La Bibbia ha (quasi) sempre ragione

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La Bibbia ha (quasi) sempre ragione
La Bibbia ha (quasi)
sempre ragione
Book Jacket
Gioele Dix
LA BIBBIA HA (QUASI)
SEMPRE RAGIONE
MONDADORI
I passi della Bibbia riportati in appendice
sono tratti
dalla Bibbia Concordata, Mondadori,
Milano 1982
A Renzo,
fratello fuggito via
troppo presto
Tre cose sono difficili per me da
capire,
la traccia che lascia l'aquila nel cielo,
la traccia che lascia la serpe sulla
pietra,
la traccia che lascia la nave sull' onda
del mare.
Ma una quarta non la comprendo,
la traccia che lascia un uomo dentro la
sua donna.
(Proverbi 30, 18-19)
Prefazione
Non ho scritto questo libro per prendere
in giro la Bibbia.
Non sono un barzellettiere, purtroppo (o
per fortuna).
Comunque, nel caso, avrei fatto un torto
grave prima di tutto a me stesso.
Porto rispetto al Libro dei Libri e alla
Fede che a esso si ispira.
Non potrebbe essere altrimenti: sono
stato educato al timore di Dio.
Un conto però è appiattirsi in un cieco e
sordo ossequio alle sacre parole.
Altro conto è invece dar voce e corpo ai
dubbi, ai pensieri e alle suggestioni che
da esse zampillano come getti da una
fontana.
Per me (e non solo per me) la Bibbia è
materia viva e pulsante. Perciò è assai
labile, mobile e discutibile, ossia può –
anzi deve – venire discussa. E anche
parecchio. È permesso smontarla,
ricostruirla, reinterpretarla e pure
rimasticarla. Ma con attenzione, perché a
volte può risultare indigesta: alcuni
racconti simbolici o certi precetti morali
sono rimasti sullo stomaco persino ai
suoi ammiratori più devoti.
La Bibbia contiene di tutto: dalla
spirituale astrazione alla estrema
minuzia. Vi si parla di amore, di viaggi, di
regole e riti. Contiene aridi elenchi di
nomi e scintille che accendono l'anima.
Arguzie sottili e cieca violenza. Fatti
qualsiasi ed eventi epocali. Leggendola,
si riflette sul pane e sul dolore. È
un'opera elementare e complessa,
un'opera elementare e complessa,
rivolta ai cuori semplici e alle menti
elevate, ricca di Storia e di storie.
Seguendo un personale tragitto
all'interno dello sconfinato territorio
biblico, ho scelto sei episodi, fra i miei
preferiti, tratti dal primo libro del
Pentateuco, la Genesi. Sono, nell'ordine:
il racconto della Creazione, il giardino
dell'Eden, il patto di Dio con Abramo,
l'apparizione nel Querceto di Mamre, la
benedizione estorta a Isacco, l'amore fra
Rachele e Giacobbe.
Fra i libri dei Profeti ho scelto invece due
cosiddetti «minori»: Giona e Gioele, testi
letterariamente molto diversi fra loro,
l'uno di genere fiabesco, l'altro
decisamente poetico.
Otto storie speciali che io racconto e
commento a mio modo, in un percorso a
zig-zag,
fra
approfondimenti
e
divagazioni. Un'affabulazione scritta che,
attraverso altre (e alte) parole, parla
senz'altro anche di me. Non intendo
riferirmi alla mia biografia (perché di
quella, giustamente, chissenefrega), ma
all'intimo nodo che tento di sciogliere da
quando sono bambino: chi è questo
Dio? e che me ne faccio di Lui?
Questo libro è una specie di taccuino di
viaggio alla ricerca di qualche risposta.
L'atteggiamento è affettuoso, ma
contraddittorio. Lucido per quanto
possibile, ma ludico. Spesso – lo
ammetto – mi scappa da ridere. Ma è a
fin di bene: l'ironia difende e rigenera.
Una nota sul titolo.
Mi piace parecchio, la Bibbia.
Ed è per questo che dico: ha quasi
sempre ragione.
Se pensassi che ha sempre ragione,
probabilmente non mi piacerebbe più
così tanto.
I
La Creazione: sempre meglio
che lavorare
È scritto proprio all'inizio della Genesi,
nel primo racconto della creazione:
Dio creò il mondo in sei giorni.
Non dubito che sia andata così, però lo
trovo molto strano.
Non capisco perché il Padreterno abbia
impiegato quasi una settimana per
un'impresa, sulla carta, assolutamente
ridicola per Lui.
Trattandosi di un Essere Supremo che
sa e può ogni cosa, perché non ha
creato tutto in un attimo, con un semplice
schiocco delle dita (ammesso che abbia
le dita)?
Era dunque un Creatore alle prime armi?
Era forse un Signore inesperto e doveva
ancora farsi le ossa (ammesso che
abbia le ossa)?
Oppure devo pensare che si mise
all'opera senza un progetto preciso,
senza averci messo seriamente la testa
(ammesso che abbia una testa)?
(Non vorrei essere frainteso. Mi
domando se abbia dita, ossa o testa non
certo perché metto in dubbio la Sua
esistenza. Lo faccio unicamente perché
in me combattono due opposte visioni di
Dio: quella infantile e quella adulta. Da
bambino lo immaginavo semplicemente
come un uomo buono con una gran
barba, che abitava in un luogo
abbagliante sopra le nuvole. Ora lo
concepisco più come un'entità spirituale
e astratta, eppure presente in tutte le
nostre faccende. Ma non nego che
ancora oggi se, dopo un temporale
d'estate, vedo il classico fascio di luce
creato dal sole che squarcia i nuvoloni
scuri, penso quello che pensavo quando
ero ragazzino: ecco, là dietro c'è Dio.)
La faccio breve. Evidentemente il
Signore Iddio ha scelto di fare la
creazione del mondo in una settimana
per ragioni Sue. Meglio non mettersi a
sindacare su questo. Non con un tipo
come Lui. Io però mi sento autorizzato,
proprio dalla Sua scelta, a riconoscermi
in un tempo di lavoro così umano: è un
parametro preciso per giudicarne sia
l'andamento che i risultati. E mi sento
solidale con Dio, provo per Lui
un'istintiva simpatia nel corso di tutta
l'impresa. Perché capisco quanto sia
faticosa e complessa. E perché capisco
quanto sia difficile operare con una
scadenza tanto ravvicinata. Conosco
l'ansia che ti divora quando qualcuno ti
dice: fra sei giorni devi consegnarmi
tutto. Certamente Dio non aveva
nessuno che lo minacciasse con una
penale per ogni giorno di ritardo.
Eppure, mi sento di dire che è proprio a
causa del poco tempo a disposizione
che Egli non ha lavorato con la
necessaria lucidità. Ha perso molto
tempo all'inizio e poi si è messo a
correre verso la fine della settimana,
tirando via su molte, troppe cose
importanti.
Il risultato è lì, anzi è qui, a dimostrarlo: il
mondo non è davvero un granché.
Noi uomini e donne poi – posso dirlo? –
facciamo quasi schifo.
Detto con affetto. Ma va detto.
Non mi sto inventando nulla, è tutto
scritto.
I molti dubbi e perplessità sulla condotta
di Dio nella vicenda della famigerata
Creazione vengono confermati da una
lettura attenta del resoconto biblico, che
è molto dettagliato, giorno per giorno.
Primo giorno
In principio Dio creò il cielo e la terra.
La terra era una massa informe e vuota
e le tenebre erano sulla superficie
dell'abisso e lo spirito di Dio aleggiava
sulla superficie delle acque.
E Dio disse: «Sia la luce» e la luce fu.
Dio vide che la luce era buona e
separò la luce dalle tenebre, e chiamò
Giorno la luce e chiamò Notte le
tenebre. E fu sera e fu mattino: il primo
giorno.
Per essere l'inizio di un'opera dalle
molte ambizioni, non è che sia
particolarmente esaltante. Certo, si
trattava di cominciare dal niente, un
Niente nel vero senso della parola, una
sorta di vuoto assoluto, privo di qualsiasi
forma e sostanza. Ma il Creatore non è
mica uno di quegli architetti di provincia
cui hanno assegnato un appalto grazie
alla lontana parentela col sindaco. Non
doveva per forza partire in quarta, ma un
qualcosina in più da Lui era legittimo
aspettarselo.
In sostanza, che fa Dio il primo giorno?
Crea il cielo e la terra, due autentiche
sciocchezze per uno del Suo talento.
Ma immediatamente si rende conto che
quella terra appena fatta è in realtà una
massa informe e vuota. Inoltre, si
accorge che ci sono impreviste tenebre
proprio sopra un inquietante abisso, del
quale peraltro non è affatto chiara la
provenienza.
E
non
basta:
inspiegabilmente il Suo spirito aleggia,
ossia fluttua senza una direzione
precisa, insomma si sparpaglia senza
controllo sulla superficie delle acque.
Non c'è che dire, si tratta di un immenso
pasticcio. Tanto più assurdo se si tiene
conto del fatto che il Signore Iddio si è
messo al lavoro usando materiali suoi,
perché nessuno può averglieli propinati
o imposti.
Ma a me fa soprattutto impressione quel
S uo spirito che aleggia. Mi fa sentire
molto vicino e solidale con Dio, come lo
capisco, benedetto uomo (si fa per dire
uomo, non benedetto naturalmente). Io
interpreto quell'aleggiare come il
segnale di una crisi d'identità, è quella
sorta di confusione mentale che
attanaglia il creativo quando deve
cominciare a creare, è l'immotivata paura
di non essere all'altezza delle
aspettative, proprie e degli altri. Certo, è
comprensibile che si manifesti in uno
come me, che sono un piccolo creativo
a sprazzi; molto meno in Uno come Lui,
che è pur sempre il Creativo per
eccellenza.
Comunque, immagino il Suo dispetto nel
trovarsi di fronte a quella indecifrabile
porcheria. "Che cavolo stiamo
facendo?" potrebbe benissimo aver
detto.
Ma disse invece tutt'altro: «Sia la luce».
Ecco l'idea forte, l'intuizione degna di
Lui: inventa la luce.
È l'unica, vera grande illuminazione –
ovviamente – della giornata.
Finalmente potrà orientarsi e vederci
chiaro.
I problemi però non sono finiti. Appena
comparsa, la luce si mette a fare a
cazzotti
con le
tenebre.
C'è
un'avversione reciproca e inconciliabile.
Pazientemente, Dio separa l'una dalle
altre. L'operazione deve rivelarsi molto
impegnativa, perché a questo punto il
Signore decide che ne ha abbastanza.
Forse non sa come giustificare la pausa
che intende prendersi, forse non se la
sente di dire: "Sono stanco" oppure "Si
è fatto tardi". È orgoglioso. Ma anche
logico: tardi rispetto a che cosa? Ha
l'intuizione giusta (è il Creativo per
eccellenza): chiama Giorno la luce,
chiama Notte le tenebre e chiude la
questione. E fu sera e fu mattino: il
primo giorno. Genialmente furbo. Ora
che ha dato letteralmente un senso alla
giornata, può davvero salutare tutti – o
forse no, perché non c'è nessuno, ma è
per modo di dire – e andarsene a
dormire. Stremato, aggiungo io.
Con tutto il doveroso rispetto e l'umana
comprensione, la prima giornata appare
assai deludente. L'impressione è di una
partenza decisamente fiacca. Chiunque
partenza decisamente fiacca. Chiunque
di noi, sapendo di avere solo sei giorni a
disposizione per chiudere un'impresa
tanto impegnativa, sprecasse l'intera
prima giornata per attaccarsi alla
corrente e fare luce sulla zona operativa,
verrebbe considerato un pazzo, oppure
un incapace.
