosofi dicono: è ontologicamente sempre portatore di una natura umana che
in quanto tale non cambia. La natura dell’uomo è una costante nella storia dell’uomo.
Quindi se io leggo l’Odissea di Omero o leggo l’ultimo romanzo - che magari è in testa
alle classifiche di vendita di questi giorni - certo leggo due cose che dal punto di vista
letterario hanno un valore molto diverso, però stiamo sempre parlando di esseri umani.
Infatti i temi che interessano chi legge sono sempre l’amore, la guerra, l’odio, il
tradimento, il perdono, l’omicidio, un gesto di generosità.
Novità nella sfida educativa.
Quindi l’uomo non cambia, questa è una prima certezza importante per l’educatore; e
non deve pensare di trovarsi davanti a dei figli geneticamente modificati, anche se molti
sintomi, talvolta lo lascerebbero pensare.
A volte verrebbe da dire:“Ma questi, da dove sono saltati fuori? Ma questi, che cosa
hanno a che fare con quello che eravamo noi, anche soltanto 20-30 anni fa?”.
Quindi da un alto c’è questo aspetto della costante caratterizzante l’essere umano,
dall’altro lato non bisogna però commettere l’errore di pensare che la sfida educativa non
presenti oggi delle difficoltà nuove; cioè credere che in fondo che le cose sono sempre
andate in questa maniera, più o meno; ci si lamenta come tutte le generazioni si
lamentano del tempo presente, evocando l’età dell’oro che non è mai esistita.
Alle volte chi parla, come noi stiamo facendo questa sera, viene un po’ liquidato come
uno che è un po’ un nostalgico del passato, non capisce che in fondo è tutto uguale, è
sempre tutto uguale: quindi essere papà e mamma oggi è lo stesso che essere papà e
mamma 30, 40 o 60 anni fa.
Evidentemente questa conclusione è una conclusione erronea: perché?
Perché è vero che l’essere umano è, nella sua intima natura sempre lo stesso, ma è
anche vero che il mondo in cui viviamo oggi - e soprattutto alcuni aspetti del mondo in
cui viviamo oggi - portano con sé, dentro di sé degli elementi totalmente nuovi che oserei
dire non hanno precedenti nella storia dell’umanità.
Queste novità, per farla breve, sono tantissime ma riguardano essenzialmente due
aspetti: un aspetto, un livello diciamo così di contenuto e un livello invece che è più di
forma, di metodo.
Novità nel metodo di educare.
1. La relazione
Incominciamo dal secondo aspetto: che cosa è cambiato in un modo che non ha
precedenti nella storia dell’umanità?
E’ cambiato il fatto che noi viviamo in un mondo nel quale operano strumenti di
comunicazione che non hanno precedenti.
Quindi l’educatore, che è sempre un comunicatore, come fa ad educare?
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L’educatore è uno che entra in relazione con gli altri, lo fa attraverso la sua vita, la sua
testimonianza, il suo esempio; lo fa attraverso le parole, lo fa attraverso una sberla, lo fa
attraverso una carezza; entra in relazione con l’altro, comunica.
Questa dimensione dell’educatore che comunica è evidentemente una rivelazione: ci dice
una cosa importante.
Qual è la cosa importante che ci dice?
Che l’educazione è una costante comunicazione con l’altro.
E’ una banalità questa, forse non ci abbiamo mai pensato.
Ora il problema, quando si comunica, è capire se io comunico, se io parlo in una sala
come questa dove c’è una buona amplificazione; dove tutti voi, almeno mi pare, siete
tutti attenti, ancora svegli; dove cioè non c’è un rumore di sottofondo fastidioso; dove
nessuno là in fondo sta seguendo sul telefonino la partita Inter-Juventus.
E’ quindi una situazione ideale nella comunicazione; è una situazione, dove colui che
comunica e il destinatario della comunicazione non sono disturbati, o addirittura non c’è
qualcuno che cerca di impedire questa comunicazione intenzionalmente.
Impatto negativo dei mezzi di comunicazione sulla relazione.
Ora noi oggi viviamo in un mondo che è caratterizzato da una straordinaria densità di
grandi mezzi di comunicazione che, come minimo, disturbano costantemente la
comunicazione dell’educatore.
La disturbano sia per il solo fatto che questi mezzi esistono, nel senso che quando questi
mezzi - anche sono soltanto neutri, cioè non portano qualcosa di negativo - tuttavia già
hanno una forza distraente.
Io voglio dire a mio figlio: “Guarda che adesso stiamo per andare a letto; diciamo la
preghiera insieme” e lui potrebbe dire: “ma devo finire la partita che sto facendo con i
video giochi!”.
E’ un esempio nel quale il mezzo non è cattivo in se stesso, né è cattivo fare la partita
con il videogioco, ma si è creata evidentemente una competizione tra queste potenzialità
e la mia proposta educativa.
E queste potenzialità - io ho fatto proprio un esempio banale - voi tutti lo sapete, e non
mi sto a dilungare, quante oggi siano e come siano anche affascinanti: cioè sono delle
forme di distrazione di passatempo o di approfondimento culturale, quello che volete voi,
però molteplici, straordinarie.
Però soltanto un ingenuo potrebbe pensare che il problema è costituito solo dalla
neutralità ingombrante di questi strumenti, questi strumenti il più delle volte neutrali non
sono, cioè veicolano una contro-educazione.
Quindi il primo dato che emerge come nuovo rispetto al passato è che la straordinaria
pervasività degli strumenti di comunicazione, delle nuove tecnologie che noi abbiamo
oggi nella vita quotidiana, sono dei costanti concorrenti dell’educatore e sono veicolo di
un messaggio, ed ecco che arriviamo al secondo aspetto, quello di sostanza, che è
devastante dal punto di vista educativo e questo messaggio è riassunto nella frase:
“educare è impossibile”, sostenere questa sfida è diventato inutile.
2. Il contenuto, la sostanza.
E’ chiaro che noi dobbiamo ogni tanto, a mio modo di vedere, trovare cinque minuti per
riflettere su questa situazione, non per demoralizzarci (una fa questa analisi, e dice, beh
questa sera ci hanno spiegato che la situazione è drammatica, per cui con oggi tiriamo
giù la saracinesca e abbiamo finito di educare): no! perché evidentemente, siccome
l’essere umano è sempre lo stesso, e siccome parliamo poi in una prospettiva di fede, Dio
non abbandona il suo popolo, Gesù è presente accanto a noi nella vita di tutti i giorni:
educare non solo è possibile, ma è necessario e produce frutti meravigliosi.
Tuttavia non dobbiamo fare come gli struzzi che dicono: “Ma sì, più o meno, in qualche
maniera ce la faremo, tireremo su questi ragazzi!”.
No!, perché il contesto, in cui oggi operiamo come educatori, è un contesto difficilissimo,
richiede ostinazione, determinazione, idee chiare, convinzione e - parole del papa di ieri
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che sono sempre valide per qualunque discorso, quindi anche per quello di questa sera capacità di non conformarsi alla mentalità di questo mondo.
Cioè l’educatore è uno oggi condannato all’anticonformismo: questa è l’altra straordinaria
novità dell’educatore contemporaneo rispetto all’educatore dei tempi passati.
Educare ieri…
L’educatore dei tempi passati, non di molto tempo fa, era un educatore che operava in un
contesto sociale coerente e conforme alla sua proposta educativa.
Cosa vuol dire questo?
Vuol dire che il famoso messaggio educativo che il genitore, il catechista, il sacerdote, la
maestra, il professore veicolavano al ragazzo, al bambino, ai bambini della scuola di
calcio, era coerente ed era uniforme, seppure con accenti, con toni differenti a seconda
della sensibilità: la maggior severità, la minor severità, la mamma più accondiscendente,
il papà più burbero, il maestro più severo, la maestra più simile alla mamma… quello che
volete voi; ma quello era un mondo nel quale nel c’era bisogno di aprire un dibattito per
stabilire quale fosse la cosa giusta di insegnare al bambino.
Educare oggi… e verità
Il mondo in cui viviamo noi oggi, come è stato molto ben evidenziato dalla relazione che
mi ha preceduto, è un mondo che vive in un debito, cioè in una assenza quasi totale di
verità.
Il problema del mondo presente non è innanzitutto, anche se certo in parte lo è, un
problema .di carità, ma è un problema innanzitutto di verità.
E lo ha detto molto bene Benedetto XVI nell’Enciclica sociale che ha appena pubblicato, la
abbiamo letto nei mesi scorsi, la “Caritas in Veritate”.
Una Enciclica nella quale tutto il mondo si aspettava che il Papa toccasse esclusivamente
i temi sociali, cioè i temi che riguardavano quella spaventosa crisi finanziaria che tutti
abbiamo vissuto, le diseguaglianze tra il mondo ricco e il mondo povero, ecc.
In realtà l’Enciclica, già nelle primissime righe, parte da questa affermazione che è
esattamente opposta, cioè va nella direzione opposta alla direzione che il mondo ha
imboccato da un bel po’ di tempo a questa parte; e l’affermazione qual è?
Che non è possibile fare la carità se non nella verità.
Noi siamo abituati sempre a dire: “è vero anche quello, che non puoi dire la verità senza
carità”.
Cosa vuol dire che la verità non si afferma a sberle, a bastonate, che ci vuole anche
l’amore, per dire anche una cosa vera e scomoda magari a qualcuno?
Ma nell’Enciclica si dice una cosa anch’essa vera e rovesciata: non puoi fare la carità se
non nella verità; cioè tu non puoi veramente amare se non dentro in una verità.
E il Papa aggiunge: quando la carità, l’amore è spogliato, è svuotato della verità, diventa
preda del sentimentalismo.
Questa diagnosi abbraccia tutta la povertà delle relazioni umane che vanno in crisi nel
mondo presente a cominciare da quelle affettive della coppia.
Quando l’amore non è più illuminato dalla verità, non si fonda sulla verità, diventa
vittima del sentimentalismo e quindi, dice il Papa, è esposto a tutti i colpi di vento, a
tutte le mutevoli sensazioni che i sentimenti umani determinano.
Allora, - prima di aprire la discussione -, per entrare un po’ nel vivo del tema educativo,
abbiamo detto: l’educazione è una sfida, questa sfida significa difficoltà, questa sfida è
stata raccolta dai nostri antenati per secoli, che hanno fatto anche loro fatica, ma hanno
fatto una fatica diversa, certamente inferiore (e questo mi sento di poterlo dire), perché
oggi il mondo è un mondo che sostiene la impossibilità di educare.
Perché sostiene l’impossibilità di educare?
Anche se non la dice esattamente così, perché il mondo tendenzialmente nega la verità.
Se tu come educatore dici: “E ma io a questi ragazzi devo insegnare che cos’è la
giustizia! (abbiamo sentito una bellissima definizione di giustizia presa dal catechismo
della Chiesa cattolica; riporta ora questa definizione dalla Summa Teologia, da Tommaso
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D’Aquino: la giustizia è “la costante volontà di rendere a ciascuno il suo e di rendere a
Dio ciò che gli spetta”.
Per poter educare bisogna mettersi alla sequela della verità, cioè bisogna avere qualcosa
da dire con convinzione.
Se noi siano vittime del relativismo, siamo impossibilitati a educare; cioè se uno non
dice: “Questo è vero, questo è falso!”, non può educare.
Non è perché è cattivo; anzi, magari lui vuole educare, lui dice che è un educatore.
In fondo tutti gli uomini interpellati su: “E’ meglio educare o è meglio non educare, figli,
bambini, ragazzi?”, tutti risponderanno: “E’ meglio educare!”.
Ma il problema è: educare per insegnare, per comunicare, per trasmettere che cosa?
Per trasmettere che ogni opinione si equivale all’altra? Per trasmettere che ogni stile di
vita equivale a qualunque stile di vita? Per trasmettere l’idea che “beh!, lui la pensa così,
l’altro la pensa in un altro modo”? Che la vita è un grande Maurizio-Costanzo-Show: ci si
siede, si dicono due o tre cosette, ognuno dice la sua e poi, spente le luci, la sintesi è
“ognuno la pensa come vuole”?
Ma questo non ha senso perché c’è una verità, ed è proprio in assenza di questa verità
che ognuno fa ciò che vuole.
E’ questa la sfida per l’educatore: vivere in prima persona “cos’è la verità” (e la gente
deve capirlo dal modo in cui vivo), altrimenti non si educa, ma ci si limita ad addestrare.
Educare è introdurre nella realtà totale, non nel relativismo: tutti si reputano in grado di
aiutare, senza proporre nulla di concreto, perché si dice: “Io non possiedo la verità, la
verità non esiste”.
No, la verità esiste!
La verità è avere il coraggio di prendersi del tempo da dedicare ai figli: non basta la
delega alla scuola, alle catechiste, alle società sportive: i cardini dell’educazione sono i
genitori.
