La Bibbia ha (quasi) sempre ragione
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La Bibbia ha (quasi) sempre ragione
La Bibbia ha (quasi) sempre ragione Book Jacket Gioele Dix LA BIBBIA HA (QUASI) SEMPRE RAGIONE MONDADORI I passi della Bibbia riportati in appendice sono tratti dalla Bibbia Concordata, Mondadori, Milano 1982 A Renzo, fratello fuggito via troppo presto Tre cose sono difficili per me da capire, la traccia che lascia l'aquila nel cielo, la traccia che lascia la serpe sulla pietra, la traccia che lascia la nave sull' onda del mare. Ma una quarta non la comprendo, la traccia che lascia un uomo dentro la sua donna. (Proverbi 30, 18-19) Prefazione Non ho scritto questo libro per prendere in giro la Bibbia. Non sono un barzellettiere, purtroppo (o per fortuna). Comunque, nel caso, avrei fatto un torto grave prima di tutto a me stesso. Porto rispetto al Libro dei Libri e alla Fede che a esso si ispira. Non potrebbe essere altrimenti: sono stato educato al timore di Dio. Un conto però è appiattirsi in un cieco e sordo ossequio alle sacre parole. Altro conto è invece dar voce e corpo ai dubbi, ai pensieri e alle suggestioni che da esse zampillano come getti da una fontana. Per me (e non solo per me) la Bibbia è materia viva e pulsante. Perciò è assai labile, mobile e discutibile, ossia può – anzi deve – venire discussa. E anche parecchio. È permesso smontarla, ricostruirla, reinterpretarla e pure rimasticarla. Ma con attenzione, perché a volte può risultare indigesta: alcuni racconti simbolici o certi precetti morali sono rimasti sullo stomaco persino ai suoi ammiratori più devoti. La Bibbia contiene di tutto: dalla spirituale astrazione alla estrema minuzia. Vi si parla di amore, di viaggi, di regole e riti. Contiene aridi elenchi di nomi e scintille che accendono l'anima. Arguzie sottili e cieca violenza. Fatti qualsiasi ed eventi epocali. Leggendola, si riflette sul pane e sul dolore. È un'opera elementare e complessa, un'opera elementare e complessa, rivolta ai cuori semplici e alle menti elevate, ricca di Storia e di storie. Seguendo un personale tragitto all'interno dello sconfinato territorio biblico, ho scelto sei episodi, fra i miei preferiti, tratti dal primo libro del Pentateuco, la Genesi. Sono, nell'ordine: il racconto della Creazione, il giardino dell'Eden, il patto di Dio con Abramo, l'apparizione nel Querceto di Mamre, la benedizione estorta a Isacco, l'amore fra Rachele e Giacobbe. Fra i libri dei Profeti ho scelto invece due cosiddetti «minori»: Giona e Gioele, testi letterariamente molto diversi fra loro, l'uno di genere fiabesco, l'altro decisamente poetico. Otto storie speciali che io racconto e commento a mio modo, in un percorso a zig-zag, fra approfondimenti e divagazioni. Un'affabulazione scritta che, attraverso altre (e alte) parole, parla senz'altro anche di me. Non intendo riferirmi alla mia biografia (perché di quella, giustamente, chissenefrega), ma all'intimo nodo che tento di sciogliere da quando sono bambino: chi è questo Dio? e che me ne faccio di Lui? Questo libro è una specie di taccuino di viaggio alla ricerca di qualche risposta. L'atteggiamento è affettuoso, ma contraddittorio. Lucido per quanto possibile, ma ludico. Spesso – lo ammetto – mi scappa da ridere. Ma è a fin di bene: l'ironia difende e rigenera. Una nota sul titolo. Mi piace parecchio, la Bibbia. Ed è per questo che dico: ha quasi sempre ragione. Se pensassi che ha sempre ragione, probabilmente non mi piacerebbe più così tanto. I La Creazione: sempre meglio che lavorare È scritto proprio all'inizio della Genesi, nel primo racconto della creazione: Dio creò il mondo in sei giorni. Non dubito che sia andata così, però lo trovo molto strano. Non capisco perché il Padreterno abbia impiegato quasi una settimana per un'impresa, sulla carta, assolutamente ridicola per Lui. Trattandosi di un Essere Supremo che sa e può ogni cosa, perché non ha creato tutto in un attimo, con un semplice schiocco delle dita (ammesso che abbia le dita)? Era dunque un Creatore alle prime armi? Era forse un Signore inesperto e doveva ancora farsi le ossa (ammesso che abbia le ossa)? Oppure devo pensare che si mise all'opera senza un progetto preciso, senza averci messo seriamente la testa (ammesso che abbia una testa)? (Non vorrei essere frainteso. Mi domando se abbia dita, ossa o testa non certo perché metto in dubbio la Sua esistenza. Lo faccio unicamente perché in me combattono due opposte visioni di Dio: quella infantile e quella adulta. Da bambino lo immaginavo semplicemente come un uomo buono con una gran barba, che abitava in un luogo abbagliante sopra le nuvole. Ora lo concepisco più come un'entità spirituale e astratta, eppure presente in tutte le nostre faccende. Ma non nego che ancora oggi se, dopo un temporale d'estate, vedo il classico fascio di luce creato dal sole che squarcia i nuvoloni scuri, penso quello che pensavo quando ero ragazzino: ecco, là dietro c'è Dio.) La faccio breve. Evidentemente il Signore Iddio ha scelto di fare la creazione del mondo in una settimana per ragioni Sue. Meglio non mettersi a sindacare su questo. Non con un tipo come Lui. Io però mi sento autorizzato, proprio dalla Sua scelta, a riconoscermi in un tempo di lavoro così umano: è un parametro preciso per giudicarne sia l'andamento che i risultati. E mi sento solidale con Dio, provo per Lui un'istintiva simpatia nel corso di tutta l'impresa. Perché capisco quanto sia faticosa e complessa. E perché capisco quanto sia difficile operare con una scadenza tanto ravvicinata. Conosco l'ansia che ti divora quando qualcuno ti dice: fra sei giorni devi consegnarmi tutto. Certamente Dio non aveva nessuno che lo minacciasse con una penale per ogni giorno di ritardo. Eppure, mi sento di dire che è proprio a causa del poco tempo a disposizione che Egli non ha lavorato con la necessaria lucidità. Ha perso molto tempo all'inizio e poi si è messo a correre verso la fine della settimana, tirando via su molte, troppe cose importanti. Il risultato è lì, anzi è qui, a dimostrarlo: il mondo non è davvero un granché. Noi uomini e donne poi – posso dirlo? – facciamo quasi schifo. Detto con affetto. Ma va detto. Non mi sto inventando nulla, è tutto scritto. I molti dubbi e perplessità sulla condotta di Dio nella vicenda della famigerata Creazione vengono confermati da una lettura attenta del resoconto biblico, che è molto dettagliato, giorno per giorno. Primo giorno In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era una massa informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. E Dio disse: «Sia la luce» e la luce fu. Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre, e chiamò Giorno la luce e chiamò Notte le tenebre. E fu sera e fu mattino: il primo giorno. Per essere l'inizio di un'opera dalle molte ambizioni, non è che sia particolarmente esaltante. Certo, si trattava di cominciare dal niente, un Niente nel vero senso della parola, una sorta di vuoto assoluto, privo di qualsiasi forma e sostanza. Ma il Creatore non è mica uno di quegli architetti di provincia cui hanno assegnato un appalto grazie alla lontana parentela col sindaco. Non doveva per forza partire in quarta, ma un qualcosina in più da Lui era legittimo aspettarselo. In sostanza, che fa Dio il primo giorno? Crea il cielo e la terra, due autentiche sciocchezze per uno del Suo talento. Ma immediatamente si rende conto che quella terra appena fatta è in realtà una massa informe e vuota. Inoltre, si accorge che ci sono impreviste tenebre proprio sopra un inquietante abisso, del quale peraltro non è affatto chiara la provenienza. E non basta: inspiegabilmente il Suo spirito aleggia, ossia fluttua senza una direzione precisa, insomma si sparpaglia senza controllo sulla superficie delle acque. Non c'è che dire, si tratta di un immenso pasticcio. Tanto più assurdo se si tiene conto del fatto che il Signore Iddio si è messo al lavoro usando materiali suoi, perché nessuno può averglieli propinati o imposti. Ma a me fa soprattutto impressione quel S uo spirito che aleggia. Mi fa sentire molto vicino e solidale con Dio, come lo capisco, benedetto uomo (si fa per dire uomo, non benedetto naturalmente). Io interpreto quell'aleggiare come il segnale di una crisi d'identità, è quella sorta di confusione mentale che attanaglia il creativo quando deve cominciare a creare, è l'immotivata paura di non essere all'altezza delle aspettative, proprie e degli altri. Certo, è comprensibile che si manifesti in uno come me, che sono un piccolo creativo a sprazzi; molto meno in Uno come Lui, che è pur sempre il Creativo per eccellenza. Comunque, immagino il Suo dispetto nel trovarsi di fronte a quella indecifrabile porcheria. "Che cavolo stiamo facendo?" potrebbe benissimo aver detto. Ma disse invece tutt'altro: «Sia la luce». Ecco l'idea forte, l'intuizione degna di Lui: inventa la luce. È l'unica, vera grande illuminazione – ovviamente – della giornata. Finalmente potrà orientarsi e vederci chiaro. I problemi però non sono finiti. Appena comparsa, la luce si mette a fare a cazzotti con le tenebre. C'è un'avversione reciproca e inconciliabile. Pazientemente, Dio separa l'una dalle altre. L'operazione deve rivelarsi molto impegnativa, perché a questo punto il Signore decide che ne ha abbastanza. Forse non sa come giustificare la pausa che intende prendersi, forse non se la sente di dire: "Sono stanco" oppure "Si è fatto tardi". È orgoglioso. Ma anche logico: tardi rispetto a che cosa? Ha l'intuizione giusta (è il Creativo per eccellenza): chiama Giorno la luce, chiama Notte le tenebre e chiude la questione. E fu sera e fu mattino: il primo giorno. Genialmente furbo. Ora che ha dato letteralmente un senso alla giornata, può davvero salutare tutti – o forse no, perché non c'è nessuno, ma è per modo di dire – e andarsene a dormire. Stremato, aggiungo io. Con tutto il doveroso rispetto e l'umana comprensione, la prima giornata appare assai deludente. L'impressione è di una partenza decisamente fiacca. Chiunque partenza decisamente fiacca. Chiunque di noi, sapendo di avere solo sei giorni a disposizione per chiudere un'impresa tanto impegnativa, sprecasse l'intera prima giornata per attaccarsi alla corrente e fare luce sulla zona operativa, verrebbe considerato un pazzo, oppure un incapace. Secondo giorno E Dio disse: «Ci sia un firmamento in mezzo alle acque che divida le acque dalle acque». E Dio fece il firmamento, separando le acque che sono sotto il firmamento e le acque che sono sopra il firmamento. E così fu. E Dio chiamò Cielo il firmamento. E fu sera e fu mattino: il secondo giorno. Dopo una bella dormita (è sbagliato immaginare che dorma?), Dio torna al mattino presto sul cantiere e ha una brutta sorpresa: c'è acqua dappertutto. Immagino il Suo tremendo sconforto. Sappiamo tutti per esperienza che le questioni idrauliche sono fra le più gravi e odiose da risolvere. E naturalmente qui parliamo di una situazione estrema. Il Padreterno deve occuparsi di acque primordiali, acque sovrabbondanti e ingovernabili, acque selvagge e tempestose, acque da domare, arginare e poi separare. Acque – verrebbe da dire – infernali. Niente di paragonabile, insomma, ai nostri piccoli guai in materia di idraulica, tipo l'impianto della cucina da sostituire perché le tubazioni risalgono al tardo Rinascimento; o tipo l'allagamento totale del bagno, provocato dall'assenza ingiustificata di quell'anticalcare consigliato da tutte le migliori marche di lavatrici. Il Signore che si inventa allora? Fa un firmamento. Che cos'è questo firmamento? Non lo so. Ho sempre pensato che il firmamento avesse a che fare con le stelle, ma le stelle non c'entrano qui, le stelle non esistono ancora in questo momento, le stelle verranno create soltanto al quarto giorno, quindi questo è un tipo di firmamento senza le stelle. Ma allora che razza di firmamento è? Ho detto che non lo so. O meglio, so quello che è scritto: è un firmamento che serve a dividere le acque dalle acque. Già, ma divide quali acque da quali altre? Non so nemmeno questo. È scritto soltanto: che divida le acque dalle acque. Del resto, poco importa sapere che tipo di acque fossero prima dell'arrivo del firmamento, diciamo che erano acque imprecisate. Quello che importa invece è sapere che dopo l'arrivo del firmamento le acque sono diventate o quelle che sono sotto il firmamento o quelle che sono sopra il firmamento. Semplice e disarmante. Inutile farsi domande filosofiche sul perché delle cose. È Dio in persona a darci una solenne lezione di pragmatismo. Aveva questo assillante problema delle acque, invadenti e indisciplinate, gli ha scaraventato in mezzo un enorme coso ingombrante ed esse (le acque) si sono placate e adattate, alcune sistemandosi sopra, altre sistemandosi sotto. Fine del problema. Quanto c'è da imparare da questo Signore. Però... Sia chiaro, l'ammirazione nei Suoi confronti è intatta. Di più: fa bene scoprire proprio in Lui, Essere Supremo, quel tanto di spiccio realismo misto a intrigante furbizia, quel gusto per la scorciatoia nel risolvere i problemi tipico di noi esseri umani. In particolare di noi italiani. Per dirla tutta, ho sempre avuto il sospetto (e la speranza) che Dio sia di origini italiane. Però... Però, la verità è che, dal punto di vista del progetto di Creazione del mondo, questo secondo giorno di lavoro fa segnare un bilancio, se possibile, ancor più negativo e improduttivo del primo. Che ha combinato in fondo l'Eccelso per tutta la giornata? Null'altro che piazzare quell'immenso, gigantesco, sproporzionato oggetto misterioso (e buio) per dividere le acque. Basta. Ah sì. Già che c'era lo ha chiamato Cielo, capirai che sforzo. Poi fu sera e ha pensato bene di ritirarsi. È davvero troppo poco per Uno che ha la pretesa di mettere in piedi un mondo intero. Eppure capacità ne avrebbe, se solo si applicasse con più impegno. Il Signore si sta comportando come un ragazzo molto intelligente e molto svogliato. Avesse dei professori (e dei genitori che vanno a parlarci in orario di ricevimento), i primi direbbero preoccupati ai secondi: "Potrebbe fare di più". Terzo giorno E Dio disse: «Si raccolgano in un luogo solo le acque che sono sotto il cielo e appaia l'asciutto». E così fu. E Dio chiamò Terra l'asciutto e chiamò Mare la massa delle acque. E Dio vide che ciò era buono. Sembra incredibile. È cominciato il terzo giorno di creazione e il lavoro procede ancora a rilento. Il Signore Iddio dà la sensazione di girare a vuoto. Si incaponisce per tutta la mattinata nella Sua ossessione per le acque. Le sposta di continuo da un luogo a un altro. Sembra il gioco delle tre (anzi, delle due) carte. Togliendole da dove le aveva messe, si accorge che il posto lasciato vuoto si asciuga. Ne deduce che le acque, ovunque tu le piazzi, inevitabilmente bagnano qualcosa (o qualcuno, bisognerebbe aggiungere, ma non c'è ancora nessuno). E dunque decide: dove ci sono le acque è bagnato, dove non ci sono più è asciutto. Benissimo. Ma poi? Poi stabilisce che l'asciutto si chiamerà Terra, con la T maiuscola, per non confonderla con la terra con la t minuscola, che era quella massa informe e vuota creata il primo giorno e della quale, peraltro, non si è saputo più nulla. Ma il vero fatto importante per Lui è decidere definitivamente il destino di quelle maledette acque che – è più che evidente – gli hanno procurato soltanto un mare di guai. Ecco, per l'appunto, alla massa delle acque il nome Mare e non se ne parli più. E se qualcuno ci tiene tanto a quelle dannate acque, che ci vada d'estate, soffrendo il caldo, in coda. Si capisce che, a questo punto, il Signore Iddio è particolarmente soddisfatto, si sente sollevato. E Dio vide che ciò era buono. Si compiace. Brutto segno. Sì, perché anche la terza giornata se ne sta andando e c'è ancora tutto da fare! Se è vero che chi ben comincia è a metà dell'opera, che si deve pensare di chi è già a metà dell'opera e non ha praticamente ancora cominciato? Possibile che il Creatore non si renda conto che, se non cambia marcia, rischia un clamoroso flop? La risposta è la più ovvia: certo che se ne rende conto. Ma non può farci niente. Io lo so. Io lo capisco. Capita anche a me, uguale. Anch'io, quando, per realizzare un progetto, ho del tempo a disposizione, non importa quanto, ne butto via la maggior parte o nel fare cose inutili, o nell'immaginare quelle utili che potrei fare. Così va a finire che faccio tutto di corsa. E male. Me lo vedo, il Signore Iddio, che consuma tutta la mattinata del terzo giorno a fare scarabocchi sulla sua enorme scrivania, a teorizzare imprese impossibili, a cercare soluzioni concettuali. Il risultato di questo vano sforzo creativo è partorire per l'appunto un concetto, forse a suo modo geniale, ma che non serve a nulla, o quasi: l'asciutto! È insensato. Ma è così. Capite perché amo questo Dio? Perché lo sento in tutto e per tutto simile a me. Del resto è Lui – lo scopriremo presto – ad aver scelto di farci a Sua immagine e somiglianza. Doveva aspettarsi che, prima o poi, ci saremmo accorti di che pasta è fatto. La nostra. Per di più, vuole fare tutto da solo. E anche in questo mi ci ritrovo. Quando mi metto in testa di fare una cosa con le mie sole forze, non c'è verso che accetti aiuti da chicchessia. In quei casi mi sento un dio. E sbaglio. Lui evidentemente non sbaglia nel sentirsi Dio, ma nel pensare che un sostegno esterno diminuirebbe il Suo prestigio. Il problema con l'acqua, ad esempio. Perché se l'è trascinato per quasi due giorni senza venirne a capo? Perché non si è affidato a un professionista del settore? A un idraulico intendo, certamente. È difficile trovare un idraulico libero e soprattutto di parola? Ti dice che viene domattina alle otto e alle tre del pomeriggio non ha nemmeno telefonato per avvertire che nel frattempo ha preso altri quattordici appuntamenti per la stessa ora? Tutto vero, ma non in un caso del genere. A vero, ma non in un caso del genere. A parte che il Signore Iddio l'idraulico potrebbe averlo a disposizione dicendo semplicemente: «Sia l'idraulico». Ma anche non volesse strafare, vorrei proprio vedere se un qualsiasi idraulico, persino il più impegnato, non si precipiterebbe quando leggesse sul cellulare «Numero privato» e senza nemmeno rispondere sentisse una voce che gli dice: «Venga che ho da dividere le acque». Il terzo giorno sta finendo. Il Signore si ricorda di aver lasciato in sospeso la questione di quella terra con la t minuscola (è disordinato sì, ma mica distratto). E Dio disse: «Produca la terra germogli, erbe che facciano semente, alberi fruttiferi che diano frutti, contenenti il seme secondo la loro specie sulla terra». E così fu. Fatta a questo punto della giornata, la produzione di germogli, di erbette e di qualche albero da frutta appare francamente velleitaria. E inutile, perché non c'è in giro alcun essere vivente che possa avvantaggiarsene, né brucando durante il pascolo, né facendosi una spremuta per cena. Sembra più che altro che Dio voglia convincere Se Stesso di essere ancora in forma. Ma la verità è che si è fatto tardi e che Egli è stanco. Infatti scatta la magica formuletta. E fu sera e fu mattino: il terzo giorno. Quarto giorno E Dio disse: «Vi siano delle luci nel firmamento del cielo per distinguere il giorno e la notte e siano come segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni, e servano da luci nel firmamento del cielo, per illuminare la terra». E così fu. E Dio fece due grandi luci: la luce maggiore per reggere il giorno e la luce minore per reggere la notte, ed inoltre le stelle. Quello che succede al quarto giorno è davvero sconcertante. Il Padreterno ci spiazza con un'iniziativa senza apparente spiegazione. Forse si è svegliato di malumore, non ha riposato bene, ha avuto un sonno agitato, forse qualche brutto sogno, chissà (è sbagliato immaginare che sogni?). Potrebbe pure essergli rimasto sullo stomaco uno di quei frutti creati il giorno prima, normale che uno li faccia e poi li assaggi, mica per fame, giusto per la curiosità di sentire come sono venuti, ma si sa che alla sera certa frutta è piombo. Oppure, potrebbe essersi fatto un'infusione con alcuni di quei germogli e di quelle erbe, mica per una precisa necessità, ma soltanto per capire, normale che uno inventi e poi voglia testare se si tratta di roba buona, invece evidentemente era una orrenda pozione, di quelle che piacciono tanto alle ragazze che vanno sempre in erboristeria. erboristeria. Sta di fatto che il Creatore inizia la giornata con un proposito folle: affrontare nuovamente il problema dell' illuminazione. Ma come, Signore? Non l'avevi già risolto, seppur faticosamente, al primo giorno quel problema, con l'ormai famoso «Sia la luce»? Che cos'è questa storia? D'accordo: il sole, la luna e soprattutto le stelle sono invenzioni ricche di fascino, ispireranno molti dei nostri pensieri più romantici e noi Te ne saremo eternamente grati. Ma cerca per un momento di essere serio: non sono altro che abbellimenti. Ti pare sensato occuparTene ora? Mancano due giorni alla consegna e Tu hai ancora una quantità inverosimile di cose da fare! Vuoi che Te ne dica qualcuna? Non ci sono montagne, non ci sono corsi d'acqua, non ci sono colline, non hai fatto le campagne, non hai fatto uno straccio di lago, nemmeno una pozza, non hai attrezzato una sola spiaggia decente, e poi non c'è nessuno, nessuno capisci? Non si è ancora vista in giro una sola anima viva di qualsiasi genere... vado avanti? No, niente, non c'è verso di farLo ragionare. Non come ragioniamo noi, perlomeno. Le vie (del pensiero) del Signore sono infinite e noi al primo bivio siamo già fuori strada. Mancano ancora tutte le strutture portanti e il Grande Architetto, in piedi al centro del cantiere di una enorme casa che ancora non esiste, sta immaginando come e dove mettere i punti luce. Semplicemente pazzesco. Qualcuno potrebbe pensare che queste riflessioni siano il frutto di un mio personale delirio. Invece, non sono il solo ad aver notato l'anomalia presente in questa quarta giornata di Creazione. Esiste una tradizione, molto antica e radicata all'interno del popolo ebraico, che si nutre di dubbi continui e che alimenta interminabili dibattiti su ogni parte, anche la più minuta, del Libro sacro a tutti noi. È il segno tangibile di una vocazione alla chiarezza, è una sorta di piacevole condanna. Insomma, ci piace credere in Dio, ma non in maniera incondizionata. Vogliamo capire le cose che fa, vogliamo capire perché le fa e pretendiamo anche di discutere, se necessario, le sue scelte. Se qualcuno ti sta veramente a cuore, non puoi (forse non devi) evitare di conoscerlo a fondo, soprattutto nelle sue parti più oscure. Ecco allora che cosa si dice, a proposito del comportamento di Dio al quarto giorno, in un antico midrash, un commento sotto forma di racconto (o spesso addirittura di fiaba), con il quale i rabbini di diverse provenienze e generazioni cercano di spiegare i misteri della Bibbia. Lo spiego con parole mie. La luce del primo giorno era luce di Dio allo stato puro, troppo forte, troppo accecante, diciamo pure troppo tossica per gli esseri umani. Il Signore se ne accorse in ritardo, ma per fortuna prima di far comparire sulla Terra uomini e donne. Per questo, al quarto giorno, fece delle luci più piccole e conseguentemente ritirò quell'altra. Ma ebbe un problema: non sapeva dove metterla. Questo è un problema, aggiungo io, molto frequente fra i grandi imprenditori: lo smaltimento dei rifiuti tossici. Dio dunque mise la luce in un contenitore enorme, ma non abbastanza. Il contenitore esplose e la luce si sparpagliò in miliardi di scintille sulla Terra. Compito degli uomini – concludono i rabbini – è quello di riportare, attraverso le buone azioni, scintilla dopo scintilla, la luce di Dio al suo legittimo proprietario. Non c'è che dire: è una spiegazione bellissima, molto poetica e ricca di bellissima, molto poetica e ricca di spiritualità. Ma io, che non vedo perché non dovrei a mia volta discutere le opinioni di gente che discute, dico che per me non sta in piedi. Ma quale contenitore che esplode! Vi pare possibile che l'Altissimo non fosse per l'appunto all'altezza di attrezzare una discarica degna di questo nome? Per favore, almeno Lui! Se accettiamo l'idea che persino Dio ha cominciato a inquinare per pura negligenza e superficialità, siamo veramente rovinati. E poi perché dovremmo essere noi uomini, che già siamo pieni di guai per nostro conto, a porre rimedio agli eventuali guasti procurati dal Padreterno? Se veramente ha combinato quell'assurdo pasticcio, che se ne assuma ogni responsabilità. se ne assuma ogni responsabilità. (Naturalmente, una chiave di lettura meno polemica di quel cambio di luce è altrettanto possibile e affascinante: la grandezza di Dio sta nell'averci sottratto a un impossibile confronto con Lui e nell'aver trasformato un Suo perdonabile errore in benefica e quotidiana occasione di riscatto per noi.) Detto tutto questo, torniamo al racconto. Il Signore crea la luce maggiore, il sole, la luce minore, la luna, ed inoltre le stelle, le stelle le chiama subito stelle anche Lui. Le colloca nel firmamento per reggere il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Non è affatto chiaro se le disponga a casaccio o secondo un ordine preciso, ma, avendo ormai imparato a conoscere il Suo stile allegramente confusionario, è più probabile la prima ipotesi. E immagino quanto si debba essere divertito a osservare, nel corso dei millenni, astronomi e scienziati che tentavano inutilmente di trovare una logica alla struttura del cosmo e che costruivano teorie sull'allineamento dei pianeti o sulla composizione delle galassie. Sembra incredibile, ma durante il quarto giorno non fa nient'altro. Proprio così. Nient'altro. Naturalmente, la Sua formidabile e speciale bravura non è in discussione. La si nota soprattutto dai dettagli, che nel testo biblico prendono la forma di sfumature del linguaggio. Prendete quel passaggio in cui è scritto: ed inoltre le stelle. La Genesi sembra dirci che Dio si inventa il sole, la luna e – già che è lì – qualche miliardo di stelle. In quell'inoltre c'è tutto l'understatement di chi possiede uno smisurato talento ed elegantemente non vuol farlo pesare. Straordinario. Dunque il Signore osserva il (poco) lavoro fatto, lo giudica buono, in sostanza si complimenta con Se Stesso (è per farsi coraggio ed evitare di pensare che il tempo maledettamente stringe?), dopo di che fu sera e fu mattino: il quarto giorno. Un'altra giornata gettata via in maniera irresponsabile. Ma quando ci si metterà d'impegno e attaccherà a lavorare come sa, da Dio? Quinto giorno E Dio disse: «Brulichino le acque di un brulichio di esseri viventi e volatili volino sopra la terra, dinanzi al firmamento del cielo». Come volevasi dimostrare. Alla mattina del quinto giorno, il Signore finalmente si accorge di essere in palese ritardo su tutto e viene aggredito dal panico. La calma serafica dei giorni precedenti lascia il posto a una frenesia senza controllo. Il Signore passa da un eccesso a un altro. Anche il suo linguaggio improvvisamente cambia. Niente più espressioni ponderate e austere, tipo sia la luce o ci sia un firmamento. Ora urla frasi convulse, sgrammaticate, come fosse un sergente dei marine che dà ordini in piena adrenalina. «Le acque brulichino di un brulichio, okay!?» «Tutti i volatili volino, sono stato chiaro!?» «Muoversi, muoversi dinanzi al firmamento del cielo!» Ora sembra davvero impossibile fermarlo. Capisce che non ha più tempo per le teorie, per i ripensamenti, per le sfumature. Dice brulichino di un brulichio, dice volatili volino, sa di esprimersi da schifo, ma non gliene importa nulla. Deve fare, fare, fare, altro che trovare un sinonimo di brulichio. Si mette a produrre, in un crescente delirio compulsivo-creativo, una quantità incalcolabile di esseri viventi. Riempie i mari di una miriade di cetacei, molluschi, mitili ed esseri vivi guizzanti, insomma pesci, in variazioni di forma dimensione e colore praticamente infinite, dal