Secondo giorno
E Dio disse: «Ci sia un firmamento in
mezzo alle acque che divida le acque
dalle acque».
E Dio fece il firmamento, separando le
acque che sono sotto il firmamento e le
acque che sono sopra il firmamento. E
così fu. E Dio chiamò Cielo il
firmamento. E fu sera e fu mattino: il
secondo giorno.
Dopo una bella dormita (è sbagliato
immaginare che dorma?), Dio torna al
mattino presto sul cantiere e ha una
brutta sorpresa: c'è acqua dappertutto.
Immagino il Suo tremendo sconforto.
Sappiamo tutti per esperienza che le
questioni idrauliche sono fra le più gravi
e odiose da risolvere.
E naturalmente qui parliamo di una
situazione estrema.
Il Padreterno deve occuparsi di acque
primordiali, acque sovrabbondanti e
ingovernabili, acque selvagge e
tempestose, acque da domare, arginare
e poi separare.
Acque – verrebbe da dire – infernali.
Niente di paragonabile, insomma, ai
nostri piccoli guai in materia di idraulica,
tipo l'impianto della cucina da sostituire
perché le tubazioni risalgono al tardo
Rinascimento; o tipo l'allagamento totale
del bagno, provocato dall'assenza
ingiustificata
di
quell'anticalcare
consigliato da tutte le migliori marche di
lavatrici.
Il Signore che si inventa allora?
Fa un firmamento.
Che cos'è questo firmamento? Non lo
so. Ho sempre pensato che il
firmamento avesse a che fare con le
stelle, ma le stelle non c'entrano qui, le
stelle non esistono ancora in questo
momento, le stelle verranno create
soltanto al quarto giorno, quindi questo è
un tipo di firmamento senza le stelle. Ma
allora che razza di firmamento è? Ho
detto che non lo so. O meglio, so quello
che è scritto: è un firmamento che serve
a dividere le acque dalle acque. Già, ma
divide quali acque da quali altre? Non so
nemmeno questo. È scritto soltanto: che
divida le acque dalle acque. Del resto,
poco importa sapere che tipo di acque
fossero prima dell'arrivo del firmamento,
diciamo che erano acque imprecisate.
Quello che importa invece è sapere che
dopo l'arrivo del firmamento le acque
sono diventate o quelle che sono sotto il
firmamento o quelle che sono sopra il
firmamento.
Semplice e disarmante.
Inutile farsi domande filosofiche sul
perché delle cose.
È Dio in persona a darci una solenne
lezione di pragmatismo.
Aveva questo assillante problema delle
acque, invadenti e indisciplinate, gli ha
scaraventato in mezzo un enorme coso
ingombrante ed esse (le acque) si sono
placate e adattate, alcune sistemandosi
sopra, altre sistemandosi sotto. Fine del
problema. Quanto c'è da imparare da
questo Signore.
Però...
Sia chiaro, l'ammirazione nei Suoi
confronti è intatta. Di più: fa bene
scoprire proprio in Lui, Essere Supremo,
quel tanto di spiccio realismo misto a
intrigante furbizia, quel gusto per la
scorciatoia nel risolvere i problemi tipico
di noi esseri umani. In particolare di noi
italiani. Per dirla tutta, ho sempre avuto il
sospetto (e la speranza) che Dio sia di
origini italiane.
Però...
Però, la verità è che, dal punto di vista
del progetto di Creazione del mondo,
questo secondo giorno di lavoro fa
segnare un bilancio, se possibile, ancor
più negativo e improduttivo del primo.
Che ha combinato in fondo l'Eccelso per
tutta la giornata?
Null'altro che piazzare quell'immenso,
gigantesco, sproporzionato oggetto
misterioso (e buio) per dividere le
acque. Basta. Ah sì. Già che c'era lo ha
chiamato Cielo, capirai che sforzo. Poi
fu sera e ha pensato bene di ritirarsi.
È davvero troppo poco per Uno che ha
la pretesa di mettere in piedi un mondo
intero. Eppure capacità ne avrebbe, se
solo si applicasse con più impegno.
Il Signore si sta comportando come un
ragazzo molto intelligente e molto
svogliato.
Avesse dei professori (e dei genitori che
vanno a parlarci in orario di ricevimento),
i primi direbbero preoccupati ai secondi:
"Potrebbe fare di più".
Terzo giorno
E Dio disse: «Si raccolgano in un luogo
solo le acque che sono sotto il cielo e
appaia l'asciutto». E così fu.
E Dio chiamò Terra l'asciutto e chiamò
Mare la massa delle acque. E Dio vide
che ciò era buono.
Sembra incredibile.
È cominciato il terzo giorno di creazione
e il lavoro procede ancora a rilento.
Il Signore Iddio dà la sensazione di
girare a vuoto.
Si incaponisce per tutta la mattinata nella
Sua ossessione per le acque. Le sposta
di continuo da un luogo a un altro.
Sembra il gioco delle tre (anzi, delle due)
carte. Togliendole da dove le aveva
messe, si accorge che il posto lasciato
vuoto si asciuga. Ne deduce che le
acque, ovunque
tu le
piazzi,
inevitabilmente bagnano qualcosa (o
qualcuno, bisognerebbe aggiungere, ma
non c'è ancora nessuno). E dunque
decide: dove ci sono le acque è
bagnato, dove non ci sono più è
asciutto. Benissimo. Ma poi? Poi
stabilisce che l'asciutto si chiamerà
Terra, con la T maiuscola, per non
confonderla con la terra con la t
minuscola, che era quella massa
informe e vuota creata il primo giorno e
della quale, peraltro, non si è saputo più
nulla. Ma il vero fatto importante per Lui è
decidere definitivamente il destino di
quelle maledette acque che – è più che
evidente – gli hanno procurato soltanto
un mare di guai. Ecco, per l'appunto, alla
massa delle acque il nome Mare e non
se ne parli più. E se qualcuno ci tiene
tanto a quelle dannate acque, che ci
vada d'estate, soffrendo il caldo, in
coda.
Si capisce che, a questo punto, il
Signore Iddio è particolarmente
soddisfatto, si sente sollevato. E Dio
vide che ciò era buono. Si compiace.
Brutto segno.
Sì, perché anche la terza giornata se ne
sta andando e c'è ancora tutto da fare!
Se è vero che chi ben comincia è a metà
dell'opera, che si deve pensare di chi è
già a metà dell'opera e non ha
praticamente ancora cominciato?
Possibile che il Creatore non si renda
conto che, se non cambia marcia, rischia
un clamoroso flop? La risposta è la più
ovvia: certo che se ne rende conto.
Ma non può farci niente.
Io lo so. Io lo capisco. Capita anche a
me, uguale.
Anch'io, quando, per realizzare un
progetto, ho del tempo a disposizione,
non importa quanto, ne butto via la
maggior parte o nel fare cose inutili, o
nell'immaginare quelle utili che potrei
fare. Così va a finire che faccio tutto di
corsa. E male.
Me lo vedo, il Signore Iddio, che
consuma tutta la mattinata del terzo
giorno a fare scarabocchi sulla sua
enorme scrivania, a teorizzare imprese
impossibili,
a
cercare
soluzioni
concettuali. Il risultato di questo vano
sforzo creativo è partorire per l'appunto
un concetto, forse a suo modo geniale,
ma che non serve a nulla, o quasi:
l'asciutto! È insensato. Ma è così.
Capite perché amo questo Dio? Perché
lo sento in tutto e per tutto simile a me.
Del resto è Lui – lo scopriremo presto –
ad aver scelto di farci a Sua immagine e
somiglianza. Doveva aspettarsi che,
prima o poi, ci saremmo accorti di che
pasta è fatto. La nostra.
Per di più, vuole fare tutto da solo.
E anche in questo mi ci ritrovo. Quando
mi metto in testa di fare una cosa con le
mie sole forze, non c'è verso che accetti
aiuti da chicchessia. In quei casi mi
sento un dio. E sbaglio.
Lui evidentemente non sbaglia nel
sentirsi Dio, ma nel pensare che un
sostegno esterno diminuirebbe il Suo
prestigio.
Il problema con l'acqua, ad esempio.
Perché se l'è trascinato per quasi due
giorni senza venirne a capo? Perché non
si è affidato a un professionista del
settore? A un idraulico intendo,
certamente. È difficile trovare un
idraulico libero e soprattutto di parola? Ti
dice che viene domattina alle otto e alle
tre del pomeriggio non ha nemmeno
telefonato per avvertire che nel
frattempo ha preso altri quattordici
appuntamenti per la stessa ora? Tutto
vero, ma non in un caso del genere. A
vero, ma non in un caso del genere. A
parte che il Signore Iddio l'idraulico
potrebbe averlo a disposizione dicendo
semplicemente: «Sia l'idraulico». Ma
anche non volesse strafare, vorrei
proprio vedere se un qualsiasi idraulico,
persino il più impegnato, non si
precipiterebbe quando leggesse sul
cellulare «Numero privato» e senza
nemmeno rispondere sentisse una voce
che gli dice: «Venga che ho da dividere
le acque».
Il terzo giorno sta finendo. Il Signore si
ricorda di aver lasciato in sospeso la
questione di quella terra con la t
minuscola (è disordinato sì, ma mica
distratto).
E Dio disse: «Produca la terra
germogli, erbe che facciano semente,
alberi fruttiferi che diano frutti,
contenenti il seme secondo la loro
specie sulla terra». E così fu.
Fatta a questo punto della giornata, la
produzione di germogli, di erbette e di
qualche albero da frutta appare
francamente velleitaria. E inutile, perché
non c'è in giro alcun essere vivente che
possa avvantaggiarsene, né brucando
durante il pascolo, né facendosi una
spremuta per cena.
Sembra più che altro che Dio voglia
convincere Se Stesso di essere ancora
in forma. Ma la verità è che si è fatto tardi
e che Egli è stanco.
Infatti scatta la magica formuletta.
E fu sera e fu mattino: il terzo giorno.
Quarto giorno
E Dio disse: «Vi siano delle luci nel
firmamento del cielo per distinguere il
giorno e la notte e siano come segni
per le stagioni, per i giorni e per gli
anni, e servano da luci nel firmamento
del cielo, per illuminare la terra». E
così fu. E Dio fece due grandi luci: la
luce maggiore per reggere il giorno e la
luce minore per reggere la notte, ed
inoltre le stelle.
Quello che succede al quarto giorno è
davvero sconcertante.
Il Padreterno ci spiazza con un'iniziativa
senza apparente spiegazione.
Forse si è svegliato di malumore, non ha
riposato bene, ha avuto un sonno
agitato, forse qualche brutto sogno,
chissà (è sbagliato immaginare che
sogni?).
Potrebbe pure essergli rimasto sullo
stomaco uno di quei frutti creati il giorno
prima, normale che uno li faccia e poi li
assaggi, mica per fame, giusto per la
curiosità di sentire come sono venuti, ma
si sa che alla sera certa frutta è piombo.
Oppure, potrebbe essersi fatto
un'infusione con alcuni di quei germogli
e di quelle erbe, mica per una precisa
necessità, ma soltanto per capire,
normale che uno inventi e poi voglia
testare se si tratta di roba buona, invece
evidentemente era una orrenda pozione,
di quelle che piacciono tanto alle
ragazze che vanno sempre in
erboristeria.
erboristeria.
Sta di fatto che il Creatore inizia la
giornata con un proposito folle:
affrontare nuovamente il problema dell'
illuminazione.