(qui, purtroppo, per un guasto tecnico, si è interrotta la registrazione. Il dr. Mario
Palmaro continua, rileggendo la storia di Pinocchio alla luce delle problematiche educative
appena espresse.
Riportiamo di seguito una “sintesi estrema” del suo pensiero.
Coloro che fossero interessati ad approfondire questa interessantissima tematica possono
leggere il libro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro: IPOTESI SU PINOCCHIO – Ed.
Ancora , 2005; costo € 8,00)
Prendiamo ad esempio la storia di Pinocchio: ci sono alcuni insegnamenti.
1. La storia non significa solo: “se fai il bravo ti va tutto bene”, o “se non studi… ti va
male”, ma ha anche un significato più profondo: Pinocchio incontro l’ “uomo”
(ricordate quando dicevo che l’uomo rimane sempre lo stesso…): anche se fai il
bene… ti può andare male.
2. Pinocchio è fatto da un altro, non si è fatto da solo (questo è importante per un
educatore: il rapporto con il Creatore, con chi ci ha fatti).
3. C’è poi il tema della libertà: Pinocchio pensa di essere “libero” di fare ciò che
vuole, ma la libertà è la libera adesione al bene, non quando ci fa comodo, ma
sempre.
4. Pinocchio è sempre convinto di fare il bene, parte con delle buone intenzioni; in
ogni bambino c’è un seme di bene, ma se lo lasciamo alla libera determinazione
non cresce bene, come è capitato a Pinocchio.
Senza questo rapporto con i genitori, si arriva alla barbarie, che è l’interruzione
dell’educazione da una generazione alla successiva.
E’ da questa interruzione che nasce la crisi educativa: la gente “non è educata” (pagar le
tasse, non passar col rosso, divieti vari…); ma dobbiamo essere certi che alla fine ci sarà
un conto salato da pagare: ci verrà ridato quello che abbiamo fatto con gli interessi
(come trattiamo gli anziani, i bambini, gli emarginati, chi ha bisogno,…).
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E’ quindi necessario iniziare da subito ad educare, perché il tempo passa in fretta; non ha
senso dire “è ancora piccolo, poi vedremo… quando sarà più grandicello…”: il bambino ha
una sua vita morale: si educa da subito.
Come?
Chiediamoci: come farebbe Gesù al mio posto?
Il mondo lavora contro l’educazione dei nostri ragazzi; dipende da noi, di fronte a questo
assedio, non arrenderci ed adeguarci, ma reagire con le proprie convinzioni.
L’uomo ha dentro un “seme” e noi dobbiamo sfamarlo, non con un cibo avariato (il
peccato si presenta come un bene, ma è avariato).
La sfida educativa è possibile: è faticosa, passa attraverso le sconfitte e vittorie parziali.
Ma così facendo diamo un senso a ciò che facciamo.
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Venerdì 23 aprile 2010:
La responsabilità educativa: L’oratorio: quale progetto educativo?
Presentazione: Mattia Ramella.
Nella scorsa serata abbiamo individuato quelle che sono le coordinate fondamentali
(vocazione, missione, libertà, responsabilità) per raccogliere la sfida educativa, perché di
sfida si tratta.
A partire da questi fondamenti, da questi valori, che sono strettamente legati, incarnati
nella verità della nostra fede, questa sera possiamo scendere nel concreto dei luoghi
educativi all’interno dei quali trasmettere, potremmo dire giocare questi valori; uso la
parola giocare perché questa sera incominceremo proprio dall’Oratorio che è l’ambito, il
luogo per eccellenza del gioco, ma non solo, come ci dirà stasera Alessandro Bernasconi:
ci aiuterà proprio lui, che è il Direttorio dell’Oratorio, socio della cooperativa “Aquila &
Priscilla” che si occupa della formazione diocesana, quindi a livello della diocesi, dei laici a
servizio delle parrocchie e in particolare degli oratori.
E’ insegnante di religione cattolica; sta perfezionando i suoi studi in Scienze Religiose
presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e sta completando altri studi in
Scienze della Formazione ed Educazione presso l’Università Cattolica di Milano.
Lascio la parola a lui che ci guiderà a rispondere nel concreto alla domanda: “l’Oratorio:
quale progetto educativo”.
Testimonianza: Alessandro Bernasconi
Buona sera a tutti.
Progetto educativo in oratorio.
Parto da questa frase che può far emergere delle domande, perché in oratorio appunto
c’è questa dimensione del gioco che è fortissima, dell’animazione, dello stare insieme, del
divertirsi e spesso volentieri, però, si tralasciano alcuni aspetti, oppure non proprio si
tralasciano ma non si conoscono davvero bene: il progetto educativo è qualcosa che c’è,
ma poi andando in concreto e dire cos’è, come lo facciamo come lo scriviamo… tante
volte non si sa assolutamente nulla di questo.
Penso che questa serata ci possa offrire una possibilità di capire qualcosa in più.
“Aspettare è già tradire; indugiare è già lasciar morire, calcolare troppo è non
impegnarsi, rimandare è sciupare inesorabilmente. Occorre perdersi e trasferirsi in loro:
per educare occorre non solo condividere, ma soprattutto convivere. Non giudicare ma
voler bene, donarsi per salvare ed essere salvati”
Non so di chi sia questa frase, ma penso sia un po’ il riassunto di cosa sia l’educazione, di
quello che è educare in oratorio; di questo tante volte avere paura di fare il passo in
avanti oppure di farlo troppo in fretta; a volta non sapere quale posizione prendere; a
volte non sappiamo interpretare i bisogni dei ragazzi (e l’oratorio come agenzia educativa
si inserisce in questa difficoltà); in questa frase, secondo me, c’è tutto quello che può
essere l’oratorio, che può essere l’educazione.
Mi soffermo in modo particolare su quello che si dice alla fine della frase, il “donarsi per
salvare”; perchè alla fine io mi dono agli altri imitando chi per primo lo ha fatto, Gesù,
ma con questa differenza: io non posso donarmi agli altri se non sono io il primo che ha
questo bisogno di essere salvato.
Se io riconosco di avere questo bisogno enorme, faccio esperienza di questo essere
salvato e allora posso anch’io salvare, posso anch’io aiutare gli altri.
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Scendiamo già nel concreto: cos’è il progetto educativo?
Penso che poter rispondere credo sia davvero importante capire subito le due parole
chiave che conducono il nostro incontro di stasera e che un qualsiasi documento
dovrebbe contenere al termine di un percorso.
“Progetto” si può trovare applicato in due aree ben distinte: quella tecnico scientifica,
secondo la quale con questa espressione si indica l’ideazione di un lavoro, di una attività
realizzabile, comprensiva di calcoli e disegni; nell’ambito pedagogico invece la parola
vuole indicare un insieme di obiettivi e metodi capaci di suscitare un cammino di maturità
umana - nel nostro caso anche cristiana - ed è un po’ la promessa di un cammino, di una
realtà che deve darsi ancora
Anch’io, tante volte, sono un tipo molto organizzativo, molto pratico: quindi capita,
quando spiego ai ragazzi il discorso del progettare, del mettersi intorno ad un tavolo per
capire che cosa fare, che tante volte tralascio l’aspetto pedagogico e sto sull’aspetto
scientifico; per dir loro che è davvero importante mettersi attorno a un tavolo e stabilire
quali sono i criteri per camminare, quali sono i passi da fare mi limito a dire di prendere
carte a penna e scrivere: facciamo questo, facciamo quello, perché se no restano parole
al vento, restano dei bellissimi sogni, ma poi bisogna anche concretizzarli.
L’altro termine, “educativo”, vuole esplicare l’orientamento del progetto stesso.
Sarà, “deve” essere un progetto capace di rispondere alla finalità primaria dell’oratorio:
essere e diventare un luogo educativo, cioè un luogo dove al centro delle attenzioni c’è la
crescita umana e cristiana di ogni singolo ragazzo, di ogni singola ragazza, favorendo con
proposte concrete, ben strutturate e progressive il cammino di fede di ciascuno.
Questo è il progetto educativo.
Sembra una cosa abbastanza complessa, ma poi concretamente… è anche complesso
farlo, effettivamente!
Per costruirlo ci vuole tempo, ci vuole davvero la capacità di ognuno a mettersi lì con
calma, a pensare; e penso che incominciare con un incontro così sia un passo in avanti
per fare un po’ di luce tra qualche nebbia, tra qualche tenebra che ci spaventa un po’.
Una premessa iniziale: partiamo sempre dalla parola di Dio, che è quella che ci può
guidare, che è quella che ci dà una mano in queste situazioni
Questa è frase della lettera di San Paolo ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo e non
sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede
del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”.
Ecco, la frase che ho sottolineato è il centro di questo progetto educativo; è quello che ho
detto anche prima: mi ha amato lui, quindi io possa amare gli altri; ha dato lui stesso per
me, quindi io posso dare me stesso agli altri
L’oratorio non si identifica con un luogo fisico, anche se c’è il campo da calcio, ci sono le
aule di catechismo, ecc. ecc., ma nemmeno con una lista di persone, quelli più bravi,
quelli che vanno in oratorio ed allora sono veramente in gamba.
No, non è così!
L’oratorio fa la sua scelta di educare: è da qui che si riconosce l’oratorio, è da qui che si
identifica; perché se poi in oratorio si fa tanto, ma poi non si educa, allora finisce tutto il
discorso. Questa scelta diviene espressione di quella pastorale pedagogica che è proprio
intrinseca nell’oratorio e nella parrocchia.
E’ la comunità cristiana che si scopre responsabile della comunità che cresce.
Come anch’io a mia volta ho ricevuto qualcosa, ho fatto un cammino, così adesso lo dono
agli altri.
Una cosa che ripeto spessissimo ai ragazzi di quinta superiore, primo anno di università,
che cominciano a dire: “Beh! adesso sono grande, ho anche altri impegni; e poi in
oratorio arrivano gli altri”.
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Sì, però, se tutti avessero ragionato come te, questi altri non sarebbero mai arrivati. Tu
sei arrivato fin qui, perché qualcuno c’è stato davanti a te: ecco che adesso tocca a te
esserci; essere ed esserci: tutte e due le cose!
L’oratorio è l’attenzione della chiesa locale per la formazione dei ragazzi e dei giovani in
modo da offrire loro l’inizio e lo svolgimento dell’esperienza di comunità cristiana.
In oratorio viene ricondotta ad unità la missione della chiesa di offrire al mondo giovanile
uno spazio in cui sperimentare la vita fraterna.
L’oratorio mediante la sua azione educativa tende alla formazione globale della persona,
all’interno della fede e della vita.
Vuole condurre i giovani a diventare uomini e donne, veri uomini e vere donne secondo
lo spirito di Gesù.
Per questo le proposte dell’oratorio hanno a cuore la libertà e il corpo, le emozioni e la
ragione, gli affetti e le fedeltà, i dubbi e le certezze, il coraggio e le paure, le offese e la
generosità, la coscienza personale e le relazioni sociali, i rapporti con le cose, con se
stessi e con Dio, l’ascolto delle voci e della voce.
Tutto ciò si compie alla scuola del Vangelo, e qui sta un po’ la maturità umana e
cristiana, imitando Cristo, che come diceva la frase di San Paolo “mi ha amato e ha dato
se stesso per me”.
Un’ulteriore precisazione che è doverosa: non è un progetto educativo di una comunità,
di una cooperativa, di un gruppo di persone che hanno deciso di mettersi insieme per
combinare qualcosa, ma è il progetto educativo dell’oratorio: questo è importante!
Ho preso due frasi del cardinal Martini che dicono molto bene questa realtà e, tra l’altro,
la prima è anche nel Sinodo 47° che è il documento ufficiale della diocesi.
Il cardinal Martini dice: “L’oratorio è una comunità che educa all’integrazione fede-vita,
grazie al servizio di una comunità di educatori, in comunione di responsabilità e di
collaborazione con tutti gli adulti”.
Responsabilità e collaborazione, che è il contrario di scaricabarile ed egoismo e “faccio
tutto io”.
“Il metodo dell’oratorio, o il suo stile, è quello dell’animazione che consiste nel chiamare i
ragazzi a partecipare a proposte educative che partono dai loro interessi e dai loro
bisogni.
L’oratorio è strumento educativo della parrocchia e luogo della missione per i ragazzi, gli
adolescenti, i giovani”.
Questo è da tenere assolutamente presente, perché davvero altrimenti rischiamo di
metterci a fare un progetto che tiene conto di un milione di cose, ma non dell’aspetto
fondamentale che è invece educare.
Io mi sono trovato nei mesi scorsi a cominciare a preparare determinate attività, tra cui
la montagna dopo l’oratorio estivo e ci sono sempre tante preoccupazioni: quello di
organizzare bene, quello di stare anche nei costi, perché anche questa è una realtà con
cui fare i conti; ma tutto questo si declina a partire dalla preoccupazione educativa: se io
soddisfo quel criterio, allora posso fare tutto il resto; non è che prima penso alla
organizzazione e poi ci metto dentro l’educazione.