pesce ragno al pesce martello, dal pesce rondine al pesce palla, dal pesce spada al pesce lucerna, dal pesce gatto al pesce chitarra, dal pesce San Pietro al pesce sega, quasi impossibile elencarli tutti, chissà se basterebbero sei giorni. E lo stesso dicasi per i volatili, sia uccelli che insetti, che il Signore Iddio provvede in poche ore a generare in alcune centinaia di migliaia di dozzine di miliardi di esemplari. Pensate all'esperienza straordinaria di trovarsi a passeggiare per il mondo, proprio la mattina del quinto giorno. Come la si potrebbe descrivere? Come un incubo, direi. Almeno per me che non stravedo né per i pesci né tanto meno per i volatili. Decidi di fare una gita in campagna e nugoli di vespe non ancora omologate ti aggrediscono ronzando da ogni lato. Ti sposti in altura per un'arrampicata e stormi di uccelli migratori spaesati e non ancora pratici tentano di issarti in volo perché tu faccia loro da guida. Ripieghi per un bagno in una caletta sulla costa e branchi di orche non ancora coscienti di essere assassine addentano il tuo gommone convinte che si tratti di un loro parente. Ma torniamo al nostro Amato Signore e alla sua scriteriata Creazione. Con tutto il rispetto dovuto, come sempre, io mi domando: che bisogno c'era di fare tutti quei pesci, Signore? Quando me ne avessi creati tre, massimo quattro tipi – quello che viene bene alla griglia, quello che va al forno con le patate, quelli piccini che si friggono e che li mangia anche la mia bambina che non mangia mai niente – io sarei stato a posto. E tutti quei volatili. Passi per gli uccelli, ma che bisogno c'era di affollare l'aria di così tanti insetti molesti invadenti e fastidiosi, Signore? Avresti potuto mettere al mondo una dozzina di tafani giusto per l'archivio, qualche sciame stagionale di moscerini giusto per far contenti i lavavetri e morta lì. Non dirmi che ci tenevi particolarmente alle mosche perché non ti credo. E le zanzare? Che ti è saltato in mente? A che pensavi quando hai deciso che ci avresti rovinato per sempre l'unica stagione decente in cui andare in vacanza? Lo sai che nelle notti d'estate, Signore, mentre sto in piedi sul letto con la ciabatta in mano scrutando febbrile il soffitto e le pareti in cerca dell' unica fottuta zanzara presente nella stanza che mi ha svegliato sibilandomi nell'orecchio e che giuro non ne uscirà viva dovessi stare lì impalato fino all'alba, io penso a Te, alla Tua Creazione, a quel Tuo benedetto quinto giorno e a quelli così tanto devoti a Te da essere capaci di dire: «Be', in fondo sono anch'esse creature di Dio» e mi verrebbe voglia di rispondergli: verrebbe voglia di rispondergli: «D'accordo, ma sono certamente fra le più bastarde»? È inutile prendersela più di tanto. Se si accetta l'idea che Dio sia il nostro Grande Padre, bisogna accettare pure che Egli abbia fatto tutto a ragion veduta e per il meglio. Dobbiamo volerGli bene comunque ed essere comprensivi. Al quinto giorno Si è scatenato a quella maniera? Gli è capitato qualcosa che conosciamo bene. Attacco di narcisismo creativo. Capita anche a me, uguale. Ti senti solo, isolato e ti manca la fiducia degli altri. Hai un'alta considerazione di te, ma temi che le tue qualità possano essere messe in dubbio. Allora precipiti in uno stato d'ansia e hai due possibilità: o vai in depressione, oppure reagisci con l'iperattività. Ti viene un irrefrenabile desiderio di strafare. Strafai per stupire e per avere conferme. Succede, è umano. Figurarsi se non può essere divino. Soprattutto per Uno che è sempre stato da solo. E dunque Dio vide che ciò era buono, è appagato, vedete? E subito dopo Dio li benedisse dicendo... È proprio felice, vedete? Ha anche voglia di parlare! Soprattutto perché finalmente c'è qualcuno che può ascoltarLo. Non sono certo che balene, quaglie e lepidotteri fossero anche in grado di capire il senso delle parole, ma questo dettaglio non modifica la solennità del momento. «Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; si moltiplichino pure i volatili sulla terra.» Ecco, pazienza. Se ancora ci fosse stata una tenue speranza di avere un mondo un po' meno affollato di irritanti animali, con questo esplicito invito l'Eccelso ci ha messo definitivamente una pietra sopra. E fu sera e fu mattino: il quinto giorno. Non ho le prove di ciò che sto per dire, ma azzardo che quella sera il Signore sia andato a dormire senza nemmeno cenare. Stanco morto (si fa per dire, ovviamente). Sesto e ultimo giorno. È venerdì, è venerdì! Chissà se anche nel primo venerdì della storia del mondo si sentì l'eco di quel coro esultante di voci che, più o meno sommessamente, risuona da sempre negli uffici durante l'ultimo giorno lavorativo della settimana. Probabilmente no, perché non c'era anima viva e dunque il tasso di disoccupazione era pari al cento per cento. A meno di non voler considerare il Signore Iddio un lavoratore, con il che lo stesso dato andrebbe capovolto: disoccupazione zero per cento. Non ci capisco granché di statistica e di mercato del lavoro, ma credo si tratti della conseguenza più evidente di un sistema economico monopolistico. Per portare a termine il progetto della Creazione, questo è davvero l'ultimo giorno utile. E Dio lo sa. Ma quello che Egli invece non sa è che, purtroppo, non sarà un giorno utile quanto gli altri. È una cosa che sappiamo noi, perché siamo più esperti di Lui in fatto di lavoro. Noi purtroppo dobbiamo lavorare per gran parte della nostra vita, mentre per Lui è in assoluto la prima volta. E direi anche l'ultima, se consideriamo che in seguito si è limitato a osservarci dall'alto e non ha più spostato uno spillo. Perché questo giorno non è come gli altri? Semplice: perché è venerdì. Come lavoriamo noi di venerdì? Siamo stanchi della settimana, siamo deconcentrati perché abbiamo la testa già sdraiata nel week-end e ci esercitiamo nella pratica che più ci esalta, consola e conforta in quanto lavoratori: il rinvio. Che cosa esiste di più rassicurante e benefico di frasi come «ne riparliamo lunedì», «ci vediamo settimana prossima», o addirittura «sentiamoci venerdì prossimo che così poi prendiamo un appuntamento per la settimana successiva»? Insomma, in buona sostanza noi sappiamo che di venerdì non lavoriamo affatto, sempre che, ovviamente, non capiti qualcosa di terribile che ci obblighi a farlo. E così, il nostro Signore Iddio affronta il suo più importante giorno di lavoro, quello nel quale dovrà dare un senso compiuto a tutto il progetto, senza aver previsto la sindrome del venerdì. Che purtroppo lo condizionerà e Gli costerà cara. E che, soprattutto, costerà cara a noi. Il Signore parte di gran carriera, pieno di energia e di voglia di fare. È scritto chiaramente nel testo biblico. E Dio disse: «Basta, abbiamo perso fin troppo tempo nei giorni scorsi, è ora che facciamo sul serio». E Dio vide che il ragionamento era buono. E Dio disse: «Diamoci dentro ragazzi». E così fu. Naturalmente non è vero. La versione corretta è quella che segue (mi sono fatto prendere dal clima deliziosamente fatuo tipico del venerdì). E Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: animali domestici, rettili e fiere della terra, secondo la loro specie». Dare vita a tutti questi animali in mezza giornata è un impegno produttivo da far impallidire anche il più motivato fra gli imprenditori. Nemmeno con incentivi speciali, agevolazioni fiscali e liberalizzazione degli straordinari vi si potrebbe far fronte con risultati accettabili. Ma ovviamente non è il caso di Dio, che ha risorse inesauribili. E dunque: Dio fece le fiere della terra secondo la loro specie, gli animali domestici secondo la loro specie e tutti i rettili secondo la loro specie. Il testo è molto sbrigativo. Riflette il clima di grande fretta nel quale il Creatore si è messo a operare. Sforna migliaia di animali a un ritmo folle, non ha nemmeno il tempo di dar loro un nome, li piazza lì, come vengono vengono, lasciando all'uomo (lo scopriremo in seguito) il compito di fare ordine in quella immane confusione di bestie. Non fa nemmeno lo sforzo di stabilire a quale delle varie categorie appartengano. Ad esempio, che si intende per animali domestici? Quelli che possono stare in casa? Diciamo di sì? Bene. Però dipende anche dalle abitudini di ciascuno. Mia zia si farebbe scuoiare piuttosto che lasciar entrare nel suo salotto i deliziosi criceti della sua vicina (li definisce «quegli orrendi topetti»). E dipende anche da dove uno abita: un mio amico, che ha vissuto per molti anni in Ghana, aveva un cottage ai bordi della foresta e racconta che dentro gli entrava di tutto; per lui l'unico animale non domestico era l'elefante perché non passava dalla porta d'ingresso. E le fiere della terra quali sono? Solo quelle feroci? Ma allora il capriolo, che non sembra un tipo aggressivo, ma che non è facile da convincere a trasferirsi in un appartamento, in che gruppo lo mettiamo? Oppure fiere sta per orgogliose di sé? In questo caso, sciacalli e iene, che hanno ben poco di cui vantarsi, sarebbero di incerta collocazione. Ma è del tutto inutile attendersi spiegazioni. Il Signore Iddio ci dice soltanto: secondo la loro specie. Già, bravo. E noi che ne sappiamo di questa specie? Che vuol dire esattamente? E quante saranno mai queste specie? Non siamo neppure sicuri che si dica così. Com'è il plurale di specie? Speciee? Species? Naturalmente, non possiamo passare sotto silenzio che è in quest'ultima convulsa mattinata che fanno il loro ingresso nel mondo alcune creature per noi assolutamente speciali. Finalmente, è proprio il caso di dirlo! Finalmente arrivano cani, gatti e cavalli, grazie ai quali la nostra esistenza sarà spesso meno dolorosa. Finalmente arrivano vacche, capretti, galline e tacchini, grazie ai quali la nostra cena sarà spesso meno ai quali la nostra cena sarà spesso meno deludente. Bene, molto bene, è tutto molto bello. Ma non manca qualcosa? Già. È il pomeriggio dell'ultimo giorno, il lavoro deve andare in consegna (non sappiamo nemmeno per che ora, ma se ha fatto un continuato non potrà mai essere oltre le diciotto) e del genere umano non c'è traccia. E come sta il nostro Signore, benedetto sia il suo nome? Non è difficile immaginarlo: come uno straccio. È distrutto, logorato, senza più idee. La cosa più logica sarebbe che staccasse, anche quell'oretta prima, facesse una bella doccia e via in week-end. Ha fatto tanta fatica con la storia dell'asciutto per creare il mare, perché non andare a dargli un'occhiata e goderselo un po'? Ho pensato anche a una formula per uscirne senza sfigurare. E Dio disse: «Ne riparliamo lunedì». E così fu. Che ci vuole. Ma naturalmente le cose non andranno così. E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza». È talmente affaticato che non riesce nemmeno più a parlare. Usa improvvisamente il plurale. Facciamo chi? Dobbiamo per caso dedurne che per tutta la settimana ci ha lasciato credere di essere da solo, mentre invece aveva un'intera équipe ai Suoi ordini? No, è soltanto l'effetto della stanchezza, che Gli fa anche dire a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, ossia lo stesso esatto concetto ripetuto due volte. Colpisce in Uno che si è sempre fatto apprezzare per una precisione e una concisione di linguaggio assolute. Ma non c'è tempo per le esitazioni né per le correzioni di stile. Dio ha ormai deciso. E Dio creò l'uomo a sua immagine. A immagine di Dio lo creò. Maschio e femmina li creò. Eccoci serviti. Avrebbe potuto farci con calma, mettendoci in cantiere fin dall'inizio, progettandoci più volte per poi, via via, migliorarci. Avrebbe potuto farci sentire al centro, considerarci il fulcro di tutta la grande Creazione. Ma soprattutto avremmo dovuto essere le Sue creature predilette, il frutto migliore del Suo ingegno e del Suo spirito, il prolungamento sulla Terra della Sua dimensione celeste. Invece niente. Il Padreterno ci ha fatto all'ultimo momento, distrattamente e sulla fatica. Forse, prima di crearci, si rinfrescò con abbondante acqua il viso. Quindi, alzando il capo, si vide riflesso nello specchio sopra il lavabo. Si osservò a lungo. In quel momento, aveva il volto di un individuo molto stanco. Poi tornò alla scrivania e fece uno schizzo. Era la nostra faccia. Se siamo come siamo, lo dobbiamo alla somiglianza con quella Sua immagine allo specchio. Insomma, continuiamo pure a chiamarla Creazione del mondo. Mettiamoci pure tutta l'enfasi che merita l'opera di un indiscusso Grande. Però non dimentichiamoci com'è andata veramente: è stato un mezzo disastro. Un lavoro fatto male, più o meno come l'avremmo fatto noi al suo posto. Perlomeno io, al suo posto. È per questo che mi piace Dio. Siamo due gocce d'acqua. II Il giardino dell'Eden: un paradiso artificiale Che libro curioso è la Bibbia. Parte in grande stile con il racconto esaltante della Creazione. Ci impressiona e ci appassiona descrivendo le geniali pensate di Dio e il ritmo incalzante delle Sue opere. Ci conduce in un amen (proprio) verso il trionfale e commovente epilogo, nel quale il Creatore ci mette al mondo e ci benedice come Sue predilette creature. È il primo racconto della creazione. Nemmeno il tempo di riprendere fiato ed ecco la sorpresa: c'è un secondo racconto della creazione, nel quale si scopre che le cose sono andate in tutt'altra maniera. Proprio così. Senza spiegazione alcuna, ci vengono fornite due differenti versioni dello stesso fatto. Ma mica un fatto qualunque: si tratta del fatto dal quale ebbero origine tutti gli altri, potremmo definirlo il Fatto dei Fatti. Da non credere. Gli interrogativi sorgono spontanei, ovviamente. A quale delle due storie dobbiamo prestar fede, dato che qui prevalentemente di Fede si tratta? La prima è quella ufficiale? E, nel caso, quella ufficiosa da che fonti proviene? Oppure la seconda smentisce la prima? E se fossero tutte e due false e ce ne fosse una terza che è stata tenuta nascosta perché conteneva inquietanti rivelazioni? Sono tutte domande rivelazioni? Sono tutte domande giustificate. Soprattutto perché, come vedremo, Il Signore Iddio che compare nel secondo racconto sembra, rispetto a quello del primo, addirittura un'altra persona (si fa per dire persona), sembra un altro signore (si fa per dire signore), be' insomma, sembra Un Altro. Leggiamo. Quando il Signore Iddio fece la terra e il cielo, sopra la terra non c'era ancora alcun arbusto della campagna, né alcun'erba dei campi era ancora germogliata, perché il Signore Iddio non aveva ancora fatto piovere sulla terra, né c'era l'uomo a coltivare il suolo e a far salire dalla terra l'acqua dei canali per irrigare tutta la superficie del suolo. Allora il Signore Iddio con la polvere del suolo modellò l'uomo, gli soffiò nelle narici un alito di vita e l'uomo divenne essere vivente. Ecco qua. È saltata per aria tutta l'affascinante struttura del primo racconto. Dio non lavora più step by step, con quel ritmo lento e progressivo scandito dalle sei giornate di creazione. Abbiamo un riassunto sbrigativo, che contraddice la narrazione precedente. Si parla di pioggia e di canali di irrigazione, così, di punto in bianco, come se Dio fosse un qualunque perito agrario e non il Supremo Architetto che avevamo conosciuto (non dice nemmeno un «Sia la pioggia» o un «Ci siano dei canali per irrigare», niente). Quindi, in totale anticipo su tutto, quando ancora mancano gli animali e persino la vegetazione, il Signore prende della polvere dal suolo e fa nascere l'uomo. Sia chiaro. Non è che io ci trovi niente di male, nella nuova versione. Basta solo sapere a quale devo credere delle due. In sostanza Ti chiedo, Signore: se la storia valida è questa, per quale diavolo di motivo (dico diavolo senza alcun intento polemico) mi sono dovuto imparare a memoria fin da bambino tutta la storiella dei sei giorni e del sia la luce e del vide che ciò era buono e del facciamo l'uomo a nostra immagine? Va bene, va bene, non discuto, Tu fai sempre come Ti pare, giusto? E a me – sai che Ti dico? – questo secondo racconto piace persino di più dell'altro. In effetti, nel capitolo precedente, avevo sottolineato la mia delusione nel constatare che Dio ci aveva messo al mondo all'ultimo momento, in fretta e furia, con quei conseguenti ed evidenti difetti di fabbricazione che ci tiriamo dietro da allora. È una gioia perciò scoprire che il Padreterno ha avuto subito a cuore il nostro destino. Non solo: quel gesto di modellarci con le Sue mani ha un che di intimo e di amorevole che ci emoziona, è il segno tangibile della Sua vicinanza, da sempre. Peccato che, anche con tutta l'affettuosa cura, ci abbia comunque fatti pieni di magagne. È un mistero che il racconto biblico chiarirà soltanto in parte, come vedremo. A me resta impressa, indelebile, quell'immagine: il Signore che ci soffia delicatamente nelle narici il Suo sacro alito di vita. Pensate che fortuna, per quel primo uomo. Nascere inspirando Dio. L'unico caso di sniffata accettabile e benedetta. E non sembra neppure lo stesso Creatore. Quello del primo racconto ci appariva come un Essere Supremo solitario, progettuale e freddo, direi intellettuale. Uno che inventava con la parola, Uno che diceva: «Ci sia questo» o «Si faccia quest'altro». Niente coinvolgimenti, niente mani sporche di polvere, per intenderci. Tanto che, al momento di creare il genere umano, si mostrò distaccato e lucido e intuì la necessità che ne esistessero due varianti complementari. Ricordate? Maschio e femmina li creò. E qui sta il punto. Il secondo Dio si mostra subito più complice e amichevole del primo. E come mai, allora, decide di mettere al mondo soltanto l'uomo? Che razza di idea, Signore, io non la capisco proprio. Non è un'iniziativa complice e amichevole questa, lo dico da uomo. Non inteso come l'Uomo. Inteso come maschio, quello che nell'altra versione (ammesso che fossi Tu) avevi creato insieme alla femmina, capisci? E così, eccoli qua, Dio e il primo uomo, nel vuoto mondo, da soli. A fare che cosa? Non si sa. Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, ad oriente, e vi collocò l'uomo che aveva modellato. Il Signore Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli all'aspetto e buoni a mangiare e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. ...Il Signore Iddio prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. No, no, non ci siamo assolutamente. Preferivo l'altra versione. Appena arrivati, la donna e l'uomo si sentirono dire (me lo ricordo perfettamente, come fosse successo a me): «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e abbiate potere sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su ogni animale che striscia sopra la terra.» E ancora: «Ecco, io vi do ogni erba producente semente che è sulla superficie di tutta la terra e ogni albero che ha frutto di albero producente seme: vi servirà da cibo.» Che, detto in parole più semplici, voleva dire: «Cari figlioli, tutto quello che vedete qui è vostro, abbiatene cura, costruite, modificate, fate e disfate come vi pare più opportuno, mangiate e bevete a sazietà, state in buona salute, godetevi la vita e soprattutto dateci sotto con quello che sapete, perché a me fa piacere e voglio un sacco di nipoti.» Insomma, sarà stato anche un Creatore introverso e poco di compagnia, ma non certo avaro di stimoli e di sollecitazioni positive. A quella coppia di fortunati impose compiti precisi, ma seppe anche infondere fiducia.Un Dio libertario, che non provoca sensi di colpa. Possiamo dire che la medesima cosa avvenga anche in questa seconda versione? Non mi pare davvero. Dio si disinteressa dell'opera di Creazione del mondo e si concentra sul pover'uomo che ha tirato su dalla polvere. Pianta il famoso giardino e ce lo schiaffa dentro senza nemmeno chiedergli un parere. Il suo compito sarà coltivarlo e custodirlo. Giardiniere e custode, insomma. Ma questo cosiddetto Paradiso, a ben vedere, altro non è che un'illusoria oasi felice in mezzo alla desolazione. Mi domando a che serva tenere l'uomo rinchiuso là dentro. A me fa tristezza. A cominciare dal nome: Eden. Mi ricorda uno sgangherato cinema all'aperto che c'era al mare, ci andavo con i miei da piccolo: lo schermo non era a fuoco mai, però in compenso il sonoro gracchiava sempre. Ma è assai probabile che il primo uomo non si ponga domande e non faccia paragoni, perché non ha alcuna esperienza della vita, né tanto meno ha ricordi di villeggiatura. Al contrario, stare tutto solo accanto a Dio è per lui un privilegio ineguagliabile. (Ho letto tempo fa un commento rabbinico su questo passaggio della Genesi. Vi si diceva che la nostra innata tensione religiosa nascerebbe proprio dalla nostalgia inconscia di quel fantastico periodo di intima vicinanza con il Padreterno. È una riflessione mistico-psicanalitica che mi ha colpito molto.) Ciò non toglie che, alla lunga, fare il custode di un posto, attorno al quale non c'è anima viva che possa entrare, rischia di diventare alienante. E fare il giardiniere può venire a noia. Hai voglia a piantare fiori e potare rami e tagliare erba e regolare siepi, senza oltretutto parlare mai con nessuno. C'è da diventare pazzi. (Anche su questo ho letto un midrash di alcuni sapienti ebrei. Accadeva che il Signore Iddio, di quando in quando e senza preavviso, scendesse nel giardino per passeggiare e scambiare quattro chiacchiere. L'uomo ne era terrorizzato, perché temeva di non essere in grado di sostenere la conversazione. Ed è per questo che i rabbini passano tutta la propria vita sui libri sacri: vogliono farsi trovare pronti a uno scambio di idee con Dio nel remoto, ma non impossibile caso di una Sua visita. Buffo e bizzarro.) Più che logico, quindi, che il nostro uomo prima o dopo buttasse l'occhio su quella strana pianta in mezzo al giardino, l'albero della conoscenza del bene e delmale. Il Signore l'aveva piantato lì con apparente indifferenza, ma in una posizione troppo centrale per non destare sospetti. L'uomo si era comunque ben guardato dal fare commenti (ce lo hanno detto anche i saggi: aveva una gran paura di dire delle cavolate). Certo era strano, quell' albero: non richiedeva mai il suo intervento di giardiniere, niente foglie secche, niente parassiti sul tronco, niente rami secchi, anzi l'albero si autopotava, addirittura. Forse per colpa di uno sguardo troppo prolungato, Dio si accorge dell'interessamento dell'uomo (non Gli sfugge mai niente, porca Eva, anche se Eva ancora non era arrivata, per la verità), ed ecco, puntuale, la stoccata. Il Signore Iddio diede all'uomo quest'ordine: «Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti». Improvvisamente, un'oscura e incomprensibile minaccia rompe la pace interiore dell'uomo e provoca il sorgere di interrogativi a lui ignoti fino a quel momento, o forse soltanto sopiti, chi lo sa. Perché il frutto di quell'albero è così pericoloso? E che cos'è la conoscenza del bene e del male? E che significa esattamente moriresti? Nel leggere questo passaggio, io mi sento sempre un poco a disagio. Forse perché so bene di trovarmi di fronte a uno snodo decisivo. È qui infatti che il Padreterno fa conoscere all'uomo il suo destino mortale. Il messaggio è chiaro: la nostra esistenza ha un ruolo centrale nel grandioso e misterioso progetto di Dio, ma dobbiamo ricordarci che esistono confini di conoscenza che non possiamo oltrepassare. Al di qua c'è la luce della vita, al di là c'è il buio pesto. Mi sta bene, benissimo, non discuto, ci mancherebbe altro. Ho capito il senso. Ma non mi piace il modo. Ecco: il senso mi dispone, ma il modo mi indispone. Perché questa verità si trasforma in minaccia? E la minaccia in punizione? E la punizione in senso di colpa? Colpa per che cosa? Vorrei spiegazioni. So che è complicato spiegare, ma è un problema Tuo, Signore. Visto che pretendi obbedienza, perlomeno sforzaTi di fornirci un perché. sforzaTi di fornirci un perché. (Tanto si sa che è una battaglia persa in partenza. Il Padreterno è della vecchia scuola educativa, è un padre all'antica, di quelli che, ai figli che domandano perché, rispondono soltanto: «Perché no!». L'unica variante possibile è: «Perché ho detto di no!». Ma se sono in vena di parlare è: «Perché quando è no, è no!».) Insomma, fossi stato al posto di quel giardiniere-custode silenzioso e gentile mi sarei incavolato. «Ma come? Io sono qui al Tuo servizio, non mi lamento e non protesto mai, curo le Tue piante, faccio la guardia a questo Tuo assurdo giardino anche se so benissimo che è tutta una farsa perché non c'è uno straccio di cristiano che ci possa entrare, dico cristiano ma potrei benissimo dire musulmano ebreo buddhista o comunista tanto non c'è anima viva qua attorno, magari venisse qualcuno e tentasse di scavalcare il muro, un monumento gli farei, gli regalerei tutta la frutta che vuole, che se ne portasse via casse intere, ma prima lo terrei due giorni qui con me a parlare, non parlo mai con nessuno, mi ronzano le orecchie a forza di sentire questo maledetto silenzio, nemmeno un fringuello che canta, una mosca che ronza, persino una zanzara che mi pizzica mi farebbe piacere, sto diventando un deficiente totale a forza di chiacchierare del più e del meno con le fresie e i ravanelli, è una vita che sto qua fresie e i ravanelli, è una vita che sto qua dentro rinchiuso, dico una vita anche se non ho la più pallida idea di quello che sto dicendo, non so nemmeno quanto dura una vita, non ho la minima cognizione del tempo, non me l'hai mai data, ricordi? E ora, come se non bastasse, mi ci metti il carico da undici, dico undici anche se non so esattamente cosa dico, deve essere un numero, undici è un numero credo, ma Tu non mi hai mai insegnato nemmeno a contare, ricordi? Ora mi dici di punto in bianco mangia pure tutto quello che vuoi ma non mangiare il frutto di quell'albero, che cosa sono queste minacce, io non accetto minacce, se mi devi proibire qualcosa mi devi dire il perché, io voglio delle spiegazioni, che cosa ho fatto per non meritarmi delle spiegazioni? Io non meritarmi delle spiegazioni? Io voglio sapere perché mi tieni qua dentro, altro che albero della conoscenza del bene e del male, dimmelo Tu piuttosto che cosa è bene e che cosa è male! E comunque sappi che a me non interessa quell'albero, capito? Che vuoi che mi importi del frutto di quell'albero, io l'ho sempre odiato quell'albero, e se è per questo odio anche tutta la frutta, non ne posso più di mangiare frutta, sempre e solo frutta, possibile che in questo posto non si possa almeno una volta ordinare qualcos'altro, che so, una sogliola, una paillard o una bistecca come Dio comanda? Perché sei Tu che comandi, dico bene?» Forse mi sono fatto prendere un po' la mano. Mettiamo pure che il primo uomo non abbia parlato così. Ma certamente le parole di Dio lo hanno reso inquieto. Per la prima volta si sente solo davvero. E bisognoso di qualcun altro con cui confrontare le proprie ansie. E poi... Parliamoci chiaro: se è un uomo, un uomo sul serio, un maschio, sentirà il bisogno di... Sì, d'accordo, confrontare le proprie ansie è importante, d'accordo, ma anche... anzi, soprattutto... Insomma, si sa che l' uomo è uomo... che l'uomo è cacciatore... non lo vedi che voglia di carne che ha? Se lo costringi troppo a occuparsi di fiori, poi va a finire che la sua virilità... Insomma, Signore Iddio benedetto, fai qualcosa! Disse quindi il Signore Iddio: «Non è bene che l'uomo sia solo; gli farò un aiuto degno di lui». Oh! Era ora! Meno male che se n'è accorto! È proprio di aiuto che ha bisogno! "Finalmente ci si diverte un po'", avrà pensato l'uomo. Perlomeno, io avrei pensato così. E invece, niente. Fece dunque il Signore Iddio dal suolo ogni sorta di animali terrestri e tutti i volatili del cielo, li condusse all'uomo, per vedere come costui li avrebbe chiamati: qualunque nome infatti avesse posto l'uomo a ciascun animale, quello sarebbe stato il suo nome. Ma come? L'uomo si aspetta di avere finalmente un conforto adeguato. Ha intuito da certe curiose rigidità sul suo corpo che l'aiuto potrebbe rivelarsi estremamente piacevole. E il Signore che fa? Affolla il giardino di