Ma come, Signore? Non l'avevi già
risolto, seppur faticosamente, al primo
giorno quel problema, con l'ormai
famoso «Sia la luce»? Che cos'è
questa storia?
D'accordo: il sole, la luna e soprattutto le
stelle sono invenzioni ricche di fascino,
ispireranno molti dei nostri pensieri più
romantici e noi Te ne saremo
eternamente grati. Ma cerca per un
momento di essere serio: non sono altro
che abbellimenti.
Ti pare sensato occuparTene ora?
Mancano due giorni alla consegna e Tu
hai ancora una quantità inverosimile di
cose da fare! Vuoi che Te ne dica
qualcuna? Non ci sono montagne, non ci
sono corsi d'acqua, non ci sono colline,
non hai fatto le campagne, non hai fatto
uno straccio di lago, nemmeno una
pozza, non hai attrezzato una sola
spiaggia decente, e poi non c'è
nessuno, nessuno capisci? Non si è
ancora vista in giro una sola anima viva di
qualsiasi genere... vado avanti?
No, niente, non c'è verso di farLo
ragionare. Non come ragioniamo noi,
perlomeno. Le vie (del pensiero) del
Signore sono infinite e noi al primo bivio
siamo già fuori strada.
Mancano ancora tutte le strutture portanti
e il Grande Architetto, in piedi al centro
del cantiere di una enorme casa che
ancora non esiste, sta immaginando
come e dove mettere i punti luce.
Semplicemente pazzesco.
Qualcuno potrebbe pensare che queste
riflessioni siano il frutto di un mio
personale delirio. Invece, non sono il
solo ad aver notato l'anomalia presente
in questa quarta giornata di Creazione.
Esiste una tradizione, molto antica e
radicata all'interno del popolo ebraico,
che si nutre di dubbi continui e che
alimenta interminabili dibattiti su ogni
parte, anche la più minuta, del Libro
sacro a tutti noi. È il segno tangibile di
una vocazione alla chiarezza, è una sorta
di piacevole condanna.
Insomma, ci piace credere in Dio, ma
non in maniera incondizionata. Vogliamo
capire le cose che fa, vogliamo capire
perché le fa e pretendiamo anche di
discutere, se necessario, le sue scelte.
Se qualcuno ti sta veramente a cuore,
non puoi (forse non devi) evitare di
conoscerlo a fondo, soprattutto nelle sue
parti più oscure.
Ecco allora che cosa si dice, a proposito
del comportamento di Dio al quarto
giorno, in un antico midrash, un
commento sotto forma di racconto (o
spesso addirittura di fiaba), con il quale i
rabbini di diverse provenienze e
generazioni cercano di spiegare i misteri
della Bibbia.
Lo spiego con parole mie.
La luce del primo giorno era luce di Dio
allo stato puro, troppo forte, troppo
accecante, diciamo pure troppo tossica
per gli esseri umani. Il Signore se ne
accorse in ritardo, ma per fortuna prima
di far comparire sulla Terra uomini e
donne. Per questo, al quarto giorno,
fece delle luci più piccole e
conseguentemente ritirò quell'altra. Ma
ebbe un problema: non sapeva dove
metterla. Questo è un problema,
aggiungo io, molto frequente fra i grandi
imprenditori: lo smaltimento dei rifiuti
tossici. Dio dunque mise la luce in un
contenitore enorme, ma non abbastanza.
Il contenitore esplose e la luce si
sparpagliò in miliardi di scintille sulla
Terra.
Compito degli uomini – concludono i
rabbini – è quello di riportare, attraverso
le buone azioni, scintilla dopo scintilla, la
luce di Dio al suo legittimo proprietario.
Non c'è che dire: è una spiegazione
bellissima, molto poetica e ricca di
bellissima, molto poetica e ricca di
spiritualità. Ma io, che non vedo perché
non dovrei a mia volta discutere le
opinioni di gente che discute, dico che
per me non sta in piedi. Ma quale
contenitore che esplode! Vi pare
possibile che l'Altissimo non fosse per
l'appunto all'altezza di attrezzare una
discarica degna di questo nome? Per
favore, almeno Lui! Se accettiamo l'idea
che persino Dio ha cominciato a
inquinare per pura negligenza e
superficialità, siamo veramente rovinati.
E poi perché dovremmo essere noi
uomini, che già siamo pieni di guai per
nostro conto, a porre rimedio agli
eventuali
guasti
procurati
dal
Padreterno?
Se
veramente
ha
combinato quell'assurdo pasticcio, che
se ne assuma ogni responsabilità.
se ne assuma ogni responsabilità.
(Naturalmente, una chiave di lettura
meno polemica di quel cambio di luce è
altrettanto possibile e affascinante: la
grandezza di Dio sta nell'averci sottratto
a un impossibile confronto con Lui e
nell'aver trasformato un Suo perdonabile
errore in benefica e quotidiana
occasione di riscatto per noi.)
Detto tutto questo, torniamo al racconto.
Il Signore crea la luce maggiore, il sole,
la luce minore, la luna, ed inoltre le
stelle, le stelle le chiama subito stelle
anche Lui.
Le colloca nel firmamento per reggere il
giorno e la notte e per separare la luce
dalle tenebre. Non è affatto chiaro se le
disponga a casaccio o secondo un
ordine preciso, ma, avendo ormai
imparato a conoscere il Suo stile
allegramente confusionario, è più
probabile la prima ipotesi. E immagino
quanto si debba essere divertito a
osservare, nel corso dei millenni,
astronomi e scienziati che tentavano
inutilmente di trovare una logica alla
struttura del cosmo e che costruivano
teorie sull'allineamento dei pianeti o sulla
composizione delle galassie.
Sembra incredibile, ma durante il quarto
giorno non fa nient'altro. Proprio così.
Nient'altro.
Naturalmente, la Sua formidabile e
speciale bravura non è in discussione.
La si nota soprattutto dai dettagli, che nel
testo biblico prendono la forma di
sfumature del linguaggio. Prendete quel
passaggio in cui è scritto: ed inoltre le
stelle. La Genesi sembra dirci che Dio si
inventa il sole, la luna e – già che è lì –
qualche miliardo di stelle. In quell'inoltre
c'è tutto l'understatement di chi possiede
uno smisurato talento ed elegantemente
non vuol farlo pesare.
Straordinario.
Dunque il Signore osserva il (poco)
lavoro fatto, lo giudica buono, in
sostanza si complimenta con Se Stesso
(è per farsi coraggio ed evitare di
pensare che il tempo maledettamente
stringe?), dopo di che fu sera e fu
mattino: il quarto giorno.
Un'altra giornata gettata via in maniera
irresponsabile. Ma quando ci si metterà
d'impegno e attaccherà a lavorare come
sa, da Dio?
Quinto giorno
E Dio disse: «Brulichino le acque di un
brulichio di esseri viventi e volatili
volino sopra la terra, dinanzi al
firmamento del cielo».
Come volevasi dimostrare.
Alla mattina del quinto giorno, il Signore
finalmente si accorge di essere in
palese ritardo su tutto e viene aggredito
dal panico.
La calma serafica dei giorni precedenti
lascia il posto a una frenesia senza
controllo. Il Signore passa da un
eccesso a un altro.
Anche il suo linguaggio improvvisamente
cambia.
Niente più espressioni ponderate e
austere, tipo sia la luce o ci sia un
firmamento.
Ora urla frasi convulse, sgrammaticate,
come fosse un sergente dei marine che
dà ordini in piena adrenalina.
«Le acque brulichino di un brulichio,
okay!?»
«Tutti i volatili volino, sono stato
chiaro!?»
«Muoversi,
muoversi dinanzi al
firmamento del cielo!»
Ora sembra davvero impossibile
fermarlo. Capisce che non ha più tempo
per le teorie, per i ripensamenti, per le
sfumature.
Dice brulichino di un
brulichio, dice volatili volino, sa di
esprimersi da schifo, ma non gliene
importa nulla.
Deve fare, fare, fare, altro che trovare un
sinonimo di brulichio.
Si mette a produrre, in un crescente
delirio compulsivo-creativo, una quantità
incalcolabile di esseri viventi.
Riempie i mari di una miriade di cetacei,
molluschi, mitili ed esseri vivi guizzanti,
insomma pesci, in variazioni di forma
dimensione e colore praticamente
infinite, dal pesce ragno al pesce
martello, dal pesce rondine al pesce
palla, dal pesce spada al pesce lucerna,
dal pesce gatto al pesce chitarra, dal
pesce San Pietro al pesce sega, quasi
impossibile elencarli tutti, chissà se
basterebbero sei giorni.
E lo stesso dicasi per i volatili, sia uccelli
che insetti, che il Signore Iddio provvede
in poche ore a generare in alcune
centinaia di migliaia di dozzine di miliardi
di esemplari.
Pensate all'esperienza straordinaria di
trovarsi a passeggiare per il mondo,
proprio la mattina del quinto giorno.
Come la si potrebbe descrivere? Come
un incubo, direi. Almeno per me che non
stravedo né per i pesci né tanto meno
per i volatili. Decidi di fare una gita in
campagna e nugoli di vespe non ancora
omologate ti aggrediscono ronzando da
ogni lato. Ti sposti in altura per
un'arrampicata e stormi di uccelli
migratori spaesati e non ancora pratici
tentano di issarti in volo perché tu faccia
loro da guida. Ripieghi per un bagno in
una caletta sulla costa e branchi di orche
non ancora coscienti di essere
assassine addentano il tuo gommone
convinte che si tratti di un loro parente.
Ma torniamo al nostro Amato Signore e
alla sua scriteriata Creazione.
Con tutto il rispetto dovuto, come
sempre, io mi domando: che bisogno
c'era di fare tutti quei pesci, Signore?
Quando me ne avessi creati tre,
massimo quattro tipi – quello che viene
bene alla griglia, quello che va al forno
con le patate, quelli piccini che si
friggono e che li mangia anche la mia
bambina che non mangia mai niente – io
sarei stato a posto. E tutti quei volatili.
Passi per gli uccelli, ma che bisogno
c'era di affollare l'aria di così tanti insetti
molesti invadenti e fastidiosi, Signore?
Avresti potuto mettere al mondo una
dozzina di tafani giusto per l'archivio,
qualche sciame stagionale di moscerini
giusto per far contenti i lavavetri e morta
lì. Non dirmi che ci tenevi
particolarmente alle mosche perché non
ti credo. E le zanzare? Che ti è saltato in
mente? A che pensavi quando hai
deciso che ci avresti rovinato per
sempre l'unica stagione decente in cui
andare in vacanza? Lo sai che nelle notti
d'estate, Signore, mentre sto in piedi sul
letto con la ciabatta in mano scrutando
febbrile il soffitto e le pareti in cerca dell'
unica fottuta zanzara presente nella
stanza che mi ha svegliato sibilandomi
nell'orecchio e che giuro non ne uscirà
viva dovessi stare lì impalato fino
all'alba, io penso a Te, alla Tua
Creazione, a quel Tuo benedetto quinto
giorno e a quelli così tanto devoti a Te
da essere capaci di dire: «Be', in fondo
sono anch'esse creature di Dio» e mi
verrebbe
voglia di rispondergli:
verrebbe
voglia di rispondergli:
«D'accordo, ma sono certamente fra le
più bastarde»?
È inutile prendersela più di tanto.
Se si accetta l'idea che Dio sia il nostro
Grande Padre, bisogna accettare pure
che Egli abbia fatto tutto a ragion veduta
e per il meglio. Dobbiamo volerGli bene
comunque ed essere comprensivi. Al
quinto giorno Si è scatenato a quella
maniera?