L’oratorio è esattamente questo.
Perché fare un progetto educativo, quali sono le finalità?
Fondamentalmente le finalità vogliono essere:
- la chiarificazione delle mete da raggiungere,
- l’identificazione delle diverse realtà operanti,
- il raggiungimento di una certa oggettività del cammino,
- la possibilità di eventuali verifiche e modifiche alla luce delle situazione che si
potranno venire a creare.
Questo vuol dire che non possiamo “vivere” continuando a fare incontri, cioè non
possiamo continuare a fare una riunione ogni mese per programmare: occorre
programmare con uno sguardo un po’ lungo sul futuro; e nel contempo non possiamo
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nemmeno prendere un progetto educativo e dire “va bene, di vediamo fra dieci anni,
siamo tutti contenti e facciamo quello che c’è scritto li”; ci vuole e l’una e l’altra cosa.
Allora io mi chiarisco le mete, gli obiettivi, voglio che i ragazzi facciano un’esperienza di
chiesa, voglio che i ragazzi facciano un’esperienza che li faccia maturare, che possa farli
crescere; e questa esperienza la possono fare solo se io, che devo comunicargliela, ho
ben chiaro come portarli a vivere quell’esperienza.
Allora, appunto, preparo quel progetto educativo, che però devo essere cosciente del
fatto che sarà soggetto a tutte le modifiche: non è il progettino che io scrivo, preparo e
poi accantono, perché l’ho fatto e sono stato bravo.
La stesura del progetto educativo dovrebbe portare a una maggiore corresponsabilità tra
le persone che vivono e fanno l’oratorio, e dare un punto di riferimento, anche quando
inizia a mancare la figura del sacerdote, del prete.
Questo è un altro degli aspetti molto importanti: stiamo vivendo in un contesto sociale, in
cui le vocazioni sacerdotali stanno calando, ed effettivamente in tanti oratori, ormai, il
coadiutore non c’è più; la presenza della mia cooperativa “Aquila & Priscilla” è la
manifestazione reale di questa esigenza.
E il progetto educativo cosa fa in questo caso?
Garantisce una continuità, garantisce una possibilità che quello che è stato fatto prima
non vada perso con quello che arriva dopo; l’obiettivo è indicato, abbiamo scritto quali
sono i punti da rispettare: che poi sia il “soggetto uno” o il “soggetto due” che li
concretizza con tutte le sue capacità, con tutte le sue diversità, questo non è importante.
L’importante è però che questo è il cammino che abbiamo deciso di fare insieme.
Ecco perchè insieme al progetto educativo di norma si consiglia sempre di creare anche
un consiglio di oratorio, cioè un gruppo di persone, all’interno del quale ci sono
rappresentanti del gruppo famiglie, dell’associazione genitori, degli animatori, degli
educatori, della realtà del bar, se esiste, per poter stendere il progetto educativo e poter
fare una verifica.
Cambia il coadiutore, cambia il direttore laico, non c’è più il coadiutore e quindi c’è un
periodo di interregno, in cui bisogna necessariamente andare avanti da soli… ecco in
questa fase il progetto educativo garantisce un percorso, garantisce delle tappe fisse che
ci siamo prefissati e che possiamo tranquillamente svolgere senza che ci sia particolare
personaggio che ci coordini e ci diriga.
Due parole per dire come si può iniziare questo progetto.
La prima è corresponsabilità.
La missione ha bisogno di corresponsabilità e ne ha bisogno anche la comunione per non
restare un velleitario riferimento.
Corresponsabilità è parola che può sintetizzare la struttura ecclesiale di concilio, il suo
spirito, la sua fiducia nel dono di ciascuno: è una delle più importante conseguenze che
scaturiscono dal pensare la chiesa come popolo di Dio
Corresponsabilità vuol dire davvero che, se prima la stragrande maggioranza delle
decisioni, delle scelte veniva presa da una, due tre persone non di più, adesso si tratta di
mettersi in gioco.
Questa è una difficoltà che c’è da entrambe le parti; da chi prima prendeva le decisioni e
da chi “voleva prenderle”; tante volte si sente dire: “tanto decidono sempre loro”; però,
quando poi siamo chiamati in causa noi, facciamo fatica a fare il passo in avanti e dire:
“va bene! mi prendo io la responsabilità di questa cosa: la inizio e la porto alla fine”.
Corresponsabilità è questo: è mettersi lì e dire: “io ho queste capacità, ho questi talenti per dirla evangelicamente - e li metto a frutto per la comunità”.
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Faccio un elenco di nove definizione della corresponsabilità, che è
-
avere stima di tutte le vocazioni
rispondere insieme di scelte ed iniziative
avere rispetto dell’altro e dei ruoli
necessità di competenza e di competente
dar credito al parere dell’altro
credere al valore delle differenze
necessità di tenere insieme idee e persone
ascolto e dialogo
avere una visione globale di chiesa
Questo è un aspetto essenziale del progetto educativo; monsignor Brambilla così
definisce la corresponsabilità: “Corresponsabile è colui che non solo dà una mano, ma ha
un sogno comune; costruisce un progetto insieme, condivide una passione (quella
educativa), si prende la responsabilità in proprio, arrischia la propria autonomia nella
profezia del mondo”.
Questa è la corresponsabilità, che è una delle cose più difficili del mondo.
Un esempio: l’anno scorso nell’oratorio abbiamo fatto un corso di formazione per gli
animatori e, come scommessa, al primo incontro avevamo invitato anche i genitori. Sono
arrivati gli educatori della cooperativa ed hanno dato delle indicazioni precise sul come
essere corresponsabili, sul come non coltivare i propri orticelli privati nell’oratorio, sul
non desiderare di essere qualcosa in oratorio, ma di dare e basta.
La cosa più interessante è che questi genitori sono usciti dall’incontro dicendo: Mah!
quasi quasi settimana prossima ci veniamo ancora, perché, tutto sommato, queste cose
non è che le sappiamo fare così bene”.
Qualcuno invece, con molta franchezza, è venuto lì e mi ha detto: “No, no: io sono il
capo del bar ed i turni li faccio io e gli altri non devono dirmi nulla”.
Ecco, la corresponsabilità la si prova proprio nelle cose più pratiche del mondo; l’oratorio
si concretizza poi in queste cose.
La seconda parola: Vangelo
Perchè il Vangelo dovrebbe essere presente nella nostra vita 24 ore su 24.
Nel mio oratorio c’è un orologio che ha, sotto e sopra, una scritta: “A tempo pieno per
Gesù”.
E a tempo pieno anche la nostra vita deve avere il Vangelo come base.
Nella stesura del progetto educativo dell’oratorio, ogni parte dovrà avere alla base il
Vangelo di Gesù: è il metro di giudizio di ogni cristiano, è il punto di riferimento per
valutare ogni proposta, è il punto di partenza e quello di arrivo per ogni nostro pensiero,
per ogni nostra parola e per ogni nostra azione.
Quando si incontrano delle difficoltà, quando ci sono delle decisioni importati da
prendere, aprire il Vangelo e farsi guidare un po’ da quello che Gesù ci ha detto è da
cristiani, è proprio la nostra specifica condizione.
Quest’anno con il gruppo dei giovani ho fatto il percorso proprio sulla parola di Dio e in
uno dei primi incontri abbiamo paragonato la Bibbia al cellulare: c’è il menù e poi, molto
ironicamente, ho detto che ci sono gli sms che ci manda Gesù, perché, quando sei
preoccupato, lui ti manda un sms: “non temere: io sono con voi tutti i giorni fino alla fine
del mondo”; ed i ragazzi, simpatici, hanno detto: proviamo!
La volta dopo arriva una ragazza e mi dice: “Ho provato, perché io comincio ad essere
stanca; non è che posso passare tutte le domenica in oratorio, e poi il giovedì per
preparare, il sabato per fare i cartelloni, la domenica con i bambini, il lunedì il
catechismo. Secondo me devo prendermi qualche mese di pausa, di riflessione. Ho
aperto il Vangelo ed è venuta fuori la pagina in cui mi dice che “lasciate che i bambini
vengano a me”. Una risposta chiara e precisa..”
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Qui forse c’è stata una grande fortuna; in altre situazione è un po’ più complesso, però è
vero che il Vangelo ci deve aiutare.
Tante volte noi prendiamo delle scelte, specialmente i giovani che fanno tante scelte così
lanciati dal momento; e dicono: “Ma Gesù cosa c’entra con la mia vita? In questo
specifico momento, perché devo star li a chiedere a lui cosa vuole da me?”.
E invece è questa la cosa più importante.
E scrivere un progetto educativo senza tenere a base il Vangelo diventa qualcosa di
impossibile; per ogni punto del progetto educativo dovremmo potere andare a vedere
che cosa ci dice il Vangelo.
IL Sinodo 47° dice così: “L’annuncio del Vangelo ai ragazzi, adolescenti e giovani nella
loro concreta situazione costituisce la preoccupazione primaria della pastorale giovanile”.
Quindi queste due parole, corresponsabilità e vangelo, sono la base che ci devono
guidare in questa stesura.
Cosa bisogna mettere in un progetto educativo.
Una introduzione: cos’è il progetto educativo, perché lo si vuole redigere (perché ci deve
esser un motivo: nell’oratorio in cui ero prima,con il consiglio dell’oratorio avevano deciso
di fare il progetto educativo. Perché? Perché ce l’hanno tutti! L’abbiamo fatto, l’abbiamo
stampato, bello, carino; l’abbiamo chiuso, e del progetto educativo nessuno sa più nulla).
Ora, se indichiamo nel progetto educativo il desiderio di farlo, qualcosa porterà! Però se
dobbiamo farlo, così tanto per farlo, perché è bello fare un progetto educativo… allora no!
Una fotografia del proprio oratorio
Gli ambiti e la struttura, ma soprattutto le luce e le ombre del proprio oratorio: c’è il
buono e il cattivo e per fortuna Gesù fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.
Quindi dobbiamo vedere quello che c’è di bello - e che quindi va mantenuto, va portato a
compimento e speriamo diventi ancora più bello -, ma ci sono sicuramente delle ombre,
c’è di sicuro qualcosa che non funziona, perché se fosse tutto perfetto sarebbe un
disastro; allora, con molta onestà, con molta sincerità si dice: questo non va bene, non
siamo troppo missionari, oppure facciamo fatica ad esprime la nostra carità; perfetto!
cerchiamo delle attività, cerchiamo qualcosa che possa permettere al nostro modo di
essere oratorio di essere davvero al cento per cento oratorio.
Poi, le finalità, il metodo e lo stile educativo, la durata e la revisione del progetto.
Le finalità le abbiamo viste; poi il metodo e lo stile educativo, cioè come vogliamo che
siano questi educatori, quelli che stanno dentro l’oratorio, quelli che lo fanno: quali
caratteristiche devono avere, la formazione con cui vogliamo prepararli.
La durata e la revisione: quello che dicevo prima. Non lo facciamo per poi metterlo da
parte; ma lo facciamo e poi andiamo pian piano a capire se andava bene e, se non
andava bene, dove possiamo ritoccarlo.
Poi le figure educative e quindi i ruoli: i religiosi, i catechisti, gli educatori, gli animatori,
gli adulti, il gruppo famiglie, gli allenatori.
Non ho messo appositamente il parroco e il direttore dell’oratorio: il parroco perché in
ogni comunità, per grazia ricevuta, c’è ancora; e il direttore dell’oratorio, che può essere
il coadiutore o - come il Sinodo 47° prevede nel caso in cui non ci sia un sacerdote - può
essere anche un laico.
Per queste due figure, per esperienza personale, se il direttore dell’oratorio non è un
prete, è utile precisare molto bene chi è e cosa deve fare, perché altrimenti la
corresponsabilità diventa un “ma lui cosa c’entra, ma perché deve sempre fare lui”
piuttosto che un “facciamolo insieme, decidiamo tutti insieme”; e poi, invece di decidere
delle cose educative, si impiega un consiglio dell’oratorio intero per stabilire quanto deve
essere la spesa per quella roba lì o per quell’altra.
Allora ruoli ben definiti; il progetto educativo è fondamentale per questo.
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La collaborazione tra agenzie educative e non solo.
Non è che l’oratorio è lì, è chiuso in quelle quattro mura e stop: l’oratorio deve preparare
quei bambini, quegli adolescenti a diventare cittadini del mondo.
L’oratorio estivo di due anni fa aveva proprio quel tema: non soltanto entrare in oratorio,
ma dall’oratorio uscire ed andare da tutte le altre persone ad annunciare il Vangelo o
comunque a vivere la vita da cristiani.
Giovanni Paolo II diceva: ”Un cristiano non può vivere la sua vita in modo mediocre e la
sua religiosità in modo superficiale, perché altrimenti butterebbe via il dono del battesimo
che ha ricevuto”.