bestie di ogni genere. Se non è cattiveria questa. Ma cerchiamo di essere benevoli. In fondo gli animali sono creature di grande compagnia, soprattutto cani e gatti (un po' meno pipistrelli, iene, istrici, formichieri, pavoni, poiane, avvoltoi e altri, ma pazienza). Inoltre, va detto che c'è l'assoluta necessità di mettere ordine nello spaventoso caos zoologico esistente. Ricordiamoci che Dio è un creativo geniale, ma molto pigro e confusionario: ha messo al mondo alla rinfusa milioni di specie animali, senza curarsi nemmeno di catalogarle. Consideriamola dunque come una trovata per tenere sì impegnato quell'uomo, ma in un'occupazione molto utile anche per tutti quelli che verranno in seguito. Gliene saranno immensamente grati tutti i futuri cacciatori, allevatori, proprietari di circhi, direttori di musei di scienze naturali e cuochi. E anche tutti i vegetariani, che sapranno con esattezza che cosa non possono mangiare. E così: l'uomo impose nomi a tutti gli animali. Abbiamo dunque la certezza che si devono al nostro primo antenato invenzioni linguistiche fantasiose come fenicottero e antilope, poetiche come lucciola e pesce luna, tenere come colibrì e orsetto lavatore. Ma anche astruse come ornitorinco e upupa, sgradevoli come puzzola e cuculo, pessime come cozza e mandrillo. All'inizio si era messo in testa di poter dare a tutti non solo un nome, ma persino un cognome: martin pescatore, barbagianni. Poi evidentemente ha rinunciato. Per gli ultimi della lista, ormai sfinito e a corto di idee, è ricorso a scarni monosillabi: boa, gnu, gru. Un impegno mica da ridere, pover'uomo! Quanto ci avrà messo? Settimane, mesi? In ogni caso, finito il lavoro di archivio – è il tipico incarico che negli uffici si affida a quelli che si vuol tenere fuori dalle balle quelli che si vuol tenere fuori dalle balle per un po' –, ecco che il problema dell'aiuto, per così dire fisiologico, si ripropone più urgente che mai. Ma per l'uomo non si trovò un aiuto adatto a lui. E lo credo! Che poteva farci con gli animali! Non certo... Per quanto... Già. Devo rendervi conto, a questo proposito, di un commento rabbinico particolarmente bizzarro e audace, che attribuisce a questo passaggio del racconto il seguente significato: l'uomo zompò sopra alcuni di questi animali per vedere se era quello il tipo di aiuto che andava cercando. Sembra incredibile, ma anche quei sant'uomini dei rabbini hanno preso a cuore la disperata condizione del primo uomo, ormai in preda agli effetti devastanti di una tempesta ormonale senza precedenti (ovviamente). Ma finalmente ci siamo. Anche Dio ha capito e si è convinto di non poter più rimandare il grande passo. Allora il Signore Iddio fece cadere un sonno profondo sull'uomo che si addormentò; gli tolse quindi una delle costole, richiudendo la carne al suo posto. Poi il Signore Iddio con la costola tolta all'uomo formò una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo esclamò: «Questa volta sì, è ossa delle mie ossa...» ossa...» Questo è comprensibile perché, fin dal risveglio, l' uomo aveva sentito un dolore ficcante alla schiena e si era chiesto fra sé: "Possibile che mi sia venuto così all'improvviso? Devo aver dormito in una posizione sbagliata, o forse sarà l'umidità di questo benedetto giardino...". «Ma soprattutto carne della mia carne.» Insomma: per la prima volta, l'uomo si sente felice! Eh, già... Si ha un bel dire che il Paradiso è gioia allo stato puro, che la presenza del Signore è beatitudine. Sta di fatto che il nostro primo antenato si accende di vita e di energia soltanto quando gli compare davanti La Donna. E come dargli torto? Del resto, è anche ciò che vede e che vuole il Padreterno. Non a caso, di seguito, è scritto: È per questo che l'uomo abbandona il padre e la madre e si unisce alla sua donna e i due diventano una carne sola. Nel disegno sacro di Dio, l'uomo e la donna sono fatti per diventare una carne sola. Più chiaro di così! Alla faccia di chi nega al sesso la benedizione che si merita. E ambedue erano nudi, l'uomo e la sua donna, ma non ne avevano vergogna. Confrontando dunque questa seconda versione con quella contenuta nel primo racconto della Creazione, non si può non sottolineare l'anomalia: siamo in presenza di due storie molto diverse. Torna l'interrogativo: a quale dobbiamo credere? Ma forse è più giusto chiedersi semplicemente quale delle due preferiamo. Io preferisco la seconda, soprattutto per come si conclude. L'uomo e la donna sono finalmente felici insieme. Certo, lei si è fatta attendere parecchio, ma le donne – si sa – si fanno sempre attendere, è destino. I due stanno gioiosamente nudi l'uno di fronte all'altra. E di lì a poco faranno certamente ciò che hanno lungamente certamente ciò che hanno lungamente desiderato, soprattutto lui (diciamo pure che lui non pensa ad altro, ma gli uomini – si sa – pensano solo a quello, è destino). Ed è proprio per via di questo storico precedente che, quando facciamo l'amore per bene, poi diciamo: «Ah, mi sembra di stare in Paradiso!». E spesso sentiamo – noi maschi – un dolorino qui, all'altezza dell'ultima costola. È destino. III Il contratto è tutto da rifare! Ai tempi dei patriarchi, la vita degli uomini durava parecchio e riservava molte allegre sorprese. Tanto per fare un esempio, Tare, il padre di Abramo, lo generò che aveva già settant'anni e poi visse ancora per altri centotrentacinque. La sua morte a duecentocinque anni fu accolta con un certo stupore. «Ci spiace, Abramo» gli dicevano in molti. E lui: «Che volete, purtroppo mio padre non ha mai avuto una salute di ferro, come il nonno del resto». In effetti, il padre del padre, Nacor, era morto a soli centoquarantotto anni, lasciando un vuoto tremendo. Una famiglia assai sfortunata, destinata a premature scomparse, come nel caso del bisnonno Serug, stroncato da un male incurabile prima del duecentotrentesimo compleanno. Ben altra tempra aveva il bisnonno del bisnonno Serug, quell'Eber di cui tutti parlavano, che morì a quattrocentosessantaquattro anni investito da un cinghiale mentre correva in montagna per ossigenarsi. Del resto, il padre di Eber, il simpatico Sela, gran donnaiolo, avrebbe vissuto ben più a lungo se una notte d'inverno, nuotando in un lago ghiacciato, un gorgo non l'avesse trascinato via. Aveva solo quattrocentotrentatré anni. (Per verificare l'esattezza delle cifre, cfr. Genesi 11, 1426.) Nessun particolare stupore, dunque, se Abramo, all'età di novantanove anni, si sente dire dal Signore in persona: «Stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò grandemente». È una proposta che guarda al futuro, ma Abramo, che molti in paese considerano ancora un ragazzo con tutta la vita davanti, è assai fiducioso e accetta. Col senno di poi, verrebbe da dire che forse è stato un errore aderire, ma è pur vero che la vita premia (e castiga) solo chi ha un bel po' di coraggio. In buona sostanza, Dio sottopone ad Abramo un accordo, con il quale è sancita l'alleanza fra i due e che significa: insieme per sempre, a te la Mia protezione, a Me la tua devozione. È il famoso patto fra Dio e il Suo popolo. (Genesi 17) Si potrebbe persino definirlo un contratto, se non fosse che, su un piano giuridico, è molto carente e imperfetto. Sono certo che Abramo, assistito da un buon legale, avrebbe potuto facilmente impugnarlo e farlo dichiarare nullo, se soltanto avesse trovato un magistrato disposto ad accogliere il suo coraggioso ricorso. (Non ho fatto approfonditi studi di legge – soltanto sei esami in sei anni, cioè uno all'anno, ma è perché li preparavo con cura –, perciò andrò a naso, ma con il naso di uno circondato da sempre, suo malgrado, da parenti avvocati.) Prima di tutto non c'è niente di scritto. Va bene fidarsi, ma quattro righe su un pezzo di carta e un paio di firme non avrebbero fatto male a nessuno. Forse, però, bisogna mettersi nei panni del povero Abramo, che si trova di fronte a una controparte che esordisce così: «Io sono Dio Onnipotente, cammina alla mia presenza e sii perfetto». (Genesi 17, 1) Si intimidirebbe chiunque. Che non sarà una trattativa facile, Abramo lo intuisce da subito. E dunque, non solo non otterrà alcun documento, ma nemmeno una stretta di mano, come si usa per sancire un accordo fra signori perbene o, come diceva mio nonno, fra gentiluomini. Il problema è che qui non ci sono signori perbene, perché uno è un signore e l'altro è il Signore. Che peraltro gentiluomo assolutamente non è. È un Essere Superiore, d'accordo, ma prepotente e dai modi terribilmente bruschi. Sentite che dice al Suo imminente socio: «...tu non ti chiamerai più Abram, ma il tuo nome sarà Abramo...»(Genesi 17, 5) Ecco un altro motivo di nullità del contratto. Qualunque studente di legge lo capirebbe. Non si è mai visto che una delle parti contraenti imponga all'altra di cambiare nome. Ci sono i notai apposta per accertare l'identità delle persone e l'esattezza dei dati anagrafici. Non si può, non è valido. Ed è anche un po' assurdo. È come se, durante il rogito di un immobile, la parte venditrice dicesse improvvisamente alla parte acquirente: «Se lei continua a farsi chiamare con quel suo odioso nome di Ivano e non lo cambia in Ivan, che piace molto di più anche a mia moglie, io col cavolo che le vendo il mio trilocale!». Ma naturalmente Abram, che ha pur sempre novantanove anni e ormai non si stupisce più di niente, decide di non fare questioni. Forse, piuttosto, pensa con rammarico alla spesa che gli toccherà affrontare per cambiare tutta la sua carta intestata. E alla pazienza cui dovrà fare appello ogni qual volta i suoi vecchi (molto vecchi) amici lo prenderanno in giro dicendogli: «Com'è che ti fai chiamare adesso? Ti sei aggiunto una o? E perché? Avevi voglia di cambiare? E un bel tatuaggio quando te lo fai? E l'orecchino, te lo metti?». Da un punto di vista legale, insomma, si potrebbe parlare di vizio del consenso, ovvero di una chiara condizione di subordinazione della volontà da parte di un contraente ai danni dell'altro (lo so che l'ho detto male, non ve la prendete, confesso: uno dei sei esami era Storia del cinema processuale, ho parlato di Perry Mason). Questo aspetto è reso ancor più evidente da un altro particolare. Allora Abram si prostrò con la faccia a terra e Dio gli parlò... (Genesi 17, 3) Dite se vi pare possibile che uno conduca una libera trattativa e tuteli i propri interessi umiliato e sdraiato a quella maniera. Lo ripeto: già soltanto per questi motivi il contratto è nullo e non vale una cicca. Ma veniamo all'oggetto del patto. Qui il Signore Iddio dà ovviamente il meglio di sé. «Ti renderò grandemente prolifico, ti farò diventare nazioni e dei re usciranno da te. Stabilirò il mio patto fra me e te e la tua discendenza dopo di te, nelle sue generazioni, come patto perpetuo, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. Darò a te ed alla tua discendenza dopo di te la terra delle tue peregrinazioni, tutta la terra di Canaan in possesso perpetuo, e io sarò il loro Dio.» (Genesi 17, 6-8) Belle, bellissime parole che descrivono progetti importanti, che delineano grandi prospettive. Non ci sono dubbi su questo. Ma si tratta pur sempre di parole. questo. Ma si tratta pur sempre di parole. Sono soltanto promesse, niente altro che promesse. Assunzioni di responsabilità, ma per un futuro molto lontano e indeterminato. Impegni senza alcun riscontro concreto. Sarebbe più che legittimo chiedere delle garanzie. Credo non ci sarebbe stato nulla di male nel dire: «Va tutto bene, è tutto magnifico, però, in attesa che questo ben di Dio si realizzi, non potresti anticiparmi qualcosa, che so, un terreno edificabile, quattro vacche da latte, un coniglio, un mazzo di carte, un genere a piacere, giusto per mostrarmi che ci sai fare?». Anche perché, in cambio, sono richieste una devozione e una fedeltà assolute, senza limiti di tempo. senza limiti di tempo. Ecco un ulteriore motivo di nullità dell'accordo: per le prestazioni occorre che ci sia sempre un termine previsto (è così, più o meno, no? Faccio un'altra ammissione, per placare i parenti e amici avvocati: l'esame di Diritto commerciale era collettivo, abbiamo preso diciotto in sei, tre a testa, io non ho aperto bocca). Ma naturalmente Abram, o meglio Abramo, non ha il coraggio di fare alcun tipo di obiezione. Peggio per lui, verrebbe da dire. Ma purtroppo sarà peggio anche per noi. Intendo per noi che abbiamo ereditato da Abramo il contratto, senza poterlo mai più ridiscutere. Infatti il Signore se ne esce con una richiesta a dir poco imbarazzante. «Circonciderete la carne del vostro prepuzio e questo sarà il segno del patto fra me e voi.»(Genesi 17, 11) Ecco che cosa si ottiene a fidarsi, a essere disponibili e a non fare questioni. Meglio passare per pignoli, per diffidenti e ingrati, piuttosto che trovarsi irreparabilmente blindati in accordi svantaggiosi e iniqui. È incredibile. Non contento di tutto ciò che ha ottenuto senza quasi nulla concedere, Dio ha il coraggio di pretendere Lui un segno del patto. E che segno, Signore! Mica ci hai chiesto un taglietto su un piede o una modesta incisione su un braccio. Guarda, per farTi piacere avrei accettato perfino uno stupido piercing. Avrei detto: pazienza, è una pratica inutilmente pazienza, è una pratica inutilmente tribale, ma almeno fa tendenza e magari faccio anche colpo su qualche ragazza un po' avanti. Ma la circoncisione è troppo, davvero. Ma dico: come Ti è saltato in mente? Con tutti i posti che esistono, perché proprio lì? È un punto delicato e ci tengo, diciamo che mi serve e voglio che resti com'è e che nessuno me lo tocchi (be', proprio nessuno non è esatto), insomma, nel caso decida di farmelo toccare, escludo che sia con la punta di un coltello. Ci avessi detto: tagliatevi un pezzo di unghia, be', quella è una cosa che poi mi ricresce. Certo, ho capito benissimo che hai detto: solo il prepuzio. Però chi mi garantisce che non serva a qualcosa anche questo prepuzio? Dici che non serve? E allora scusa, perché ce lo hai messo? E soprattutto perché lo fai tagliare a noi soltanto? Se davvero non serve, fallo tagliare a tutti, belli e brutti, dico bene? Guarda, facciamo così: in partenza io me lo tengo come gli altri, se poi negli anni, con l' esperienza, vedo che davvero non mi serve o che al limite non lo uso più di tanto, allora magari me lo incido tutto intorno come mi hai chiesto. Va bene? Come non va bene? Come dici? Devo tagliarlo all'età di otto giorni(Genesi 17, 12)? E se non lo faccio? «Un maschio la carne del cui prepuzio non sia stata circoncisa, una tal persona sia recisa dal suo popolo: ha violato il mio patto.» (Genesi 17, 14) Niente da fare. Si può discutere con uno che pensa di Sé: «Io sono Dio Onnipotente»? (Genesi 17, 1) No, è impossibile. (Breve nota. La circoncisione è una pratica molto antica, ma tuttora largamente diffusa. Riguarda il piccolo popolo degli ebrei, ma anche lo sterminato popolo degli islamici. Le ragioni rituali sono strettamente connesse da sempre a quelle igienicosanitarie. Negli Stati Uniti d'America, tanto per fare un esempio, la gran parte dei cittadini maschi di ogni confessione religiosa è circoncisa per scelta pediatrica. La circoncisione non crea problemi a nessuna delle tipiche funzioni cui abitualmente è preposto l'organo maschile. Se adeguatamente assistito, il circonciso è soddisfatto e felice come tutti gli altri.) (Breve nota alla nota. Alcuni sostengono che il circonciso fornisca migliori prestazioni rispetto all'incirconciso. Altri sostengono esattamente il contrario. Difficile dire dove stia il vero. Perché non esiste possibilità di una controprova. Chi ha perso il prepuzio, non sa che gli comporterebbe ritrovarlo. Chi lo ha conservato, si guarda bene dal privarsene. È dunque un confronto impossibile, fra organi troppo differenti. Il più classico dei casi in cui ognuno, giustamente, pensa solo ai propri.) E così, convinti o meno, ci si circoncide. Anzi, ci si fa circoncidere, perché non è una pratica che si possa certo sbrigare da soli. Niente a che fare con l'autoerotismo, per intendersi. A otto giorni dalla nascita, con una goccia di vino per anestesia, senza che ti chiedano se sei d'accordo e ti sta bene, ti tagliano via un piccolo pezzetto da quel pezzetto piccolo di carne. È tutto davvero molto piccolo a otto giorni e il sacrificio, per la verità, è minimo. Torniamo ad Abramo. Sapete qual è il suo vero dramma, ora? Deve personalmente circoncidere tutti i maschi di casa. Ma sarà in grado di farlo? Ha avuto istruzioni in merito? Vediamo se il testo biblico ci dice qualcosa. Allora Abramo prese suo figlio Ismaele, tutti coloro che erano nati nella sua casa come pure coloro che aveva comprato col suo denaro, tutti i maschi tra gli uomini della casa di Abramo, e in quel medesimo giorno circoncise la carne del loro prepuzio, come Dio gli aveva ordinato.(Genesi 17, 23) Niente. Nessuna avvertenza o modalità d'uso. Il senso è: Abramo, arrangiati. Evidentemente, si è arrangiato. Lo ammiro, ha avuto fegato. Ma forse, più di lui, hanno avuto fegato gli altri. Che giornata. Chiedo scusa, capisco che il momento è di una certa importanza simbolica, ma a me viene troppo da ridere. Non so immaginarmi la scena. Come sarà andata? Saranno stati tutti diligentemente in fila ad attendere il proprio turno? Oppure ci sarà stato un fuggi-fuggi generale e l'anziano patriarca, col coltello in mano, avrà dovuto stanarli a uno a uno? Anche perché, un conto è la circoncisione operata da un chirurgo esperto su dei neonati, un altro conto è una mattanza indiscriminata su uomini di ogni età praticata da un vecchio pastore senza occhiali e con mano tremebonda. Sarà andata come vanno sempre queste cose fra gli uomini. (Ricordo, durante il mio servizio militare, il giorno fatidico della tanto temuta, mitizzata e attesa «puntura». Obbligati in coda davanti all' infermeria, aspettavamo di subire quella sadica procedura, una potente e violenta iniezione sulle tette che avrebbe dovuto sterminare tutti i nemici della nostra salute. Eravamo lì, tutti uguali di fronte al triste destino. Ma quanto diversi, l'uno dall'altro, nel modo di starci. C'era chi la prendeva sul ridere, chi maschialmente ostentava coraggio, chi parlava, parlava per vincere l'ansia, chi se ne stava in silenzio, chi tremava come una foglia, chi singhiozzava chiamando la mamma, chi protestava, chi accampava scuse, chi si inventava allergie indimostrabili, chi tentava la fuga. Ma alla fine, dal primo all'ultimo, come quelli della casa di Abramo, ci hanno tutti beccato e bucato. A me è venuto un febbrone e nel letto pensavo: l'unico atto veramente aggressivo di questo esercito che non fa paura a nessuno è stato contro i suoi stessi soldati.) contro i suoi stessi soldati.) Come atto finale, Abramo opera su se stesso. È il primo caso conosciuto di auto-circoncisione. E anche l'ultimo, per fortuna. A questo punto, Abramo crolla svenuto davanti alla sua tenda e dorme per tre giorni. Non è scritto nella Genesi, me lo sono inventato di sana pianta. Però è credibile, no? IV L'apparizione di Mamre, regia di Sergio Leone Da quel che ci risulta, Dio ha smesso da tempo di parlare direttamente con gli uomini. Non era così nell'epoca biblica. A tutti i personaggi più importanti di allora capitò di sentirsi chiamare dalla Sua voce. E ad alcuni, di trovarselo persino di fronte. Successe ad Adamo, a Noè, a Giacobbe, a Mosè, al grande re David. E moltissime volte ad Abramo, forse il più gettonato. Per quella gente, era una cosa quasi normale. Ogni qual volta, senza preamboli o stupori particolari, è scritto: Allora il Signore apparve..., significa che Egli deve dire qualcosa a qualcuno. Naturalmente, a mostrarsi al fortunato prescelto, non è mai il Signore in persona. Nessuno può vederlo nelle Sue reali sembianze, ammesso che esistano. Si tratta di manifestazioni della Sua presenza, per mezzo di apparizioni assai varie. Per descriverle, la Bibbia potrebbe benissimo dire: «Ed ecco il Signore in uno dei suoi migliori travestimenti.» Una volta è una luce accecante. Una volta è un cespuglio che brucia. Una volta è un angelo con tanto di spada. La fantasia non Gli manca di certo. Come nel caso, raccontato al diciottesimo capitolo della Genesi, dell'apparizione presso il Querceto di Mamre: il Signore, evidentemente in gran vena, usa un effetto speciale a sorpresa e si palesa ad Abramo sotto forma di tre uomini in piedi davanti a lui. Ma qui sta il fatto davvero sorprendente: il vecchio patriarca non ci casca. Leggiamo. Il Signore gli apparve poi presso il Querceto di Mamre, mentre egli era seduto all' ingresso della tenda sul caldo del giorno. Alzati gli occhi, guardò ed ecco, tre uomini erano in piedi davanti a lui. Appena egli li ebbe veduti, corse loro incontro dall'ingresso della tenda, si prostrò a terra e disse: «Signor mio...». Visto che prontezza? Sta sonnecchiando, intontito dal caldo, ma appena vede i tre tizi capisce immediatamente che si tratta di uno dei soliti trucchi di quell'Eccelso Mattacchione. E così Gli rovina la sceneggiata. Non c'è da meravigliarsi: è esperienza, la sua. Se abiti sotto una tenda in una zona desertica e non c'è nessuno nel raggio di chilometri, che pensi se all'improvviso ti sbuca davanti una comitiva di sconosciuti? Pensi: com'è che non ho visto polvere alzarsi e non ho sentito scalpiccio di cavalli? Ma che razza di giro hanno fatto questi? E poi pensi: vuoi vedere che è il Signore che ci prova di nuovo? Insomma, Abramo Lo ha sgamato. Formidabile. Non per niente Dio lo stima più di tutti e gli ha proposto il patto di alleanza. Continuiamo a leggere. «Signor mio, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, ti prego, non passare oltre il tuo servo. Permettete che vi faccia portare un po' d'acqua, vi laverete i piedi e vi riposerete sotto quest'albero. Io prenderò un pezzo di pane, rinfrancherete il vostro cuore, poi potrete proseguire; certo per questo siete passati dal vostro servo.» Notate la finezza. Abramo ha capito benissimo che dietro ai tre c'è Lui e vuole farGli capire che ha capito. Quindi inizialmente dice: «Ti prego, non passare oltre il tuo servo». Poi però, passare oltre il tuo servo». Poi però, come se volesse stare al gioco e non irritare troppo la Sua suscettibilità smascherandoLo, passa al plurale dicendo: «Permettete che vi faccia portare un po' d'acqua» (eccetera eccetera). Un genio di furbizia e lucidità. Fa bene a essere così gentile e ospitale. Anche perché, se puta caso i tre non avessero niente a che fare col Signore e fossero soltanto degli stranieri di passaggio, ha evitato di fare un'ignobile figuraccia. Ed essi risposero: «Fa' pure come hai detto». Rispondono in coro, come Qui Quo Qua. Aveva proprio ragione: sono soltanto dei pupazzi manovrati, altro che stranieri di passaggio. Abramo, malgrado la calura e le medicazioni della circoncisione recente (vedi capitolo precedente), si mette freneticamente in movimento per assistere il/i suo/suoi Ospite/ospiti. E coinvolge anche sua moglie. Abramo allora se ne andò in fretta nella tenda da Sara e le disse: «Presto, prendi tre seà di fior di farina, impastala e fanne delle focacce». Qui è possibile che Sara, come gran parte delle mogli in questi casi, si metta a fare domande e a protestare. «Ma come ti è saltato in mente di invitare a pranzo quei tizi? Non lo sai che odio le improvvisate? Si può almeno sapere chi diavolo sono? E poi fai presto tu a dire fai le focacce, lo sai benissimo che io detesto fare le focacce!» Ma Abramo non le dà il tempo. Forse giusto un «Poi ti spiego tutto, ora impasta e non farmi incazzare come tuo solito» e via di corsa a procurarsi qualche secondo decente. Poi Abramo corse all'armento, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo che s'affrettò a prepararlo; quindi prese della giuncata, del latte e il vitello che aveva preparato e li pose davanti a loro, mentre egli se ne stava in piedi vicino a loro sotto l'albero. Questo nobile patriarca ha compiuto da poco novantanove anni, ma si muove più rapido di un ragazzo che lavora nell'ora di punta in un fast-food. E che fa/fanno il/i Signore/signori? Ed essi mangiarono. Bene, mangiano. Il fatto però mi induce a pormi un paio di interrogativi. Primo interrogativo. Perché mangiano? È logico farsi questa domanda perché il gruppetto è formato unicamente da entità astratte: i tre individui sono apparizioni e il quarto è il Padreterno in persona, tutta gente che salta normalmente sia il pranzo che la cena. Evidentemente mangiano per un atto di pura cortesia nei confronti del vecchio. Ma lo fanno senza avere la minima idea di che cosa sia l'appetito. E dunque, non deve essere facile, per nessuno di loro, abbuffarsi a quella maniera e mostrare pure di gradire molto. Piccoli inconvenienti che possono capitare agli imbroglioni chi si spacciano per quello che non sono. Azzardo, a questo proposito, un'ipotesi. Forte del Suo potere di persuasione, Dio passa ai tre uomini anche le Sue porzioni, ovviamente enormi, costringendo i poveracci a un superlavoro gastrico non indifferente. Secondo interrogativo. Che fine hanno fatto le focacce che Sara doveva preparare? È probabile che anche gli invitati se lo siano chiesto. Ma che si siano ben guardati dal farlo notare ad Abramo. Già è dura ingozzarsi una giuncata e un vitello intero in tre, figurarsi se fossero uscite anche le pizze. se fossero uscite anche le pizze. Continuiamo a leggere. Poi gli dissero:«Dov'è moglie?». Sara tua Chiedo scusa. Mi ero sbagliato. Anche se può sembrare strano, gli ospiti hanno intenzione di chiedere alla donna notizie sulle focacce. Evidentemente i tre tizi ci hanno preso gusto e ora sono in preda a una sorta di bulimia insaziabile: è rimasto tutto il sugo degli arrosti e vogliono fare la scarpetta. Abramo risponde: «Eccola, è nella tenda.» Forse vorrebbe anche aggiungere un «Se è per le focacce, me ne occupo «Se è per le focacce, me ne occupo subito io», ma non ne ha il tempo. Il Signore Iddio finalmente gli parla. (Avendo già letto più volte tutto il brano, ho notato che, da questo punto in poi, i tre uomini spariscono nel nulla. È chiaro che Dio non ha apprezzato il loro inqualificabile comportamento a tavola e li ha tolti di mezzo. Forse li condannerà ad apparizioni di serie B, o a qualche comparsata in sogni di gente devota che digiuna per penitenza.) E qui la narrazione biblica si trasforma. Per come la vedo io, sembra la sceneggiatura di un grande film western. L'ambientazione era già perfetta fin dall'inizio. Un piccolo gruppo di querce in una radura brulla e deserta. Sole a picco. Polvere. Caldo torrido. Musica (poche note tirate di una chitarra slide, o di un'armonica a bocca, avete presente il suono? Una cosa tipo TU DI DU!...). Sotto una tenda, un vecchio. Immobile. Aspetta qualcuno. O forse no. È lì e basta, non serve spiegare, è l'attesa del nulla, tipica di ogni buon western (TU DI DU!...). All'improvviso tre pistoleros, a cavallo. E un quarto, poco più indietro. Sono stranieri, barbe ispide, facce bruciate dal sole, gente che non si lava, che mastica tabacco in bocche poco curate. Ghigno stampato. Per niente raccomandabili. Ma il Capo è quell'altro. Cappello calato sulla fronte, gli occhi come due fessure, sigaro spento fra i denti, barba curata, forte, fascinoso, spietato. Ma giusto. Mai un sopruso, è un uomo che mette al primo posto l'onore. È Lui. Chi meglio di Lui. È Clint Eastwood (TU DI DU!...). Il vecchio Abramo (anche il nome va bene) se li trova davanti e si agita subito per cercare di tenerseli buoni. Corre a chiamare la moglie e apre la locanda, cucina qualcosa e intanto suda e si asciuga la testa calva con il suo grembiule sporco da oste. Mangiano seduti nella penombra. I tre ridono, urlano, sputano, bevono troppo. Il Capo è a un tavolino in disparte. Non mangia e non beve. Pensa guardando nel vuoto. A che pensa? A un amore lontano. A un viaggio infinito. Al destino. Chissà. È un eroe, è un cow-boy solitario, è Clint. E pensa a quel che gli pare. Ma in realtà, come sempre, Lui è venuto perché ha una missione. Alla Sua Legge, oscura ma conforme a