Gli è capitato qualcosa che conosciamo
bene.
Attacco di narcisismo creativo.
Capita anche a me, uguale. Ti senti solo,
isolato e ti manca la fiducia degli altri. Hai
un'alta considerazione di te, ma temi che
le tue qualità possano essere messe in
dubbio. Allora precipiti in uno stato
d'ansia e hai due possibilità: o vai in
depressione, oppure reagisci con
l'iperattività. Ti viene un irrefrenabile
desiderio di strafare. Strafai per stupire e
per avere conferme. Succede, è umano.
Figurarsi se non può essere divino.
Soprattutto per Uno che è sempre stato
da solo.
E dunque Dio vide che ciò era buono, è
appagato, vedete?
E subito dopo Dio li benedisse
dicendo...
È proprio felice, vedete? Ha anche
voglia di parlare! Soprattutto perché
finalmente c'è qualcuno che può
ascoltarLo. Non sono certo che balene,
quaglie e lepidotteri fossero anche in
grado di capire il senso delle parole, ma
questo dettaglio non modifica la
solennità del momento.
«Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite
le acque dei mari; si moltiplichino pure
i volatili sulla terra.»
Ecco, pazienza. Se ancora ci fosse stata
una tenue speranza di avere un mondo
un po' meno affollato di irritanti animali,
con questo esplicito invito l'Eccelso ci ha
messo definitivamente una pietra sopra.
E fu sera e fu mattino: il quinto giorno.
Non ho le prove di ciò che sto per dire,
ma azzardo che quella sera il Signore sia
andato a dormire senza nemmeno
cenare. Stanco morto (si fa per dire,
ovviamente).
Sesto e ultimo giorno.
È venerdì, è venerdì!
Chissà se anche nel primo venerdì della
storia del mondo si sentì l'eco di quel
coro esultante di voci che, più o meno
sommessamente, risuona da sempre
negli uffici durante l'ultimo giorno
lavorativo della settimana. Probabilmente
no, perché non c'era anima viva e
dunque il tasso di disoccupazione era
pari al cento per cento. A meno di non
voler considerare il Signore Iddio un
lavoratore, con il che lo stesso dato
andrebbe capovolto: disoccupazione
zero per cento. Non ci capisco granché
di statistica e di mercato del lavoro, ma
credo si tratti della conseguenza più
evidente di un sistema economico
monopolistico.
Per portare a termine il progetto della
Creazione, questo è davvero l'ultimo
giorno utile. E Dio lo sa. Ma quello che
Egli invece non sa è che, purtroppo, non
sarà un giorno utile quanto gli altri. È una
cosa che sappiamo noi, perché siamo
più esperti di Lui in fatto di lavoro. Noi
purtroppo dobbiamo lavorare per gran
parte della nostra vita, mentre per Lui è
in assoluto la prima volta. E direi anche
l'ultima, se consideriamo che in seguito
si è limitato a osservarci dall'alto e non
ha più spostato uno spillo.
Perché questo giorno non è come gli
altri? Semplice: perché è venerdì.
Come lavoriamo noi di venerdì? Siamo
stanchi
della
settimana,
siamo
deconcentrati perché abbiamo la testa
già sdraiata nel week-end e ci
esercitiamo nella pratica che più ci
esalta, consola e conforta in quanto
lavoratori: il rinvio. Che cosa esiste di più
rassicurante e benefico di frasi come
«ne riparliamo lunedì», «ci vediamo
settimana prossima», o addirittura
«sentiamoci venerdì prossimo che così
poi prendiamo un appuntamento per la
settimana successiva»?
Insomma, in buona sostanza noi
sappiamo che di venerdì non lavoriamo
affatto, sempre che, ovviamente, non
capiti qualcosa di terribile che ci obblighi
a farlo.
E così, il nostro Signore Iddio affronta il
suo più importante giorno di lavoro,
quello nel quale dovrà dare un senso
compiuto a tutto il progetto, senza aver
previsto la sindrome del venerdì. Che
purtroppo lo condizionerà e Gli costerà
cara.
E che, soprattutto, costerà cara a noi.
Il Signore parte di gran carriera, pieno di
energia e di voglia di fare.
È scritto chiaramente nel testo biblico.
E Dio disse: «Basta, abbiamo perso fin
troppo tempo nei giorni scorsi, è ora
che facciamo sul serio». E Dio vide
che il ragionamento era buono. E Dio
disse: «Diamoci dentro ragazzi». E
così fu.
Naturalmente non è vero. La versione
corretta è quella che segue (mi sono
fatto prendere dal clima deliziosamente
fatuo tipico del venerdì).
E Dio disse: «La terra produca esseri
viventi secondo la loro specie: animali
domestici, rettili e fiere della terra,
secondo la loro specie».
Dare vita a tutti questi animali in mezza
giornata è un impegno produttivo da far
impallidire anche il più motivato fra gli
imprenditori. Nemmeno con incentivi
speciali,
agevolazioni
fiscali
e
liberalizzazione degli straordinari vi si
potrebbe far fronte con risultati
accettabili.
Ma ovviamente non è il caso di Dio, che
ha risorse inesauribili.
E dunque:
Dio fece le fiere della terra secondo la
loro specie, gli animali domestici
secondo la loro specie e tutti i rettili
secondo la loro specie.
Il testo è molto sbrigativo. Riflette il clima
di grande fretta nel quale il Creatore si è
messo a operare. Sforna migliaia di
animali a un ritmo folle, non ha nemmeno
il tempo di dar loro un nome, li piazza lì,
come vengono vengono, lasciando
all'uomo (lo scopriremo in seguito) il
compito di fare ordine in quella immane
confusione di bestie. Non fa nemmeno
lo sforzo di stabilire a quale delle varie
categorie appartengano.
Ad esempio, che si intende per animali
domestici?
Quelli che possono stare in casa?
Diciamo di sì? Bene.
Però dipende anche dalle abitudini di
ciascuno. Mia zia si farebbe scuoiare
piuttosto che lasciar entrare nel suo
salotto i deliziosi criceti della sua vicina
(li definisce «quegli orrendi topetti»).
E dipende anche da dove uno abita: un
mio amico, che ha vissuto per molti anni
in Ghana, aveva un cottage ai bordi della
foresta e racconta che dentro gli entrava
di tutto; per lui l'unico animale non
domestico era l'elefante perché non
passava dalla porta d'ingresso.
E le fiere della terra quali sono? Solo
quelle feroci? Ma allora il capriolo, che
non sembra un tipo aggressivo, ma che
non è facile da convincere a trasferirsi in
un appartamento, in che gruppo lo
mettiamo?
Oppure fiere sta per
orgogliose di sé? In questo caso,
sciacalli e iene, che hanno ben poco di
cui vantarsi, sarebbero di incerta
collocazione.
Ma è del tutto inutile attendersi
spiegazioni. Il Signore Iddio ci dice
soltanto: secondo la loro specie. Già,
bravo. E noi che ne sappiamo di questa
specie? Che vuol dire esattamente? E
quante saranno mai queste specie? Non
siamo neppure sicuri che si dica così.
Com'è il plurale di specie? Speciee?
Species?
Naturalmente, non possiamo passare
sotto silenzio che è in quest'ultima
convulsa mattinata che fanno il loro
ingresso nel mondo alcune creature per
noi assolutamente speciali. Finalmente,
è proprio il caso di dirlo! Finalmente
arrivano cani, gatti e cavalli, grazie ai
quali la nostra esistenza sarà spesso
meno dolorosa. Finalmente arrivano
vacche, capretti, galline e tacchini, grazie
ai quali la nostra cena sarà spesso meno
ai quali la nostra cena sarà spesso meno
deludente.
Bene, molto bene, è tutto molto bello.
Ma non manca qualcosa?
Già.
È il pomeriggio dell'ultimo giorno, il
lavoro deve andare in consegna (non
sappiamo nemmeno per che ora, ma se
ha fatto un continuato non potrà mai
essere oltre le diciotto) e del genere
umano non c'è traccia.
E come sta il nostro Signore, benedetto
sia il suo nome? Non è difficile
immaginarlo: come uno straccio. È
distrutto, logorato, senza più idee. La
cosa più logica sarebbe che staccasse,
anche quell'oretta prima, facesse una
bella doccia e via in week-end. Ha fatto
tanta fatica con la storia dell'asciutto per
creare il mare, perché non andare a
dargli un'occhiata e goderselo un po'?
Ho pensato anche a una formula per
uscirne senza sfigurare.
E Dio disse: «Ne riparliamo lunedì». E
così fu. Che ci vuole.
Ma naturalmente le cose non andranno
così.
E Dio disse: «Facciamo l'uomo a
nostra immagine, secondo la nostra
somiglianza».
È talmente affaticato che non riesce
nemmeno più a parlare.
Usa improvvisamente il plurale.
Facciamo chi? Dobbiamo per caso
dedurne che per tutta la settimana ci ha
lasciato credere di essere da solo,
mentre invece aveva un'intera équipe ai
Suoi ordini? No, è soltanto l'effetto della
stanchezza, che Gli fa anche dire a
nostra immagine, secondo la nostra
somiglianza, ossia lo stesso esatto
concetto ripetuto due volte. Colpisce in
Uno che si è sempre fatto apprezzare
per una precisione e una concisione di
linguaggio assolute.
Ma non c'è tempo per le esitazioni né
per le correzioni di stile.
Dio ha ormai deciso.
E Dio creò l'uomo a sua immagine.
A immagine di Dio lo creò.
Maschio e femmina li creò.
Eccoci serviti.
Avrebbe potuto farci con calma,
mettendoci in cantiere fin dall'inizio,
progettandoci più volte per poi, via via,
migliorarci. Avrebbe potuto farci sentire
al centro, considerarci il fulcro di tutta la
grande Creazione.
Ma soprattutto avremmo dovuto essere
le Sue creature predilette, il frutto
migliore del Suo ingegno e del Suo
spirito, il prolungamento sulla Terra della
Sua dimensione celeste. Invece niente.
Il Padreterno ci ha fatto all'ultimo
momento, distrattamente e sulla fatica.
Forse, prima di crearci, si rinfrescò con
abbondante acqua il viso. Quindi,
alzando il capo, si vide riflesso nello
specchio sopra il lavabo. Si osservò a
lungo. In quel momento, aveva il volto di
un individuo molto stanco. Poi tornò alla
scrivania e fece uno schizzo. Era la
nostra faccia. Se siamo come siamo, lo
dobbiamo alla somiglianza con quella
Sua immagine allo specchio.
Insomma, continuiamo pure a chiamarla
Creazione del mondo. Mettiamoci pure
tutta l'enfasi che merita l'opera di un
indiscusso
Grande.
Però
non
dimentichiamoci
com'è
andata
veramente: è stato un mezzo disastro.
Un lavoro fatto male, più o meno come
l'avremmo fatto noi al suo posto.
Perlomeno io, al suo posto.
È per questo che mi piace Dio. Siamo
due gocce d'acqua.
II
Il giardino dell'Eden: un
paradiso artificiale
Che libro curioso è la Bibbia.
Parte in grande stile con il racconto
esaltante
della
Creazione.
Ci
impressiona
e
ci
appassiona
descrivendo le geniali pensate di Dio e il
ritmo incalzante delle Sue opere. Ci
conduce in un amen (proprio) verso il
trionfale e commovente epilogo, nel
quale il Creatore ci mette al mondo e ci
benedice come Sue predilette creature.
È il primo racconto della creazione.
Nemmeno il tempo di riprendere fiato ed
ecco la sorpresa: c'è un secondo
racconto della creazione, nel quale si
scopre che le cose sono andate in
tutt'altra maniera.