Bisogna vivere al cento per cento.
E per vivere in questo modo, non possiamo vedere soltanto l’oratorio, ma anche la
famiglia, la scuola, gli ambiti sportivi esterni all’oratorio e le eventuali agenzie educative
presenti sul territorio, il consiglio dell’oratorio ed il consiglio pastorale parrocchiale.
Sul consiglio dell’oratorio è necessario essere precisi molto bene, perché è un’altra di
quelle realtà che non si conoscono, che non sono presenti in tutti gli oratori e che poi si
rischia di fare così tanto perché… lo dice il Sinodo 47° ed allora facciamolo.
E’ importante capire cosa deve fare, cosa non deve fare; perché spesso si passa sempre
a organizzare, controllare i conti dell’oratorio, “siamo in attivo, siamo in passivo, ma la
gita la facciamo là, ma tu porti anche la prima, no facciamo solo la seconda, no quelli…”,
ma stiamo educando o questo aspetto lo vediamo tra una decina d’anni?
Prima di tutto l’educazione, poi il resto lo vediamo con calma.
I destinatari: i bambini, i preadolescenti, gli adolescenti, i giovani e per ognuno di essi le
attività collegate, la catechesi, la formazione, lo sport, l’animazione e tante altre diverse
attività: doposcuola, corso di teatro e cose del genere.
Ecco quando si parla di attività e molto importante che si dica con chiarezza cosa si vuole
fare: ad esempio, il catechismo adesso sta cambiando e fra qualche anno tutte le
parrocchie avranno una modalità diversa di fare il catechismo dell’iniziazione cristiana;
quindi occorre precisare bene cosa si vuole fare, il cammino che si vuole percorrere.
Cosa vuol dire per noi educare, per esempio, i preadolescenti, seconda e terza media,
che sono una delle fasce più belle e più difficili però; occorre precisare chiaramente tutte
le indicazioni: vogliamo fare questo cammino, vogliamo che questi ragazzi incontrino
Gesù, però, magari, non nel libro del catechismo, ma nell’esperienza propria della vita;
ora vogliamo che ci siano dei catechisti formati in questo modo, dei ragazzi che hanno
fatto l’esperienza dell’incontro con Gesù.
Poi ci sono gli adolescenti e qui c’è un cambio completo, perché è un’altra fascia di età
dove ci sono dei cambiamenti esterni ed interni misteriosi: ed allora è necessario un
progetto specifico per loro, perché devono esserci in oratorio, perché è per loro l’oratorio.
Tante volte, almeno io la penso così, se io devo scegliere se fare un’animazione specifica
per i bambini delle elementari o per gli adolescenti, io preferisco farla per gli adolescenti,
pensando che i bambini avranno ancora qualche anno, ma gli adolescenti non si può
rischiare di perderli, perché l’oratorio è il luogo ove possono davvero crescere. Allora un
capitolo tutto per loro, con questa preoccupazione: non devono essere parole scritte e
basta, ma qualcosa che diventa davvero concreto.
E poi i giovani: qui è il contrario degli adolescenti; non dobbiamo operare con la
preoccupazione di tenerli lì, legati alla famiglia, all’oratorio, alla chiesa, ma con la
possibilità di andare, di aprirsi, di portare, di conoscere anche gli altri.
Anche qui l’evoluzione che sta facendo l’oratorio è quello di creare i centri giovanili nei
decanati, proprio per dire questo: giovani, non state nel vostro oratorio lì belli chiusi,
contenti e felici, ma vedete altre esperienze, conoscete il resto del mondo; il centro
giovanile ha questo obiettivo.
In conclusione dell’incontro voglio darvi uno spunto.
Il punto di partenza potrebbe essere quello di preparare delle schede operative, vere e
proprie schede con le quali coinvolgere le tante e diverse realtà dell’oratorio, per
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permettere a ciascuno di dire la sua ed ottenere, a percorso compiuto, un progetto che
sia davvero di tutti.
Il progetto educativo è l’espressione della volontà dell’oratorio di mettersi al servizio
dell’educazione dei ragazzi e dei giovani. Tutta la comunità educata ed educante è
interpellata ascoltando, promuovendo e scrivendo parte di un progetto che non è scritto
una volte per tutte, vistato ad imperitura memoria, ma è uno strumento agile, in
continuo assestamento.
Questo è il progetto educativo.
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Venerdì 4 giugno 2010:
La responsabilità educativa: lo sport solo gioco?
Testimonianza: Domenico Serino
Laureato in Pedagogia all’Università di Roma La Sapienza, ha insegnato per 38 anni
presso le Scuole Medie Inferiori e presso l’Istituto Tecnico Perito Aziendale; ha insegnato
lettere.
Trent’anni fa inizia la sua collaborazione con il C.S.I., Centro Sportivo Italiano, attraverso
la progettazione e la realizzazione di corsi di formazione sportiva, in particolare di grandi
giochi nelle scuole elementari e medie che tuttora svolge; da più di 10 anni è
Responsabile della formazione ed organizza corsi per gli allenatori, gli arbitri, gli
animatori ed i dirigenti sportivi.
Premessa
Sono particolarmente contento di essere qui tra di voi, perché è un’occasione per me di
aumentare il numero degli amici.
Spero di non dire cose nuove ma dire delle cose condivisibili.
Lo sport è per definizione un bene educativo. Ha affiancato per generazioni la famiglia, la
scuola, la parrocchia, le società sportive, ecc. nell’impegno di formare bravi ed onesti
cittadini.
Uno sport che non abbia tra i suoi obiettivi primari la formazione dei giovani è uno sport
che tradisce la sua stessa ragione di esistere.
Nelson Mandela ha affermato che “lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Può essere
molto più efficace di un governo nello spianare le barriere razziali”.
Bellissimo concetto, ma sappiamo che la sua funzione di cambiamento dipende
direttamente da chi pratica ed usa lo sport e soprattutto da chi “lo guida”.
Lo sport attrae, affascina, incide sulla sensibilità e sulle emozioni di milioni di persone.
Riproduce la realtà della vita che è fatica, lotta, sofferenza, disperazione, gioia,
soddisfazione, successo ed insuccesso.
Lo sport è strettamente legato alle grandi problematiche in cui si dibatte la nostra
società: integrazione, prevenzione, uso intelligente del tempo libero, giustizia, onestà,
impegno civile, ecc. ecc.
Educare con lo sport però non è facile o scontato. Lo sport educa solo se ci sono le
condizioni per farlo, cioè se c’è in chi lo propone un’intenzionalità educativa, fatta di
progetti concreti e di obiettivi chiari.
In sostanza è necessario sapere a cosa lo sport deve educare.
Alla fiducia del futuro? Sicuramente.
Alla capacità di assumere responsabilità? Anche.
Al rispetto della legalità? E’ naturale.
All’accoglienza di chi comunemente viene definito “diverso”? Per forza.
Alla cooperazione e al vivere insieme secondo le regole della democrazia? Fa parte del
famoso spirito di squadra.
Per raggiungere questi obiettivi non basta mettere sulla carta bei progetti, ma occorrono
operatori-educatori motivati, pazienti, dotati di spirito di sacrificio, carismatici.
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Statistiche sulla pratica sportiva in Italia,per classe di età e sesso, dai 6 ai
24 anni (dati Istat 2006). Dati in migliaia
Voci: A = in modo continuativo B = in modo saltuario
C = praticano solo qualche attività fisica D = non praticano sport
Maschi
A
B
C
D
Femmine
A
B
06-10 anni
768
100
252
283
06-10 anni 673 65
11-14 anni
722
130
134
172
11-14 anni 515 118
15-17 anni
519
138
128
143
15-17 anni 353 112
18-19 anni
284
110
85
125
18-19 anni 142 134
20-24 anni
616
287
284
339
20-24 anni 378 225
Hanno abbandonato la pratica sportiva:
Voci: A = completamente
B = non del tutto
Maschi
A
B
Femmine
06-10 anni
29
12
06-10 anni
11-14 anni
276
137
11-14 anni
15-17 anni
282
200
15-17 anni
18-19 anni
306
213
18-19 anni
20-24 anni
482
384
20-24 anni
A
53
455
436
335
339
C
217
222
202
136
410
D
328
261
210
151
487
B
25
187
196
180
258
STATISTICHE SULLA PRATICA SPORTIVA
DAI 6 AI 20 ANNI NELLE SOCIETA’
AFFILIATE AL C.S.I. LOMBARDIA
(anno 2008-2009)
maschi
femmine
media
06-10 anni 6,25%
3,46%
4,90%
11-15 anni 12,90%
9,29%
11,55%
16-20 anni 9,44%
3,56%
6,82%
Fanno alzare la media i Comitati di Lecco,
Mantova e soprattutto Bergamo
Proverbio africano: “ se vuoi arrivare primo, corri da solo
Se vuoi andare lontano, cammina insieme”
Lo sport ti costringe a non essere mai solo, a camminare con qualcuno, a confrontarti con gli
altri.
L’urgenza educativa, ossia chi deve educare
“Mai come oggi si sente l’urgenza educativa”
La Chiesa italiana ha stabilito di dedicare i prossimi dieci anni al tema dell’educazione.
I vescovi hanno deciso in sostanza di puntare tutto sulla “sfida educativa” come priorità tra le
priorità da affrontare tra il 2010 e il 2020.
“La nostra società – ha scritto il cardinale Camillo Ruini – ha abdicato al suo compito
educativo. In nome di una sterile neutralità, ha abbandonato i giovani alla loro solitudine,
sempre più in balia della violenza e della volgarità e sempre più incapaci di venire a capo della
loro vita”.
Educare è sempre “attuale”, è un dovere a cui non ci si può sottrarre, pena la deriva della
società.
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Non spetta in assoluto allo sport formare il cittadino e il cristiano. Ma lo sport può
concorrere efficacemente alla formazione completa dell’uomo.
L’educazione è compito naturale della famiglia
(Possiamo allargare questo “privilegio” e responsabilità ai parenti più stretti, primi fra tutti i
nonni, poi alle persone che contano per i ragazzi, che sono costantemente vicine, che si
stimano, con cui si ha confidenza).
Il podio più alto, nella gara educativa, dovrebbe dunque essere occupato dalla famiglia, ma
la capacità, l’impegno e persino la voglia educativa di molti genitori si è inceppata.
La trasmissione dei valori, che avveniva da una generazione all’altra e che rappresentava
sicurezza e certezze in cui rifugiarsi nei momenti di dubbio, non esiste più. Oggi si fa fatica a
riconoscere ciò che conta da ciò che è marginale o addirittura nocivo.
C’è il rischio di far crescere una generazione di ragazzi che se sentono orfani, senza padri e
senza testimoni, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita,
annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere del mercato.
E’ urgente recuperare il ruolo della famiglia. Questa è oggi troppo sola, quasi disarmata di
fronte alle sue responsabilità educative. Va compresa ed aiutata.
La scuola e lo sport, soprattutto l’associazionismo giovanile, possono fare
moltissimo.
La medaglia d’argento nella gara educativa spetterebbe alla scuola, ma la partita dello
sport nella scuola non solo non è stata mai vinta, ma non si è riusciti neanche a giocarla; e la
delusione è grande perché, nonostante tutti i tentativi fatti nel corso degli anni, il nostro
Paese,che eccelle in molti settori, purtroppo, nella classifica della presenza dell’attività motoria
e sportiva nell’ambito scolastico, è tristemente agli ultimi posti in Europa.
Poi finalmente, medaglia di bronzo, dovrebbe venire lo sport.
Molte però sono le forze o i disturbatori che insidiano le prime tre posizioni
Facciamone un elenco e prendiamoli anche in senso positivo, perché, in teoria, tutto e tutti
potrebbero contribuire alla crescita armonia dell’individuo.
Gli amici. Inevitabili compagni di viaggio. Spesso inconsapevoli ed involontari artefici di scelte
determinanti.
La Parrocchia con i suoi preti, i suoi catechisti, i suoi educatori, animatori, allenatori, le sue
iniziative, le sue associazioni, ecc.
Le letture. I libri soprattutto e poi i giornali, le riviste (impegnate e di evasione) ecc.
Molti ritengono la “cultura” poco incisiva nella formazione dei giovani.
Alcuni filoni letterari ed alcuni scrittori raccolgono però “troppo” consenso ed ascolto, mentre
discutibile è il loro valore artistico e formativo (il riferimento a Federico Moccia viene
spontaneo).
Il cinema. Strumento culturale importantissimo per la sua immediatezza ed efficacia nel
trasmettere messaggi, storie, mode, sogni, proposte di ogni tipo. Dovrebbe avere maggiore
considerazione ed attenzione anche nelle attività integrative e nei programmi scolastici.
La televisione. Sempre più sotto accusa per le sue trasmissioni “altamente diseducative”,
disinvolte, aperte, di tendenza, ecc.