giustizia, nessuno potrà mai sfuggire. Chiama l'oste e finalmente gli parla. Eccoci al punto in cui ci eravamo interrotti. «Tornerò certamente da te fra un anno ed ecco, Sara tua moglie, avrà un figlio.» Mi sembra di sentire perfettamente la Sua inconfondibile voce. E il tono: è nitido, penetrante e sicuro. Dice quella frase soltanto, non è un ordine né una minaccia, è semplicemente la Sua parola. Grandioso. Unico. (Fin da bambino mi sono ammalato di western. Colpa di mio zio Gustavo, un pazzo affettuoso che girava armato con una colt vera. Aveva il porto d'armi, ma nessuno in famiglia sapeva il perché. Per anni, al pomeriggio del sabato, mi portava a vedere i film sui cow-boys. Piacevano a lui e tanto anche a me, non lo nego. Ma li vedevamo minimo tre volte. Era lui che insisteva. E se io davo segni di insofferenza, poggiava appena la mano sulla fondina che teneva sotto la giacca e mi fissava, come per dirmi: sicuro che te ne vuoi proprio andare? Io capivo che era meglio restare. Era pazzo, l'ho detto. Clint era il suo dio. A ogni sparatoria temeva che venisse colpito e tratteneva il respiro, anche quando sapeva, per averla già vista, che la scena finiva al meglio per lui. Allora si girava verso di me e urlava soddisfatto nel buio: mi sembra che andiamo bene! Mi vergognavo come soltanto un bambino può vergognarsi di un adulto bizzarro che lo accompagna. Ma al sabato successivo eravamo lì di nuovo a tifare per il pistolero più grande di tutti. Difficile a credersi, ma tutto rigorosamente vero.) Come detto, il Signore Iddio ha una sola parola. Se ha deciso che Sara avrà un figlio, vuol dire che Sara avrà un figlio. Ma a Sara, che ascoltava all'ingresso della tenda, scappa da ridere. Occorre spiegare una cosa. Sara non aveva mai dato figli ad Abramo. Aveva sempre sofferto per questa sua mancanza, ma era sterile e non poteva farci niente. Così, un giorno prestò al marito la sua giovane schiava egiziana Agar, perché provasse a fare un figlio con lei. Una donna evoluta, ce ne fossero oggi di mogli così comprensive e sportive. Immagino Abramo, che in quel momento ha più di ottant'anni: prima dice di non volerci nemmeno provare, poi dice che ci prova soltanto per farle un piacere. Tutte bugie, in realtà non chiede ovviamente di meglio. E infatti, alla fine, Abramo ci prova. Probabilmente chiede persino alla moglie di poterci provare più volte. È chiaro che ci prova gusto, chi non lo capirebbe. Ma purtroppo la giovane donna resta subito incinta. Purtroppo per Abramo, che non può più provarci. Mannaggia. E così nacque Ismaele, un figlio che il padre amò sempre in maniera speciale. Forse perché gli ricordava quei brevi e meravigliosi incontri notturni, nei quali era là fra le morbide braccia di Agar, non credendo ai propri occhi di avere pure la benedizione della moglie. Ma ormai è acqua passata. Figurarsi, dunque, quale reazione può avere ora Sara nel sentire che, entro l'anno, partorirà un figlio. Che rida è il minimo. E infatti ride, da non riuscire a tenersi. Rise dunque Sara dentro di sé dicendo: «Dopo di essere invecchiata mi darò al piacere? E anche il mio signore è vecchio». In effetti, Abramo sta per compiere cento anni e lei ne ha novanta suonati. È più che altro il pensiero di una notte d'amore fra loro che la fa sbellicare. Non ricordano più nemmeno che cosa esattamente si faccia in quei casi, è normale. Ma che qualcuno rida alle parole del Capo, è una cosa che in un western non può proprio accadere. O meglio: se accade, quel qualcuno smette per sempre di ridere. Immagino il silenzio pesante che cala su tutta la scena. I tre della banda, che bevevano e giocavano a carte, si interrompono e mettono mano alle armi. Abramo, tremante, cerca di scivolare sotto il bancone e si prepara al peggio. Sara, in un angolo, trattiene il respiro per soffocare la sua imprudente risata. Interminabili sono i secondi, forse i minuti, nei quali il Signore guarda fisso davanti a sé. E non fa niente altro. (TU DI DU!...) Poi finalmente Egli parla. «Perché Sara ha riso dicendo: È mai possibile che io possa partorire, ora che sono vecchia? Vi è forse qualcosa di difficile per il Signore?» Solo Clint saprebbe interpretare a dovere la durezza, lo sdegno, la tagliente ironia di queste parole. Ho presente il suo sguardo di ghiaccio. Riconosco quel parlare di sé in terza persona. Il messaggio è sempre lo stesso, occorre cacciarselo in testa: se Lui dice una cosa, quella cosa è Legge, chiaro? «Tornerò da te fra un anno, di questo tempo, e Sara avrà un figlio.» Chiaro? Chiarissimo Signore, chiarissimo. Ora la tensione si scioglie. Tutti hanno capito che Egli non ucciderà nessuno. Non ne ha alcun bisogno, la Sua forza è ben superiore a quella di quattro proiettili sparati in fronte. È la forza del Suo carisma. Della Sua Legge. Della Sua parola. Ha promesso e manterrà la promessa. Perché poi si sia messo in testa di far partorire una bisnonna, nessuno lo capirà mai, ma fa niente. Anzi, meglio non farsi sentire a dire una cosa del genere, meglio non pensarla neppure, perché è capace di leggerti anche nel cervello. La scena sembra dunque finita. Fra pochi istanti, dalla penombra di questo ambiente si passerà a un'inquadratura larga e luminosa, con tanti uomini a cavallo che corrono nella prateria verso un sole rosso fuoco che tramonta all'orizzonte. Ma Clint deve ancora dire qualcosa a qualcuno. Il Signore Iddio vuole mettere a posto una persona che si è permessa di dubitare di Lui: Sara. Gli basta voltarsi appena per guardarla. Lei ha già capito. Allora Sara negò dicendo: «Non ho riso» perché ebbe paura. Povera donna, sta per avere un attacco di cuore. Quanto ti fa paura Lui, quando ti guarda senza parlare! Mi ricorda mio padre (certo, il papà quando sei piccolo piccolo a volte sembra Dio) che per rimproverarmi, da bambino, mi fissava con quel suo sguardo torvo e severo che era peggio di uno schiaffo. Inutile e patetico il suo tentativo di scagionarsi: dice di non aver riso, Sara. Dài, Sara, ce ne siamo accorti tutti che hai riso. E infatti Dio non gliela fa passare. Ma egli disse: «No, tu hai riso». (TU DI DU!...) Una chiusura degna del miglior Sergio Leone. Sul fermo immagine, prima che scorrano i titoli di coda, una scritta: Dopo un anno Sara e Abramo ebbero un figlio e lo chiamarono Isacco, che in ebraico significa: il figlio di una risata. Già. Lo diceva sempre mio zio Gustavo: «Quando Clint dice una cosa, è quella». V I gemelli diversi Esaù e Giacobbe, che strana vicenda, la loro. La Bibbia, nella sua inesauribile fantasia educativa, ci racconta il caso assolutamente anomalo di due fratelli gemelli che non si somigliano, non si sopportano, non si stimano. E, soprattutto, non sono in simbiosi, non si «sentono», come capita sempre fra nati dallo stesso parto. Il loro rapporto richiama alla mente l'atavico rude conflitto tra i primi fratelli del mondo, Abele e Caino, conclusosi purtroppo in tragedia. Fra i due figli di Isacco e Rebecca, invece, non scorrerà mai il sangue, ma – è il caso di dirlo – non corre buon sangue (eppure è lo stesso). Una fratellanza subita e sofferta, alimentata da scontri, rancori e bugie, in un'eterna competizione che diventa nevrosi. Molto antica e molto moderna, anzi contemporanea. In tanti, probabilmente, si riconosceranno in questi rissosi e irrisolti gemelli diversi. Già, gemelli eppure diversi. Giacobbe è delicato di tratti e ha la pelle vellutata e chiara. Esaù è rosso e peloso in maniera imbarazzante (nella Genesi è scritto che quando uscì dal ventre di sua madre era già rosso tutto come un mantello peloso). Caratterialmente sono agli antipodi: Giacobbe è riflessivo, intelligente e scaltro, per non dire disonesto; Esaù è scaltro, per non dire disonesto; Esaù è istintivo, irascibile, ma facilmente manovrabile. Hanno gusti e passioni opposte: Esaù esperto cacciatore e uomo di campagna, Giacobbe uomo pacifico che se ne stava sotto le tende (ecco spiegata la carnagione pallida, se ne sta sempre all'ombra). Persino nell'affetto dei genitori sono divisi. Isacco preferisce di gran lunga Esaù, perché ama come lui la caccia e le grandi abbuffate di carne, mentre Giacobbe, ragazzo di casa e ottimo cuoco (soprattutto di minestre), è il prediletto di mamma Rebecca. Insomma, una famigliola come tante altre, nella quale si covano amorevolmente acidi conflitti. I due sono in guerra dalla loro nascita, o per meglio dire, sulla loro nascita. Esaù è considerato da Isacco il suo primogenito, perché al momento del parto fu il primo a vedere la luce. Ma il finto buono Giacobbe, sostenuto dalla madre Rebecca, non ci vuole stare e pretende la primogenitura per sé: sostiene di essere stato vittima di un sopruso già all'interno del ventre materno. In effetti, una qualche ragione potrebbe anche averla, se si dà per buono il racconto contenuto nella Genesi. Uscì fuori il primo, rosso tutto come un mantello peloso, e gli fu posto nome Esaù. Poi uscì fuori suo fratello, il quale con la mano teneva il calcagno di Esaù, e gli fu posto nome Giacobbe. Il fatto che Giacobbe sia comparso avvinghiato al piede del fratello inviterebbe a pensare a una sorta di violenta colluttazione avvenuta poco prima dell'uscita. Forse egli era, per così dire, in prima fila e quel piccolo energumeno peloso di Esaù lo ha cacciato all'indietro a suon di pedate. Peccato che nessuno, ai tempi, sapesse ciò che sui gemelli oggi sappiamo tutti: il secondo che nasce è stato concepito per primo. Formuletta semplice, anche da mandare a memoria: il primo è secondo, il secondo è primo. (Un amico mi suggerisce che sarebbe bastato attendere che Gesù dicesse gli bastato attendere che Gesù dicesse gli ultimi saranno i primi. Ribatto che il Cristo aveva in mente problemi certamente più seri.) Insomma, l'intera questione si sarebbe sgonfiata in un attimo. (Per la verità, nemmeno oggi tutti i medici sono d'accordo su questo argomento. Prima di tutto perché spostamenti e assestamenti durante la gravidanza sono sempre possibili. In secondo luogo perché, nella maggior parte dei casi, i gemelli si adorano e sono complici fra loro. Capita spesso che, per prendere in giro il resto del mondo, si divertano a scambiarsi di posto, sia fuori che – perché no? – dentro la pancia di mamma.) Ma torniamo a Giacobbe e al tarlo che lo rode: la primogenitura. Va detto che non si tratta di uno stupido puntiglio, o di una mera questione di principio, ma significa per lui, secondo le leggi del tempo, la supremazia sul fratello e il diritto a due terzi dell'eredità. Giacobbe assolutamente la vuole ed è pronto a tutto, pur di ottenerla. Persino a comperarla, costi quel che costi. Non gli costerà molto, in effetti. Com'è andata lo ricordano tutti, più o meno. È uno degli episodi più famosi. Esaù torna una sera dalla caccia, è esausto e non ci vede più dalla fame. Giacobbe è ai fornelli: minestra di lenticchie, la sua specialità. Da ogni parte vengono ospiti per assaggiarla e gli stranieri di passaggio deviano apposta dai loro percorsi. Non è che Giacobbe faccia un vero e proprio servizio di ristorante. Ha semplicemente del gran talento in cucina, fa primi e minestre in brodo per pura passione, e la gente lo sa. Giacobbe accoglie chiunque e offre quello che ha cucinato senza volere mai niente in cambio (se qualcuno parla di pagare si offende di brutto). Ma se si presenta l'odiato Esaù, allora è un altro paio di maniche. «Che vuoi?» gli fa Giacobbe, scortese. Ed Esaù disse a Giacobbe: «Fammi mangiare, ti prego, di questa pietanza rossa, perché io sono stanco». Ignorante, pensa Giacobbe. La mia minestra di lenticchie, segnalata in tutte le guide dei gourmet palestinesi, lui la chiama questa pietanza rossa! E la vuole perché è stanco e vuole mangiare, non ha il minimo gusto, non sa apprezzare, gli basta buttar giù qualcosa di caldo, è di quelli che dicono «ah, tanto io mangio di tutto», avrei voglia di prenderlo a calci, l'idiota. E poi ci si stupisce che avranno successo i fastfood. Ma come fa a essere mio fratello? È così becero, grezzo, ha ragione mamma che dice sempre di lui: «Ma questo da chi avrà preso, eh?». A questo punto, chissà se per sfidarlo o, più semplicemente, per toglierselo di torno Giacobbe dice a Esaù: «Vendimi subito la tua primogenitura.» Sentite la risposta del fratello: «Eccomi presso a morire, che me ne fo della primogenitura?» "Non ci credo, non ci credo!" pensa Giacobbe. Una frase buttata lì per caso diventa un'occasione imperdibile. "Possibile che il fesso mi ceda il suo prezioso diritto così, senza riflettere, come se si trattasse di un utensile usato che non gli serve più?" E gli dice, per ulteriore verifica: «Giuramelo subito.» La Bibbia ha un pregio, fra i tanti: niente chiacchiere a vuoto. Ed egli giurò e vendette la sua primogenitura a Giacobbe. primogenitura a Giacobbe. E Giacobbe diede ad Esaù del pane e della minestra di lenticchie. Ed egli mangiò e bevve, poi si levò e se ne andò. Ecco fatto. In tre righe, senza tante manfrine, la questione si chiude. Così, al prezzo di un primo più bottiglia di vino più pane e coperto, Giacobbe ottiene ciò che tanto voleva. Confesso che, in questo frangente, mi sale moltissimo in simpatia Esaù, che appare fin troppo sbrigativo, fin troppo sfacciatamente ingenuo per essere credibile. Il passo della Genesi si conclude con quest'unico secco commento: Così Esaù disprezzò la sua primogenitura. Come a dire: ha mancato di rispetto a suo padre. Secondo me, invece, Esaù non spregia affatto la sua primogenitura, ma piuttosto compie un gesto di consapevole disprezzo verso il fratello. Da tempo ne ha piene le scatole del tignoso attaccamento di Giacobbe a quel benedetto titolo e ha deciso di prendersi gioco di lui. Pensa, fra sé: "Ma che si pigliasse 'sta primogenitura, tanto poi se la deve comunque vedere con me. Io quando vado a caccia stendo i cinghiali con un pugno, figurarsi se mi impressionano le sue chiacchiere e i giuramenti che mi strappa quando ho troppa fame per discutere. E voglio proprio vedere con che faccia andrà a dirlo a nostro padre. E se avrà questo coraggio, certamente mio padre gli riderà in faccia, ne sono sicuro, perché sta dalla mia parte. E allora il poverino andrà a farsi consolare da sua madre, è sempre stato il suo cocco, lui e la sua mania per la cucina... E, fra l'altro, questa tanto famigerata minestra di lenticchie... era una vera porcheria, arrabbiatissima di sale!". Passano molti anni e nessuno pare più tornare sulla questione. Ma i rapporti in famiglia restano tesi, soprattutto per via di Esaù che ha preso l'abitudine di sposarsi in continuazione con donne sgradite a sua madre. (È la prova di quanto sia antica la tradizione della suocera che odia la nuora. E di quanto sia irritante e bugiarda la frase con la quale ogni mamma accoglie le fidanzate del proprio figlio: «Con tutte le donne che ci sono, proprio quella ti sei andato a cercare?». Già, perché Esaù ne sposò almeno una dozzina, ma per Rebecca erano dodici esemplari di proprio quella.) Si giunge così all'episodio-chiave, ben più decisivo e doloroso di quello della zuppa di lenticchie, ma forse non altrettanto famoso. Nella Genesi va sotto il titolo: Benedizione di Giacobbe. Isacco è ormai molto anziano, costretto in un letto e quasi completamente cieco, purtroppo. Sente la morte che si avvicina e convoca Esaù, quello che egli considera suo figlio maggiore. considera suo figlio maggiore. Naturalmente, a nessuno è mai venuto in mente di raccontare al marito e padre la storia della minestra: Rebecca perché teme la sua reazione, Giacobbe perché se ne vergogna ed Esaù perché non le dà alcun peso. Isacco dice dunque al figlio: «Vai a caccia, prendi della selvaggina e preparami un piatto saporito, come piace a me ... e io lo mangerò, perché la mia anima ti benedica prima di morire.» Comprendendo che la sua fine è imminente, Isacco desidera chiudere in bellezza accanto al figlio prediletto. Quanto mi piace questo nobile vecchio, che rifiuta inutili flebo e disgustosi brodini per una bella abbuffata di carne, e che pensa, alla faccia di chi gli sconsiglia strapazzi di stomaco: "Perché mai dovrei preoccuparmi della digestione, se è probabile che non avrò neppure tempo di cominciarla?". (Penso con tenerezza al mio nonno Maurizio, uomo magnifico, generoso e gaudente, che amava gli affari e le grandi mangiate. Si ammalò gravemente e, fino all'ultimo, mi volle vicino al suo letto a parlargli di ristoranti. Gli raccontavo di pranzi e di cene nei più minuti dettagli e lui, a occhi socchiusi, chiedeva: «Quanto?». Mi inventavo un conto ridicolo e lui soddisfatto: «La prossima volta ci vengo». Se n'è andato prima che potessi invitarlo. Ma tanto non mi avrebbe mai permesso di pagare.) Esaù parte subito per la caccia, felice di far felice suo padre. Ma la madre Rebecca, che era in ascolto nascosta dietro una tenda, chiama l'altro figlio, il suo prediletto e lo convince che finalmente è giunto il momento di agire. Lei preparerà in tutta fretta il piatto saporito e lui si sostituirà al fratello, strappando così la benedizione al padre cieco e morente. Giacobbe è incerto. Non ne fa una questione di etica (tale e quale sua madre), ma più che altro teme che il padre scopra l'inganno: " È vero che non ci vede più, ma se mai ... avesse a palparmi" si chiede, "che faccio?". In effetti, Esaù è talmente peloso che nemmeno un orso marsicano sarebbe sicuro di portare al successo lo sicuro di portare al successo lo scambio. Ma Rebecca insiste, non molla. Nessuno è più ostinato di una madre ostinata, chiunque abbia una madre ostinata lo sa. E dunque il figlio si arrende. Lei prepara il piatto saporito (che sarà esattamente? uno stufato? un brasato? forse del cuscus?), poi fa indossare a Giacobbe i vestiti del fratello e lo costringe a coprirsi le braccia e il collo con pellicce a pelo lungo. Così combinato, camuffato, sudato, agitato, entra nella tenda del padre. La scena che segue è fantastica. È tragica e comica. È un cult, per me. Egli venne da suo padre e disse: «Padre mio». Immagino il cuore di Giacobbe che va a mille. Sarà anche un cinico, ma quello è pur sempre suo padre, è in buona fede e malato. Immagino la testa che viaggia fra tanti pensieri, un certo rimorso, un interrogativo pressante: perché ho dato retta a mia madre, perché sono qui travestito da capra a cercare di truffare il mio vecchio? Ma ormai il gioco è partito, uscirne ora è impossibile. Ed egli rispose: «Eccomi, chi sei tu, figlio mio?». È evidente che Isacco ha la febbre e straparla. Non c'è logica nella sua domanda. Se ha chiesto: «Chi sei tu?» vuol dire che non ha capito chi gli si è presentato davanti. Ma allora perché aggiunge: «figlio mio»? Ha capito o non ha capito? Forse – tenerezza da anziano – chiama tutti quelli che vanno a trovarlo «figlio mio». E se invece, sapendo di che cosa è capace sua moglie, Isacco avesse già subodorato qualcosa e intendesse smascherare il figlio che si spaccia per l'altro figlio? Probabile che questo sia soprattutto il timore di Giacobbe, che maledice il momento nel quale ha accettato di prestarsi alla pagliacciata. Che faccio? Che dico? Ha capito chi sono, cioè che non sono chi voglio sembrare che sono? Giacobbe si butta. E Giacobbe disse a suo padre: «Sono Esaù tuo primogenito, ho fatto come tu m'hai detto. Alzati, dunque, siediti e mangia della mia selvaggina, affinché la tua anima mi benedica». Così, tutto d'un fiato, vada come deve andare. In effetti Giacobbe, scegliendo la soluzione delle parole a raffica, si è mostrato sicuro di sé e non ha dato tempo al padre di organizzare mentalmente i suoi eventuali dubbi. Ma una nuova angoscia si fa strada in lui non appena finito di parlare... E la voce? Non abbiamo pensato alla voce! Mia madre mi ha sommerso di pelliccia per sembrare Esaù e non le è venuto in mente di farmi provare a imitare la sua voce! Mio padre è imitare la sua voce! Mio padre è diventato cieco, mica sordo! Oddio, ora me lo dice, ha capito che sono io e ora me lo dice! Ed Isacco replicò a suo figlio: «Come hai fatto a trovarla così presto, figlio mio?». Macché. Sembra proprio che Isacco se la sia bevuta. Per lui quello è Esaù. Non ha fatto alcun caso alla voce, l'ansia di Giacobbe era del tutto ingiustificata. Ma egli è certamente ancora agitato dalla situazione in cui si trova e un po' confuso. In fondo, non è da tutti reggere a lungo una parte senza perdere la concentrazione, non è un attore professionista, Giacobbe. Me lo immagino – buffissima immagine – in piedi, nella penombra davanti al capezzale del padre, immerso negli abiti del fratello taglia XXL e sommerso di pellame per tentare di somigliargli, sudato per la tensione e per il caldo, che ripete fra sé, vagamente istupidito, la domanda che gli ha fatto il padre e che lui non ha capito: «Come hai fatto a trovarla così presto?». "Come ho fatto a trovare che cosa... Oddio, sto andando in paranoia, con tutta questa fottuta peluria non riesco a ragionare... Come ho fatto a trovarla così presto... Cosa cavolo... Ah! Imbecille che non sono altro! La cacciagione! Già... come ho fatto? Non sfugge niente a mio padre... " "Mica posso dirgli che ho sgozzato due capretti qua dietro..." Ma poi Giacobbe risponde perfettamente a tono. Ed egli rispose: «Perché il Signore, tuo Dio, mi ci ha fatto imbattere». Niente da dire, è una buona risposta. Noi sappiamo che c'è un imbroglio sotto, ma per l' ignaro Isacco è una risposta plausibile. Giacobbe mostra la sua raffinata intelligenza tirando in ballo Dio, personaggio di fronte al quale nessuno osa replicare. A questo punto sembra fatta. Ma il duetto riserva ancora parecchi colpi di scena. Ed Isacco disse a Giacobbe: «Accostati, ti prego, figlio mio, che io ti tasti. Sei tu davvero mio figlio Esaù o no?». Eh, ma allora non si fida! Per forza. Isacco conosce troppo bene la sua famiglia e vuole toccare con mano, letteralmente. E quella storia della partecipazione di Dio alla battuta di caccia non lo ha per niente convinto, figurarsi se il Signore ha tempo da perdere per correre dietro a un cinghiale. Giacobbe non ha scelta. Sapeva che sarebbe potuto accadere e ora deve farsi toccare, je tocca, come si dice a Roma. Giacobbe allora si accostò a suo padre Isacco, il quale lo tastò, e quindi disse: «La voce è la voce di Giacobbe, ma le mani sono le mani di Esaù». La voce! Aveva fatto caso anche alla voce, eccome che ci aveva fatto caso! Ma non ha detto niente sul momento per non far capire che aveva capito. Lo davano per quasi morto, invece il vecchio glorioso patriarca Isacco è tutt'altro che rincoglionito. Ora lo smaschera. Lo sbugiarda. Lo umilia. Gli dice il fatto suo. Lo prende a schiaffi. Lo maledice. Lo manda via a pedate. Anzi no, lo caccia via scagliandogli il suo piatto saporito. E urlando: odio il capretto in umido. E invece... E non lo riconobbe, perché le sue mani erano divenute pelose come le mani di Esaù suo fratello e lo benedisse. Proprio così, Giacobbe incassa la benedizione al posto del fratello. Una benedizione spirituale, carica di affetto e di buoni auspici. E, al tempo stesso, ricca di indicazioni pratiche. «Ecco l'odore del mio figlio, è come l'odore di un campo che il Signore ha benedetto.» Parole dense di poesia per chi vive in campagna, me ne rendo conto. Ma io abito in città e l'odore di un campo per me è disgustoso. Invade l'abitacolo quando passo per le pianure in autostrada. Da genitore, sinceramente mi preoccuperebbe che fosse anche l'odore del mio figlio. «Che Dio ti dia rugiada dal cielo, fertilità della terra e abbondanza di frumento e di mosto.» Si tratta di auguri molto apprezzati fra agricoltori, ovviamente. Ma non altrettanto fra noi che facciamo altri mestieri. Sarebbe un gran bel guaio ricevere all' improvviso così tanto frumento e mosto. Io non saprei francamente nemmeno dove metterli. «Ti servano i popoli, si prostrino davanti a te le nazioni, sii il padrone dei tuoi fratelli, si inchinino a te i figli di tua madre, sia maledetto chi ti maledice e benedetto chi ti benedice.» La forma è altisonante. La sostanza è: «Figliolo, andrà tutto alla grande, vedrai... Quanto all'eredità, è roba tua, gestiscila come ti pare... E a chi avesse intenzione di mettersi di traverso, gli venga un colpo, sono stato chiaro?» Parole decisive per capire quanto ne valesse la pena. Che cosa? Andare a farsi benedire. Ma, almeno per me, si tratta di una grande, davvero grande delusione. Il raggiro è riuscito. La menzogna ha trionfato. Ha scritto Cechov: «Si dice che la verità trionfa sempre, ma questa non è una verità». Eccone una prova. La Bibbia ci consegna un sublime caso di truffa, ancor più ignobile e intollerabile perché perpetrata ai danni di un padre anziano e malato. Andrebbe detto, di passaggio, che tutto questo è probabilmente potuto succedere per il fatto che la benedizione veniva per tradizione impartita dal padre e non dalla madre. Già, perché una madre non scambierebbe mai un figlio per un altro, una madre riconosce i propri figli, non ha certo bisogno di toccarli, li sente e basta. Anche a migliaia di chilometri di distanza. (Parlo per me. I miei genitori mi vogliono bene, non si discute. Ma mia madre mi sente anche a migliaia di chilometri di distanza, mio padre assolutamente no. Quando, per un breve periodo, ho vissuto all'estero, mia madre mi telefonava e mi diceva: «Oggi hai mal di testa, vero?». Ci azzeccava sempre. Mio padre invece non telefonava mai. L'unica volta che ci siamo sentiti per sbaglio, mi ha chiesto: «Perché non sei rientrato ieri sera, dove cavolo ti sei cacciato?». Insomma, lei non mi scambierebbe mai per mio fratello, lui probabilmente sì. Confesso che ci rimarrei molto male: non ho fratelli.) Ma... il povero Esaù, in tutto questo? Il povero Esaù rientra dalla caccia trafelato, cucina con grande impegno e amore l'ormai famigerato piatto saporito e si presenta entusiasta davanti al padre. Ma il vecchio lo gela. Gli domandò Isacco suo padre: «Chi sei tu?». Come chi sono... Il babbo sta peggiorando di ora in ora, pensa Esaù. Ed egli rispose: «Io sono Esaù, il tuo figlio primogenito». Ci risiamo, pensa Isacco. Meno male che sto per andarmene, perché non li sopporto più, ho tirato su una famiglia di imbecilli. Allora Isacco disse: «Chi è stato dunque che ha preso della selvaggina e me l' ha portata ed io ho mangiato di tutto prima che tu venissi e poi l'ho benedetto e benedetto sarà?». A Esaù crolla il mondo addosso in pochi istanti. Quando Esaù ebbe inteso le parole di suo padre diede in alte e amarissime grida. Una vera crisi di nervi. Mi commuove l'immagine di quell'omone peloso che strilla e piange come un bimbo, inginocchiato davanti al padre. E che pateticamente gli chiede di dimostrargli che non lo sta schifando del tutto come figlio. «Benedici anche me, padre mio.» Ma Isacco gli risponde: «Eh, ma come faccio, benedetto figliolo?» No, no, sto scherzando naturalmente. Ma egli rispose: «Tuo fratello è venuto con inganno e ha carpito la tua benedizione». benedizione». Esaù la prende malissimo. «Eh, vabbe', ma sai a me che mi frega di quell'enorme bastardo?» Naturalmente non dice affatto così. Ed egli disse: «A ragione gli fu posto nome Giacobbe...». Breve spiegazione. Nella lingua ebraica il nome Giacobbe ha la stessa radice del verbo soppiantare. Certo Esaù non doveva essere proprio un fulmine di guerra: come mai, in tanti anni, non gli è mai venuto in mente che quel nome poteva significare qualcosa? Sarebbe come se io avessi un fratello che si chiama Levatidaipiedibruttoidiota e non chiama Levatidaipiedibruttoidiota e non me ne facessi un problema. «...ché due volte mi ha soppiantato: mi ha tolto la primogenitura ed ora ha carpito la mia benedizione. Ma tu non hai serbato per me alcuna benedizione?... Hai tu una sola benedizione, padre mio? Benedici anche me, padre mio.» A me fa proprio tenerezza, Esaù. È rozzo e ingenuo, ma ha una sua logica. In fondo, sta tentando di far capire al padre che, più che altro, ha bisogno del suo amore. E che, al limite, gli andrebbe bene pure una benedizione di seconda mano. Ma Isacco si dimostra affettuoso quanto un impiegato di sportello: gli spiega che ha già fatto tutto