Proprio così. Senza spiegazione alcuna,
ci vengono fornite due differenti versioni
dello stesso fatto. Ma mica un fatto
qualunque: si tratta del fatto dal quale
ebbero origine tutti gli altri, potremmo
definirlo il Fatto dei Fatti. Da non
credere.
Gli interrogativi sorgono spontanei,
ovviamente. A quale delle due storie
dobbiamo prestar fede, dato che qui
prevalentemente di Fede si tratta? La
prima è quella ufficiale? E, nel caso,
quella ufficiosa da che fonti proviene?
Oppure la seconda smentisce la prima?
E se fossero tutte e due false e ce ne
fosse una terza che è stata tenuta
nascosta perché conteneva inquietanti
rivelazioni? Sono tutte domande
rivelazioni? Sono tutte domande
giustificate. Soprattutto perché, come
vedremo, Il Signore Iddio che compare
nel secondo racconto sembra, rispetto a
quello del primo, addirittura un'altra
persona (si fa per dire persona), sembra
un altro signore (si fa per dire signore),
be' insomma, sembra Un Altro.
Leggiamo.
Quando il Signore Iddio fece la terra e
il cielo, sopra la terra non c'era ancora
alcun arbusto della campagna, né
alcun'erba dei campi era ancora
germogliata, perché il Signore Iddio
non aveva ancora fatto piovere sulla
terra, né c'era l'uomo a coltivare il
suolo e a far salire dalla terra l'acqua
dei canali per irrigare tutta la superficie
del suolo. Allora il Signore Iddio con la
polvere del suolo modellò l'uomo, gli
soffiò nelle narici un alito di vita e
l'uomo divenne essere vivente.
Ecco qua. È saltata per aria tutta
l'affascinante
struttura
del primo
racconto. Dio non lavora più step by
step, con quel ritmo lento e progressivo
scandito dalle sei giornate di creazione.
Abbiamo un riassunto sbrigativo, che
contraddice la narrazione precedente. Si
parla di pioggia e di canali di irrigazione,
così, di punto in bianco, come se Dio
fosse un qualunque perito agrario e non
il Supremo Architetto che avevamo
conosciuto (non dice nemmeno un «Sia
la pioggia» o un «Ci siano dei canali
per irrigare», niente).
Quindi, in totale anticipo su tutto, quando
ancora mancano gli animali e persino la
vegetazione, il Signore prende della
polvere dal suolo e fa nascere l'uomo.
Sia chiaro. Non è che io ci trovi niente di
male, nella nuova versione.
Basta solo sapere a quale devo credere
delle due.
In sostanza Ti chiedo, Signore: se la
storia valida è questa, per quale diavolo
di motivo (dico diavolo senza alcun
intento polemico) mi sono dovuto
imparare a memoria fin da bambino tutta
la storiella dei sei giorni e del sia la luce
e del vide che ciò era buono e del
facciamo l'uomo a nostra immagine?
Va bene, va bene, non discuto, Tu fai
sempre come Ti pare, giusto?
E a me – sai che Ti dico? – questo
secondo racconto piace persino di più
dell'altro.
In effetti, nel capitolo precedente, avevo
sottolineato la mia delusione nel
constatare che Dio ci aveva messo al
mondo all'ultimo momento, in fretta e
furia, con quei conseguenti ed evidenti
difetti di fabbricazione che ci tiriamo
dietro da allora.
È una gioia perciò scoprire che il
Padreterno ha avuto subito a cuore il
nostro destino.
Non solo: quel gesto di modellarci con le
Sue mani ha un che di intimo e di
amorevole che ci emoziona, è il segno
tangibile della Sua vicinanza, da sempre.
Peccato che, anche con tutta l'affettuosa
cura, ci abbia comunque fatti pieni di
magagne. È un mistero che il racconto
biblico chiarirà soltanto in parte, come
vedremo.
A me resta impressa, indelebile,
quell'immagine: il Signore che ci soffia
delicatamente nelle narici il Suo sacro
alito di vita.
Pensate che fortuna, per quel primo
uomo. Nascere inspirando Dio.
L'unico caso di sniffata accettabile e
benedetta.
E non sembra neppure lo stesso
Creatore.
Quello del primo racconto ci appariva
come un Essere Supremo solitario,
progettuale e freddo, direi intellettuale.
Uno che inventava con la parola, Uno
che diceva: «Ci sia questo» o «Si
faccia quest'altro».
Niente coinvolgimenti, niente mani
sporche di polvere, per intenderci.
Tanto che, al momento di creare il
genere umano, si mostrò distaccato e
lucido e intuì la necessità che ne
esistessero due varianti complementari.
Ricordate?
Maschio e femmina li creò.
E qui sta il punto.
Il secondo Dio si mostra subito più
complice e amichevole del primo.
E come mai, allora, decide di mettere al
mondo soltanto l'uomo?
Che razza di idea, Signore, io non la
capisco proprio.
Non è un'iniziativa complice e
amichevole questa, lo dico da uomo.
Non inteso come l'Uomo. Inteso come
maschio, quello che nell'altra versione
(ammesso che fossi Tu) avevi creato
insieme alla femmina, capisci?
E così, eccoli qua, Dio e il primo uomo,
nel vuoto mondo, da soli. A fare che
cosa? Non si sa.
Poi il Signore Iddio piantò un giardino
in Eden, ad oriente, e vi collocò l'uomo
che aveva modellato. Il Signore Iddio
fece spuntare dal suolo ogni sorta di
alberi piacevoli all'aspetto e buoni a
mangiare e l'albero della vita in mezzo
al giardino e l'albero della conoscenza
del bene e del male.
...Il Signore Iddio prese dunque l'uomo
e lo pose nel giardino di Eden, perché
lo coltivasse e lo custodisse.
No, no, non ci siamo assolutamente.
Preferivo l'altra versione.
Appena arrivati, la donna e l'uomo si
sentirono dire (me lo ricordo
perfettamente, come fosse successo a
me):
«Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite
la terra, soggiogatela e abbiate potere
sui pesci del mare, sui volatili del cielo
e su ogni animale che striscia sopra la
terra.»
E ancora:
«Ecco, io vi do ogni erba producente
semente che è sulla superficie di tutta
la terra e ogni albero che ha frutto di
albero producente seme: vi servirà da
cibo.»
Che, detto in parole più semplici, voleva
dire:
«Cari figlioli, tutto quello che vedete qui
è vostro, abbiatene cura, costruite,
modificate, fate e disfate come vi pare
più opportuno, mangiate e bevete a
sazietà, state in buona salute, godetevi
la vita e soprattutto dateci sotto con
quello che sapete, perché a me fa
piacere e voglio un sacco di nipoti.»
Insomma, sarà stato anche un Creatore
introverso e poco di compagnia, ma non
certo avaro di stimoli e di sollecitazioni
positive. A quella coppia di fortunati
impose compiti precisi, ma seppe anche
infondere fiducia.Un Dio libertario, che
non provoca sensi di colpa.
Possiamo dire che la medesima cosa
avvenga anche in questa seconda
versione?
Non mi pare davvero.
Dio si disinteressa dell'opera di
Creazione del mondo e si concentra sul
pover'uomo che ha tirato su dalla
polvere. Pianta il famoso giardino e ce lo
schiaffa dentro senza nemmeno
chiedergli un parere. Il suo compito sarà
coltivarlo e custodirlo.
Giardiniere e custode, insomma.
Ma questo cosiddetto Paradiso, a ben
vedere, altro non è che un'illusoria oasi
felice in mezzo alla desolazione.
Mi domando a che serva tenere l'uomo
rinchiuso là dentro.
A me fa tristezza. A cominciare dal
nome: Eden.
Mi ricorda uno sgangherato cinema
all'aperto che c'era al mare, ci andavo
con i miei da piccolo: lo schermo non
era a fuoco mai, però in compenso il
sonoro gracchiava sempre.
Ma è assai probabile che il primo uomo
non si ponga domande e non faccia
paragoni, perché non ha alcuna
esperienza della vita, né tanto meno ha
ricordi di villeggiatura.
Al contrario, stare tutto solo accanto a
Dio è per lui un privilegio ineguagliabile.
(Ho letto tempo fa un commento
rabbinico su questo passaggio della
Genesi. Vi si diceva che la nostra innata
tensione religiosa nascerebbe proprio
dalla nostalgia inconscia di quel
fantastico periodo di intima vicinanza con
il Padreterno.
È una riflessione mistico-psicanalitica
che mi ha colpito molto.)
Ciò non toglie che, alla lunga, fare il
custode di un posto, attorno al quale non
c'è anima viva che possa entrare, rischia
di diventare alienante. E fare il
giardiniere può venire a noia. Hai voglia a
piantare fiori e potare rami e tagliare
erba e regolare siepi, senza oltretutto
parlare mai con nessuno. C'è da
diventare pazzi.
(Anche su questo ho letto un midrash di
alcuni sapienti ebrei. Accadeva che il
Signore Iddio, di quando in quando e
senza preavviso, scendesse nel giardino
per passeggiare e scambiare quattro
chiacchiere. L'uomo ne era terrorizzato,
perché temeva di non essere in grado di
sostenere la conversazione.
Ed è per questo che i rabbini passano
tutta la propria vita sui libri sacri: vogliono
farsi trovare pronti a uno scambio di idee
con Dio nel remoto, ma non impossibile
caso di una Sua visita. Buffo e bizzarro.)
Più che logico, quindi, che il nostro
uomo prima o dopo buttasse l'occhio su
quella strana pianta in mezzo al giardino,
l'albero della conoscenza del bene e
delmale.
Il Signore l'aveva piantato lì con
apparente indifferenza, ma in una
posizione troppo centrale per non
destare sospetti. L'uomo si era
comunque ben guardato dal fare
commenti (ce lo hanno detto anche i
saggi: aveva una gran paura di dire delle
cavolate). Certo era strano, quell' albero:
non richiedeva mai il suo intervento di
giardiniere, niente foglie secche, niente
parassiti sul tronco, niente rami secchi,
anzi l'albero si autopotava, addirittura.
Forse per colpa di uno sguardo troppo
prolungato,
Dio
si
accorge
dell'interessamento dell'uomo (non Gli
sfugge mai niente, porca Eva, anche se
Eva ancora non era arrivata, per la
verità), ed ecco, puntuale, la stoccata.
Il Signore Iddio diede all'uomo
quest'ordine: «Tu puoi mangiare di
ogni albero del giardino, ma dell'albero
della conoscenza del bene e del male
non ne mangerai, perché il giorno in
cui ne mangiassi, di certo moriresti».
Improvvisamente,
un'oscura
e
incomprensibile minaccia rompe la pace
interiore dell'uomo e provoca il sorgere
di interrogativi a lui ignoti fino a quel
momento, o forse soltanto sopiti, chi lo
sa.
Perché il frutto di quell'albero è così
pericoloso?
E che cos'è la conoscenza del bene e
del male?
E che significa esattamente moriresti?
Nel leggere questo passaggio, io mi
sento sempre un poco a disagio.
Forse perché so bene di trovarmi di
fronte a uno snodo decisivo.
È qui infatti che il Padreterno fa
conoscere all'uomo il suo destino
mortale.
Il messaggio è chiaro: la nostra
esistenza ha un ruolo centrale nel
grandioso e misterioso progetto di Dio,
ma dobbiamo ricordarci che esistono
confini di conoscenza che non possiamo
oltrepassare. Al di qua c'è la luce della
vita, al di là c'è il buio pesto.
Mi sta bene, benissimo, non discuto, ci
mancherebbe altro.