Il teatro sempre amato, ma mai adeguatamente frequentato. Capace di suscitare forti
emozioni e profonde riflessioni.
Gli spettacoli in generale.
La musica e i concerti con i loro oceanici raduni. E’ impossibile quantificare quanto la
musica, tutta la musica e soprattutto cantanti e cantautori incidono sulla formazione dei nostri
giovani. E’ praticamente impossibile seguire e controllare i messaggi che i ragazzi recepiscono
e che poi entrano concretamente nelle loro scelte di vita.
I locali. Le discoteche. I luoghi di svago.
I modi di svago.
Il computer. Il cellulare. I videogiochi.
I viaggi. Le vacanze. I soggiorni all’estero per studio e non.
Potremmo continuare a lungo l’elenco…
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Lo sport fa bene se…
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già fin dall’inizio è fatto in modo serio, equilibrato, graduale
è praticato in modo corretto, costante, gioioso, con giusta fatica, conservando il piacere
del gioco e della gioia di muoversi. Fare sport in modo corretto significa armonizzare gioco
e movimento, regole ed agonismo
è vissuto come un’attività naturale, spontanea, necessaria, in tutte le età
ha finalità ed obiettivi nobili, non di sola effimera gloria, non di squallido guadagno
per raggiungere i risultati non considera lecito ogni mezzo
ha regole chiare e qualche volta facilmente “adattabili” all’età ed alle capacità dei ragazzi.
Perché non esiste attività sportiva senza regole. Le regole sviluppano le abilità motorie,
favoriscono i rapporti e la cooperazione nel gruppo; fanno gustare di più la vittoria e
accettare senza drammi la sconfitta
non insinua un senso di inferiorità, di insicurezza, d’inadeguatezza, del “tanto non ci
riuscirò mai”, causando disistima e bisogno continuo di essere rassicurati
favorisce la progressiva autonomia
l’agonismo non è sfogo e sopraffazione, ma impegno e fatica che aiuta a migliorarsi, nel
rispetto dell’avversario e delle regole. L’eccessivo agonismo toglie, annulla ogni
divertimento, fa soffrire, fa star male
serve a migliorare la vita dei nostri ragazzi
li educa nel segno della fiducia, dell’assunzione di responsabilità
li aiuta ad orientarsi nelle scelte di studio e di lavoro
riuscisse a ridimensionare, anzi ad eliminare il tifo
Ma lo sport fa bene soprattutto se ha buoni, appassionati, preparati, carismatici
maestri.
Gli istruttori, gli allenatori, gli animatori devono:
-
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essere persone mature, equilibrate, serene, generose, pazienti, attente, sensibili
sentire una grande passione educativa
saper guardare quello che c’è di positivo in ogni ragazzo e su quello lavorare ed insistere;
non sottolineare il negativo, le debolezze, le pause, le ricadute
pensare che i giovani non sono dei contenitori da riempire con esercizi, schemi e tattiche,
ma sono persone che hanno diritto di decidere, di sbagliare, di provare a vincere e a
perdere
saper accogliere ed ascoltare
conoscere alla perfezione la loro disciplina e saperla trasmettere e farla amare
motivare, gratificare, non trasmettere ansia e stress
possedere e vivere valori forti e saper ricavare da ogni singolo ragazzo il meglio. “Sii
sempre il meglio di ciò che sei” diceva Martin Luther King
essere coscienti di quanto valgono, di quanto sono importanti gli occhi di un bambino e di
un adolescenti
“imporre” la loro autorità, ma con delicatezza di chi sa prestare attenzione ad ogni singolo
atleta
saper incoraggiare, sottolineare i progressi, apprezzare lo sforzo. Le occasioni non mancano
sia durante gli allenamenti che le gare
saper dare sempre priorità alla salute, alla sicurezza ed al benessere del ragazzo
assicurandosi che la preoccupazione per tali cose venga sempre prima di altre mete
saper organizzare l’attività in modo che questa sia per il ragazzo un’esperienza di vita
importante per il suo benessere ed equilibrio futuro
saper andare controcorrente, essere cioè disposti ad abitare i territori più aridi dello sport,
quelli più sottovalutati, ma i soli capaci di portare un messaggio di umanità
evitare di trattare i bambini ed i ragazzi come adulti in miniatura, ma essere sempre
consapevoli dei cambiamenti fisici e psichici cui vanno incontro nel loro sviluppo
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evitare di riporre sui giovani atleti aspettative esagerate e di sottoporli a pressioni
inopportune
mostrare altrettanto interesse per gli atleti più dotati e per i meno dotati.
Sono cinque, in sostanza, le azioni fondamentali che ogni allenatore-educatore (ma anche ogni
genitore e insegnante) deve applicare per aiutare i ragazzi a dare un senso alla propria vita:
accogliere, orientare, allenare, accompagnare e dare speranza.
ACCOGLIERE: sentire e far sentire la gioia di allargare il gruppo perché ogni nuovo arrivato è
ricchezza e crescita per tutti. Accogliere anche “l’avversario” e rispettarlo perché mi permette
di confrontarmi, di giocare con lui.
ORIENTARE: aiutare cioè i ragazzi a percorrere la strada “giusta” per loro, quella che darà un
senso alla loro vita. Aiutarli ad organizzare le loro energie,a progettare con i piedi per terra,
senza adagiarsi nella mediocrità.
ALLENARE: non basta però allenare il corpo, migliorare le abilità fisiche o affinare le tecniche
di gioco. E’ necessari allenare anche il desiderio, la voglia di conoscere sempre di più, la
curiosità e la meraviglia per quanto ci circonda. E’ importante allenare alla fatica, ad
apprezzare il sacrificio, il sudore, perché la vita è spesso in salita ed occorrono muscoli
scattanti, mente aperta e cuore generoso.
Occorre non scoraggiarsi per gli errori che si commettono. E’ umano sbagliare, anzi gli errori
servono a progredire, a capire, a migliorarsi, se si ha la giusta umiltà e sincerità, per
correggerli.
Bisogna allenarsi ed allenare alla pazienza, perché la tentazione di buttare tutto all’aria è
sempre in agguato, il “chi me lo fa fare” è sempre pronto ad aggredirci. L’ultimo allenamento,
assolutamente necessario, è quello alla positività o, se vogliamo esagerare, alla felicità perché
c’è Qualcuno che ci ama sempre e nonostante tutto.
ACCOMPAGNARE: essere compagni di strada. E’ bellissimo quando l’adulto può far sentire ad
un ragazzo la sua presenza; quando può dirgli “io ci sono”. Quando non si impone, ma rispetta
le scelte ed ascolta. Quando consiglia con discrezione e sa attendere. Quando partecipa, si
interessa, dà fiducia.
DARE SPERANZA: di fronte alle incertezze, ai dubbi, alle cadute, ai cattivi esempi, alle
sconfitte. Trasmettere la voglia e la forza di andare avanti, di tenere la testa alta, di rialzarsi.
Capire che è necessario affrontare le difficoltà senza presunzione ed orgoglio, senza sentirsi
deboli, fragili, umiliati nel tendere la mano e chiedere aiuto.
Allora arrendiamoci e diamo le dimissioni perché nessun maestro dello sport
possiede tutte le qualità elencate.
Sbagliato! Chi guida i ragazzi deve convincersi che ha il dovere di essere una persona
speciale. Possedere tanta umiltà da sentirsi in cammino con loro verso una meta che è più
importante di qualsiasi vittoria.
Gesù non scherzava quando affermò: “siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei
cieli”. Francamente sembra pretendere veramente troppo. Forse voleva dire semplicemente:
“provateci”. Poi sarà Lui a stabilire se e quanto ci siamo riusciti.
L’allenatore non deve sentirsi solo. Deve accettare e chiedere la collaborazione dei genitori.
Se i genitori sono “normali”, e la maggior parte lo è davvero, il coinvolgimento sarà naturale.
Molti sono convinti però che i genitori, nello sport, sono i peggiori consiglieri. Qualcuno ha
affermato che meglio sarebbe, per gli atleti, essere orfani.
L’allenatore deve prima di tutto accertarsi che è stato il ragazzo a scegliere di fare sport e di
praticare quella disciplina. Poi il trucco è coinvolgere i genitori.
Come?
Sottolineando le qualità del figlio, esaltandone le potenzialità che potrebbero avere uno
sviluppo grandissimo se… E qui deve giocare di fantasia e sbizzarrirsi a volontà. Anche se
dovesse avventurarsi in qualche bugia; sarebbero bugie innocue e dette a fin di bene.
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Una volta toccato l’orgoglio paterno o materno,si può lavorare sui difetti.
Prima quelli che riguardano il carattere, il comportamento, quegli atteggiamenti insomma che
impediscono ai ragazzi di crescere e maturare.
Poi si passa ai difetti tecnici.
Per questi ci penserà lui. Per quelli riguardanti il carattere deve poter divider la responsabilità
educativa con i genitori.
LO SPORT FA BENE ALL’INDIVIDUO, AI GENITORI ED ALLA SOCIETA’
Lo sport fa bene all’individuo perché:
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fa bene al corpo e al cervello
aiuta a superare la timidezza
controlla l’aggressività
riduce l’egoismo
costringe ad accorgersi degli altri ed a confrontarsi con i loro bisogni, i loro diritti e i loro
doveri
- fa capire l’importanza delle regole e del loro rispetto anche fuori dal campo
- fa esultare per la vittoria, per i risultati positivi, anche per quelli non strettamente sportivi
- fa accettare e valorizzare la sconfitta, anche quella non sportiva
- abitua alla fatica
- favorisce e rafforza le amicizie
- spinge ad aver sempre più cura del corpo e della mente fio a non cadere nel tranello della
droga, dello sballo, dello stordimento
- conferma l’autostima
Ognuno può legittimamente, secondo la propria esperienza, allungare l’elenco
Lo sport fa bene ai genitori perché:
-
li stimola crescere sul piano affettivo ed educativo
li impegna ad essere più presenti e interessati a quello che fanno i figli
li costringe a dare il buon esempio nelle varie forme di comportamento, da quello più
semplice fino alla coerenza morale vera e propria
potrebbe invogliarli a continuare o a riprendere la pratica sportiva
stimola la collaborazione associativa
facilita il dialogo con i figli o comunque ne aumenta le occasioni e gli argomenti
li obbliga ad avere una visione più completa e più ricca dei figli favorendone la fiducia
aiuta a ridimensionare le aspettative reciproche
li rende più capaci e disponibili a gioire insieme e perdonarsi gli errori
li allena ad accettare il crescente bisogno di autonomia dei figli e a vivere con minori ansie
l’inevitabile separazione
I ragazzi non voglio genitori amici, vogliono guide sicure.
Noi dobbiamo camminare a fianco dei nostri figli.
Non davanti per liberare il cammino dagli ostacoli o per dimostrare che siamo più aperti
moderni di loro.
Non indietro quasi a lavarci le mani, a confermare tutta le loro libertà ed indipendenza o
reclamare il nostro disappunto e la nostra incapacità ad accettare le loro scelte.