con Giacobbe e che pertanto la procedura mica la si può riaprire. «Ecco, io l'ho costituito tuo padrone, gli ho dato tutti i suoi fratelli per servi, l'ho provvisto di frumento e di mosto. E ora, che posso mai fare per te, figlio mio?» È una risposta fredda, da burocrate dello Stato. A chiunque di noi è capitato di avere a che fare con l'ottusità della burocrazia. Con l'atteggiamento sconfortante di un funzionario. Di quelli che oppongono alle nostre richieste un muro di gomma di «purtroppo non si può fare», di «non so che dirle», di «la capisco benissimo, ma ho le mani legate». In quei casi l'esasperazione ci fa desiderare di metterci a urlare, oppure di metterci a piangere. Il povero Esaù fa entrambe le cose. Esaù levò la sua voce e pianse. Si capisce molto bene perché Esaù prese ad odiare Giacobbe. E come mai Giacobbe partì in gran fretta, senza nemmeno salutarlo. Per parecchi anni non si videro più. E dunque, per finire il racconto di questo travagliato rapporto fra gemelli, occorre fare un ulteriore salto in avanti. È difficile che la Bibbia lasci sospese le questioni personali. Una risoluzione, nel bene o nel male, c'è sempre. E se non c'è, la si trova. Il metodo è semplice: si prendono i due e li si fa rincontrare. L'iniziativa la prende Giacobbe. È giusto che sia così, doveroso. L'uomo è cresciuto, cambiato e compie un gesto encomiabile di umiltà e di coraggio. Va detto, perché comunque non è da tutti. Certo, un po' di paura ce l'ha. Ma anche questo lo rende assai umano. E comico, inevitabilmente. Giacobbe fa la prima mossa. Manda dei messaggeri al fratello, tanto per tastare il terreno. È inquieto ovviamente e si raccomanda che gli parlino con estrema calma, che gli spieghino tutto per bene. «Ditegli che Giacobbe è suo servo, che è a disposizione, che è qui con molto bestiame e tanti altri doni, che insomma è pronto a vederlo, ma senza forzare la mano, soltanto se Esaù vuole, che non si senta in alcun modo obbligato, se la cosa non lo disturba o lo irrita, dite così, sono stato chiaro, ragazzi? Ripetete, per favore...» I ragazzi tornano e dicono: «Siamo andati da tuo fratello Esaù ed anzi egli stesso sta venendoti incontro con quattrocento uomini». Porca miseria ladra bastarda. Quattrocento uomini. Ma chi me l'ha fatto fare, stavo tanto bene a casa mia, vedi a voler fare gesti encomiabili di umiltà e di coraggio? Se prima era soltanto inquieto, ora Giacobbe è proprio agitato. Tanto per far capire il suo stato d'animo, dice: «Temo che Esaù venga e percuota me e la madre oltre i figli». È passato tanto tempo, Esaù sarà pure invecchiato, ma il carattere non cambia e le ferite sono tuttora aperte. Giacobbe non ne è certo, ma se al fratello girassero ancora le balle, c'è il rischio che, prima ancora di salutarlo e chiedergli come stai fratello, lo gonfi di botte insieme a tutta la sua famiglia. Ha due mogli, dodici figli più la servitù, vien fuori una strage. E tutto per un'insulsa questione di primogenitura che adesso sembra così poco importante, quanto si è deficienti quando si è giovani... Da questo momento, Giacobbe è preda di una frenesia incontenibile. Non sa bene che fare e allora comincia maniacalmente a dividere persone e animali al seguito in gruppi diversi. Dapprima divise la gente che aveva con lui come pure il gregge, gli armenti e i cammelli in due schiere. E dice: se Esaù comincia a menare chi sta nella prima schiera, quelli in seconda scappano e si mettono in salvo. Poi però cambia idea, forse vedendo le facce poco convinte di quelli designati a stare nel primo gruppo. Decide allora di dividerli in cinque. In cinque? Sì, in cinque, perché ha in mente qualcosa (speriamo bene). Fa una contabilità un po' complicata: duecento capre e venti becchi, duecento pecore e venti montoni, trenta cammelle allattanti coi loro piccoli, quaranta vacche e dieci giovenche, venti asine e dieci puledri. Nessuno gli sta più dietro, che razza di conti sta facendo? L'ho detto, Giacobbe ha in mente qualcosa (speriamo bene davvero). Consegna ai servi i singoli branchi separatamente. Che vuol dire? Non lo so, è scritto così, ma ho già detto e ridetto che ha un piano (davvero?). Poi ordina: «Andate davanti a me e lasciate uno spazio fra un branco e l'altro». Si comincia a capire, ha in mente qualcosa (bene). Quindi chiama il primo. Il primo chi? Il primo di che cosa? Ma è chiaro: quello che parte col primo gruppo di animali! Ecco che cosa ha pensato, ecco il piano. Invece di aspettare che venga Esaù, gli si va incontro noi, capito? Il fratello incazzoso si troverà davanti il branco numero uno e chiederà al servo: «Chi sei? E di chi è tutta 'sta roba?». E tu gli dirai (è Giacobbe che spiega al primo servo cosa deve dire): «È del tuo servo Giacobbe, è un regalo inviato al mio signore, ad Esaù». Capito, digli così... ora ripeti. Poi Giacobbe ordina di fare la stessa cosa al secondo, al terzo e via di seguito. Insomma, l'effetto che questa complicata strategia fatta di numeri, gruppi e animali da branco deve sortire è quello di spiazzare Esaù, stonarlo di regali e ammorbidirlo lungo la strada. Fantastico, no? Del resto, è ben noto che la gente che vive in Medio Oriente è da sempre parecchio svitata. Questa è una vicenda tutta sorprendente e illuminante, in ogni dettaglio. Esaù davvero si addolcisce, ma non accetta nessun regalo. Giacobbe lotta con un angelo per l'intera notte (forse la sua coscienza) e ne esce più forte e consapevole. Ma ciò che più sorprende e illumina è che, quando finalmente giunge il momento del tanto atteso incontro, ogni momento del tanto atteso incontro, ogni calcolo, ogni rancore, ogni paura scompare e i due gemelli, per la prima volta, si sentono. E la prosa semplice ed essenziale della Bibbia vince su tutto. Poi Giacobbe alzò gli occhi e guardò, ed ecco Esaù che veniva con quattrocento uomini. Allora egli passò davanti a loro e si chinò sette volte a terra, finché fu vicino al fratello. Esaù gli corse incontro, l'abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero. Un breve pensiero, a chiudere. La storia dell'estenuante guerra fra Esaù e Giacobbe mette seriamente in crisi il mito dell'amore fraterno, che è spesso descritto come il più saldo, complice e disinteressato che esista. Chissà perché. Nemmeno l'apparente lieto fine, con la commovente riconciliazione fra i due, serve a cancellare la sensazione che «volersi bene come fratelli» sia un clamoroso malinteso. Gli stessi gemelli biblici, dopo l'affettuoso chiarimento, si rasserenano andando ognuno per la propria strada. Come dire: rappacificati, ma lontani. Insomma, è tutto da dimostrare che sia giusto porsi come modello la tanto esaltata fratellanza. Forse, sarebbe più onesto dire che avere dei fratelli è, a volte, soltanto un'enorme fregatura. Parlo così per pura invidia: l'ho già detto, sono figlio unico. VI Giacobbe e Rachele, un vero colpo di fulmine Giacobbe non è un uomo votato all'avventura. Se potesse, se ne starebbe tutto il giorno seduto all'ombra a pensare ai fatti suoi. L'unica vera passione che vorrebbe coltivare è quella per la cucina. Sarebbe l'ideale titolare di uno di quei ristorantini un po' fuori mano, con pochi tavoli, una buona carta dei vini e menù creativo: stufato di bue alla salsa di ribes, soppressata di cammello all'aceto balsamico, focaccette di segale con fonduta di caprino di fossa e ovviamente minestra di lenticchie con porri, tartufo, rabarbaro e canditi (è solo per fare un esempio). Ma, purtroppo per lui, le vicende familiari lo costringono a inventarsi viaggiatore. All'inizio del capitolo 28 della Genesi, Giacobbe parte per Paddan-Aram. Il suo non è un viaggio di piacere, ma più precisamente una fuga. Proprio così. Il nostro futuro patriarca scappa di casa perché si rende conto che il fratello Esaù, esausto di discutere con lui sulla questione della primogenitura, ha in mente una soluzione radicale al problema: ucciderlo. Quello che Giacobbe non può certo sapere è che, proprio grazie a quella poco onorevole ritirata, farà presto l' incontro più sconvolgente della sua vita. Ma andiamo con ordine. Giacobbe intanto, partito da Bersabea, si diresse verso Caran. E giunse in quel luogo dove passò la notte, perché il sole era già tramontato. Dunque, Giacobbe è in viaggio verso Caran, giunge al tramonto in una località imprecisata e decide di fermarsi a dormire. Ma evidentemente tutti gli alberghi sono pieni e non trova posto da nessuna parte, neanche una singola in una pensione. Solo chi viaggia molto per lavoro sa che è buona regola prenotare. (Noi attori, quando siamo in tournée, lo facciamo sempre.) Forse a Caran c'è una qualche fiera e le aziende hanno occupato le camere per i loro dirigenti e rappresentanti con molti mesi di anticipo. (Noi attori, quando siamo in tournée, non facciamo che trovare una qualche fiera e aziende che hanno occupato le camere con mesi di anticipo.) Che fare? Chiunque, al suo posto, andrebbe a cercare una sistemazione altrove. Alla peggio uno pensa: dormo in auto, mica posso bivaccare per strada. Ma Giacobbe non è tipo da farsi troppi problemi. Prese una delle pietre del posto, se la pose come capezzale e in quello stesso luogo si coricò. Proprio così: lui decide di bivaccare (in effetti però gli manca l'opzione auto). Sceglie una pietra – liscia e angolata, immagino – decide di considerarla come un cuscino e si sdraia per terra, poggiandovi sopra la testa. Dopo pochi istanti si addormenta, di sasso naturalmente. Mi piace immaginarlo così, frugale e adattabile, accovacciato per strada, sereno nel suo anticonformismo, come si trattasse di un vecchio hippy o di un giovane no-global (e non ha nemmeno il sacco a pelo). Dorme così profondamente che fece un sogno: ed ecco una scala era poggiata sulla terra e la sua cima arrivava fino al cielo. Ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano per essa. Ed ecco, il Signore stava sopra di essa... essa... Un sogno straordinario, irripetibile. Di quelli che non si dimenticano di certo al risveglio. Del resto Giacobbe non è mica un ometto qualunque, è il futuro grande patriarca dal quale discenderanno le dodici tribù di Israele. Insomma, non è da tutti sentirsi dire da Lui In Persona: «Io sono il Signore ... Io darò a te e alla tua discendenza la terra sopra la quale tu ora sei coricato. La tua discendenza sarà come la polvere della terra ... Ed ecco, io sono con te e ti custodirò dovunque tu andrai, ti ricondurrò in questo paese e non ti abbandonerò...» (A noi attori, quando siamo in tournée, capita tutt'altro. Dopo aver mangiato a notte fonda una pizza malcotta e indigesta nell'unica pizzeria rimasta aperta, andiamo a dormire in certi alberghetti tremendi massimo due stelle e ci corichiamo in letti composti da un cuscino minuscolo e moscio e da un materasso – quello sì – duro come una pietra. In quei casi, non facciamo quasi mai sogni, ma veri e propri incubi. Il più ricorrente è quello nel quale ci troviamo su uno sconosciuto palcoscenico a recitare una misteriosa commedia, senza ricordare una sola parola del copione. E improvvisamente, in piedi sulla scala del loggione, ci compare una figura minacciosa che ci dice: «Io sono il signore che ha fatto l'abbonamento a teatro... Il tuo spettacolo fa schifo... Ed ecco io sono con te e ti inseguirò dovunque tu andrai, ti ricondurrò in questo teatro e non ti abbandonerò finché non mi avrai reso i soldi del biglietto...».) Al suo risveglio, Giacobbe pronuncia una delle frasi più belle dell'intero libro della Genesi: «Veramente il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo.» Impossibile davvero immaginare un modo più limpido, intenso e semplice allo stesso tempo per esprimere il gioioso stupore provocato dalla rivelazione della Fede. Chissà che sensazione di benessere pervade Giacobbe quella mattina, chissà quanta energia, quanto desiderio di rimettersi in strada e continuare a viaggiare... E l'incredulità: Dio è venuto nel mio sogno e mi ha parlato! Un tipo di apparizione che nel linguaggio cinematografico verrebbe definita partecipazione straordinaria. Come ha fatto Giacobbe a ottenere che il Signore apparisse nel suo piccolo sogno a basso costo? Un Attore Immenso come Lui, che è sempre superimpegnato e ha un compenso assolutamente impagabile? Sarebbe come se De Niro accettasse di comparire nel video della festa di compleanno della nostra nipotina. Tutti si chiederebbero: che ci fa Bob in posa, con una fetta di torta in mano, accanto a zia Clara e a suo cognato? Misteri della Fede. (Tento di dare una risposta seria. La mia risposta, ovviamente. Dio può essere la fonte della nostra interna forza spirituale. In questo senso, si può dire che Egli è già dentro di noi. Siamo noi a custodirne e proteggerne l'esistenza. Giacobbe si sveglia e scopre di avere sognato Dio. Allora capisce che può rimettersi in cammino senza più alcuna paura. Sa bene che non sarà immune dai mille rischi che la vita comporta, ma si affida con fiducia alla Sua guida, ovvero alla propria forza interiore. Io interpreto così il senso di quella presenza proprio nel suo sogno.) Bene. Ma ora Giacobbe deve rimettersi in viaggio. Arrivato a destinazione, dovrà trovare lo zio Labano. Naturalmente, a Caran non ci sono i nomi delle strade e i numeri civici. Quella è gente nomade, sono quasi tutti dediti alla pastorizia e, se anche avessero un indirizzo, lo cambierebbero di continuo. L'esperienza insegna che è meglio aspettare, molto meglio che mettersi a cercare. Tanto la vita per loro dura in media centosettanta anni, il tempo c'è. Giacobbe dunque giunge nei pressi di Caran. Aggirandosi per le campagne, assiste a una scena sconcertante, che lo lascia assai perplesso. E[Giacobbe] guardò, ed ecco nella campagna un pozzo, ed ecco, là vicino ad esso stavano sdraiati tre greggi di ad esso stavano sdraiati tre greggi di pecore, poiché a quel pozzo si abbeveravano i greggi, ma sulla bocca del pozzo c'era una grande pietra. E quando tutti i greggi si erano radunati là, rotolavano la pietra dalla bocca del pozzo, abbeveravano i greggi e quindi rimettevano la pietra al suo posto, sulla bocca del pozzo. Diciamolo con franchezza. A noi che siamo poco pratici di pastorizia, la scena appena descritta non provoca alcuna emozione. E ci chiediamo come mai Giacobbe, invece, ne sia tanto colpito. Semplice: perché per lui il comportamento dei pastori non ha senso. In primo luogo, non si è mai visto permettere a delle greggi di starsene sdraiate in pieno giorno. Per pecore e capre quello è orario di lavoro. E la pausa-pranzo non è affatto prevista (anzi, per animali che brucano di mestiere, mangiare è proprio l'attività professionale). Quanto poi alla stupida pietra appoggiata sulla bocca del pozzo, perché attendere che tutti siano presenti per spostarla e far abbeverare le bestie? Si tratta di un'ingiustificabile perdita di tempo. Ma come cavolo lavorano da queste parti? Se questi sono pastori stipendiati dallo zio – pensa Giacobbe – occorrerà che ci pensi io a rimetterli in riga. Sembra l'atteggiamento che assume un milanese medio, in vacanza in Sardegna, quando gli capita di osservare le astruse abitudini dei pastori. Ma, naturalmente, il nostro patriarca non svela subito le proprie intenzioni e anzi si svela subito le proprie intenzioni e anzi si avvicina al gruppo con aria amichevole. Giacobbe disse loro: «Fratelli miei, di dove siete?». Se posso dire, eccede persino in confidenza. I pastori non sono tipi molto affettuosi ed espansivi, si sa. Risposero: «Siamo di Caran». Risposta ridotta all'osso. Come volevasi dimostrare. Ma Giacobbe insiste. Disse loro: «Conoscete Labano figlio di Nacor?». Risposero: «Lo conosciamo». Niente da fare, i pastori non si lasciano andare. È tipico delle persone poco comunicative. L'effetto della risposta è comico. Sarebbe come se chiedessimo a qualcuno per strada: «Scusi, sa dove posso trovare una farmacia?» e ci sentissimo replicare: «Certo che lo so». Non ne caveremmo informazioni utili alla cura della nostra salute, ma forse ci verrebbe da ridere. Giacobbe non si perde d'animo e continua il faticoso dialogo. E disse: «Sta bene?». Risposero: «Sta bene...». E qui c'è davvero il rischio che si faccia notte, perché i pastori sembrano decisi a proseguire nella tattica irritante di ripetere in tono affermativo le frasi che vengono loro rivolte con tono interrogativo. Ma non è così. Bisogna leggere la risposta per intero. «Sta bene, ed ecco Rachele, sua figlia, che viene col gregge.» Quello che sorprende, in questo frangente, non è tanto che i pastori segnalino a Giacobbe l'arrivo di Rachele, quanto il fatto che egli ostentatamente la ignori. È fin troppo chiaro che il suo desiderio primario è cazziare quella massa di sfaccendati. E infatti. Allora egli disse: «Ecco, il giorno è ancora alto, non è tempo di radunare il bestiame: abbeverate il bestiame e tornate a pascolare». Non può non impressionare il suo piglio severo e autoritario. Chiunque di noi si permettesse di aggredire verbalmente dei caprettari, impartendo ordini così perentori, rischierebbe grosso (a voler essere pessimisti, persino l'incaprettamento). Ma evidentemente Giacobbe sa quello che fa. Tanto è vero che i pastori capiscono di doversi giustificare con lui. Ma essi risposero: «Non possiamo, finché non si siano radunati tutti i greggi e si rotoli la pietra dalla bocca del pozzo; solo allora potremo abbeverare il gregge». Avete capito com'è la faccenda? No? Be', siete giustificati. Io ci sono arrivato dopo averci ragionato su parecchio. Ma è semplice, in realtà. La pietra che copre il pozzo è talmente pesante che può essere spostata soltanto grazie allo sforzo congiunto di tutti. Fine del mistero. C'è dunque un patto fra i pastori, stipulato sulla reciproca sfiducia, che intende impedire abusi nell'utilizzo dell'acqua. L'enorme macigno, che nessuno è in grado di rimuovere da solo, ne è la rudimentale e in qualche modo geniale garanzia. Forse vi stupirete nello scoprirmi così addentrato su questioni di diritto pastorizio. Invece, io me ne frego dei pastori e delle loro stupide greggi, davvero. Quello che mi interessa qui è unicamente il dettaglio che riguarda la pesantissima pietra. Ma ci torneremo sopra più avanti, perché ora è necessario registrare un repentino cambio di marcia nella narrazione. Che succede? Succede che Giacobbe all'improvviso si disinteressa dei pastori e sente qualcosa. Si volta e vede Rachele! Io adoro questo passaggio. Invidio – benevolmente, s'intende – quest'uomo così fortunato che, inconsapevole, si appresta all'incontro folgorante e fatale. Mi identifico, mi incarno, godo e soffro con lui. So di che si tratta, è capitato anche a me. È l'amore a prima vista, squassante, travolgente, irripetibile. Nel cuore del Libro più alto e spirituale, ecco un lampo di vita vera, descritto con poche scarne, asciutte parole, eppure – a saper leggere fra le righe – così denso di umana passione. Leggiamo, con calma. Giacobbe stava ancora parlando con loro, quando venne Rachele con il gregge di suo padre, perché anche lei pasceva il gregge. Notate la prosa sintetica. L'entrata in scena di Rachele, che sarà una delle donne più importanti di tutta la Bibbia, è resa semplicemente con venne Rachele. Ai grandi protagonisti non servono né squilli di trombe né roboanti presentazioni, né fiumi di inutili parole. In qualche modo stupisce, piuttosto, che si dia così tanta importanza alla presenza d e l gregge di suo padre, tanto da aggiungere: perché anche lei pasceva il gregge. È una precisazione tipica dello stile biblico, ma a me sembra superflua. Scusate: non sembra logico anche a voi che se Rachele arriva in compagnia del gregge di suo padre è certamente perch é lo sta facendo pascolare? Per quale altro motivo la ragazza dovrebbe portare in giro quelle pecore? Per venderle ad altri pastori? Per fingersi pubblicamente dedita alla pastorizia e coprire un'attività illecita? Ma nel Libro nulla è detto per caso. Nella f r as e perché anche lei pasceva il gregge la parola chiave è anche. Significa che Rachele non era soltanto giovane e bella, ma anche una ragazza seria, una con la testa sulle spalle, gran lavoratrice, che dava una mano sia in casa che nell'azienda di famiglia. Tutte informazioni utili a inquadrarla, per noi, ma non certo per Giacobbe, già folgorato d'amore e totalmente inebetito. E appena Giacobbe ebbe veduto Rachele, figlia di Labano, fratello di sua madre... Altro classico esempio dello stile narrativo biblico: nel pieno della tensione del racconto, mentre stai chiedendoti che mai succederà, giunge un'altra precisazione, di tipo anagrafico stavolta, che inevitabilmente ti distrae... Rachele, figlia di Labano, fratello di sua madre... D'accordo. Trattandosi di un libro lunghissimo, con migliaia di personaggi, non è del tutto fuori luogo fornire utili informazioni per collocarli all'interno della storia. C'è tanta gente – io per primo – che durante la lettura (e peggio ancora, al cinema) fa una gran fatica a ricordare l'identità dei personaggi (i nomi poi, non ne parliamo). Rachele? Rachele chi? Ah, è la figlia di... Come la figlia? Ma non era... E quindi lui sarebbe il fratello della... Allora è lo zio... Insomma, la Bibbia, con lungimiranza, anticipa i dubbi di tutti coloro che, continuando a porre fastidiose domande ad alta voce, disturbano la concentrazione. Riprendiamo dallo stesso punto. E appena Giacobbe ebbe veduto Rachele, figlia di Labano, fratello di sua madre, con il gregge di Labano, fratello di sua madre... fratello di sua madre... A me però sembra che si stia esagerando qui. Perché, se è vero che ci sono molte persone – io per primo – che fanno una certa confusione con le parentele, è anche vero che la troppa insistenza nelle precisazioni fa precipitare verticalmente il pathos della narrazione. Senza contare che si insinua il sospetto che il narratore ci abbia preso per un branco di idioti. Abbiamo capito e stracapito che Labano è il fratello di sua madre, è lo zio, lo zio, capito, capito, sì. A meno che... A meno che – precisando fino alla nausea che il Labano di cui si parla è sempre lo stesso, cioè il fratello di sua madre – non si voglia fugare il dubbio che Rachele porti a pascolare il gregge di un altro Labano, un omonimo del padre che ha un gregge pure lui. Ma chi potrebbe mai aver avuto un dubbio simile? E perché la ragazza dovrebbe fare un dispetto del genere al proprio padre? Non avevamo detto che è una figliuola tanto perbene? No, non sta in piedi. (Io credo che se fosse stata scritta ai nostri giorni, la Bibbia annoterebbe per sicurezza anche i codici fiscali: RCL, figlia di LBN, fratello di RBC.) E dunque: appena Giacobbe ebbe veduto Rachele Giacobbe si appressò... Io me lo vedo, come le si avvicina, ipnotizzato da quella visione. E sono sicuro: la ama! Di già? Sì, di già! Non sapete come succede? Esattamente così, ti avvicini alla tua lei con un unico pressante imperativo: non devo perderla di vista, mai più! Eccolo Giacobbe, è in una nuvola, non sente i rumori, le voci, più niente. È incurante di tutto quello che ha intorno, non si accorge dei pastori, che probabilmente stanno cercando di richiamarlo a una imbarazzante realtà, ossia al fatto che quella è Rachele, figlia di Labano, fratello di sua madre! A forza di ripeterlo, ormai lo sanno tutti. E glielo urlano in coro: «È Rachele, figlia di Labano, fratello di tua madre!!!». Hai capito, Giacobbe? L'abbiamo capito anche noi, Rachele è tua cugina, capito? Ma egli non se ne cura, non sente, è partito, fulminato! E anche avesse sentito, che gliene importa? È una cugina? E che sarà mai? (A quanti di noi è successo di innamorarsi di una cugina e pensare: e che sarà mai?) "Probabilmente" pensa Giacobbe "è una cugina alla lontana, di terzo o quarto grado..." Ma no! Allora sei tosto: è Rachele, figlia di Labano, fratello di... "Di mia madre, ho capito, ho capito" pensa Giacobbe "ma è bella, è bella!" Sconvolto. Vi ho detto che so come vanno queste cose. E allora che fa? ...rotolò la pietra dalla bocca del pozzo... Come? Cosa? Di che pietra stiamo parlando? Mica quella che i pastori spostavano soltanto quando erano tutti insieme? Eh? Proprio quella? Ma sono trecento chili di pietra! Non ci credo, non ci credo... E invece io ci credo. Sono sicuro che sia andata esattamente così! Giacobbe vede la ragazza, ha una scarica di adrenalina, prende la pietra e la sposta! I pastori intorno, allibiti! Ma chi è? L'incredibile Hulk? E qualcuno: «Sì, è Hulk, figlio di Helk, fratello di sua madre...». Incredibile. La sposta da solo. Anzi, non è scritto che la sposta, ma che la fa rotolare, fa del virtuosismo, capite? Probabilmente la lancia anche per aria, la stoppa, di petto, di tacco, palleggia... ...poi Giacobbe baciò Rachele... Non si erano nemmeno presentati, semplicemente la vede, fa il brillante, l'equilibrista e, spudorato, la bacia! Impensabile, a quei tempi. Ma anche oggi sarebbe un comportamento considerato perlomeno stravagante... Dopodiché: ...alzò la voce... Si mette a urlare. È impazzito, sta perdendo totalmente il controllo. Immaginatelo, urla: «Aaaaahhhhh!!!!!!!!». Per finire: ...e pianse. Crollo nervoso. Scoppia in singhiozzi. La tensione, la vergogna, la gioia, un miscuglio, un subbuglio... Piangi, piangi, sfogati amico, io ti capisco e lei, vedrai, apprezzerà... Sì, è vero, Rachele apprezzerà. E dunque, eccolo, il grande, l'ottimo, l'eccellente, il Giacobbe elevato a simbolo nei secoli a venire, il campione della spiritualità e della devozione al Signore, il patriarca mitico; eccolo, eccolo qui di fronte a noi, giovane gradasso che si bulla (a rischio d'ernia) con la cuginetta, che sposta macigni, che salta, balla e fa il brillante, che bacia a sproposito, che esagera, travalica i confini e poi si pente, che fa il buffone, il pirla, che urla, ride, strepita e poi alla fine piange, versa lacrime vere, ormai totalmente incapace di controllarsi. Ma il racconto biblico va avanti e ci dimostrerà come può avvenire un miracolo: il colpo di fulmine che si trasforma, pian piano, in un amore profondo. Giacobbe ha visto Rachele e non ha più alcun dubbio: vuole restare. Lo zio (è proprio lui, sì, il famoso Labano, fratello di sua madre!) lo accoglie con insincero ed esagerato calore. Gli dice: «Tu sei proprio delle mie ossa e della mia carne». Che brutta frase, vorrebbe sembrare un'espressione affettuosa e invece suona come un insulto. È un viscido, un bugiardo e un calcolatore, il Labano. Ma Giacobbe è troppo dolcemente istupidito dall'amore per rendersene conto. Vive in uno stato di grazia e tutto gli appare più bello di quello che è: si trova a Caran, che è davvero un postaccio, e gli sembra di essere a Saint-Tropez. E poi ha voglia di fare, trova giusto sdebitarsi per l'ospitalità dando una mano, perciò si mette a lavorare con lo zio, che lui vorrebbe già chiamare papà. Dopo un mese, Labano lo prende da parte e gli dice: «Perché sei mio fratello, dovrai servirmi per niente? Indicami quale deve essere il tuo compenso». Giacobbe dapprima non capisce e pensa: perché mi chiama fratello? è scemo? casomai è lui che è Labano, fratello di mia madre, mi hanno fatto una testa così i pastori il mese scorso... Ma poi si rende conto che lo zio gli sta offrendo un assist insperato e perciò risponde: «Ti servirò sette anni per Rachele, tua figlia minore». E Labano: «Ma è tua cugina, ciccio!». No, naturalmente non gli dice così. Al contrario accetta con entusiasmo. «Meglio a te che a un altro» gli dice. Io però francamente non capisco perché il nostro si sia sbilanciato a questa maniera. Che bisogno c'era di impegnarsi per così tanto tempo? Sette anni sono uno sproposito. Ma dico, prendi esempio dai grandi: Dio quanto ha lavorato, sei giorni, mica sei anni, no? Potevi proporgli un mese, oppure un contratto a termine, ma breve, al limite rinnovabile, ma sempre – insisto – breve! Si può ragionare con un uomo innamorato? Assolutamente no. Anzi, il bello (lo dico senza ironia, perché si tratta proprio di un atteggiamento immensamente bello) è che Giacobbe servì per Rachele sette anni, e gli parvero pochi giorni tanto era l'amore che le portava. Che uomo