Ho capito il senso. Ma non mi piace il
modo. Ecco: il senso mi dispone, ma il
modo mi indispone.
Perché questa verità si trasforma in
minaccia? E la minaccia in punizione? E
la punizione in senso di colpa? Colpa
per che cosa? Vorrei spiegazioni.
So che è complicato spiegare, ma è un
problema Tuo, Signore. Visto che
pretendi
obbedienza,
perlomeno
sforzaTi di fornirci un perché.
sforzaTi di fornirci un perché.
(Tanto si sa che è una battaglia persa in
partenza.
Il Padreterno è della vecchia scuola
educativa, è un padre all'antica, di quelli
che, ai figli che domandano perché,
rispondono soltanto: «Perché no!».
L'unica variante possibile è: «Perché ho
detto di no!».
Ma se sono in vena di parlare è: «Perché
quando è no, è no!».)
Insomma, fossi stato al posto di quel
giardiniere-custode silenzioso e gentile
mi sarei incavolato.
«Ma come? Io sono qui al Tuo servizio,
non mi lamento e non protesto mai, curo
le Tue piante, faccio la guardia a questo
Tuo assurdo giardino anche se so
benissimo che è tutta una farsa perché
non c'è uno straccio di cristiano che ci
possa entrare, dico cristiano ma potrei
benissimo dire musulmano ebreo
buddhista o comunista tanto non c'è
anima viva qua attorno, magari venisse
qualcuno e tentasse di scavalcare il
muro, un monumento gli farei, gli
regalerei tutta la frutta che vuole, che se
ne portasse via casse intere, ma prima
lo terrei due giorni qui con me a parlare,
non parlo mai con nessuno, mi ronzano
le orecchie a forza di sentire questo
maledetto silenzio, nemmeno un
fringuello che canta, una mosca che
ronza, persino una zanzara che mi
pizzica mi farebbe piacere, sto
diventando un deficiente totale a forza di
chiacchierare del più e del meno con le
fresie e i ravanelli, è una vita che sto qua
fresie e i ravanelli, è una vita che sto qua
dentro rinchiuso, dico una vita anche se
non ho la più pallida idea di quello che
sto dicendo, non so nemmeno quanto
dura una vita, non ho la minima
cognizione del tempo, non me l'hai mai
data, ricordi? E ora, come se non
bastasse, mi ci metti il carico da undici,
dico undici anche se non so esattamente
cosa dico, deve essere un numero,
undici è un numero credo, ma Tu non mi
hai mai insegnato nemmeno a contare,
ricordi? Ora mi dici di punto in bianco
mangia pure tutto quello che vuoi ma non
mangiare il frutto di quell'albero, che
cosa sono queste minacce, io non
accetto minacce, se mi devi proibire
qualcosa mi devi dire il perché, io voglio
delle spiegazioni, che cosa ho fatto per
non meritarmi delle spiegazioni? Io
non meritarmi delle spiegazioni? Io
voglio sapere perché mi tieni qua dentro,
altro che albero della conoscenza del
bene e del male, dimmelo Tu piuttosto
che cosa è bene e che cosa è male! E
comunque sappi che a me non interessa
quell'albero, capito? Che vuoi che mi
importi del frutto di quell'albero, io l'ho
sempre odiato quell'albero, e se è per
questo odio anche tutta la frutta, non ne
posso più di mangiare frutta, sempre e
solo frutta, possibile che in questo posto
non si possa almeno una volta ordinare
qualcos'altro, che so, una sogliola, una
paillard o una bistecca come Dio
comanda? Perché sei Tu che comandi,
dico bene?»
Forse mi sono fatto prendere un po' la
mano.
Mettiamo pure che il primo uomo non
abbia parlato così.
Ma certamente le parole di Dio lo hanno
reso inquieto. Per la prima volta si sente
solo davvero. E bisognoso di qualcun
altro con cui confrontare le proprie ansie.
E poi...
Parliamoci chiaro: se è un uomo, un
uomo sul serio, un maschio, sentirà il
bisogno di... Sì, d'accordo, confrontare
le proprie ansie è importante, d'accordo,
ma anche... anzi, soprattutto... Insomma,
si sa che l' uomo è uomo... che l'uomo è
cacciatore... non lo vedi che voglia di
carne che ha? Se lo costringi troppo a
occuparsi di fiori, poi va a finire che la
sua virilità... Insomma, Signore Iddio
benedetto, fai qualcosa!
Disse quindi il Signore Iddio: «Non è
bene che l'uomo sia solo; gli farò un
aiuto degno di lui».
Oh! Era ora! Meno male che se n'è
accorto! È proprio di aiuto che ha
bisogno! "Finalmente ci si diverte un
po'", avrà pensato l'uomo.
Perlomeno, io avrei pensato così.
E invece, niente.
Fece dunque il Signore Iddio dal suolo
ogni sorta di animali terrestri e tutti i
volatili del cielo, li condusse all'uomo,
per vedere come costui li avrebbe
chiamati: qualunque nome infatti
avesse posto l'uomo a ciascun
animale, quello sarebbe stato il suo
nome.
Ma come?
L'uomo si aspetta di avere finalmente un
conforto adeguato. Ha intuito da certe
curiose rigidità sul suo corpo che l'aiuto
potrebbe
rivelarsi
estremamente
piacevole.
E il Signore che fa? Affolla il giardino di
bestie di ogni genere.
Se non è cattiveria questa.
Ma cerchiamo di essere benevoli.
In fondo gli animali sono creature di
grande compagnia, soprattutto cani e
gatti (un po' meno pipistrelli, iene, istrici,
formichieri, pavoni, poiane, avvoltoi e
altri, ma pazienza). Inoltre, va detto che
c'è l'assoluta necessità di mettere ordine
nello spaventoso caos zoologico
esistente. Ricordiamoci che Dio è un
creativo geniale, ma molto pigro e
confusionario: ha messo al mondo alla
rinfusa milioni di specie animali, senza
curarsi nemmeno di catalogarle.
Consideriamola dunque come una
trovata per tenere sì impegnato
quell'uomo, ma in un'occupazione molto
utile anche per tutti quelli che verranno in
seguito. Gliene saranno immensamente
grati tutti i futuri cacciatori, allevatori,
proprietari di circhi, direttori di musei di
scienze naturali e cuochi. E anche tutti i
vegetariani, che sapranno con esattezza
che cosa non possono mangiare.
E così:
l'uomo impose nomi a tutti gli animali.
Abbiamo dunque la certezza che si
devono al nostro primo antenato
invenzioni linguistiche fantasiose come
fenicottero e antilope, poetiche come
lucciola e pesce luna, tenere come
colibrì e orsetto lavatore. Ma anche
astruse come ornitorinco e upupa,
sgradevoli come puzzola e cuculo,
pessime come cozza e mandrillo.
All'inizio si era messo in testa di poter
dare a tutti non solo un nome, ma
persino un cognome: martin pescatore,
barbagianni. Poi evidentemente ha
rinunciato. Per gli ultimi della lista, ormai
sfinito e a corto di idee, è ricorso a
scarni monosillabi: boa, gnu, gru.
Un impegno mica da ridere, pover'uomo!
Quanto ci avrà messo? Settimane,
mesi?
In ogni caso, finito il lavoro di archivio – è
il tipico incarico che negli uffici si affida a
quelli che si vuol tenere fuori dalle balle
quelli che si vuol tenere fuori dalle balle
per un po' –, ecco che il problema
dell'aiuto, per così dire fisiologico, si
ripropone più urgente che mai.
Ma per l'uomo non si trovò un aiuto
adatto a lui.
E lo credo! Che poteva farci con gli
animali! Non certo...
Per quanto...
Già. Devo rendervi conto, a questo
proposito, di un commento rabbinico
particolarmente bizzarro e audace, che
attribuisce a questo passaggio del
racconto il seguente significato: l'uomo
zompò sopra alcuni di questi animali
per vedere se era quello il tipo di aiuto
che andava cercando.
Sembra incredibile, ma anche quei
sant'uomini dei rabbini hanno preso a
cuore la disperata condizione del primo
uomo, ormai in preda agli effetti
devastanti di una tempesta ormonale
senza precedenti (ovviamente).
Ma finalmente ci siamo. Anche Dio ha
capito e si è convinto di non poter più
rimandare il grande passo.
Allora il Signore Iddio fece cadere un
sonno profondo sull'uomo che si
addormentò; gli tolse quindi una delle
costole, richiudendo la carne al suo
posto. Poi il Signore Iddio con la
costola tolta all'uomo formò una donna
e la condusse all'uomo. Allora l'uomo
esclamò:
«Questa volta sì, è ossa delle mie
ossa...»
ossa...»
Questo è comprensibile perché, fin dal
risveglio, l' uomo aveva sentito un dolore
ficcante alla schiena e si era chiesto fra
sé: "Possibile che mi sia venuto così
all'improvviso? Devo aver dormito in una
posizione sbagliata, o forse sarà
l'umidità di questo benedetto giardino...".
«Ma soprattutto carne della mia
carne.»
Insomma: per la prima volta, l'uomo si
sente felice!
Eh, già... Si ha un bel dire che il Paradiso
è gioia allo stato puro, che la presenza
del Signore è beatitudine.
Sta di fatto che il nostro primo antenato
si accende di vita e di energia soltanto
quando gli compare davanti La Donna.
E come dargli torto?
Del resto, è anche ciò che vede e che
vuole il Padreterno.
Non a caso, di seguito, è scritto:
È per questo che l'uomo abbandona il
padre e la madre e si unisce alla sua
donna e i due diventano una carne
sola.
Nel disegno sacro di Dio, l'uomo e la
donna sono fatti per diventare una carne
sola. Più chiaro di così! Alla faccia di chi
nega al sesso la benedizione che si
merita.
E ambedue erano nudi, l'uomo e la sua
donna, ma non ne avevano vergogna.
Confrontando dunque questa seconda
versione con quella contenuta nel primo
racconto della Creazione, non si può non
sottolineare l'anomalia: siamo in
presenza di due storie molto diverse.
Torna l'interrogativo: a quale dobbiamo
credere?
Ma forse è più giusto chiedersi
semplicemente quale delle due
preferiamo.
Io preferisco la seconda, soprattutto per
come si conclude.
L'uomo e la donna sono finalmente felici
insieme.
Certo, lei si è fatta attendere parecchio,
ma le donne – si sa – si fanno sempre
attendere, è destino.
I due stanno gioiosamente nudi l'uno di
fronte all'altra. E di lì a poco faranno
certamente ciò che hanno lungamente
certamente ciò che hanno lungamente
desiderato, soprattutto lui (diciamo pure
che lui non pensa ad altro, ma gli uomini
– si sa – pensano solo a quello, è
destino).
Ed è proprio per via di questo storico
precedente che, quando facciamo
l'amore per bene, poi diciamo: «Ah, mi
sembra di stare in Paradiso!».
E spesso sentiamo – noi maschi – un
dolorino qui, all'altezza dell'ultima
costola.
È destino.
III
Il contratto è tutto da rifare!
Ai tempi dei patriarchi, la vita degli
uomini durava parecchio e riservava
molte allegre sorprese. Tanto per fare un
esempio, Tare, il padre di Abramo, lo
generò che aveva già settant'anni e poi
visse ancora per altri centotrentacinque.