Dobbiamo camminare a fianco per riaffermare la nostra presenza costante, per dire che
siamo, pronti ad afferrare una mano che si tende (e potrebbe essere anche la nostra),
cercare aiuto e sostegno.
e
a
ci
a
Lo sport fa bene alla società perché:
-
fa crescere sani i suoi membri
è un efficacissimo mezzo di prevenzione
mette in comunicazione e sposta sul territorio migliaia e migliaia di individui
favorisce la conoscenza ed il confronto di più culture e mentalità
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-
aiuta l’integrazione sociale di disabili, immigrati ed altre minoranze
spinge alla cittadinanza attiva, al volontariato, alla tolleranza, alla convivenza pacifica, al
superamento di preconcetti, chiusure mentali, paura dell’altro
- sensibilizza verso la tutela ed il rispetto dell’ambiente
- sviluppa il turismo e l’economia
- obbliga le istituzioni a costruire nuovi impianti e mantenere i vecchi
- crea posti di lavoro
- riempie ore ed ore di trasmissioni televisive e consuma tonnellate e tonnellate di carta
- influenza pensieri ed opinioni
- educa alla bellezza ed all’armonia del gesto atletico
- offre occasioni per occupare in modo costruttivo il tempo libero
- favorisce un sano nazionalismo
Anche questo elenco può diventare lunghissimo
Ma la nostra società è sempre più malata di ipocrisia:
-
si meraviglia, si scandalizza, condanna, cerca colpevoli e responsabilità, soffre (o fa finta di
soffrire) quando i disastri,che lei stessa ha provocato e favorito, sono ormai avvenuti
sa trovare le risorse economiche per creare strutture di recupero, ma per progetti e
programmi di prevenzione non ci sono mai soldi
grida allo sfascio quando vede i propri giovani alla deriva
e intanto ridicolizza e demolisce, se non tutti, molti valori fondamentali
ignora lo sport sano, formativo, veramente alla portata di tutti
distribuisce milioni di euro allo sport ufficiale, professionistico, quello spesso becero e
violento della domenica
si affida, delega, rimanda al volontariato il compito di organizzare e seguire lo sport
cosiddetto minore o “per tutti”. E poi ne sottovaluta il servizio
Lo sport fa bene alla scuola perché:
-
-
allarga gli orizzonti conoscitivi con una disciplina che non si limita ad insegnare a correre,
saltare e lanciare
permette agli alunni, piccoli e grandi, di scaricare tensioni, ossigenare il cervello, sgranchire
i muscoli, cambiare ambiente, rapportarsi con insegnanti e compagni in modo diverso, più
informale, affrontare situazioni, posture e movimenti più naturali
favorisce la trattazione e la discussione di argomenti, apparentemente banali, ma che sono
vicini agli interessi dei ragazzi
scoraggia i fenomeni di bullismo e aiuta a dare la giusta importanza alle manifestazioni di
disagio giovanile
riassume e mette in risalto quanto di positivo abbiamo detto dello sport su individuo,
famiglia e società
Tutto questo potrà realizzarsi se:
-
-
tutte le scuole, non solo alcune del Centro Nord o dei quartieri “alti” delle grandi città,
disporranno di strutture e di attrezzature adeguate
gli insegnanti e gli istruttori potranno lavorare con gruppi omogenei e poco numerosi (non
nel caos delle pluriclassi come avviene ora nella quasi totalità degli istituti)
i Comune mettono a disposizione delle scuole, gratuitamente, le loro strutture (piscine,
campi di calcio, tennis, ecc.)
l’educazione fisica sia considerata veramente una “materia importante” e quindi con un
numero di ore adeguato (almeno cinque ore settimanali per la scuola primaria, come
suggeriscono gli psicopedagogisti e come avviene in molte nazioni europee)
gli insegnanti sono motivati, appassionati, preparati
credono nel valore educativo dello sport. Abbiano insomma le qualità che abbiamo
augurato presenti negli “alleducatori”.
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Ma qualcosa di muove.
Dopo anni di reiterati tentativi e di lunga e faticosa gestazione è nata,d a pochi mesi, una
creatura dal nome altisonante: “Alfabetizzazione motoria nella scuola primaria”.Si tratta in
realtà di una sperimentazione che dal mese di febbraio e fino a giugno 2010 coinvolgerà, su
tutto il territorio nazionale, 10.000 classi e 250.000 studenti, compresi i portatori di handicap.
Questo parto ha visto impegnati molti padri, nel senso che molti personaggi e istituzioni ne
hanno reclamata la paternità (magari per aver regalato solo “una tutina o un set di bavaglini”).
Se analizziamo il DNA dell’iniziativa, si scoprirà che tutto o quasi il merito va al Centro Sportivo
Italiano e in particolare ad alcuni appassionati pionieri del Comitato di Varese.
All’approvazione hanno contribuito: Coni, Università, ex atleti ora politici, Enti di promozione
sportiva, sociologi, psicopedagogisti, ecc.
L’obiettivo dichiarato è quello di insegnare la cultura del gioco e delle sue regole, il fair play e il
corretto stile di vita, l’alimentazione e la cura del proprio corpo.
Progetto ambizioso che tra il 2010 e il 2013 sarà esteso a tutte le classi e a tutte le scuole
d’Italia.
Intanto mille esperti esterni, laureati in Scienze motorie, affiancheranno gli insegnanti
elementari per due ore alla settimana. Si inseriranno nel processo culturale, formativo ed
educativo della scuola e perseguiranno anche obiettivi sottovalutati o ritenuti secondari come:
prevenire danni provocati dalla sedentarietà infantile (in primo luogo l’obesità), favorire lo
spirito di gruppo, la collaborazione, il rispetto, la capacità di sacrificarsi, di impegnarsi in ogni
attività, di non arrendersi alle prime difficoltà.
Pura utopia?
Intanto apprezziamo lo sforzo, valorizziamolo con ogni forma di collaborazione e teniamo gli
occhi aperti perché non abbia vita breve e morte ingloriosa.
Anche la Chiesa crede nel valore e nella grande responsabilità educativa dello sport.
Quando l’uomo organizza lo sport per il guadagno, tende allo spettacolo.
Quando in funzione dei trofei, mira alla vittoria.
Quando in funzione educativa, pensa alla persona.
Ed è proprio la persona sempre al centro degli interventi sullo sport della Chiesa.
Non esistono encicliche specifiche, ma una ricchissima serie di interventi e discorsi pronunciati
da vari Pontefici in occasione di avvenimenti sportivi particolarmente significativi.
Citiamo, a titolo esemplificativo, quelli fatti dai Pontefici Pio XII e Giovanni Paolo II, senza
sottovalutare gli altri Papi e lo stesso Benedetto XVI.
Sentite cosa si aspettava, Giovanni Paolo II, dallo sport:
“Se vissuto con fraternità lo sport può recare un valido e fecondo apporto alla pacifica
coesistenza di tutti i popoli, al di là e al di sopra di ogni discriminazione di razza, di lingua e di
nazione”.
“Lo sport risponda, senza snaturarsi, alle esigenze dei nostri tempi: uno sport che tuteli i
deboli e non escluda nessuno; che liberi i giovani dalle insidie dell’apatia e dell’indifferenza e
susciti in loto un sano agonismo; uno sport che sia fattore di emancipazione dei Paesi più
poveri ed aiuto a cancellare l’intolleranza e a costruire un mondo più fraterno e solidale; uno
sport che contribuisca a far amare la vita, educhi al sacrificio, al rispetto ed alla responsabilità,
portando alla piena valorizzazione di ogni persona umana”.
Lo sport ha come finalità oggettiva di essere “al servizio di tutto l’uomo” (Pio XII), di rispettare
e favorire “la dignità, la libertà, lo sviluppo integrale dell’uomo” (Giovanni Paolo II al giubileo
degli sportivi nel 1984).
Paolo VI nel discorso per il giubileo degli sportivi nel 1975 aveva detto: “La Chiesa, che ha la
missione di accogliere ed elevare tutto ciò che nella natura vi è di bello, armonioso, equilibrato
e forte, non può che approvare lo sport, tanto più se l’impegno delle forze fisiche si
accompagna all’impegno delle energie morali, che possono fare di esso una magnifica forza
spirituale”.
E ancora Giovanni Paolo II nel discorso per una manifestazione di sci nautico del 1991 diceva:
“La Chiesa stima e rispetta lo sport che è realmente degno della persona umana. Esso è tale
quando favorisce lo sviluppo ordinato ed armonioso del corpo al servizio dello spirito, quando
costituisce una competizione intelligente e formativa che stimoli l’interesse e l’entusiasmo, e
quando resta sorgente di piacevole distensione”.
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Sempre Giovanni Paolo II nel convegno nazionale della CEI del 1989 affermava: “La Chiesa
deve essere in prima fila per elaborare una speciale pastorale dello sport adatta alle domande
degli sportivi e soprattutto per promuovere uno sporto che crei le condizioni di una vita ricca di
speranza”.
Paolo VI nel discorso ai corridori del 47° giro d’Italia il 30 maggio del 1964 diceva: “Lo sport è
il simbolo di una realtà spirituale che costituisce la trama nascosta, ma essenziale delle nostra
vita; la vita è uno sforzo, la vita è una gara, la vita è un rischio, la vita è una corsa, la vita è
una speranza verso il traguardo che trascende la scena dell’esperienza comune che l’anima
intravede e la religione ci presenta”.
Pio XII nel discorso del 9 ottobre 1955 per il decimo anniversario del C.S.I. disse: “Ma quali
sono le norme di una educazione sportiva e cristiana? Nessuno si attende un duplice elenco
nettamente separato: di quelle che riguardano il cristiano e delle altre che concernono lo
sportivo, poichè le une con le altre si compenetrano integrandosi”.
Un grande e prezioso patrimonio del nostro territorio: l’oratorio
Fino a qualche anno fa più della metà dei nostri adulti è felicemente passata da quei cortili, da
quei campetti, da quelle sale.
Oggi li abbiamo un po’ trascurati e si vedono le conseguenze.
I giovani hanno tantissimo tempo libero; spesso lo gettano via, lo sprecano, non sanno come
impiegarlo e valorizzarlo.
Il bisogno di aggregarsi, di divertirsi,di giocare è necessario almeno quanto il dovere di
studiare o di lavorare.
Pochi sono i luoghi sereni, armoniosi, sicuri che possiamo offrire ai giovani.
Quelli che la società consumistica propone sappiamo quali sono.
Quelli poi che sfruttano, tipo Paese dei Balocchi, le loro debolezze e i loro istinti più bassi,
fanno i danni che tutti piangiamo.
L’aspetto più affascinante dell’Oratorio è il cortile. Il bisogno dei nostri figli di scaricare
l’aggressività e le infinite potenzialità fisiche di giocare e di divertirsi è sconfinato, ma non
trova risposte facili.
Il pallone, la musica, il campeggio, le riunioni associative, il cineforum, le iniziative culturali,
ecc. raccolti dentro il contenitore oratorio, permettono di ritrovare armonia tra fisico, psiche ed
etica. Per questo occorre rivalutare l’oratorio e formare, come abbiamo più volte sottolineato,
educatori appassionati.
La parrocchia non può fare a meno dello sport e l’animazione sportiva non sarà mai
in secondo ordine rispetto alle altre attività pastorali.
E’ chiaro che non basta promuovere il torneo o il campionato nella parrocchia, perché la pratica
sportiva sia per se stessa educativa. Occorre farlo bene con consapevolezza, chiari progetti e
passione.
Questo significa rilanciare la funzione sociale oltre che educativa della parrocchia e dell’oratorio
sul territorio.
Altrimenti anche la parrocchia rischia di essere “cattiva maestra” quando non si cura dei
ragazzi e dei loro veri problemi; quando si limita ad un annuncio freddo, teorico, distaccato del
messaggio evangelico.
Occorre vigilare infine perché tra parrocchia e società sportive non si crei quella pericolosa
separazione e quell’indifferenza che vanifica tutto il lavoro educativo, che fa percepire lo sport
come “disturbo” alle attività serie che si devono invece necessariamente fare in parrocchia.
I disagi di oggi non sono dovuti a mancanza di qualche cosa, ma all’eccesso di tutto,
a sovrapposizioni di opportunità, a incapacità di catalogare le priorità, al facile
contrabbando tra felicità e divertimento.
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APPENDICE: un possibile metodo educativo
Riflessioni liberamente tratte dal libro di don Antonio Mazzi “Come rovinare un figli oin dieci
mosse” (Ed. S. Paolo).
SE VOLETE CRESCERE MALE I VOSTRI FIGLI, FATE COSI’:
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Accontentatevi del 6-.
C’è un aspetto molto preoccupante che attraversa tutto il lavoro degli educatori (genitori,
insegnanti, allenatori, ecc.): l’incapacità di ricavare il meglio dai nostri ragazzi. Ci
accontentiamo del cosiddetto 6-. Rischiamo così l’appiattimento generale.
Dispensate “carezze di seconda mano”.
I ragazzi non voglio carezze epidermiche ed isteriche. Hanno diritto di sentire che la mano
della mamma e del papà è tutta per loro, sia quando li accarezza, sia quando li sprona.
Fatevi vedere depressi.
Cosa possiamo pretendere da una madre o da un padre in piena crisi esistenziale, ripiegati
penosamente su loro stessi, incapaci di trovare luoghi e tempi per le loro carezze e per le
loro intimità?
Trasformate la famiglia in una scatola colma di solitudine.
La famiglia in pochi anni si è trasformata da nido caldo e rassicurante in una scatola colma
di solitudine. Ricorriamo ai ripari subito.
Mettete la famiglia dopo il lavoro
E’ troppo importante la presenza dei padri nella vita quotidiana dei figli. Troppo spazio
viene lasciato alle madri
Svegliatevi solo quando è grande,così non ci sarà più nulla da fare.
Non rimproverateli mai
Difendetelo sempre con tutti: insegnanti, allenatori, aprenti, poliziotti, ecc.
Iperproteggeteli sempre
Padri e madri, siate più deboli che potete
Non pretendete le buone maniere. L’educazione non è più di moda
Lascai teli dire tutte le parolacce che vogliono. La libertà di linguaggio è sacra
Lavatevene le mani e scaricate sugli altri tutta la responsabilità educativa
Vendetelo al successo fin da piccolo; spaventa la squallida compravendita di ragazzi che
viene regolarmente consumata sotto i nostri occhi nel nome dello sport
E quale considerazione possiamo fare allora su quello che avviene nel mondo dello
spettacolo?
Facciamoli tranquillamente annoiare
Convinciamoli che la vita è un paradiso. Che la famiglia vera è quella rappresentata nelle
telenovele, che la fatica non conta. Basta avere le conoscenze e le raccomandazioni giuste.