meraviglioso è? Sarebbe interessante raccontare qualcosa di quei sette anni, gli inverni al gelo, le estati torride, i progetti, i sogni, le parole spese, gli incontri, le esperienze. E tanti altri fatti, piccoli, medi e grandi, quelli che percorrono, influenzano e segnano la vita delle persone lungo un arco così lungo di tempo. Sarebbe interessante, ma non si può fare. Perché nella Bibbia è scritto così: Poi Giacobbe disse a Labano: «Dammi mia moglie, perché è passato il tempo...». Davvero, come passa il tempo. Il dono della sintesi, tipicamente biblico, raggiunge qui il massimo risultato possibile: sette anni di vita vengono concentrati in quel poi. Ho interrotto la frase di Giacobbe, però. Egli dice esattamente allo zio: «Dammi mia moglie, perché è passato il tempo e io voglio entrare da lei.» È una terminologia un po' spiccia, in effetti. Ma Giacobbe è comprensibilmente impaziente, sette anni sono sette anni, altro che quel poi. Speriamo si comporti comunque da gentiluomo. Per la verità, le parole di Giacobbe fanno riferimento all' usanza di allora: la sposa, coperta da un velo, veniva condotta per prima nella tenda nuziale e attendeva, al buio, che entrasse da lei il marito. Ma attenzione, ora avviene l'imprevedibile e si scopre di che pasta è fatto Labano. Non è Rachele a venire introdotta nella tenda, bensì sua sorella, Lia. È lo zio che ha organizzato tutto. Che simpatico burlone, non è vero? Vi chiederete da dove sbuchi questa Lia. Nella Bibbia è scritto che, per l'appunto, Labano aveva due figlie: Rachele, la minore, era bella di forme e bella di sembianze, un gran pezzo di figliola insomma, mentre Lia, la maggiore, aveva gli occhi smorti. Come dire che soltanto un demente avrebbe dubitato su quale preferire. Ma purtroppo Giacobbe non si accorge di nulla, non si sa se per colpa del buio o dei troppi ormoni in circolazione. Per tutta la notte, dunque, fa l'amore con Lia credendo si tratti di Rachele. Probabilmente la chiama anche per nome, come succede fra amanti quando si è presi dalla passione... «Rachele, amore mio, finalmente! Rachele, Rachele! Oh mia Rachele, sei tu, tu, proprio tu!» Insomma chiama Lia Rachele. Niente di strano, capita. Quella di chiamare una donna con il nome di un'altra è una cosa che capita, sì, a molti uomini. Soprattutto a quelli che viaggiano. Ma anche a quelli che non viaggiano. È molto spiacevole, sì. Ma, in questo caso, Giacobbe non ne è consapevole, è stato imbrogliato, truffato, preso in giro. E tutto si è svolto nell'oscurità della notte, chiunque sarebbe potuto cadere in errore. Che storia! Giacobbe è felice, probabilmente come non lo è mai stato. Abbraccia la sua donna, Rachele. La stringe a sé. Lei si fa piccola piccola, al suo fianco. È così dolce. E lui, malgrado l'intensa notte d'amore, non chiude occhio, resta sveglio perché ha deciso di attendere il giorno, la prima notte di nozze è unica, non capiterà ancora, Giacobbe vuole viverla fino in fondo, consumandola lentamente, aspettando i primi bagliori che gli sveleranno il volto della sua donna amata, colei per la quale diede di matto nei pressi di quel pozzo anni fa, quanto sarà? sette anni, già. Cerca di scorgere i suoi lineamenti, la luce ancora tenue dell'alba li mette a fuoco pian piano. Quanto sei bella, Rachele, il tuo viso sarà sempre... Il tuo viso... Ma... Ma scusa... Fatti guardare... No... Non è assolutamente possibile... Ma sono io che sono impazzito, o cosa?... Ma al mattino, ecco apparve che essa era Lia. Finalmente si è accorto che non è la sua adorata Rachele. Ma forse ho descritto la scena con un eccesso di romanticismo. La prosa biblica è secca e diretta. Occorre adeguarsi. E dunque immaginiamo più semplicemente che Giacobbe possiede furiosamente Lia, quindi crolla in un sonno profondo come fanno tutti gli uomini, si risveglia nella penombra del primo mattino e scorge accanto a sé due occhi smorti che lo fissano. Allora pensa: "Ma dove li ho già visti questi occhi smorti?". Aggiungo io, di mio, che Lia probabilmente non ha affatto gli occhi smorti in quel momento, perlomeno non così smorti come suo solito. Al contrario, io mi immagino occhi percorsi da una luce vivace e compiaciuta. Sostituire la sorella è stato meno terribile del previsto, in fondo. (Ho letto un midrash rabbinico assai singolare su questo doloroso scambio di persona. Rachele ha inventato un linguaggio di segni per farsi riconoscere dal suo promesso sposo anche al buio. Evidentemente, conosce troppo bene la malvagità di suo padre e teme che egli possa, al momento delle nozze, costringerla allo scambio con la sorella. Giacobbe impara quel codice segreto, anche se non capisce a che cosa possa mai servirgli. Ma quando Lia, obbligata da Labano, entra nella tenda al posto suo, Rachele non regge al pensiero che ne esca umiliata e perciò le insegna i gesti che dovrà fare a Giacobbe per non insospettirlo. Con questa prova di solidarietà fra loro, le due sorelle ci fanno una gran bella figura. Tanto, a fare quella brutta ci pensa sempre lui.) Giacobbe, giustamente rabbioso, si precipita dallo zio. «Cosa mi hai fatto? Non è forse per Rachele che io ti ho servito? Perché mi hai ingannato?» Parole persino troppo contenute. Con Labano bisognerebbe andar giù molto più pesante. Ma Giacobbe sembra frenato. Credo di sapere il perché. Il nostro patriarca ha la coscienza sporca, non può prendersela più di tanto. Che vuole fare, maestro? L'offeso, l'indignato per lo scambio di persona? Proprio lei? Proprio lei che ha avuto la faccia tosta di travestirsi da orso per estorcere al suo vecchio padre malato e cieco la benedizione al posto del suo peloso fratello Esaù? È il contrappasso, chi di truffa ferisce... L'aspetto forse più curioso della faccenda è che la punizione giunga a Giacobbe da un componente della famiglia di sua madre Rebecca, la complice del raggiro ai danni di Isacco. Proprio da lui, il solito, ben noto, ossessionante (tutti in coro): Labano, fratello di sua madre! Famiglia di imbroglioni, è più forte di loro. E che risponde lo zio? «Non si usa così dalle nostre parti, che si dia la minore prima della maggiore...» Ma non potevi dirglielo prima? Che soggetto irritante. Sì, d'accordo, ma ora come si fa? Labano, a questo punto, gli confeziona un magistrale pacco-dono, un capolavoro di fregatura che lo inchioda. Con l'aria di chi abbia avuto l'idea lì per lì, sul momento gli dice: «Senti, caro Giacobbe, facciamo in questo modo, ti daremo anche quella (quella è Rachele) per il servizio che mi presterai per altri sette anni.» Porca miseria, se non è bastardo questo, ditemi voi chi lo è. Comunque, andò proprio così. Giacobbe lavorò quattordici anni consecutivi per avere la donna della quale si era innamorato al primo sguardo. E che gli resterà accanto per tutta la vita. Mi fermo qui. Ma su Giacobbe c'è da leggere e raccontare ancora tanto. Fa parte di un trio, con Abramo e Isacco: i grandi padri nostri. Ma il mio preferito è lui. Non è il patriarca consegnato all'iconografia, superiore e distante. È un uomo che per amore soffre, si macchia, si umilia. Sì, per amore. Che tipo di amore? Quello incerto, volatile, illusorio e folgorante. L'amore che, al contrario di ciò che si pensa, non finisce mai. Se avrò un figlio maschio, magari lo chiamo Jacob. VII Nessuno è profeta in patria, figurarsi fuori L'avventura di Giona è ben presente nell'immaginario collettivo per il suo aspetto più fantastico, la lunga permanenza nella pancia di una balena. Ma non tutti conoscono a fondo l'intera vicenda di questo profeta tremendamente cocciuto, che ha il coraggio di misurarsi in un conflitto aperto con Dio. Giona ha un rapporto speciale con il Signore, è un Suo dipendente diretto, in continuo contatto con la Sua superiore volontà. Tutti i profeti, del resto, sono nella medesima condizione, ma soltanto alcuni fra loro speculano sul privilegio di avere una linea esclusiva d'ascolto della parola di Dio. Il famoso Isaia o l'altrettanto famoso Ezechiele, ad esempio, fanno spesso pesare quella loro «relazione» influente, insomma se la tirano parecchio, come si direbbe oggi. Salvo poi farsi piccoli piccoli quando il Titolare li chiama a rapporto. Giona invece è di tutt'altra razza. È un uomo abituato a pensare e a discutere. Ha uno spirito indipendente e caustico, perciò non è servile e non cerca consensi. Il Signore lo tiene in grande considerazione, proprio per questo. La storia comincia quando Dio compare a Giona e gli dice: «Su, va' a Ninive, la grande città, e grida contro di essa, perché la loro malvagità è salita sino a me.» L'ordine è perentorio. Poche parole che fanno capire quanto sia scomodo e ingrato il mestiere di profeta. Giona deve immediatamente partire per una metropoli lontana, ben nota per essere abitata da persone poco raccomandabili. E non appena sistematosi là, dovrà insultare pesantemente i suoi ospiti, facendo loro capire che stanno marcando malissimo e che il Signore ha in mente soluzioni assai drastiche, tipo radere al suolo il centro storico o sommergere con un'alluvione tutte le periferie (me le sono inventate, ma sono credibili). Il compito è molto delicato e molto rognoso: in sostanza, si tratta di dire cose assai sgradevoli a gente che, presumibilmente, non ha alcuna intenzione di ascoltarle. Ed è una missione ad alto rischio, perché nessuno garantisce a Giona che gli abitanti di Ninive non lo accoglieranno a colpi di fiocina, o peggio, non lo appenderanno per le ascelle a un portale, o peggio ancora, non affetteranno il suo corpo con una roncola (mi sono inventato anche queste, ma sono altrettanto credibili). Giona non ha alcuna paura, né dei niniviti, né delle loro usanze barbare. Eppure decide di non obbedire a Dio. Il perché lo capiremo più avanti. Per il momento dobbiamo prendere atto di una cosa soltanto: Giona fugge. Leggiamo. Ma Giona s'alzò per fuggire a Tarsis, lungi dal cospetto del Signore. Proprio così. Giona si sottrae al suo incarico. Ascoltate le parole del Signore senza alcun commento, scende al porto, trova una nave che sta salpando per Tarsis, paga all' equipaggio il prezzo (una sorta di passaggio-ponte) e si imbarca, proprio per fuggire lontano dal cospetto del Signore. Qualcuno sostiene che per Tarsis si debba intendere un porto sulla costa della Spagna meridionale. Altri ipotizzano invece che si tratti di una località della Sardegna. Personalmente propendo per la Sardegna, perché è ben noto che se uno vuole scomparire, non c'è luogo migliore. Se ti nascondi in certe zone dell'entroterra nuorese, davvero non ti trova neanche Dio. Sta di fatto che il comportamento di Giona appare piuttosto bizzarro, per non dire ingenuo. Non si capisce come egli possa illudersi, non essendo peraltro uno sprovveduto, di sfuggire allo sguardo infinitamente vigile del Padreterno. E infatti il Signore non soltanto si accorge della sua fuga, ma se la prende parecchio. Per Lui, è un atto di palese insubordinazione. Per noi, è un atteggiamento a dir poco spiazzante. Giona è talmente sfacciato da non attendere nemmeno che la nave lasci il porto. Si sistema nella stiva, si sdraia comodamente e si addormenta tranquillo, come se niente fosse, incurante della reazione del suo Principale. Reazione che, naturalmente, non tarda a manifestarsi. Devastante e furiosa, come è nel carattere di Dio. Ma il Signore scatenò un gran vento sul mare e vi fu una sì grande burrasca in mare che il vascello minacciava di sfasciarsi. Strano perché le previsioni erano ottime e l'ultimo bollettino ai naviganti non aveva segnalato alcuna perturbazione in arrivo. È la prova che, fin dai tempi più antichi, i notiziari non ci azzeccano mai. Ne ebbero paura i marinai e gridarono, ciascuno al suo dio, e gettarono in mare le mercanzie ch'erano sul vascello per alleggerirlo. I marinai vengono colti totalmente alla sprovvista e cercano di fronteggiare la situazione come possono. Ma il mare si ingrossa sempre più e tutti sono ben presto preda dello sconforto e del panico. È evidentemente un equipaggio internazionale, perché ogni componente del personale di bordo prega il suo dio. (Immagino come se la rida il nostro Dio, che non solo si ritiene l'Unico esistente, ma è anche l'unico responsabile di quel vero marasma.) E Giona, in tutto questo? Non fa una piega. Giona invece era sceso in fondo al vascello, anzi s'era coricato e dormiva profondamente. Pur nella grande confusione e concitazione del momento, al comandante della nave non sfugge l'assurdità del comportamento di quello sconosciuto passeggero, che dorme come un angioletto e se ne frega della burrasca. Lo sveglia perciò bruscamente e gli dice: «Complimenti amico! Che razza di prodotto prendi contro il mal di mare?» No, naturalmente non dice così. Gli dice invece: «Che hai tu, dunque, che dormi? Su, grida al tuo Dio, forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo.» È abbastanza assurdo anche il comportamento del comandante, però. Con il sovrapporsi di preghiere di quel momento, non si capisce per quale motivo egli si convinca che proprio il Dio di quel tizio debba essere quello giusto al quale rivolgersi. Ma naturalmente è l'intuizione vincente. Del resto, quando uno è mago, veggente e indovino, mica può pretendere di passare inosservato. Evidentemente, persino nel modo di russare, Giona aveva un che di profetico. Tutti si precipitano nella stiva, lasciando la barca in balia delle onde. Poi si dissero l'un l'altro: «Orsù, gettiamo le sorti e sapremo per colpa di chi ci capita questa disgrazia». Noi tutti sappiamo bene che cosa s ig nif ic a tirare a sorte: scegliere qualcuno affidandosi al caso, per mezzo di un'estrazione, di una conta o cose del genere. Invece, la pratica di gettare le sorti è piuttosto oscura ed è usata raramente nella Bibbia. Non è nemmeno molto chiaro in cosa consista. Peraltro, quello che colpisce qui è che venga utilizzata per stabilire chi è il colpevole. Bella forma di giustizia, non c'è che dire. forma di giustizia, non c'è che dire. Insomma, va proprio così: Gettarono le sorti e la sorte cadde su Giona. Ma guarda un po' che combinazione! Io ci vedo netto lo zampino del Signore in tutto questo, non può essere altrimenti. Ma come sono andate le cose? Provo a immaginarmelo. Forse hanno scrollato violentemente il profeta, lo hanno svegliato a suon di schiaffi, gli hanno aperto le cinque dita della mano e chiesto a bruciapelo: «Pari o dispari?». Oppure gli hanno chiuso il palmo della mano a pugno, infilato dentro la pagliuzza più corta e poi tutti a gridare: «È lui! È lui!». Il povero Giona, ancora intontito dal sonno, si ritrova così in mezzo alla vera tempesta, ovvero circondato da decine di persone imbufalite e urlanti che lo tempestano di domande. E gli dissero: «Facci dunque conoscere tu, per cui questa sciagura ci è capitata, le tue faccende. Di dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo appartieni?». Il nostro profeta non è lucido a sufficienza per inventarsi una bugia. O forse, è troppo onesto per mentire. «Io sono ebreo e temo il Signore, il Dio dei cieli, colui che ha fatto il mare e la terraferma.» È la notizia peggiore che potesse dare a quegli uomini già tanto allarmati. Andiamo bene! Ci mancava un ebreo! Ma mica perché siano razzisti e antisemiti. Figurarsi se a gente del genere, marinai abituati a girare il mondo e a vederne di tutti i colori, importa di che religione uno sia. Il problema è che tutti sanno quanto è incazzoso il Dio degli ebrei, quando a qualcuno dei Suoi salta in mente di farGli venire i cinque minuti (ma bastano anche i cinque secondi). E Giona conferma loro che, effettivamente, al momento ha qualche problemino con il suo Signore Iddio. Quegli uomini furono presi da grande spavento e gli dissero: «Perché mai hai agito così?». Già, è quello che continuiamo a chiederci anche noi: perché mai abbia agito così. Giona non risponde e non spiega. Si scioglie dall'assedio dei marinai e sguscia veloce in coperta. Me lo vedo: ora è là sul ponte, a prua, tranquillo, fermo sulle sue gambe e osserva, soddisfatto e con aria quasi di sfida, i flutti che fanno ondeggiare paurosamente il vascello. Sembra voglia dire: "Bravo, stai facendo un ottimo lavoro, mi piace quando mostri i Tuoi Attributi, Signore!". Poi tranquillizza tutti, mostrandosi estremamente pragmatico. Okay, è in corso una burrasca, ma non è il caso di farne una tragedia, tanto la colpa è soltanto mia, quindi ecco la soluzione, semplicissima: «Prendetemi e gettatemi in mare, e si placherà il mare attorno a voi.» Si può chiedere qualsiasi cosa a un marinaio, ma non di gettare in mare un uomo vivo, è contro la sua etica. Purtroppo, però, gli ulteriori sforzi dell'intero equipaggio per guadagnare terra remando risultano vani, perché il mare andava crescendo e ingrossando sempre più contro di loro. Si dibattono, urlano, pregano, ma non c'è niente da fare. E dunque, sebbene a malincuore, sollevarono Giona, lo gettarono in mare, e il mare s'acquetò dal suo furore. Visto? Bastava così poco. Peccato per il carico perso, peccato per qualche attacco di cuore non previsto, ma la navigazione adesso potrà riprendere regolarmente. Ora, esistono due diverse possibili interpretazioni di questo evento. La prima, più ottimistica, è suggerita in qualche modo dal testo biblico. Gli uomini furon presi da gran spavento verso il Signore. Offrirono un sacrificio al Signore e fecero dei voti. In sostanza, tutti i marinai si convertono all'istante, impressionati dalla potenza di Dio. È la dimostrazione evidente che i migliori risultati si ottengono sempre con le maniere forti. La seconda è un'interpretazione libera e nasce dalla constatazione evidente che, buttando a mare l'ebreo Giona, i marinai si sono cavati immediatamente dai guai. In altre parole, anche se non fossero mai stati razzisti e antisemiti, è certo che da quel momento lo sono diventati. È ben noto, del resto, che i marinai di tutto il mondo conoscono la storia del profeta Giona. E che, dunque, non perdono occasione per incolpare gli ebrei di qualunque disgrazia capiti per mare. Proprio così. Altrimenti non si spiegherebbe questa storiella raccontatami anni fa da uno skipper ebreo che incontrai sull'isola greca di Santorini. C'è un signore ebreo, che si chiama Rosenberg, che decide di partire in crociera con la moglie per festeggiare i venticinque anni di matrimonio. Tutto fila liscio fino a quando, una notte, c'è mare grosso e la navigazione si fa molto angosciante e pericolosa. Tutti a bordo temono il peggio, ma per fortuna la nave tiene. Al mattino successivo, i passeggeri, provati ma felici, commentano fra loro l'accaduto, mentre fanno colazione nel grande salone sul ponte principale. Improvvisamente, fa irruzione il comandante della nave e con aria minacciosa chiede ad alta voce: «C'è qualche ebreo qui?». Il signor Rosenberg e sua moglie hanno un sussulto. «Ho chiesto se c'è qualche ebreo qui!» urla nuovamente il comandante. A questo punto, il nostro Rosenberg si fa avanti e per nulla intimorito dice: «Certo! Eccomi qua! Mi chiamo Rosenberg e questa è la mia signora! C'è qualche problema?». «Lo immaginavo!» fa il comandante. Poi, senza alcuna esitazione, lo colpisce con un pugno violentissimo, facendolo precipitare lungo disteso sul pavimento. «Questo è per la burrasca di stanotte!» Tutti i presenti restano senza parole, impietriti. Il signor Rosenberg non fa nemmeno in tempo a risollevarsi completamente da terra che un secondo pugno, ancor più forte del precedente, lo stende nuovamente al tappeto. «E stende nuovamente al tappeto. «E questo è per l'affondamento del Titanic!» gli strilla il comandante. «Veramente quello è stato per colpa di un iceberg» sussurra appena il poveraccio, ancora dolorante e intontito. «Sì, sì, appunto!» fa il comandante. «Iceberg, Rosenberg, sempre ebrei siete, no?» (Naturalmente, non è affatto vero che i marinai sono tutti antisemiti. È vero invece che esistono molti pregiudizi sugli ebrei, in tutti gli ambienti. Ci si può pure scherzare sopra, ma ciò non toglie che esistano. Sono quasi sempre frutto di ignoranza, nel senso di scarsa conoscenza o di informazione sbagliata. I pregiudizi negativi – controllano il mondo, sono avidi, sono colpevoli di tutto – ma anche quelli paradossalmente positivi – sono troppo intelligenti, hanno una marcia in più – pesano sulla coscienza dell'umanità e sono stati all'origine di tanti dolori personali e collettivi. Gli ebrei sono molto orgogliosi delle proprie antiche tradizioni religiose e hanno dovuto quasi sempre combattere strenuamente per conservarle e difenderle. Per questo, sono storicamente poco comunicativi con il resto del mondo. Ma è falso, ovviamente, che abbiano così tanti pregi e difetti in comune fra loro. Sono persone ottime o stupide, eccelse o fetenti, a seconda dei casi, proprio come tutte le altre. È che i pregiudizi, purtroppo, sono più duri a morire delle persone.) persone.) Eccoci dunque, finalmente, al momento tanto atteso. Giona è in balia delle onde e sta per affogare. Direte: ma il mare non si era improvvisamente placato? Certamente, ma non per il profeta. Attorno a lui, il Signore ha organizzato una piccola burrasca personale. Non dimentichiamo che Giona ha disubbidito e l'Onnipotente, con una punta di sadismo, desidera dargli una lezione che non possa dimenticare facilmente. Perciò, dopo averlo lasciato per un bel pezzo al freddo, a mollo, in preda alla paura di morire, lo fa infine inghiottire da un grande pesce. Si tratta, con tutta probabilità, di una balena e fa parte della famiglia di quei grandi cetacei che Egli aveva inventato, in tutta fretta e senza una reale utilità, al quinto giorno della Creazione. Un animale terribilmente ingombrante, immangiabile e che era forse sul punto di far estinguere. Ma il Signore è saggio. Come mia nonna. «Non si butta via niente» diceva. Ed ecco che ti torna buono anche il cetaceo. Così per tre giorni e tre notti stette Giona nel ventre del pesce. L'insolita immagine, un uomo rifugiato nel ventre di un pesce, nasce qui, nel racconto della vicenda del profeta Giona. Ma molti – ho notato – sono convinti di averne sentito parlare altrove. Ciò accade perché, nel corso dei secoli, essa è diventata un simbolo. E ha perciò conosciuto molteplici declinazioni letterarie, poetiche e artistiche. È stata elaborata e rielaborata in decine di versioni diverse da musicisti, pittori, raccontatori di fiabe, storici e psicanalisti. Ma l'originale è questa. Non c'è niente da fare, la Bibbia è proprio un libro straordinario e speciale. Io però cerco di essere pratico. E dico che settantadue ore nel ventre, vale a dire nello stomaco (o nell'intestino?) di un balenottero, è un'esperienza da definirsi in un modo soltanto: disgustosa. E su come il pover'uomo abbia passato tutto quel tempo là dentro, il testo biblico non ci dice niente. C'è soltanto una lunga e accorata preghiera, con la quale Giona ringrazia (?) il Signore per tutta la Sua misericordia (!?). Per il resto, mistero assoluto. Che cosa ha mangiato: altri pesci che entravano? Come ha dormito: sdraiato lungo l'esofago? Che faceva per ingannare il tempo: contava i villi intestinali? Oppure aveva qualcosa da leggere? È molto strano che nulla venga spiegato, perché la Bibbia è solitamente molto minuziosa e generosa di particolari, a volte pure insignificanti. Ma questa volta, proprio niente. E dunque, finalmente: Il Signore comandò al pesce ed esso rigettò Giona sulla terraferma. Il fatto che la balena lo vomiti, perlomeno ci chiarisce quel dubbio riguardo all'esatta ubicazione di Giona al suo interno: le era rimasto sullo stomaco. (È un dettaglio confortante, perché se il profeta avesse soggiornato nell'intestino l'uscita sarebbe stata segnalata altrove.) La faticosa e istruttiva avventura di Giona potrebbe anche chiudersi qui. Il profeta avrebbe imparato che è assai complicato e rischioso sfuggire alla volontà del Signore. Noi avremmo imparato che è altrettanto complicato e rischioso organizzare crociere last minute. Resterebbe soltanto un interrogativo sospeso. Perché Giona non è voluto andare a Ninive? Ma, in fondo, dalla Bibbia scaturiscono tante domande che non trovano risposta, tante domande che non trovano risposta, perciò una in più poco ci cambierebbe. Dormiremmo comunque sonni tranquilli. Il Signore però non è un tipo che si arrende così facilmente. Egli vuole andare fino in fondo. Perciò si presenta al Suo uomo appena sputato fuori e, senza nemmeno attendere che si faccia una doccia e si cambi d' abito, gli fa: «Su, va' a Ninive, la grande città, e grida contro di essa quel che ti dirò.» Come se niente fosse! Ostinato e implacabile. Che può fare, a questo punto, Giona? Ovvio: ci va. Il testo biblico descrive Ninive come una città di proporzioni abnormi, ci volevano tre giorni ad attraversarla, forse per l'assenza di semafori e di un piano adeguato per regolare il traffico, una specie di Città del Messico, per intenderci. Il profeta comincia a penetrarla e grida: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta.» Immaginate un uomo tutto solo, senza neppure un megafono, che cerca di farsi sentire in quel tremendo caos. Chiunque avrebbe mollato per la disperazione. Ma evidentemente gli abitanti di Ninive hanno la coscienza non sporca, di più. Perché accade l'incredibile: nessuno lo prende per matto, nessuno lo prende a sassate, ma al contrario tutti lo prendono tremendamente sul serio. Gli abitanti di Ninive credettero in Dio, indissero un digiuno e si rivestirono di sacchi, dal più grande al più piccolo. Una stupefacente e rapidissima conversione di massa, che coinvolge l'intera città. Anche il re si toglie il manto, si veste di sacco e si siede sulla cenere. E con un decreto impone di fare penitenza a tutti, persino agli animali. «Uomini e bestie, sia gli armenti che i greggi, non gustino nulla, non pascolino, né bevano acqua. Si ricoprano di sacco, uomini e bestie, e gridino a Dio con forza e si ritragga ciascuno dalla sua malvagia condotta e dalla violenza ch'è nelle sue mani.» Esagerati. Non ci viene detto come si comportassero prima, ma c'è da immaginare che fossero una manica di malavitosi, delinquenti e assassini. E hanno la reazione tipica di chi è consapevole di aver superato ogni limite: passano da un eccesso all'altro. Ora sono in preda a un'ondata irrefrenabile di buonismo, una sorta di impazzimento al contrario. Ma io penso alle conseguenze pratiche. Dove andranno a pescare tutti quei sacchi? E che tipi di sacchi dovranno utilizzare? Basteranno sacchi che coprano i vestiti, oppure dovranno infilarcisi dentro con tutto il corpo, testa compresa? E per gli animali come faranno? Passi per i conigli e le galline, ma provate voi a infilare in un sacco una mandria di mucche. Ci sarà sicuramente la corsa per accaparrarsi i sacchi, si alzeranno i prezzi, ci sarà chi ci specula sopra, si creerà un mercato nero dei sacchi. Il re dovrà fare un secondo decreto, con il quale proibirà ogni commercio di sacchi e punirà con la morte coloro che verranno colti con le mani nel sacco, anzi nei sacchi. Scherzavo. Siamo a Ninive, in Assiria. Mica in Italia. Insomma, l'ardore e l'impegno sono talmente evidenti, il cambiamento è così tanto sincero, che il Padreterno perdona gli abitanti di quella città. Dio si pentì del male che aveva predetto di fare loro e non lo compì. È una decisione a sorpresa. Alla faccia di chi pensa che questo Signore stia sempre sul piede di guerra. Al contrario, è armato di pietà e di buon senso. Ha persino il coraggio di contraddire Se Stesso. Mi piace. Bravo. Una volta tanto, una storia che si chiude con un lieto fine. Tutti contenti? Niente affatto. Ma Giona ne provò gran dispiacere e se ne sdegnò. Che Giona fosse un uomo dal carattere difficile si era capito da subito. Che amasse andare sempre controcorrente, pure. Ma che ora si dispiaccia perché Dio non ha fatto a pezzi i niniviti con tutti i loro animali insaccati (che sia nata da qui l'idea di fare prosciutti e salami?) sembra francamente un po' troppo. Verrebbe da dirgli: scusa amico, qual è il problema? Per la verità, il profeta mostra ancora una volta di avere il coraggio delle proprie idee, ha del fegato insomma, perché dice a Dio quello che pensa di tutta la faccenda. «Ah, Signore! Non lo dicevo io forse, mentr'ero ancora nella mia patria? Per questo m' ero affrettato a fuggire a Tarsis. Sapevo infatti che tu sei un Dio clemente e misericordioso, lento alla collera e pieno di benevolenza, facile a pentirsi del male. Orbene, Signore, toglimi, ti prego, la vita, poiché è meglio per me morire che vivere.» Grazie a queste parole, possiamo finalmente sciogliere quell'interrogativo rimasto a lungo sospeso. Ecco perché Giona non voleva andarci, a Ninive! Perché sapeva come sarebbe andata a finire. (Bisogna tener conto che un profeta, in fatto di futuro, ci azzecca quasi sempre, non è proprio un indovino di professione, ma opera pur sempre nel settore delle previsioni.) Il suo ragionamento non fa una piega. Dice in sostanza Giona al Signore: «Tu mi hai mandato a Ninive ad annunciare che avresti distrutto la città, poi hai cambiato idea perché in fondo sei un buono e così la figura dell'idiota ce l'ho fatta io, ora tutti penseranno che Giona è un visionario, o peggio uno che porta sfiga, mi hai bruciato come profeta, almeno avresti potuto evitare che io parlassi di una scadenza precisa, "fra quaranta giorni" mi hai fatto dire, se mi fossi potuto tenere più sul vago con formule tipo "verrà il giorno che" o "ci sarà un'epoca in cui" (come fai sempre dire ai tuoi protetti, i tuoi delfini Ezechiele e Isaia), ora non sarei totalmente sputtanato, tanto lo sapevi benissimo che li avresti tutti perdonati, cosa che io non trovo affatto giusta, anzi mi fa proprio schifo se ti interessa la mia opinione, mi disgusta sì, mi fa sdegnare proprio che questa immonda fogna di città Tu non la rada al suolo, che tutti questi mascalzoni, ladri, avanzi di galera la passino liscia soltanto perché hanno recitato la stomachevole commedia dei recitato la stomachevole commedia dei poveri peccatori pentiti, mentre invece non sono nient'altro che degli infami, gli infami di sempre, dei maledetti ipocriti bugiardi che non appena Tu girerai la testa riprenderanno a fare le loro porcate di sempre, e con ancora più arroganza di prima, convinti come saranno di averti fatto fesso con quattro preghiere e con quei ridicoli sacchi in cui si sono infilati in compagnia dei loro animali (immagine disgustosa per me, non si riusciva neppure a distinguere quali fossero gli uomini e quali le bestie!), e se Ti dà fastidio che dica tutto questo ammazzami pure perché io non ho paura della morte, anzi mi faresti un enorme piacere dato che a me la vita, se è questa la vita che mi offri, se è questa la giustizia che mi proponi, be' a me non giustizia che mi proponi, be' a me non piace proprio per niente, e dato che lo sai, perché Tu sai tutto, non capisco davvero perché non ti sei sbarazzato di me molto prima, perché per esempio non mi hai lasciato affogare quando i marinai mi hanno buttato in mare o perché non hai lasciato che quella tua balena, invece di vomitarmi, mi digerisse per sempre!»