La sua morte a duecentocinque anni fu
accolta con un certo stupore. «Ci spiace,
Abramo» gli dicevano in molti. E lui:
«Che volete, purtroppo mio padre non
ha mai avuto una salute di ferro, come il
nonno del resto». In effetti, il padre del
padre, Nacor, era morto a soli
centoquarantotto anni, lasciando un
vuoto tremendo. Una famiglia assai
sfortunata, destinata a premature
scomparse, come nel caso del bisnonno
Serug, stroncato da un male incurabile
prima
del
duecentotrentesimo
compleanno. Ben altra tempra aveva il
bisnonno del bisnonno Serug, quell'Eber
di cui tutti parlavano, che morì a
quattrocentosessantaquattro
anni
investito da un cinghiale mentre correva
in montagna per ossigenarsi. Del resto, il
padre di Eber, il simpatico Sela, gran
donnaiolo, avrebbe vissuto ben più a
lungo se una notte d'inverno, nuotando in
un lago ghiacciato, un gorgo non
l'avesse trascinato via. Aveva solo
quattrocentotrentatré anni. (Per verificare
l'esattezza delle cifre, cfr. Genesi 11, 1426.)
Nessun particolare stupore, dunque, se
Abramo, all'età di novantanove anni, si
sente dire dal Signore in persona:
«Stabilirò il mio patto fra me e te e ti
moltiplicherò grandemente». È una
proposta che guarda al futuro, ma
Abramo, che molti in paese considerano
ancora un ragazzo con tutta la vita
davanti, è assai fiducioso e accetta.
Col senno di poi, verrebbe da dire che
forse è stato un errore aderire, ma è pur
vero che la vita premia (e castiga) solo
chi ha un bel po' di coraggio.
In buona sostanza, Dio sottopone ad
Abramo un accordo, con il quale è
sancita l'alleanza fra i due e che
significa: insieme per sempre, a te la Mia
protezione, a Me la tua devozione. È il
famoso patto fra Dio e il Suo popolo.
(Genesi 17)
Si potrebbe persino definirlo un
contratto, se non fosse che, su un piano
giuridico, è molto carente e imperfetto.
Sono certo che Abramo, assistito da un
buon legale, avrebbe potuto facilmente
impugnarlo e farlo dichiarare nullo, se
soltanto avesse trovato un magistrato
disposto ad accogliere il suo coraggioso
ricorso.
(Non ho fatto approfonditi studi di legge
– soltanto sei esami in sei anni, cioè uno
all'anno, ma è perché li preparavo con
cura –, perciò andrò a naso, ma con il
naso di uno circondato da sempre, suo
malgrado, da parenti avvocati.)
Prima di tutto non c'è niente di scritto. Va
bene fidarsi, ma quattro righe su un
pezzo di carta e un paio di firme non
avrebbero fatto male a nessuno.
Forse, però, bisogna mettersi nei panni
del povero Abramo, che si trova di fronte
a una controparte che esordisce così:
«Io sono Dio Onnipotente, cammina
alla mia presenza e sii perfetto».
(Genesi 17, 1)
Si intimidirebbe chiunque. Che non sarà
una trattativa facile, Abramo lo intuisce
da subito.
E dunque, non solo non otterrà alcun
documento, ma nemmeno una stretta di
mano, come si usa per sancire un
accordo fra signori perbene o, come
diceva mio nonno, fra gentiluomini. Il
problema è che qui non ci sono signori
perbene, perché uno è un signore e
l'altro
è il Signore. Che peraltro
gentiluomo assolutamente non è.
È un Essere Superiore, d'accordo, ma
prepotente e dai modi terribilmente
bruschi. Sentite che dice al Suo
imminente socio:
«...tu non ti chiamerai più Abram, ma il
tuo nome sarà Abramo...»(Genesi 17,
5)
Ecco un altro motivo di nullità del
contratto. Qualunque studente di legge
lo capirebbe. Non si è mai visto che una
delle parti contraenti imponga all'altra di
cambiare nome. Ci sono i notai apposta
per accertare l'identità delle persone e
l'esattezza dei dati anagrafici. Non si
può, non è valido. Ed è anche un po'
assurdo. È come se, durante il rogito di
un immobile, la parte venditrice dicesse
improvvisamente alla parte acquirente:
«Se lei continua a farsi chiamare con
quel suo odioso nome di Ivano e non lo
cambia in Ivan, che piace molto di più
anche a mia moglie, io col cavolo che le
vendo il mio trilocale!».
Ma naturalmente Abram, che ha pur
sempre novantanove anni e ormai non si
stupisce più di niente, decide di non fare
questioni. Forse, piuttosto, pensa con
rammarico alla spesa che gli toccherà
affrontare per cambiare tutta la sua carta
intestata. E alla pazienza cui dovrà fare
appello ogni qual volta i suoi vecchi
(molto vecchi) amici lo prenderanno in
giro dicendogli: «Com'è che ti fai
chiamare adesso? Ti sei aggiunto una
o? E perché? Avevi voglia di cambiare?
E un bel tatuaggio quando te lo fai? E
l'orecchino, te lo metti?».
Da un punto di vista legale, insomma, si
potrebbe parlare di vizio del consenso,
ovvero di una chiara condizione di
subordinazione della volontà da parte di
un contraente ai danni dell'altro (lo so
che l'ho detto male, non ve la prendete,
confesso: uno dei sei esami era Storia
del cinema processuale, ho parlato di
Perry Mason).
Questo aspetto è reso ancor più
evidente da un altro particolare.
Allora Abram si prostrò con la faccia a
terra e Dio gli parlò... (Genesi 17, 3)
Dite se vi pare possibile che uno
conduca una libera trattativa e tuteli i
propri interessi umiliato e sdraiato a
quella maniera.
Lo ripeto: già soltanto per questi motivi il
contratto è nullo e non vale una cicca.
Ma veniamo all'oggetto del patto.
Qui il Signore Iddio dà ovviamente il
meglio di sé.
«Ti renderò grandemente prolifico, ti
farò diventare nazioni e dei re
usciranno da te. Stabilirò il mio patto
fra me e te e la tua discendenza dopo
di te, nelle sue generazioni, come patto
perpetuo, per essere il Dio tuo e della
tua discendenza dopo di te. Darò a te
ed alla tua discendenza dopo di te la
terra delle tue peregrinazioni, tutta la
terra di Canaan in possesso perpetuo,
e io sarò il loro Dio.» (Genesi 17, 6-8)
Belle, bellissime parole che descrivono
progetti importanti, che delineano grandi
prospettive. Non ci sono dubbi su
questo. Ma si tratta pur sempre di parole.
questo. Ma si tratta pur sempre di parole.
Sono soltanto promesse, niente altro
che
promesse.
Assunzioni
di
responsabilità, ma per un futuro molto
lontano e indeterminato. Impegni senza
alcun riscontro concreto.
Sarebbe più che legittimo chiedere delle
garanzie.
Credo non ci sarebbe stato nulla di male
nel dire: «Va tutto bene, è tutto
magnifico, però, in attesa che questo
ben di Dio si realizzi, non potresti
anticiparmi qualcosa, che so, un terreno
edificabile, quattro vacche da latte, un
coniglio, un mazzo di carte, un genere a
piacere, giusto per mostrarmi che ci sai
fare?».
Anche perché, in cambio, sono richieste
una devozione e una fedeltà assolute,
senza limiti di tempo.
senza limiti di tempo.
Ecco un ulteriore motivo di nullità
dell'accordo: per le prestazioni occorre
che ci sia sempre un termine previsto (è
così, più o meno, no? Faccio un'altra
ammissione, per placare i parenti e amici
avvocati: l'esame di Diritto commerciale
era collettivo, abbiamo preso diciotto in
sei, tre a testa, io non ho aperto bocca).
Ma naturalmente Abram, o meglio
Abramo, non ha il coraggio di fare alcun
tipo di obiezione. Peggio per lui,
verrebbe da dire. Ma purtroppo sarà
peggio anche per noi. Intendo per noi
che abbiamo ereditato da Abramo il
contratto, senza poterlo mai più
ridiscutere.
Infatti il Signore se ne esce con una
richiesta a dir poco imbarazzante.
«Circonciderete la carne del vostro
prepuzio e questo sarà il segno del
patto fra me e voi.»(Genesi 17, 11)
Ecco che cosa si ottiene a fidarsi, a
essere disponibili e a non fare questioni.
Meglio passare per pignoli, per diffidenti
e ingrati, piuttosto che trovarsi
irreparabilmente blindati in accordi
svantaggiosi e iniqui.
È incredibile. Non contento di tutto ciò
che ha ottenuto senza quasi nulla
concedere, Dio ha il coraggio di
pretendere Lui un segno del patto.
E che segno, Signore! Mica ci hai
chiesto un taglietto su un piede o una
modesta incisione su un braccio.
Guarda, per farTi piacere avrei accettato
perfino uno stupido piercing. Avrei detto:
pazienza, è una pratica inutilmente
pazienza, è una pratica inutilmente
tribale, ma almeno fa tendenza e magari
faccio anche colpo su qualche ragazza
un po' avanti.
Ma la circoncisione è troppo, davvero.
Ma dico: come Ti è saltato in mente?
Con tutti i posti che esistono, perché
proprio lì? È un punto delicato e ci
tengo, diciamo che mi serve e voglio
che resti com'è e che nessuno me lo
tocchi (be', proprio nessuno non è
esatto), insomma, nel caso decida di
farmelo toccare, escludo che sia con la
punta di un coltello. Ci avessi detto:
tagliatevi un pezzo di unghia, be', quella
è una cosa che poi mi ricresce. Certo,
ho capito benissimo che hai detto: solo il
prepuzio. Però chi mi garantisce che
non serva a qualcosa anche questo
prepuzio? Dici che non serve? E allora
scusa, perché ce lo hai messo? E
soprattutto perché lo fai tagliare a noi
soltanto? Se davvero non serve, fallo
tagliare a tutti, belli e brutti, dico bene?
Guarda, facciamo così: in partenza io
me lo tengo come gli altri, se poi negli
anni, con l' esperienza, vedo che
davvero non mi serve o che al limite non
lo uso più di tanto, allora magari me lo
incido tutto intorno come mi hai chiesto.
Va bene? Come non va bene? Come
dici? Devo tagliarlo all'età di otto
giorni(Genesi 17, 12)? E se non lo
faccio? «Un maschio la carne del cui
prepuzio non sia stata circoncisa, una
tal persona sia recisa dal suo popolo:
ha violato il mio patto.» (Genesi 17, 14)
Niente da fare. Si può discutere con uno
che pensa di Sé: «Io sono Dio
Onnipotente»? (Genesi 17, 1) No, è
impossibile.
(Breve nota. La circoncisione è una
pratica molto antica, ma tuttora
largamente diffusa. Riguarda il piccolo
popolo degli ebrei, ma anche lo
sterminato popolo degli islamici. Le
ragioni rituali sono strettamente
connesse da sempre a quelle igienicosanitarie. Negli Stati Uniti d'America,
tanto per fare un esempio, la gran parte
dei cittadini maschi di ogni confessione
religiosa è circoncisa per scelta
pediatrica. La circoncisione non crea
problemi a nessuna delle tipiche funzioni
cui abitualmente è preposto l'organo
maschile. Se adeguatamente assistito, il
circonciso è soddisfatto e felice come
tutti gli altri.)
(Breve nota alla nota. Alcuni sostengono
che il circonciso fornisca migliori
prestazioni rispetto all'incirconciso. Altri
sostengono esattamente il contrario.
Difficile dire dove stia il vero. Perché non
esiste possibilità di una controprova. Chi
ha perso il prepuzio, non sa che gli
comporterebbe ritrovarlo. Chi lo ha
conservato, si guarda bene dal
privarsene. È dunque un confronto
impossibile, fra organi troppo differenti.
Il più classico dei casi in cui ognuno,
giustamente, pensa solo ai propri.)