Incollateli davanti alla TV. Così non distingueranno più il reale dal virtuale e si
sovraccaricheranno di emozioni che non riusciranno più a controllare
Non parlate mai con loro di religione, di valori, di morale
Fateli vivere nel disordine
Litigate spesso in loro presenza
Non fateli rimanere senza denaro, né chiedetene conto di come lo spendono
Prevenite i loro desideri e soddisfate ogni loro capriccio
SE VOLETE CRESCERE BENE I VOSTRI FIGLI, FATE COSI’:
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Attivate iniziative valide nei campi della musica, dello sport, degli scambi internazionali, del
volontariato, dell’impegno civile
I nostri ragazzi devono scaricare il surplus di energia tipico della loro età. Lo possono fare
in tante direzioni, ma lo sfogo più naturale avviene attraverso il movimento, meglio se nella
pratica seria e impegnativa di una disciplina sportiva liberamente scelta. Le centraline
biochimiche a 12 anni iniziano a sparare a velocità supersonica. Perciò non possiamo
lasciare i nostri ragazzi per se-sette ore al giorno e per se-sette anni,prigionieri dietro un
banco e chiusi in un’aula spesso sovraffollata e malsana. Troppo facile per loro accumulare
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aggressività che, accompagnata da maleducazione, genera quei fenomeni di bullismo che
tutti condanniamo.
Non date mai tutto e subito
Quando arrivano le difficoltà non sostituitevi mai ai vostri figli. E’ sufficiente che vi sentano
vicini, che capiscano che ci siete
Tate in modo che vengano in contatto, che conoscano personalità forti, profetiche,
carismatiche. Ce ne sono tante anche oggi. Ma possono avvicinarsi anche a quelle di un
passato più o meno recente attraverso scritti, documenti, filmati,immagini, ecc.
Il buon genitore (lo stesso vale per insegnanti, allenatori, ecc.) rispetta i propri figli e
rispetta se stesso. Li sa valorizzare. Non è autoritario, ma sa dare regole chiare e precise.
Non usa violenza fisica o verbale. Sa dialogare. Sa ascoltare
Convinceteli che senza fatica non si può realizzare nulla
La parola “fatica” sembra scomparsa dal nostro vocabolario. E’ scomparsa la fatica di
crescere, la fatica di educare, la fatica di amare, la fatica di pregare,la fatica di studiare, la
fatica di vivere.
La fatica invece ha un valore inestimabile perché aiuta a realizzare le proprie potenzialità;
ad affrontare e superare gli ostacoli ed i problemi che la vita inevitabilmente ci pone
davanti. La fatica tempra il carattere, ci fa star bene con noi stessi. Ci fa guadagnare il
rispetto degli altri. Rafforza l’autostima.
Trasmettete loro la voglia di vincere
Vincere in tempo di guerra significa uccidere gli altri. Vincere in tempo di pace significa
invece dare spessore alla nostra avventura umana. Trovare motivi interiori per scavalcare
le mode, uscire dal “fan tutti così” e buttarsi sui sentieri scoscesi della ricerca della vera
felicità e del vero benessere.
Dobbiamo rendere difficile il bene perché diventi appetibile.
CONCLUSIONE
Citazioni come spunti di riflessione sull’educazione
“I figli non sono un torrentello tranquillo, pieno di rane che cantano. I figli sono torrenti
impetuosi che esigono soprattutto due sponde robuste”
“Se un padre urla ed il figlio chiude le orecchie, si rimane al punto di prima. Ma si rimane al
punto di prima anche se il ragazzo vuole “cambiare” e i genitori sono altrove”.
“Primo esserci. Secondo avere pazienza. Terzo avere tanta pazienza. Quarto avere tantissima
pazienza”.
“Genitore vero è colui che crede che è più bello dare che ricevere; sa che i figli non sono suoi;
apre i sentieri e si becca le spine per primo; perdona solo settanta volte sette; suggerisce le
regole, ma aiuta con pazienza a viverle; sa che il quotidiano è il luogo dei miracoli”.
“I figli sono come gli aquiloni. Li confezioniamo sul tavolo di casa. Belli, perfetti, coloratissimi,
rifiniti in tutti i minimi particolari. Poi però bisogna farli e lasciarli volare “ (don Antonio Mazzi)
“E il profeta, rispondendo ad una mamma con un bambino al collo,disse:
I figli non vengono da voi, ma attraverso di voi; e benchè vivono con voi, non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri.
Potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime, poiché le anime abitano nella casa del
domani che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi, poiché la vita
non procede a ritroso e non perde tempo con il passato.
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Voi siete gi archi da cui i vostri figli sono lanciati come frecce viventi:l’Arciere vede il bersaglio
sul sentiero dell’infinito e con la sua forza vi tende affinchè le sue frecce vadano rapide e
lontane.
Fatevi tendere con gioia dalle mani dell’Arciere”.
(da “Il Profeta” di Gibran Kahlil)
L’Arciere ha predisposto il bersaglio giusto da colpire, ma ha bisogno dell’arco della freccia. Poi
la feccia va…Se accetta il bersaglio, se è docile alla tensione dell’arco, farà centro. Ma la freccia
è libera di lasciarsi distrarre o condizionare dal vento e allora può fallire il bersaglio…
“Esistono solo tre modi di educare:
con la paura.
Con l’ambizione.
Con l’amore.
Noi rinunciamo ai primi due”.
(Rudolf Steiner)
“L’arte di crescere
l’arte dell’educazione
è continuare a crescere mentre vivi.
Ogni momento apporta la sua lezione,
ogni persona è un maestro.
Cresci in tutte le direzioni e in tutti i sensi.
Sviluppa l’anelito alla bontà, l’entusiasmo per la conoscenza, la capacità di amicizia,
la sensibilità di fronte alla bellezza, l’interesse per il prossimo.
Cresci.
L’uomo mai si esaurisce. Mai l’uomo arriva alla fine.
L’educazione non si arresta mai”.
(Rudolf Steiner)
“Il vigliacco di oggi è il bambino che schernivamo ieri.
L’aguzzino di oggi è il bimbo che non credevamo ieri.
Il contestatore di oggi è il bimbo che opprimevamo ieri.
L’innamorato di oggi è il bimbo che carezzavamo ieri.
Il non complessato di oggi è il bimbo che incoraggiavamo ieri.
Il giusto di oggi è il bimbo che perdonavamo ieri.
L’uomo che respira amore e bellezza è il bimbo che viveva nella gioia ieri.”
(Ronald Ruissel)
Il vero maestro ci aiuta a scoprire la verità che è in noi, non ci regala la saggezza.
Ci porta davanti alla soglia oltre la quale c’è la nostra conoscenza. Tocca a noi aprire quella
porta ed entrare senza paura e senza incertezza.
Il sapiente può raccontarci la sua storia, il suo cammino, la sua fatica, le sofferenze che ha
dovuto sopportare per possedere le sue certezze, ma non può offrircele e donarcele “già pronte
per l’uso”.
Ognuno ha le sue ali per volare; non può farsi dare o solo prestare quelle degli altri con
l’illusione di volare più in alto.
Manzoni nel carme “In morte di Carlo Imbonati”, immagina di sognare, anzi di ricevere la
visone dell’amatissimo compagno della madre Giulia Beccaria.
A lui chiede il dono di un “decalogo”, delle regole cioè che possano guidarlo nella vita.
Una finzione poetica per affermare i valori in cui lui profondamente credeva, che propose nelle
sue opere e a cui rimase sempre fedele.
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“…Deh! Vogli
la via segnarmi, onde toccar la cima
io possa, o far, che s’io cadrò sull’erta,
dicasi almen: su l’orma propria giace”.
“Sentir – riprese – e meditar:
di poco esser contento,
da la meta mai non torcer gli occhi,
conservar la mano pura e la mente,
de le umane cose tanto sperimentar,
quanto ti basti per non curarle;
non ti far mai servo,
non far tregua coi vili;
il santo Vero mai non tradir,
né proferir mai verbo
che plauda al vizio, o la virtù derida”.
Che tradotto significa:
 Avere un cuore sensibile.
 Prima di agire è necessario riflettere, pensare, ponderare, meditare.
 Accontentarsi dell’essenziale.
 Avere chiari e sicuri obiettivi e saperli perseguire.
 Conservare pura la mente e non compiere mai azioni disoneste.
 Non pretendere di fare tutte le possibili esperienze della vita. Bastano quelle che ti
facciano capire che non vale la pena angosciarsi per ciò che non ha valore.
 Conserva la tua dignità di uomo libero.
 Non essere amico, non scendere cioè a compromessi con i vigliacchi.
 Non tradire mai la verità.
 Non pronunciare mai alcuna parola che possa esaltare il vizio e deridere la virtù.
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Venerdì 11 giugno 2010
La responsabilità educativa: come la famiglia si apre all’impegno
sociale?
Testimonianza: Laura Puricelli e Giulio Bertolini
Quello che vogliamo fare stasera è un dialogo; non una “lezione” ma una riflessione condivisa
sull’educare.
Ci presentiamo: siamo una famiglia “come tante” e siamo stati invitati stasera a condividere
con voi la nostra esperienza di educatori.
Siamo sposati da 20 anni e abbiamo due figli: una figlia – per così dire – “naturale” di 14 anni
e un figlio adottato, giunto nella nostra famiglia 8 anni fa, quando aveva 6 anni (ora ne ha
quasi 14!).
Questa composizione della famiglia corrisponde a ciò che abbiamo sempre pensato essere la
famiglia; rispecchia in pieno la nostra idea di famiglia e per Grazia ora, guardando a questi 20
anni, ci accorgiamo di come il Signore ci abbia privilegiato, portandoci fin qui.
Fin dal periodo del nostro fidanzamento, abbiamo sempre pensato alla famiglia come ad una
realtà aperta e accogliente (almeno nei termini del desiderio del cuore): pensavamo alla nostra
casa, alla nostra famiglia come ad un luogo di accoglienza l’uno dell’altro, ma anche al luogo in
cui ospitare gli amici ….e naturalmente accogliere i figli che sarebbero nati da noi.
Dopo il primo anno di matrimonio abbiamo sospettato di avere delle difficoltà a generare dei
figli ed in seguito gli esami medici hanno confermato un problema di sterilità.
Questo fatto ci ha lasciato molto spiazzati, oltre che molto addolorati; infatti, avevamo dato
per scontato di avere dei figli e quando ci hanno detto che probabilmente non ne avremmo
avuti, per la prima volta abbiamo realizzato che l’avere dei figli non è una cosa scontata o
dovuta.
Dentro questo grande dolore abbiamo rivisitato il nostro rapporto, il senso del nostro essere
famiglia, perché ci sembrava quasi che il non avere figli non ci rendesse realmente una
famiglia; abbiamo in quel momento ridetto l’uno all’altro il si del giorno del matrimonio, pur
dentro una fatica non messa in conto.
C’era sicuramente un motivo in quello che ci capitava; noi viviamo una esperienza di fede, del
Signore ci fidiamo e ci fidavamo, ed è stato importante per la nostra storia, per la nostra
unione, interrogarci su cosa Lui chiedeva, in quella circostanza, al nostro rapporto.
Ci sono stati degli amici che in quel periodo ci sono stati particolarmente vicini; ci hanno
incoraggiati e sostenuti, soprattutto ci hanno aiutato a capire che la prima cosa non era
decidere “cosa fare” ma stare dentro la nostra realtà interrogandoci su noi stessi e chiedendo
di poter “fare la cosa giusta per noi”; la tentazione infatti poteva essere quella di subire il tutto
come un’ingiustizia senza riuscire ad accoglierci fino in fondo con le nostre difficoltà.
Dopo poco più di un anno abbiamo iniziato a vedere più serenamente la situazione e a pensare
che il nostro desiderio di maternità e paternità poteva comunque realizzarsi, che il “di meno”
(la sterilità) poteva diventare un “di più” per noi e per altri.
Abbiamo così fatto la prima domanda di adozione (con tutta la faticosa trafila che ne segue), e
dopo tutti i colloqui, dopo più di un anno di attesa…….. quando il tribunale ci ha chiamati per
comunicarci che eravamo stati scelti per accogliere un neonato, si è resa evidente una
gravidanza naturale.
Di questa esperienza desideriamo solo comunicarvi lo stupore e la gratitudine che abbiamo
vissuto per il bene che il Signore ci mostrava (non avevamo nessun merito e ci veniva donata
quella bambina, Veronica,…..che per noi era bellissima!!).
Quando Veronica ha avuto tre anni, abbiamo di nuovo iniziato ad interrogarci; ci chiedevamo
se questa figlia ci fosse stata donata per “farci stare tranquilli”; stavamo bene, eravamo
contenti……ma sentivamo che non bastava, che il desiderio di maternità e di paternità andava
crescendo e che c’era spazio nella nostra famiglia per altro.