... più o meno, parola più parola meno. Giona è talmente fuori di sé che non ascolta nemmeno la risposta del Signore. Si allontana, esce dalle mura, cerca un punto panoramico sulla città a oriente, lo trova, ci costruisce un capanno e vi si sedette sotto, all'ombra, per vedere ciò che sarebbe accaduto alla città. Vuole vedere come andrà a finire. Vuole vedere se davvero il Signore avrà il coraggio di far prevalere la pietà sulla giustizia. Insomma, fa un sit-in di protesta. Un presidio con capanno per la giustizia giusta. Come un radicale. Se potesse, raccoglierebbe anche delle firme per fare un referendum che abroghi Ninive. Ma non può, perché nessuno firmerebbe. Perlomeno non lì, proprio davanti alla città da abrogare. Allora il Signore, nella Sua immensa pazienza, decide che Giona ha assoluto bisogno di una lezione pratica. Basta con i ragionamenti teorici, anche perché quell'uomo ostinato sembra imbattibile quanto a chiacchiere. Allora il Signore Iddio, dispose che un ricino crescesse al di sopra di Giona per far ombra al suo capo e per liberarlo dal suo dispiacere. E Giona provò una grande gioia per quel ricino. Il ricino è una pianta dalle foglie molto larghe, che può superare anche i due metri e che si sviluppa molto in fretta. Ma non in mezza giornata, naturalmente. È curioso che Giona, che si è sistemato in una spianata arida col sole a picco, non si insospettisca per quella crescita improvvisa. Evidentemente è troppo stanco e perciò si gode l'ombra senza farsi tante domande, pover'uomo. (Al suo posto, io mi sarei allarmato, invece. Non conosco bene il ricino, ma ho sentito parlare dell'olio che se ne estrae. Bastava che Giona avesse un minimo di cultura antifascista per fare due più due.) Infatti. Poi Dio comandò che l'indomani, al sorgere dell'aurora, un verme colpisse il ricino, che seccò. Ma non è finita. Ed ecco che al sorgere del sole Dio preparò un vento orientale bruciante e il sole picchiò sul capo di Giona che si sentì venir meno... Ora, ci mancherebbe altro che io discutessi il diritto del Creatore di fare e disfare a Suo piacimento. Se Gli garba di far nascere un albero e al mattino seguente di farlo crepare, se ha voglia di suscitare all'improvviso una tremenda ventata di scirocco, ne ha facoltà. È che non sono convinto dei Suoi metodi educativi. A me pare che nei confronti del profeta, che in fondo dovrebbe essere un Suo protetto, stia usando una mano troppo pesante. Gliene ha fatte passare di cotte e di crude. È accanimento questo, su... ...[Giona] bramò la morte dicendo: «Meglio è per me morire che vivere». Ma è logico! Arrivati a questo punto, chiunque sarebbe stremato. Giona sembra un toro da corrida stordito e ferito. (Sono stato una volta, a Madrid, in una plaza de toros. Mi ricordo di un torero molto maldestro, che continuava a colpire il toro senza riuscire a stenderlo. La gente era indignata, inferocita e gli urlava di ucciderlo con la spada: «Mátalo, mátalo con la pica!». Capite? Non sopportavano che la bestia soffrisse così a lungo, inutilmente. Una speciale forma di amore per gli animali che ho sempre apprezzato negli spagnoli.) Mi verrebbe da gridare al Signore: «Finiscilo, finiscilo con un bastone!». Ma Dio ha un progetto educativo, non dimentichiamolo. Allora Dio disse a Giona: «Hai tu ragione di sdegnarti così per il ricino?». Rispose: «Sì, ho ragione di sdegnarmi sino alla morte». sino alla morte». È buffo. Il Signore fa finta di credere che Giona se la sia presa per il destino crudele riservato al ricino, nato e morto in un giorno. Ma è chiarissimo che il profeta, con tutto l'amore che può avere per le piante, se ne frega del ricino ed è sdegnato per come è stato trattato. Ed eccoci giunti, finalmente, alla morale. Il Signore disse: «Tu hai pietà del ricino per il quale non ti sei affaticato, che tu non hai fatto crescere; è nato in una notte e in una notte è scomparso...». Signore, non vorrei insistere: ma a Giona non importa niente del ricino e... D'accordo Signore, come vuoi... Sto zitto e ascolto il ragionamento per intero... «...E non dovrei io avere pietà di Ninive, la grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere tra la destra e la sinistra, e tanto bestiame?» Molto chiaro. Valeva la pena di farLo finire. Il Signore dà una lezione esemplare al Suo profeta. E anche a tutti noi. Il libro di Giona ci consegna dunque un Padreterno illuminato e illuminante. Ci offre una chiave per comprendere il senso profondo di una scelta non facile, per nessuno: abbandonare la tentazione maligna della vendetta. Perdonare è complicato, costoso, pesante. Non sempre ci si riesce. E non è nemmeno detto che sia possibile. Possiamo noi perdonare i tedeschi di oggi per quello che hanno fatto i loro padri e nonni nazisti agli ebrei, agli zingari, agli omosessuali, agli handicappati, agli oppositori di ogni genere? Credo di no, perché i protagonisti sono tutti assenti, per motivi diversi. Ma fa senz'altro bene alla nostra salute fisica e spirituale non covare alcun desiderio di vendicarci. Senza nulla dimenticare, ovviamente. Era giusto per fare un esempio. Ma ce ne potrebbero essere tanti altri, tratti dalla vita quotidiana e spicciola di ognuno di noi. Una conclusione molto seria, accidenti. Un momento. E il profeta? Che fine fa? Va detto che il libro di Giona si interrompe bruscamente su quella frase di Dio. Non c'è replica, né commento alcuno. È un finale aperto. E allora? alcuno. È un finale aperto. E allora? Ci penso io. Dopo aver riflettuto sulle ultime parole del Signore, Giona smantella il capanno, mangia qualcosa (nella sua furia radicale aveva avuto la pessima idea di cominciare un digiuno di protesta), brucia il banchetto delle firme (ne aveva raccolte soltanto quattro, quella del giardiniere chiamato per tentare di salvare il ricino, di sua moglie e dei due figli), dà ancora un'occhiata alla città di Ninive (nella quale il traffico è ripreso caotico, e ora sappiamo anche perché: è tutta gente che non sa distinguere tra la destra e la sinistra) e si incammina verso occidente. Dove andrà? Quasi certamente a Tarsis. Ci arriverà salpando con una barca privata, senza equipaggio, per carità di Dio. Prenderà in affitto una casetta sul mare e passerà gran parte delle sue giornate sulla riva, a pescare. E a pensare, in assoluto silenzio. Con una piccola segreta e tenera speranza nel cuore: che una sera, preceduta da un'inevitabile onda anomala, venga a salutarlo sulla spiaggia l'unica balena alla quale vuole un bene dell'anima. VIII Gioele, ma quale profeta minore Al profeta Gioele sono legato per ovvi motivi. Porto il suo nome con grande orgoglio e con qualche fatica. Chissà se anche a lui capitava di sentirselo continuamente storpiare in JOEL o GIOELLE. Chissà se anche a lui toccava di vederlo scritto nove volte su dieci nella più sintetica versione di GIOLE, senza la E. (Davvero un fatto curioso questo: quasi tutti lo trascrivono sbagliato, perché il d i t t o n g o OE sembra sfuggire malignamente anche al più attento dei correttori di bozze. Non è mica importante, sia chiaro; ma noi pochi, p o c his s imi GIOELI/GIOLI ci facciamo ovviamente più caso.) (Qualche tempo fa, sull'autostrada nei pressi di Rimini, mi fermo in un'area di servizio per bere un caffè. La signora che sta alla cassa mi vede entrare e si illumina in volto. Rispondo al suo splendido sorriso e la saluto. Lei si precipita fuori dalla sua postazione e si mette a correre fra gli scaffali di libri bagnoschiuma e provoloni gridando: «Gioele, tu non puoi sapere!». È bello, penso, che certe persone vogliano manifestarti il proprio affetto in modo così plateale. La signora mi raggiunge, mi butta le braccia al collo e mi bacia, quasi con prepotenza. Poi mi ripete: «Gioele, tu non puoi sapere!». E aggiunge esaltata: «È un sacco di tempo che mi dico: "Passerà prima o poi di qui il Gioele, porca boia!"». Sono troppo divertito e stordito per rendermi conto che tutte le persone presenti nell'autogrill stanno seguendo l'insolita sceneggiata. È lei ad accorgersene e, forse per togliermi dall'imbarazzo, butta lì un «Eh be'? Che c'è? Non posso abbracciare un sfigato come me?». Rido macchinalmente perché davvero non ci sto capendo più nulla. Finalmente la donna mi tira in disparte e mi dice sottovoce, con tono complice e un po' afflitto: «Tu soltanto mi puoi capire. Sai che bella idea hanno avuto i miei genitori quando son nata? Mi han chiamato GIOELA!». C'è sempre qualcuno che sta un po' peggio di noi.) Sul profeta Gioele non si hanno grandi notizie. Si sa soltanto che faceva parte della classe sacerdotale e che era figlio di un tale, chiamato Petuel, che in quanto al nome era forse ancora più sfortunato di lui. Niente altro si sa, né sulla sua vita, né sul suo carattere. Nessuna informazione precisa su persone frequentate, viaggi intrapresi, successi, infortuni, passioni, mogli o amanti. La vicenda umana del profeta Gioele è avvolta in una fitta nube di mistero. Che non sia mai esistito? È l'ipotesi che recentemente ha fatto qualcuno, ma io non sono d'accordo. Non ci credo, o meglio: non voglio e non posso crederci. Sarebbe un colpo troppo deciso inferto al mio ego, già fragile e precario di suo e in cerca di continue conferme. È pur vero che persino sull'esistenza di Omero sono stati espressi documentati e autorevoli dubbi. Ma allora io dico, ai diffidenti studiosi, ai perplessi scienziati, che di continuo mettono in forse l'identità dei poeti: ma che ve ne importa? perché non li lasciate in pace? perché non ci lasciate in pace? Se pagine intense, stupende, memorabili hanno retto per secoli e secoli grazie a una firma, forse falsa, eppure accettata in garanzia da tutti, a che scopo insinuare e seminare incertezze proprio adesso, in tempi già così discutibili e discussi? Toglietemi tutto, ma non il mio profeta. Gioele ha scritto un'unica brevissima profezia, nella quale attribuisce dolorosi significati simbolici a un'imminente quanto terrificante invasione di cavallette. Niente a che vedere con il prolifico profeta Ezechiele, del quale conserviamo centinaia di predicazioni contenute in uno straordinario e voluminoso libro di ben quarantotto capitoli; o con l'ancor più produttivo Isaia, al quale sono riservate nella Bibbia ben duecento pagine stracolme di preghiere, inni e lamentazioni. In altre parole, carriere molto diverse. È probabilmente per questo motivo che Gioele viene considerato un profeta minore. E io nuovamente dissento, perché trovo ingiusto che la qualità profetica si misuri in base alla quantità dei pensieri espressi, sensati o meno che siano. È vero che da Gioele riceviamo soltanto otto paginette (scritte larghe, peraltro). È anche vero che profetizzare un'invasione di cavallette, a quei tempi e con quelle condizioni climatiche, non costituiva un grande colpo di genio. Ma resta pur vero il fatto – indiscutibile – che il racconto del cataclisma provocato dagli insetti assassini è un capolavoro letterario, micro ma capolavoro. Non solo. Poiché ci sono sconosciuti i particolari sulla sua esistenza, non sappiamo per quali motivi il profeta Gioele abbia profetato così poco. Forse non fu per colpa sua. Altri fattori potrebbero aver condizionato il suo percorso professionale. Forse non fu assistito dalla fortuna. Forse sognava fin da ragazzo di fare il profeta, ma dovette adattarsi a forza a un altro mestiere. Di quanti grandi talenti nascosti o sprecati è piena la Storia? Forse Gioele ebbe gravi problemi in famiglia. Chissà suo padre, il misterioso Petuel, che tipo era. Forse era un poco di buono e abbandonò la moglie con dodici figli piccoli (ai quali aveva imposto nomi ancora più brutti del suo). Forse Gioele era il primogenito e fu costretto a occuparsi degli sfortunati fratellini mantenendoli fino a che ebbero tutti quanti finito gli studi (e il dodicesimo, Bdulfauèl, si laureò a quasi quarant'anni). E dunque, soltanto in tarda età Gioele, finalmente libero dagli obblighi familiari, riuscì a coronare il suo sogno di riuscì a coronare il suo sogno di diventare un profeta. Ipotesi, nient'altro. Perché di sapere come sia andata, non c'è verso. E aggiungo: se un uomo di talento trova la propria massima espressione nella sintesi di un'unica idea folgorante, perché dovrebbe sforzarsi oltre? Prendiamo ad esempio il mondo dei musicisti. È meglio aver composto una sola bellissima canzone che entrerà nella memoria collettiva di milioni di persone e che nessuno più dimenticherà; oppure aver scritto cento canzoni tutte uguali che in breve tempo verranno confuse con mille altre simili? La genialità di Gioele sta nella modernissima intuizione della potenza d e l big hit, quello che ti identifica da subito e ti fa vivere comodamente di rendita. Gioele non era un profeta minore, era forse un profeta pigro. Ed è questo che me lo rende ancor più simpatico. Il libro di Gioele è, come detto, un gioiello della letteratura antica. Non sono certo io a dirlo per primo, è l'autorevole opinione di molti biblisti di ogni epoca. Per averne la prova, basta leggere il racconto della devastante invasione delle cavallette, o locuste. Gioele, nel testo originale, chiama quegli insetti addirittura con quattro nomi diversi, ma probabilmente sempre di cavallette si tratta. Leggiamo e godiamo (se non vi piace, non fate commenti che ci rimango male, è il mio profeta). L'inizio è potente. Narratelo ai vostri figli e i vostri figli ai loro figli, e i loro figli alla successiva. generazione Certo, in lingua originale è tutta un'altra cosa. Il resto del grillo lo ha divorato la locusta... Sentite il ritmo. ...il resto della locusta lo ha mangiato il bruco... È un crescendo. ...il resto del bruco lo ha mangiato la cavalletta. Tenete conto che in lingua originale è incomprensibile, ma è tutta un'altra cosa. Ora Gioele paragona la moltitudine degli animali invasori a un grande popolo. Subito dopo l'immagine si trasforma in quella di un invincibile esercito. Giorno di tenebre e di oscurità, giorno di nubi e di caligine. Come fuliggine, si spande sui monti un popolo numeroso e forte. Per rendere l'idea della massa impressionante di locuste che, a detta di chi ha visto fenomeni del genere nei deserti asiatici o africani, oscurano letteralmente il cielo, Gioele usa cinque parole che vogliono dire la stessa cosa: tenebre, oscurità, nubi, caligine e fuliggine. È un espediente da letterato furbo, ma colto. Simile a lui mai ve ne fu, né mai ve ne sarà dopo di lui, sino agli anni dell'ultima generazione. Questo non è affatto vero, e Gioele lo sa: di invasioni di cavallette ce ne sono già state e altre ce ne saranno. È un fenomeno frequentissimo ai suoi tempi, quasi come lo è, ai nostri, la nebbia nella pianura padana. La sua abilità sta nell'enfatizzare ed esagerare la portata dell'avvenimento attuale. È lo stesso metodo che usano oggi i giornalisti televisivi quando gonfiano a dismisura «notizie» che non sono notizie: una giornata invernale un po' freddina diventa «L'Italia nella morsa del gelo!». Dinanzi a lui un fuoco divora e dietro a lui una fiamma brucia. Efficace l'idea di associare la devastazione provocata dal passaggio delle cavallette agli effetti di un incendio. Fuoco e fiamma sono sinonimi assoluti, l'abilità di Gioele sta nel farci credere che descrivano due situazioni totalmente diverse. Il paese è un giardino d'Eden dinanzi a lui, ma dietro a lui è un deserto desolato: non v'è scampo da lui. Come nei versi precedenti, Gioele esagera le conseguenze dell'invasione esasperando, seppur poeticamente, le condizioni del prima e del dopo. Ma è difficile credere che prima dell'arrivo delle cavallette la zona fosse un idilliaco giardino. Probabilmente era già un desolato deserto, perché non c'è mai stato un filo d'acqua da quelle parti, lo sanno tutti. Insomma, la verità che Gioele non dice è che le cavallette sono una disgrazia nella disgrazia. Ma non può dirlo, perché l'effetto tipicamente ansiogeno della profezia ne verrebbe compromesso. Il suo aspetto è aspetto di cavalli, corrono come cavalieri. Qui Gioele sembra incerto sul paragone. Che aspetto hanno? Di cavalli o di cavalieri? Di cavalli, d'accordo. Ma perché corrono come cavalieri? E non come cavalli? Forse intendeva dire che corrono come cavalieri a cavallo. Sì, deve essere per forza così. I cavalieri, per correre veramente, bisogna che stiano sul cavallo. Perché se sono a piedi quanto possono correre? Magari correranno anche veloce, ma sempre meno dei loro cavalli. Basta, si tratta di una delle più classiche licenze poetiche e a un grande del calibro di Gioele vale senz'altro la pena di concederla. Sono come un fragore di carri che saltellano sulla cima dei monti, come un crepitio di fiamma infocata che divora la paglia, come un popolo possente schierato a battaglia. Fantastico. Anche Bob Dylan lo ha copiato. Ha scritto una canzone, contenuta nel disco del 1970 «New Morning», che si intitola Day of the Locusts, il giorno delle locuste. Il ritornello fa: and the locusts sang yeah, they give me a chill oh the locusts sang such a sweet melody oh the locust sang that high whining trill... Uguale! Se non è copiare questo. Il testo di Dylan è un po' diverso, ma il suono è il medesimo. Soprattutto se confrontato con il testo di Gioele in lingua originale. Peccato che siano entrambi incomprensibili. Dinanzi a lui tremano i popoli, si sbiancano i volti di tutti. Gioele scrive come se pensasse alla sceneggiatura di un thriller ed è magistrale nel far decollare la tensione. Prima descrive la devastante avanzata delle cavallette soltanto attraverso rumori assordanti e inquietanti (immagino una colonna sonora ricca di effetti, fragori e crepitii realizzati in dolby surround). Poi racconta il terrore dipinto sui volti di tutti (vedo una lunga serie di primi e primissimi piani, di taglio, dal basso, dettagli di occhi sbarrati, bocche spalancate, mani che si stringono in un montaggio serrato e convulso). E va avanti così, sempre appassionante e incalzante. più Corrono come prodi, come uomini di guerra scalano le mura. Vanno ciascuno per il proprio cammino e non deviano dai loro sentieri. ...passano attraverso i dardi senza rompere le file. Si precipitano nella città, corrono sulle mura, s'arrampicano su per le case, entrano dalle finestre come un ladro. Scene da kolossal, con migliaia di comparse. E milioni di cavallette, aggiunte in postproduzione rielaborando le immagini al computer. le immagini al computer. Gioele era un visionario e pensava in grande. Fosse vissuto ai nostri giorni in America, avrebbe potuto fare del cinema, di quello molto costoso, con grandi mezzi. E se l'avesse fatto, probabilmente avrebbe avuto successo. I suoi fan avrebbero detto di lui: «È il genio indiscusso del thriller spirituale d'autore, è un cult, il suo cinema è Bibbia per noi». E i suoi detrattori: «Scrive film catastrofici soltanto per soldi, è un flop culturale, è un mestierante e un falso profeta». Ma sarebbe stato comunque uno di quelli che lasciano il segno. Forse sarò di parte, ma a me questo Gioele non dispiace affatto. Non era per niente un sfigato. E anche non fosse mai esistito, pazienza! Come fantasma ha comunque una ottima personalità e molta fantasia. Sarà per questo che mi identifico così tanto in lui: perché a volte anch' io mi convinco di avere personalità e fantasia, ma non sono tanto sicuro di esistere. Postfazione Fin da bambino venni attratto dalla Bibbia come libro di storie. Me le raccontavano e io credevo che fossero vere. Perché mai avrei dovuto pensare il contrario? La mia immaginazione viaggiava al galoppo, rincorrendo quegli uomini e quelle donne con le loro arcaiche vicende. Provai simpatia istintiva per alcuni di quei personaggi, forse perché mi parevano buffi o teneri o terribilmente incoerenti. E altri, invece, magari irascibili o deboli o troppo spietati, li detestai da subito, senza peraltro cambiare più opinione, neppure da grande. Tutte le storie contenute nel Libro, simboliche o reali che siano, contengono altro, si sa. E qui sta il punto cruciale. La Bibbia ci parla soprattutto di Dio. La Sua presenza nel mondo (o la Sua assenza dal mondo) è un tema che ognuno declina e risolve a suo modo. C'è chi crede, c'è chi è perplesso, c'è chi fugge o dimentica. E c'è chi aspetta soltanto di vedere come andrà a finire. Ma per chiunque – presto o tardi che sia – Dio è il problema. Persino per chi esclude categoricamente che esista. Penso al mio nonno materno, Alberto, elegante ribelle per tutta una vita, che anni fa mi disse: «Ringraziando Iddio, sono ateo!». Per quel che mi riguarda, considero il problema parzialmente irrisolto. È come un cantiere aperto, i lavori sono ancora in corso e la data di consegna continua a slittare. Non ho dubbi sull'esistenza di Dio (nonno mi dispiace, so di darti un dolore), ma cerco Sue tracce più chiare n e l l a mia, di esistenza. Vorrei avvicinarmi e, di quando in quando, ci provo. Lo facciamo in tanti, peraltro. La soluzione è incerta, ma il metodo ci sembra sicuro: inutile attendersi che Dio si occupi personalmente di ognuno, perciò è giusto metterci noi in contatto per primi. Purtroppo il Signore, che ai tempi di Abramo e di Giona si faceva vivo con una certa frequenza, ha cambiato abitudini e, attualmente, si comporta come un signore assai riservato. Non è dato sapere se ciò accada perché è stanco e si è concesso una pausa, o perché ha deciso di investire su gente diversa da noi, in altri universi. Se così fosse, io dico: pazienza, peggio per Lui. Del resto, nessuno è perfetto. Ringraziamenti Un libro è quasi sempre il frutto del lavoro del suo autore. Non mi sottraggo perciò alle responsabilità connesse a ciò che ho scritto, nel bene e nel male. Ma voglio ringraziare alcune persone che, a diverso titolo, hanno favorito e influenzato il mio appassionante impegno. Ringrazio Andrée Ruth Shammah per avermi suggerito l' idea di esplorare a mio modo l'inossidabile Libro e per avermi guidato, con la generosità che le è consona, nella versione teatrale del biblico progetto. Senza di lei, questo (ossidabile) libro probabilmente non esisterebbe. Ringrazio Cesare Picco per avermi supportato, complice e amico, nel percorso creativo e critico ai bordi del magico Libro, inventando atmosfere e climi sonori che molto hanno contribuito al successo dello spettacolo dal vivo. Ringrazio tutti gli spettatori che hanno affollato il teatro Franco Parenti durante le serate di replica dello spettacolo, per aver condiviso con me la gioia e il gusto di affabulare attorno alle parole del mitico Libro, senza profanarle. E infine ringrazio Clara Kopciowski per avermi offerto molte chiavi di accesso al sacro e contraddittorio Libro, illuminandomi con poche decisive parole, come solo chi è lucido, colto e saggio può permettersi di fare. Appendice Primo racconto della creazione (Genesi 1, 1-31) 1In principio Dio creò il cielo e la terra. terra era una massa informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. 3E Dio disse: «Sia la luce» e la luce fu. 4Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre, 5e chiamò Giorno la luce e chiamò Notte le tenebre. E fu sera e fu mattino: il primo giorno. 6E Dio disse: «Ci sia un firmamento in mezzo alle acque che divida le acque dalle acque». 7E Dio fece il firmamento, separando le 2La acque che sono sotto il firmamento e le acque che sono sopra il firmamento. E così fu. 8E Dio chiamò Cielo il firmamento. E fu sera e fu mattino: il secondo giorno. 9E Dio disse: «Si raccolgano in un luogo solo le acque che sono sotto il cielo e appaia l'asciutto». E così fu. 10E Dio chiamò Terra l'asciutto e chiamò Mare la massa delle acque. E Dio vide che ciò era buono. 11E Dio disse: «Produca la terra germogli, erbe che facciano semente, alberi fruttiferi che diano frutti, contenenti il seme secondo la loro specie sulla terra». E così fu. 12La terra produsse germogli, erbe che fanno semente secondo la loro specie e alberi fruttiferi aventi il proprio seme secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era buono. 13E fu sera e fu mattino: il terzo giorno. 14E Dio disse: «Vi siano delle luci nel firmamento del cielo per distinguere il giorno e la notte e siano come segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni, 15e servano da luci nel firmamento del cielo, per illuminare la terra». E così fu. 16E Dio fece due grandi luci: la luce maggiore per reggere il giorno e la luce minore per reggere la notte, ed inoltre le stelle. 17E Dio le collocò nel firmamento del cielo per illuminare la terra, 18reggere il giorno e la notte e separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che ciò era buono. 19E fu sera e fu mattino: il quarto giorno. 20E Dio disse: «Brulichino le acque di un brulichio di esseri viventi e volatili volino sopra la terra, dinanzi al firmamento del cielo». 21E Dio creò i grandi cetacei e tutti gli esseri vivi guizzanti di cui brulicarono le acque, secondo la loro specie e tutti i volatili alati secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era buono, 22e Dio li benedisse dicendo: «Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; si moltiplichino pure i volatili sulla terra». 