Abbiamo di nuovo presentato domanda di adozione.
Quando abbiamo avuto l’idoneità per l’adozione internazionale e ci stavamo muovendo con le
associazioni autorizzate per capire dove andare ad adottare questo figlio, Daniela (che per noi
è stata in tutto il percorso un punto di riferimento importante e che tra l’altro abbiamo voluto
che fosse madrina di Battesimo di Veronica) ci ha chiesto se conoscevamo una famiglia
disposta ad accogliere in affido un bambino di 5 anni; quando la sua richiesta è diventata
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insistente abbiamo iniziato a chiederci se quella richiesta “non fosse per noi”; ne abbiamo
parlato a lungo fra noi, con lei e con un amico sacerdote con cui abbiamo un rapporto di
particolare paternità, …con loro abbiamo affrontato le nostre resistenze, i timori…..e alla fine
(nel luglio del 2002) Gianluca è arrivato a casa nostra.
L’esperienza di affido si è poi tramutata in adozione dal momento che il tribunale ha valutato
opportuna una permanenza definitiva di Gianluca con noi…. E anche qui: come non sentirsi
“prediletti” dall’amore del Signore?
Questa sera condividiamo con voi alcune riflessioni sul tema dell’educare; non siamo esperti in
materia…due genitori che come voi cercano di “fare del loro meglio”…quindi quella che
facciamo è proprio una chiacchierata…
Il titolo dell’incontro è “La responsabilità educativa: come la famiglia si apre
all’impegno sociale?”
La famiglia è sicuramente il primo luogo dell’educazione, il primo soggetto chiamato ad
educare.
Quando la famiglia educa? Sempre! Non dobbiamo pensare l’educazione come qualcosa di cui
ci si occupa quando i figli sono piccoli e che finisce quando i figli crescono.
La famiglia realizza la sua vocazione attraverso l’educazione dei figli; perché lo scopo non è
semplicemente il procreare (o l’accogliere in casa propria figli generati da altri) ma
l’educazione al senso della vita. I figli cresco osservando noi grandi (e spesso sfidandoci!).
L’educazione al senso della vita in famiglia, allora, è una circolarità continua, un lavoro che non
è mai finito e che – nella nostra esperienza – ha tre condizioni:
1. che ci siano adulti (genitori) in grado di tenere il timone, di dare la direzione, cioè
adulti che sappiano bene qual è il loro posto nel mondo, perché in questo modo
sapranno aiutare anche i figli a “trovare il loro posto nel mondo”.
Questo introduce il tema, già affrontato, della vita come vocazione, cioè come coscienza
di un compito che appartiene a ciascuno di noi.
In fondo il problema dell’educazione, il segreto dell’educazione è “non avere il problema
dell’educazione se non di se stessi”. Quando iniziamo a porci troppo il problema del
come educare, di quali strategie mettere in atto, iniziamo ad andare fuori strada,
l’educare viene sentito come un “convincere” i figli rispetto a qualcosa o “addestrarli”
rispetto a comportamenti accettabili.
Il coraggio vero, invece, è quello di rimettere ogni giorno in gioco se stessi con una
domanda semplicissima: “CHI SONO IO?”.
Chi sono io “veramente”?, Cosa desidero io nella vita?, su quali valori poggio la mia
quotidianità e la vita della mia famiglia?
Questo permette, nonostante tutti gli errori e le fatiche che ciascuno può fare, di
educare al senso della vita, cioè di invitare i figli a camminare su una strada che noi
sentiamo sicura.
I figli sentono quanto i genitori sono “seri” con se stessi (non coerenti ma seri,
appassionati alla vita che stanno vivendo) e da questo imparano.
Tutto il resto viene di conseguenza, perché apre ad una grande liberà nei confronti dei
figli, delle difficoltà (piccole o grandi che possono capitare), delle provocazioni che i figli
mettono in atto.
Sappiamo tutti quanto siano provocatori i figli, soprattutto nell’adolescenza; la psicologa
francese Francoise Dolto scrive, a proposito degli adolescenti: “prenderanno a calci
l’albero da cui sono nati solo per vedere se resiste!”.
Ci ritroviamo tantissimo in ciò che già è stato detto in queste serate; dobbiamo mettere
alla base del nostro agire un sostegno che resista ai vari scossoni…e la vita con i figli ne
dà molti (qualche difficoltà a scuola, la loro ribellione, la fatica “concreta” del seguire la
casa, una malattia, la loro libertà che si impone in modo diverso da come noi avremmo
desiderato per loro,….).
Ma l’albero resiste solo se ha in sé radici solide!
2. Introduciamo così la seconda condizione dell’educare: si educa se ci si lascia
educare.
L’educazione non è una funzione ma la comunicazione di una vita e la condivisione di
un’esperienza in atto…..e si può condividere solo qualcosa di presente ora.
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Nella nostra esperienza vediamo fondamentale continuare a “sentirci in cammino”,
avere dei luoghi nei quali noi, come i nostri figli, siamo richiamati ad aver cura della
nostra crescita umana e cristiana.
Ci accorgiamo di quanto sia indispensabile per noi continuare a vivere l’esperienza
dell’essere amati dal Signore per poter amare i nostri figli così come sono, per poter
guardare con simpatia le loro fatiche. Solo le radici solide dei genitori permettono di
guardarli sapendo che loro sono un Mistero, un Miracolo, amato e voluto dal Signore…..
Non tutto è nelle nostre mani; anzi: noi siamo strumenti nelle mani del Signore perché
Lui porta a compimento il capolavoro che sono i nostri figli!
Il rischio opposto è quello di pretendere da loro un adeguarsi alla nostra idea, al nostro
progetto…..ma così non si crescono uomini veri.
3. L’ultima condizione per vivere una vera esperienza educativa è non essere da soli.
La famiglia, la coppia da sola non basta per educare! Come deve essere la famiglia in
rapporto alla società e al mondo per poter educare, per poter raccogliere la sfida
dell’educazione?
Non possiamo rispondere da soli alla domanda “chi sono io?” e questa è tutta la
dinamica della vita: siamo cresciuti guardando e imparando da altri (i nostri genitori, gli
insegnanti,..).
La possibilità di conoscere se stessi a 10 anni, a 15, a 20, ma anche a 40 è dentro un
rapporto con altri.
Avere contesti e amici con cui educarsi a portare la responsabilità educativa è
fondamentale!
Tante volte anche noi abbiamo fatto e facciamo fatica; capita (non c’è nulla da negare
né da avere vergogna) di fare fatica, di non poterne più, di non comprendere il
comportamento del coniuge, di vedere nero…..Abbiamo bisogno di avere a fianco degli
amici, dei punti di riferimento che ci aiutino a fare certi passi.
Bisogna avere il coraggio di chiedere aiuto, di mettersi insieme ad altri, ad amici veri
che abbiano, a loro volta, il coraggio di dirci ciò che pensano…
Spessissimo noi riusciamo a vedere il MIRACOLO che sono i nostri figli perché altri ce lo
fanno notare, perché ci invitano a valorizzare anche il lumicino, a non vedere il bicchiere
“mezzo vuoto”.
Lo stare con altri è una grande occasione per guardare con realismo alle situazioni che
ci capitano. Il chiudersi all’interno della coppia e della famiglia inaridisce la vita della
coppia e della famiglia stessa: ci si ripiega sulle proprie fatiche (col rischio di
esagerarle), si fatica a trovare strade alternative e innovative di fronte alle difficoltà e
alle fatiche, si soffoca la potenzialità di bene che ogni famiglia porta in sé.
Il non percepirci da soli, la consapevolezza di un compito (la vocazione) affidatoci nel
sacramento del matrimonio e l’aver continuato a frequentare quegli ambiti che da
giovani ci hanno educato (l’oratorio, il movimento,…) ci ha permesso di fare scelte
determinanti per la nostra vita di singoli, di coppia e di famiglia:
. l’accoglienza di un figlio non nato da noi
. l’impegno all’interno della parrocchia
. esperienze di carità e di attenzione a chi è nel bisogno
Ci accorgiamo che questo rifluisce positivamente in famiglia; sono impegni che spesso ci
portano ad “essere fuori”….ma quando poi ci raccontiamo quello che abbiamo vissuto,
che esperienza di apertura vivono anche i nostri figli! Come imparano che la legge della
carità non è qualcosa di astratto, che è normale condividere le esperienze con altre
famiglie (ad esempio le vacanze) e che la famiglia può fare qualcosa anche per chi è in
difficoltà…
Sono queste, a nostro giudizio, le condizioni perché la famiglia possa vivere un impegno
sociale:
- La serietà verso se stessi (chi sono io?) e non lo spostamento sui figli del “problema”
dell’educare;
- La disponibilità a lasciarsi educare dalle circostanze; la ricerca di luoghi in cui anche
l’adulto è accompagnato a crescere;
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-
La messa in comune leale delle esperienze, delle fatiche, dei desideri.
Concludiamo con un brano del vescovo Ambrogio che ci piace molto e che spesso andiamo
a rileggerci; ci sembra che riassuma bene il percorso che gli incontri ci hanno fatto fare:
“L’educazione dei figli è impresa per adulti disposti a una dedizione che dimentica se
stessa: ne sono capaci marito e moglie che si amano abbastanza da non mendicare altrove
l’affetto necessario.
Il bene dei vostri figli sarà quello che sceglieranno: non sognate per loro i vostri desideri.
Basterà che sappiano amare il bene e guardarsi dal male e che abbiano in orrore la
menzogna.
Non pretendete dunque di disegnare il loro futuro: siate fieri piuttosto che vadano incontro
al domani con slancio, anche quando sembrerà che si dimentichino di voi.
Non incoraggiate ingenue fantasie di grandezza, ma se Dio li chiama a qualcosa di bello e di
grande non siate voi la zavorra che impedisce loro di volare.
Non arrogatevi il diritto di prendere decisioni al loro posto, ma aiutateli a capire che
decidere bisogna e non si spaventino se ciò che amano richiede fatica e fa qualche volta
soffrire: è più insopportabile una vita vissuta per niente.
Più dei vostri consigli li aiuterà la stima che hanno di voi e che voi avete di loro; più di mille
raccomandazioni soffocanti, saranno aiutati dai gesti che videro in casa: gli affetti semplici,
certi ed espressi con pudore, la stima vicendevole, il senso della misura, il dominio della
passione, il gusto per le cose belle e l’arte, la forza anche di sorridere.
E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto
in casa per un vagabondo affamato e non trovo gesto migliore per dire la fierezza di essere
uomo di quando mio padre si fece avanti a prendere le difese di un uomo ingiustamente
accusato.
I vostri figli abitino la vostra casa con quel sano trovarsi bene che ti mette a tuo agio e ti
incoraggia anche ad uscire di casa, perché ti mette dentro la fiducia in Dio e il gusto di
vivere bene.
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Conclusioni del Dr. Mattia Ramella, coordinatore degli incontri (pubblicato su “Incontro”,
mensile della Parrocchia di Cislago – luglio-agosto).
VITA IN FAMIGLIA – CONCLUSIONE DI UN PERCORSO
Educare alla speranza.
Educare è difficile, è una sfida, ma è possibile, possibile perché ci siamo ascoltati
reciprocamente. E se abbiamo accolto le testimonianze e i testimoni, ci siamo lasciati educare.
Ecco allora il punto di partenza: essere disponibili a lasciarsi educare, a lasciarsi chiamare e
dunque sentirsi chiamati ad educare quotidianamente, "a braccia aperte".
Da questo punto di partenza abbiamo visto che educare significa donare valore, trasmettere
valore all’altro e che non si può educare senza una direzione, un orientamento, un riferimento
di senso. Il nostro riferimento, i nostri punti cardinali non possono che essere i valori cristiani:
valori fondati sulla Verità.
Educare diventa dunque accogliere l’altro per la persona che è, in tutta la sua umanità, nel
suo essere uomo e donna. Questo è ciò che ci accomuna tutti.
Se non accolgo l’altro nella suo essere
uomo, creatura che cresce (adulto, bambino,
adolescente), se non lo vedo così, non potrò educare.
Educare è accompagnare lungo una direzione di bene nella libertà, non ponendosi dietro né
avanti, aiutando senza costringere, senza indottrinare, ma semplicemente rimanendo accanto,
"vivendo con" potremmo dire. Non si può perciò educare senza l’altro, non si può educare se
non insieme, se non all’interno di relazioni.
Educare significa infine dare speranza, e la speranza si può dare solo con la presenza, con
l’esserci e con la testimonianza. Una testimonianza autentica come quella degli incontri di
queste serate. Quella che abbiamo potuto vedere con i nostri occhi e ascoltare con le nostre
orecchie è la speranza nell’uomo e nel futuro che, mi e vi auguro, sapremo conservare
nel cuore.
Mattia Ramella
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