23E fu sera e fu mattino: il quinto giorno. 24E Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: animali domestici, rettili e fiere della terra, secondo la loro specie». E così fu. 25E Dio fece le fiere della terra secondo la loro specie, gli animali domestici secondo la loro specie e tutti i rettili della terra, secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era buono. 26E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, e abbia potere sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sulla terra». 27E Dio creò l'uomo a sua immagine. A immagine di Dio lo creò. Maschio e femmina li creò. 28E Dio li benedì e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e abbiate potere sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su ogni animale che striscia sopra la terra». 29E Dio aggiunse: «Ecco, io vi do ogni erba producente semente che è sulla superficie di tutta la terra e ogni albero che ha frutto di albero producente seme: vi servirà da cibo. 30Ad ogni animale della terra, ad ogni volatile del cielo, a tutto quanto striscia sopra la terra ed ha anima vivente do per cibo il verde dell'erba». E così fu. 31Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. E fu sera e fu mattino: il sesto giorno. Secondo racconto della creazione. Il Paradiso (Genesi 2, 4b-9 e 15-25) 4bQuando il Signore Iddio fece la terra e il la terra non c'era ancora alcun arbusto della campagna, né alcun'erba dei campi era ancora germogliata, perché il Signore Iddio non cielo, 5sopra germogliata, perché il Signore Iddio non aveva ancora fatto piovere sulla terra, né c'era l'uomo a coltivare il suolo 6e a far salire dalla terra l' acqua dei canali per irrigare tutta la superficie del suolo. 7Allora il Signore Iddio con la polvere del suolo modellò l'uomo, gli soffiò nelle narici un alito di vita e l'uomo divenne essere vivente. 8Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, ad oriente, e vi collocò l'uomo che aveva modellato. 9Il Signore Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli all'aspetto e buoni a mangiare e l'albero della vita in mezzo al giardino e l' albero della conoscenza del bene e del male. 15Il Signore Iddio prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. 16Poi il coltivasse e lo custodisse. 16Poi il Signore Iddio diede all'uomo quest'ordine: «Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, 17ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti». 18Disse quindi il Signore Iddio: «Non è bene che l' uomo sia solo; gli farò un aiuto degno di lui». 19Fece dunque il Signore Iddio dal suolo ogni sorta di animali terrestri e tutti i volatili del cielo, li condusse all'uomo, per vedere come costui li avrebbe chiamati: qualunque nome infatti avesse posto l'uomo a ciascun animale, quello sarebbe stato il suo nome. 20E l'uomo impose nomi a tutti gli animali domestici e ai volatili del cielo e a tutte le fiere della terra. Ma per l'uomo non si trovò un aiuto adatto a lui. 21Allora il Signore Iddio fece cadere un sonno profondo sull'uomo che si addormentò; gli tolse quindi una delle costole, rinchiudendo la carne al suo posto. 22Poi il Signore Iddio con la costola tolta all'uomo formò una donna e la condusse all'uomo. 23Allora l'uomo esclamò: «Questa volta sì, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Costei avrà nome dall'uomo perché fu tratta dall'uomo.» 24È per questo che l'uomo abbandona il padre e la madre e si unisce alla sua donna e i due diventano una carne sola. 25E ambedue erano nudi, l'uomo e la sua donna, ma non ne avevano vergogna. La circoncisione (Genesi 17, 1-15 e 22-27) 1Ora, quando Abram fu giunto all'età di novantanove anni, il Signore apparve ad Abram e gli disse: «Io sono Dio Onnipotente, cammina alla mia presenza e sii perfetto. 2Stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò grandemente». 3Allora Abram si prostrò con la faccia a terra e Dio gli parlò dicendo: 4«Sono io, ecco il mio patto con te: Tu sarai padre di una moltitudine di nazioni; 5non ti chiamerai più Abram, ma il tuo nome sarà Abramo, perché ti ho costituito padre di una moltitudine di nazioni. 6Ti renderò grandemente prolifico, ti farò diventare nazioni e dei re usciranno da 7 te. 7Stabilirò il mio patto fra me e te e la tua discendenza dopo di te, nelle sue generazioni, come patto perpetuo, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. 8Darò a te ed alla tua discendenza dopo di te la terra delle tue peregrinazioni, tutta la terra di Canaan in possesso perpetuo, e io sarò il loro Dio» . 9E Dio disse ancora ad Abramo: «Anche tu osserverai il mio patto e così la tua discendenza dopo di te, nelle sue generazioni. 10Questo è il mio patto che osserverete, tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: Sia circonciso tra voi ogni maschio. 11Circonciderete la carne del vostro prepuzio e questo sarà il segno del patto fra me e voi; 12e nel corso delle vostre generazioni saranno circoncisi all'età di otto giorni tutti i maschi tra voi, sia i nati in casa come quelli comprati con denaro da qualunque straniero e che non siano della tua progenie. 13Si deve circoncidere sia colui che è nato in casa come colui che è stato comprato con denaro; così il mio patto sarà nella vostra carne come patto perpetuo. 14Un incirconciso, un maschio la carne del cui prepuzio non sia stata circoncisa, una tal persona sia recisa dal suo popolo: ha violato il mio patto». 15Dio poi disse ad Abramo: «Quanto a Sarai tua moglie, non chiamarla più Sarai, perché Sara è il suo nome». 22E finito che ebbe di parlare con lui, Dio si partì da Abramo. 23Allora Abramo prese suo figlio Ismaele, tutti coloro che erano nati nella sua casa come pure erano nati nella sua casa come pure coloro che aveva comprato col suo denaro, tutti i maschi tra gli uomini della casa di Abramo, e in quel medesimo giorno circoncise la carne del loro prepuzio, come Dio gli aveva ordinato. 24Ora Abramo aveva novantanove anni quando circoncise la carne del suo prepuzio 25e Ismaele, suo figlio, aveva tredici anni quando fu circoncisa la carne del suo prepuzio. 26In quel medesimo giorno fu circonciso Abramo con suo figlio Ismaele. 27E furono circoncisi con lui pure tutti gli uomini della sua casa, tanto i nati in casa quanto quelli comprati con denaro dagli stranieri. L'apparizione di Mamre (Genesi 18, 1-15) 1Il Signore gli apparve poi presso il Querceto di Mamre, mentre egli era seduto all'ingresso della tenda sul caldo del giorno. 2Alzati gli occhi, guardò ed ecco, tre uomini erano in piedi davanti a lui. Appena egli li ebbe veduti, corse loro incontro dall'ingresso della tenda, si prostrò a terra 3e disse: «Signor mio, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, ti prego, non passare oltre il tuo servo. 4Permettete che vi faccia portare un po' d'acqua, vi laverete i piedi e vi riposerete sotto quest'albero. 5Io prenderò un pezzo di pane, rinfrancherete il vostro cuore, poi potrete proseguire; certo per questo siete passati dal vostro servo». Ed essi risposero: «Fa' pure come hai detto». 6Abramo allora se ne andò in fretta nella tenda da Sara e le disse: «Presto, prendi tre seà di fior di farina, impastala e fanne delle focacce». 7Poi Abramo corse all' armento, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo che s'affrettò a prepararlo; 8quindi prese della giuncata, del latte e il vitello che aveva preparato e li pose davanti a loro, mentre egli se ne stava in piedi vicino a loro sotto l'albero: ed essi mangiarono. 9Poi gli dissero: «Dov'è Sara tua moglie?». Ed egli rispose: «Eccola, è nella tenda». 10E l'ospite: «Tornerò certamente da te fra un anno ed ecco, Sara tua moglie, avrà un figlio». Sara intanto ascoltava all'ingresso della tenda, dietro di lui. 11Ora Abramo e Sara erano vecchi, avanzati in età e Sara aveva cessato di avere i corsi che sogliono avere le donne. 12Rise dunque Sara dentro di sé dicendo: «Dopo di essere invecchiata mi darò al piacere? E anche il mio signore è vecchio». 13Ma il Signore disse ad Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo: È mai possibile che io possa partorire, ora che sono vecchia? 14Vi è forse qualcosa di difficile per il Signore? Tornerò da te fra un anno, di questo tempo, e Sara avrà un figlio». 15Allora Sara negò dicendo: «Non ho riso» perché ebbe paura. Ma egli disse: «No, tu hai riso». Nascita di Esaù e di Giacobbe (Genesi 25, 21 e 24-26) 21Isacco pregò il Signore per sua moglie che era sterile. Il Signore l'esaudì e Rebecca sua moglie concepì. 24Quando venne il tempo di partorire, ecco, due gemelli erano nel suo seno. 25Uscì fuori il primo, rosso tutto come un mantello peloso, e gli fu posto nome Esaù. 26Poi uscì fuori suo fratello, il quale con la mano teneva il calcagno di Esaù, e gli fu posto nome Giacobbe. Isacco aveva sessant'anni quando li generò. Esaù vende la primogenitura (Genesi 25, 27-34) 27Intanto i fanciulli crebbero: Esaù divenne un esperto cacciatore e uomo di campagna, mentre Giacobbe fu uomo pacifico che se ne stava sotto le tende. 28Isacco amava Esaù perché gli piaceva la cacciagione, Rebecca invece prediligeva Giacobbe. 29Ora Giacobbe aveva cotto una minestra quando Esaù giunse dalla campagna molto stanco. 30Ed Esaù disse a Giacobbe: «Fammi mangiare, ti prego, di questa pietanza rossa, perché io sono stanco». Per questo fu chiamato E d o m . 31Ma Giacobbe rispose: «Vendimi subito la tua primogenitura». 32Ed Esaù disse: «Eccomi presso a morire, che me ne fo della primogenitura?». 33E Giacobbe rispose: «Giuramelo subito». Ed egli giurò e vendette la sua primogenitura a Giacobbe. 34E Giacobbe diede ad Esaù del pane e della minestra di lenticchie. Ed egli mangiò e bevve, poi si levò e se ne andò. Così Esaù disprezzò la sua primogenitura. Benedizione di Giacobbe (Genesi 27, 1-38 e 41-44) 1Intanto Isacco era invecchiato ed i suoi occhi si erano indeboliti da non vederci più. Allora chiamò Esaù suo figlio maggiore e gli disse: «Figlio mio». Ed egli rispose: «Eccomi». 2Gli disse: «Ecco, io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte. 3Ebbene, ti prego, prendi le tue armi, la tua faretra e il tuo arco, va' per i campi e prendimi della selvaggina. 4Poi preparami un piatto saporito, come piace a me, portamelo e io lo mangerò, perché la mia anima ti benedica prima di morire». 5Ora Rebecca stava ad ascoltare, mentre Isacco parlava ad Esaù suo figlio. E quando Esaù se ne fu andato in campagna a caccia di selvaggina da portare a suo padre, 6Rebecca parlò a Giacobbe suo figlio dicendo: «Ecco, ho udito tuo padre parlare a Esaù, tuo fratello, dicendo: 7Portami della selvaggina e preparami un piatto saporito; ne mangerò e ti benedirò davanti al Signore prima della mia morte. 8Ora dunque, figlio mio, ascolta la mia voce in ciò che io ti comando: 9Va' al gregge e prendimi di là due bei capretti, affinché io ne faccia un piatto saporito per tuo padre come piace a lui, 10poi lo porterai a tuo padre ed egli ne mangerà, affinché ti benedica prima della sua 11 m o r t e » . 11E Giacobbe rispose a Rebecca, sua madre: «Ma mio fratello è peloso, mentre io sono di pelle liscia. 12Se mai mio padre avesse a palparmi, diverrei ai suoi occhi come un truffatore e mi attirerei addosso maledizione invece di benedizione». 13Ma la madre gli rispose: «Sia sopra di me la tua maledizione, figlio mio; tu però ascolta la mia voce: va' e portami i capretti». 14Allora egli andò, li prese e li portò a sua madre, e sua madre ne fece un piatto saporito, come piaceva a suo padre. 15Poi Rebecca prese gli abiti di Esaù, suo figlio maggiore, i più belli che avesse in casa presso di sé e ne rivestì Giacobbe suo figlio minore, 16mentre con le pelli dei capretti ricoprì le sue 17 braccia e il suo collo liscio, 17quindi mise in mano a Giacobbe, suo figlio, il piatto saporito e il pane che ella aveva preparato. 18Egli venne da suo padre e disse: «Padre mio». Ed egli rispose: «Eccomi, chi sei tu, figlio mio?». 19E Giacobbe disse a suo padre: «Sono Esaù tuo primogenito, ho fatto come tu m'hai detto. Alzati, dunque, siediti e mangia della mia selvaggina, affinché la tua anima mi benedica». 20Ed Isacco replicò a suo figlio: «Come hai fatto a trovarla così presto, figlio mio?». Ed egli rispose: «Perché il Signore, tuo Dio, mi ci ha fatto imbattere». 21Ed Isacco disse a Giacobbe: «Accostati, ti prego, figlio mio, che io ti tasti. Sei tu davvero mio figlio Esaù o no?». 22Giacobbe allora si accostò a suo padre Isacco, il quale lo tastò, e quindi disse: «La voce è la voce di Giacobbe, ma le mani sono le mani di Esaù». 23E non lo riconobbe, perché le sue mani erano divenute pelose come le mani di Esaù suo fratello e lo benedisse. 24E disse ancora: «Sei tu proprio il mio figlio Esaù?». Ed egli rispose: «Sono proprio io». 25Allora gli disse: «Porgimi della selvaggina, figlio mio, perché ne mangi e poi l'anima mia ti benedica». Gliela porse ed egli ne mangiò; gli portò anche del vino ed egli ne bevve. 26Poi Isacco, suo padre, gli disse: «Avvicinati e baciami, figlio mio». 27Ed egli si avvicinò e lo baciò. E sentì la fragranza delle sue vesti e lo benedisse, dicendo: «Ecco l'odore del mio figlio, è come l'odore di un campo che il Signore ha benedetto. 28Che Dio ti dia rugiada dal cielo, fertilità della terra e abbondanza di frumento e di mosto. 29Ti servano i popoli, si prostrino davanti a te le nazioni, sii il padrone dei tuoi fratelli, si inchinino a te i figli di tua madre, sia maledetto chi ti maledice e benedetto chi ti benedice.» 30Ma quando Isacco ebbe finito di benedire Giacobbe e Giacobbe era appena uscito dalla presenza di Isacco suo padre, ecco tornare dalla sua caccia Esaù suo fratello. 31Preparò anche lui un piatto saporito e lo portò a suo padre e piatto saporito e lo portò a suo padre e gli disse: «Si alzi mio padre e mangi della selvaggina di suo figlio, affinché la tua anima mi benedica». 32Gli domandò Isacco suo padre: «Chi sei tu?». Ed egli rispose: «Io sono Esaù, il tuo figlio primogenito». 33Allora Isacco fu preso da un grande spavento e disse: «Chi è stato dunque che ha preso della selvaggina e me l'ha portata ed io ho mangiato di tutto prima che tu venissi e poi l'ho benedetto e benedetto sarà?». 34Quando Esaù ebbe inteso le parole di suo padre diede in alte e amarissime grida, poi disse al padre: «Benedici anche me, padre mio». 35Ma egli rispose: «Tuo fratello è venuto con inganno ed ha carpito la tua benedizione». 36Ed egli disse: «A ragione gli fu posto nome Giacobbe, ché due volte mi ha soppiantato: mi ha tolto la primogenitura ed ora ha carpito la mia benedizione. Ma tu, soggiunse, non hai serbato per me alcuna benedizione?». 37E Isacco, prendendo la parola, rispose ad Esaù: «Ecco, io l'ho costituito tuo padrone, gli ho dato tutti i suoi fratelli per servi, l'ho provvisto di frumento e di mosto. E ora, che posso mai fare per te, figlio mio?». 38Esaù disse a suo padre: «Hai tu una sola benedizione, padre mio? Benedici anche me, padre mio». Poi Esaù levò la sua voce e pianse. 41Esaù prese ad odiare Giacobbe a motivo della benedizione con la quale suo padre l'aveva benedetto ed Esaù disse in cuor suo: «Si avvicinano i giorni del lutto per mio padre, allora io ucciderò del lutto per mio padre, allora io ucciderò Giacobbe, mio fratello». 42Furono però riferite a Rebecca le parole di Esaù suo figlio maggiore ed ella mandò a chiamare Giacobbe suo figlio minore e gli disse: «Ecco, Esaù tuo fratello si vuole vendicare di te, uccidendoti. 43Ebbene, figlio mio, ascolta la mia voce, levati e fuggi a Caran, da Labano mio fratello. 44Rimarrai con lui per qualche tempo, finché non si sia calmata l'ira di tuo fratello». Il sogno di Giacobbe (Genesi 28, 10-16) 10Giacobbe intanto, partito da Bersabea, si diresse verso Caran. 11E giunse in quel luogo dove passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del posto, se la pose come capezzale e in quello stesso luogo si coricò. 12E fece un sogno, ed ecco una scala era poggiata sulla terra e la sua cima arrivava fino al cielo. Ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano per essa. 13Ed ecco, il Signore stava sopra di essa e diceva: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo, tuo padre e il Dio di Isacco. Io darò a te e alla tua discendenza la terra sopra la quale tu ora sei coricato. 14La tua discendenza sarà come la polvere della terra. Ti estenderai a occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzogiorno. Tutte le nazioni della terra poi saranno benedette per te e per la tua discendenza. 15Ed ecco, io sono con te e ti custodirò dovunque tu andrai, ti ricondurrò in questo paese e non ti abbandonerò finché non avrò compiuto quanto ti ho detto». 16Svegliatosi dal sonno Giacobbe disse: «Veramente il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Giacobbe in casa di Labano (Genesi 29, 1-30) 1Poi Giacobbe si rimise in cammino e giunse nel paese dei figli dell'Oriente. 2E guardò, ed ecco nella campagna un pozzo, ed ecco, là vicino ad esso stavano sdraiati tre greggi di pecore, poiché a quel pozzo si abbeveravano i greggi, ma sulla bocca del pozzo c'era una grande pietra. 3E quando tutti i greggi si erano radunati là, rotolavano la pietra dalla bocca del pozzo, abbeveravano i greggi e quindi rimettevano la pietra al suo posto, sulla bocca del pozzo. 4Giacobbe disse loro: «Fratelli miei, di dove siete?». Risposero: «Siamo di Caran». 5Disse loro: «Conoscete Labano figlio di Nacor?». Risposero: «Lo conosciamo». 6E disse: «Sta bene?». Risposero: «Sta bene, ed ecco Rachele, sua figlia, che viene col gregge». 7Allora egli disse: «Ecco, il giorno è ancora alto, non è tempo di radunare il bestiame: abbeverate il gregge e tornate a pascolare». 8Ma essi risposero: «Non possiamo, finché non si siano radunati tutti i greggi e si rotoli la pietra dalla bocca del pozzo; solo allora potremo abbeverare il gregge». 9Egli stava ancora parlando con loro, quando venne Rachele con il gregge di suo padre, perché anche lei pasceva il gregge. 10E appena Giacobbe ebbe veduto Rachele, figlia di Labano, fratello di sua madre, con il gregge di Labano, fratello di sua madre, Giacobbe si appressò, rotolò la pietra dalla bocca del pozzo e abbeverò il gregge di Labano, fratello di sua madre, 11poi Giacobbe baciò Rachele, alzò la voce e pianse. 12Quindi Giacobbe dichiarò a Rachele che egli era fratello di suo padre e figlio di Rebecca. Ed ella corse e lo riferì a suo padre. 13Quando Labano ebbe appreso la notizia di Giacobbe, figlio di sua sorella, gli corse incontro, l'abbracciò, lo baciò e lo condusse a casa sua. Ed egli raccontò a Labano tutte queste cose. 14Poi Labano gli disse: «Tu sei proprio delle mie ossa e della mia carne». Ed egli rimase con lui un mese intero. 15Allora Labano disse a Giacobbe: «Perché sei mio fratello, mi dovrai servire per niente? Indicami quale deve essere il tuo compenso». 16Ora Labano aveva due figlie, la maggiore si chiamava Lia e la minore Rachele. 17Lia aveva gli occhi smorti, Rachele invece era bella di forme e bella di sembianze. 18Perciò Giacobbe amava Rachele. Disse dunque: «Ti servirò sette anni per Rachele, tua figlia minore». 19Rispose Labano: «È meglio la dia a te che ad un altro uomo. Rimani con me». 20Così Giacobbe servì per Rachele sette anni, e gli parvero pochi giorni tanto era l'amore che le portava. 21Poi Giacobbe disse a Labano: «Dammi mia moglie, perché è passato il tempo e io voglio entrare da lei». 22Allora Labano invitò tutta la gente del luogo e fece un banchetto. 23Ma la sera prese sua figlia Lia e la condusse da lui. Ed egli entrò da lei. 24Labano diede inoltre per serva a sua figlia Lia la sua serva Zilpa. 25Ma al mattino, ecco apparve che essa era Lia. Allora egli disse a Labano: «Cosa mi hai fatto? Non è forse per Rachele che io ti ho servito? Perché mi hai ingannato?». 26Rispose Labano: «Non si usa così dalle nostre parti, che si dia la minore prima della maggiore. 27Compi pure la settimana con questa e ti daremo anche quella per il servizio che mi presterai per altri sette anni». 28Giacobbe fece così; compì la settimana con quella ed allora Labano gli diede in moglie anche sua figlia Rachele. 29Labano diede inoltre come serva a sua figlia Rachele la sua serva Bila. 30Ed egli entrò anche da Rachele e amò Rachele più di Lia e servì Labano per altri sette anni. Disobbedienza del profeta a Dio (Giona 1, 1-16) 1La parola del Signore fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, per dire: 2«Su, va' a Ninive, la grande città, e grida contro di essa, perché la loro malvagità è salita sino a me». 3Ma Giona s'alzò per fuggire a Tarsis, lungi dal cospetto del Signore. Scese a Ioppe, vi trovò un vascello che salpava per Tarsis, pagò il prezzo e vi salì per andare con loro a Tarsis, lungi dal cospetto del Signore. 4Ma il Signore scatenò un gran vento sul mare e vi fu una sì grande burrasca in mare che il vascello minacciava di sfasciarsi. 5Ne ebbero paura i marinai e gridarono, ciascuno al suo dio, e gettarono in mare le mercanzie ch'erano sul vascello per alleggerirlo. Giona invece era sceso in fondo al vascello, anzi s'era coricato e dormiva p ro f o nd ame nte . 6Allora il capo dell'equipaggio gli s'accostò e gli disse: «Che hai tu, dunque, che dormi? Su, grida al tuo Dio, forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo». 7Poi si dissero l'un l'altro: «Orsù, gettiamo le sorti e sapremo per colpa di chi ci capita questa disgrazia». Gettarono le sorti e la sorte cadde su Giona. 8E gli dissero: «Facci dunque conoscere tu, per cui questa sciagura ci è capitata, le tue faccende. Di dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo appartieni?». 9Egli rispose loro: «Io sono ebreo e temo il Signore, il Dio dei cieli, colui che ha fatto il mare e la terraferma». 10Quegli uomini furono presi da grande spavento e gli dissero: «Perché mai hai agito così?». Quegli uomini infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva dal cospetto del Signore, avendolo egli dichiarato loro. 11E gli dissero: «Che dobbiamo farti perché il mare si plachi attorno a noi?». Il mare infatti andava crescendo e ingrossando sempre più. 12Rispose loro: «Prendetemi e gettatemi in mare, e si placherà il mare attorno a voi. So infatti che è per colpa mia che una sì grande burrasca s'è alzata contro di voi». 13Nondimeno quegli uomini cercarono, remando, di guadagnare terra, ma non lo poterono, perché il mare andava crescendo e ingrossando sempre più contro di loro. 14Allora gridarono al Signore dicendo: «Deh, Signore, che non abbiamo a perire noi per la vita di quest'uomo e non far ricadere su noi del sangue innocente, poiché sei tu, o Signore, che hai agito come ti è piaciuto». 15Allora sollevarono Giona, lo gettarono in mare, e il mare s'acquetò dal suo furore. 16Gli uomini furon presi da gran spavento verso il Signore. Offrirono un sacrificio al Signore e fecero dei voti. Giona nel ventre del pesce. Suo cantico al Signore (Giona 2, 1-2 e 11) 1E il Signore dispose che un gran pesce inghiottisse Giona; così per tre giorni e tre notti stette Giona nel ventre del pesce. 2E dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio. 11Allora il Signore comandò al pesce ed esso rigettò Giona sulla terraferma. Predicazione e ravvedimento di Ninive (Giona 3, 1-10) 1La parola del Signore fu rivolta a Giona una seconda volta per dire: 2«Su, va' a Ninive, la grande città, e grida contro di essa quel che ti dirò». 3S'alzò dunque Giona e andò a Ninive, secondo la parola del Signore. Ninive era una città grande davanti a Dio; ci volevano tre giorni ad attraversarla. 4E Giona cominciò a penetrare nella città per il cammino di un giorno e gridò in questi termini: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». 5Gli abitanti di Ninive credettero in Dio, indissero un digiuno e si rivestirono di sacchi, dal più grande al più piccolo. 6E la nuova pervenne al re di Ninive, che s'alzò dal suo trono, si tolse di dosso il manto, si coprì di sacco e sedette sulla cenere. 7Per volere del re e dei suoi grandi fu proclamato e letto in Ninive un decreto in questi termini: «Uomini e bestie, sia gli armenti che i greggi, non gustino nulla, non pascolino, né bevano acqua. 8Si ricoprano di sacco, uomini e bestie, e gridino a Dio con forza e si ritragga ciascuno dalla sua malvagia condotta e dalla violenza ch'è nelle sue mani. 9Chi sa che Dio non muti e si penta, che deponga l'ardore della sua ira, sì che noi non periamo». 10E quando Dio vide le loro azioni, come si erano ravveduti dalla loro condotta malvagia, allora Dio si pentì del male che aveva predetto di fare loro e non lo compì. Sdegno di Giona e risposta del Signore (Giona 4, 1-11) 1Ma Giona ne provò gran dispiacere e se ne sdegnò. 2E pregò il Signore dicendo: «Ah, Signore! Non lo dicevo io forse, mentr'ero ancora nella mia patria? Per questo m'ero affrettato a fuggire a Tarsis. Sapevo infatti che tu sei un Dio clemente e misericordioso, lento alla collera e pieno di benevolenza, facile a pentirsi del male. 3Orbene, Signore, toglimi, ti prego, la vita, poiché è meglio per me morire che vivere». 4Ma il Signore disse: «Hai tu ragione a sdegnarti così?». 5E Giona uscì dalla città e si pose a sedere ad oriente della città; ivi si fece un capanno e vi si sedette sotto, all'ombra, per vedere ciò che sarebbe accaduto alla città. 6Allora il Signore Iddio, dispose che un ricino crescesse al di sopra di Giona per far ombra al suo capo e per liberarlo dal suo dispiacere. E Giona provò una grande gioia per quel ricino. 7Poi Dio comandò che l'indomani, al sorgere dell' aurora, un verme colpisse il ricino, che seccò. 8Ed ecco che al sorgere del sole Dio preparò un vento orientale bruciante e il sole picchiò sul capo di Giona che si sentì venir meno e bramò la morte dicendo: «Meglio è per me morire che vivere». 9Allora Dio disse a Giona: «Hai tu ragione di sdegnarti così per il ricino? ». Rispose: «Sì, ho ragione di sdegnarmi sino alla morte». 10Ma il Signore disse: «Tu hai pietà del ricino per il quale non ti sei affaticato, che tu non hai fatto crescere; è nato in una notte e in una notte è scomparso. 11E non dovrei io avere pietà di Ninive, la grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere tra la destra e la sinistra, e tanto bestiame?». Invasione delle cavallette (Gioele 1, 1-4) 1Parola del Signore che fu rivolta a Gioele, figlio di Petuel. 2Udite questo, o anziani, porgete orecchio, abitanti tutti del paese. È mai avvenuto ciò ai vostri giorni, o ai giorni dei vostri padri? 3Narratelo ai vostri figli e i vostri figli ai loro figli, e i loro figli alla generazione successiva. 4Il resto del grillo lo ha divorato la locusta, il resto della locusta lo ha mangiato il bruco, il resto del bruco lo ha mangiato la cavalletta. Il giorno del Signore (Gioele 2, 1-10) 1Suonate il corno a Sion, mandate grida sul mio monte santo. Tremino tutti gli abitanti del paese, perché viene il giorno del Signore, perché è vicino. 2Giorno di tenebre e di oscurità, giorno di nubi e di caligine. Come fuliggine, si spande sui monti un popolo numeroso e forte. Simile a lui mai ve ne fu, né mai ve ne sarà dopo di lui, sino agli anni dell'ultima generazione. 3Dinanzi a lui un fuoco divora e dietro a lui una fiamma brucia. Il paese è un giardino d'Eden dinanzi a lui, ma dietro a lui è un deserto desolato: Non v'è scampo da lui. 4Il suo aspetto è aspetto di cavalli, corrono come cavalieri. 5Sono come un fragore di carri che saltellano sulla cima dei monti, come un crepitio di fiamma infocata che divora la paglia, come un popolo possente schierato a battaglia. 6Dinanzi a lui tremano i popoli, si sbiancano i volti di tutti. 7Corrono come prodi, come uomini di guerra scalano le mura. Vanno ciascuno per il proprio cammino e non deviano dai loro sentieri. 8Nessuno incalza l'altro, vanno ciascuno per il proprio sentiero, passano attraverso i dardi senza rompere le file. 9Si precipitano nella città, corrono sulle mura, s'arrampicano su per le case, entrano dalle finestre come un ladro. 10Dinanzi a lui trema la terra, si scuotono i cieli. Sole e luna s'oscurano e le stelle perdono il proprio splendore.