E così, convinti o meno, ci si circoncide.
Anzi, ci si fa circoncidere, perché non è
una pratica che si possa certo sbrigare
da soli. Niente a che fare con
l'autoerotismo, per intendersi. A otto
giorni dalla nascita, con una goccia di
vino per anestesia, senza che ti
chiedano se sei d'accordo e ti sta bene,
ti tagliano via un piccolo pezzetto da quel
pezzetto piccolo di carne. È tutto
davvero molto piccolo a otto giorni e il
sacrificio, per la verità, è minimo.
Torniamo ad Abramo.
Sapete qual è il suo vero dramma, ora?
Deve personalmente circoncidere tutti i
maschi di casa.
Ma sarà in grado di farlo? Ha avuto
istruzioni in merito? Vediamo se il testo
biblico ci dice qualcosa.
Allora Abramo prese suo figlio Ismaele,
tutti coloro che erano nati nella sua
casa come pure coloro che aveva
comprato col suo denaro, tutti i maschi
tra gli uomini della casa di Abramo, e
in quel medesimo giorno circoncise la
carne del loro prepuzio, come Dio gli
aveva ordinato.(Genesi 17, 23)
Niente. Nessuna avvertenza o modalità
d'uso. Il senso è: Abramo, arrangiati.
Evidentemente, si è arrangiato.
Lo ammiro, ha avuto fegato.
Ma forse, più di lui, hanno avuto fegato
gli altri.
Che giornata.
Chiedo scusa, capisco che il momento è
di una certa importanza simbolica, ma a
me viene troppo da ridere.
Non so immaginarmi la scena. Come
sarà andata?
Saranno stati tutti diligentemente in fila
ad attendere il proprio turno?
Oppure ci sarà stato un fuggi-fuggi
generale e l'anziano patriarca, col
coltello in mano, avrà dovuto stanarli a
uno a uno?
Anche perché, un conto è la
circoncisione operata da un chirurgo
esperto su dei neonati, un altro conto è
una mattanza indiscriminata su uomini di
ogni età praticata da un vecchio pastore
senza occhiali e con mano tremebonda.
Sarà andata come vanno sempre queste
cose fra gli uomini.
(Ricordo, durante il mio servizio militare,
il giorno fatidico della tanto temuta,
mitizzata e attesa «puntura». Obbligati in
coda davanti all' infermeria, aspettavamo
di subire quella sadica procedura, una
potente e violenta iniezione sulle tette
che avrebbe dovuto sterminare tutti i
nemici della nostra salute. Eravamo lì,
tutti uguali di fronte al triste destino. Ma
quanto diversi, l'uno dall'altro, nel modo
di starci. C'era chi la prendeva sul ridere,
chi maschialmente ostentava coraggio,
chi parlava, parlava per vincere l'ansia,
chi se ne stava in silenzio, chi tremava
come una foglia, chi singhiozzava
chiamando la mamma, chi protestava,
chi accampava scuse, chi si inventava
allergie indimostrabili, chi tentava la fuga.
Ma alla fine, dal primo all'ultimo, come
quelli della casa di Abramo, ci hanno tutti
beccato e bucato. A me è venuto un
febbrone e nel letto pensavo: l'unico atto
veramente aggressivo di questo esercito
che non fa paura a nessuno è stato
contro i suoi stessi soldati.)
contro i suoi stessi soldati.)
Come atto finale, Abramo opera su se
stesso. È il primo caso conosciuto di
auto-circoncisione. E anche l'ultimo, per
fortuna.
A questo punto, Abramo crolla svenuto
davanti alla sua tenda e dorme per tre
giorni.
Non è scritto nella Genesi, me lo sono
inventato di sana pianta. Però è
credibile, no?
IV
L'apparizione di Mamre, regia
di Sergio Leone
Da quel che ci risulta, Dio ha smesso da
tempo di parlare direttamente con gli
uomini.
Non era così nell'epoca biblica. A tutti i
personaggi più importanti di allora capitò
di sentirsi chiamare dalla Sua voce. E ad
alcuni, di trovarselo persino di fronte.
Successe ad Adamo, a Noè, a
Giacobbe, a Mosè, al grande re David.
E moltissime volte ad Abramo, forse il
più gettonato.
Per quella gente, era una cosa quasi
normale.
Ogni qual volta, senza preamboli o
stupori particolari, è scritto: Allora il
Signore apparve..., significa che Egli
deve dire qualcosa a qualcuno.
Naturalmente, a mostrarsi al fortunato
prescelto, non è mai il Signore in
persona. Nessuno può vederlo nelle Sue
reali sembianze, ammesso che esistano.
Si tratta di manifestazioni della Sua
presenza, per mezzo di apparizioni assai
varie.
Per descriverle, la Bibbia potrebbe
benissimo dire:
«Ed ecco il Signore in uno dei suoi
migliori travestimenti.»
Una volta è una luce accecante. Una
volta è un cespuglio che brucia. Una
volta è un angelo con tanto di spada. La
fantasia non Gli manca di certo.
Come nel caso, raccontato al
diciottesimo capitolo della Genesi,
dell'apparizione presso il Querceto di
Mamre: il Signore, evidentemente in gran
vena, usa un effetto speciale a sorpresa
e si palesa ad Abramo sotto forma di tre
uomini in piedi davanti a lui.
Ma qui sta il fatto davvero sorprendente:
il vecchio patriarca non ci casca.
Leggiamo.
Il Signore gli apparve poi presso il
Querceto di Mamre, mentre egli era
seduto all' ingresso della tenda sul
caldo del giorno. Alzati gli occhi,
guardò ed ecco, tre uomini erano in
piedi davanti a lui. Appena egli li ebbe
veduti, corse loro incontro dall'ingresso
della tenda, si prostrò a terra e disse:
«Signor mio...».
Visto
che
prontezza?
Sta
sonnecchiando, intontito dal caldo, ma
appena vede i tre tizi capisce
immediatamente che si tratta di uno dei
soliti
trucchi
di
quell'Eccelso
Mattacchione. E così Gli rovina la
sceneggiata. Non c'è da meravigliarsi: è
esperienza, la sua. Se abiti sotto una
tenda in una zona desertica e non c'è
nessuno nel raggio di chilometri, che
pensi se all'improvviso ti sbuca davanti
una comitiva di sconosciuti? Pensi:
com'è che non ho visto polvere alzarsi e
non ho sentito scalpiccio di cavalli? Ma
che razza di giro hanno fatto questi? E
poi pensi: vuoi vedere che è il Signore
che ci prova di nuovo?
Insomma, Abramo Lo ha sgamato.
Formidabile.
Non per niente Dio lo stima più di tutti e
gli ha proposto il patto di alleanza.
Continuiamo a leggere.
«Signor mio, se ho trovato grazia ai
tuoi occhi, ti prego, non passare oltre il
tuo servo. Permettete che vi faccia
portare un po' d'acqua, vi laverete i
piedi e vi riposerete sotto quest'albero.
Io prenderò un pezzo di pane,
rinfrancherete il vostro cuore, poi
potrete proseguire; certo per questo
siete passati dal vostro servo.»
Notate la finezza. Abramo ha capito
benissimo che dietro ai tre c'è Lui e
vuole farGli capire che ha capito. Quindi
inizialmente dice: «Ti prego, non
passare oltre il tuo servo». Poi però,
passare oltre il tuo servo». Poi però,
come se volesse stare al gioco e non
irritare troppo la Sua suscettibilità
smascherandoLo, passa al plurale
dicendo: «Permettete che vi faccia
portare un po' d'acqua» (eccetera
eccetera). Un genio di furbizia e lucidità.
Fa bene a essere così gentile e
ospitale. Anche perché, se puta caso i
tre non avessero niente a che fare col
Signore e fossero soltanto degli stranieri
di passaggio, ha evitato di fare
un'ignobile figuraccia.
Ed essi risposero: «Fa' pure come hai
detto».
Rispondono in coro, come Qui Quo Qua.
Aveva proprio ragione: sono soltanto dei
pupazzi manovrati, altro che stranieri di
passaggio.
Abramo, malgrado la calura e le
medicazioni della circoncisione recente
(vedi capitolo precedente), si mette
freneticamente in movimento per
assistere il/i suo/suoi Ospite/ospiti. E
coinvolge anche sua moglie.
Abramo allora se ne andò in fretta nella
tenda da Sara e le disse: «Presto,
prendi tre seà di fior di farina, impastala
e fanne delle focacce».
Qui è possibile che Sara, come gran
parte delle mogli in questi casi, si metta
a fare domande e a protestare.
«Ma come ti è saltato in mente di
invitare a pranzo quei tizi? Non lo sai
che odio le improvvisate? Si può
almeno sapere chi diavolo sono? E poi
fai presto tu a dire fai le focacce, lo sai
benissimo che io detesto fare le
focacce!»
Ma Abramo non le dà il tempo. Forse
giusto un «Poi ti spiego tutto, ora
impasta e non farmi incazzare come
tuo solito» e via di corsa a procurarsi
qualche secondo decente.
Poi Abramo corse all'armento, prese un
vitello tenero e buono e lo diede al
servo che s'affrettò a prepararlo; quindi
prese della giuncata, del latte e il
vitello che aveva preparato e li pose
davanti a loro, mentre egli se ne stava
in piedi vicino a loro sotto l'albero.
Questo nobile patriarca ha compiuto da
poco novantanove anni, ma si muove più
rapido di un ragazzo che lavora nell'ora
di punta in un fast-food.
E che fa/fanno il/i Signore/signori?
Ed essi mangiarono.
Bene, mangiano.
Il fatto però mi induce a pormi un paio di
interrogativi.
Primo interrogativo. Perché mangiano?
È logico farsi questa domanda perché il
gruppetto è formato unicamente da
entità astratte: i tre individui sono
apparizioni e il quarto è il Padreterno in
persona, tutta gente che salta
normalmente sia il pranzo che la cena.
Evidentemente mangiano per un atto di
pura cortesia nei confronti del vecchio.
Ma lo fanno senza avere la minima idea
di che cosa sia l'appetito. E dunque, non
deve essere facile, per nessuno di loro,
abbuffarsi a quella maniera e mostrare
pure di gradire molto. Piccoli
inconvenienti che possono capitare agli
imbroglioni chi si spacciano per quello
che non sono. Azzardo, a questo
proposito, un'ipotesi. Forte del Suo
potere di persuasione, Dio passa ai tre
uomini anche le Sue porzioni,
ovviamente enormi, costringendo i
poveracci a un superlavoro gastrico non
indifferente.
Secondo interrogativo. Che fine hanno
fatto le focacce che Sara doveva
preparare? È probabile che anche gli
invitati se lo siano chiesto. Ma che si
siano ben guardati dal farlo notare ad
Abramo. Già è dura ingozzarsi una
giuncata e un vitello intero in tre, figurarsi
se fossero uscite anche le pizze.
se fossero uscite anche le pizze.
Continuiamo a leggere.
Poi gli dissero:«Dov'è
moglie?».
Sara
tua
Chiedo scusa. Mi ero sbagliato. Anche
se può sembrare strano, gli ospiti hanno
intenzione di chiedere alla donna notizie
sulle focacce. Evidentemente i tre tizi ci
hanno preso gusto e ora sono in preda a
una sorta di bulimia insaziabile: è rimasto
tutto il sugo degli arrosti e vogliono fare
la scarpetta.
Abramo risponde:
«Eccola, è nella tenda.»
Forse vorrebbe anche aggiungere un
«Se è per le focacce, me ne occupo
«Se è per le focacce, me ne occupo
subito io», ma non ne ha il tempo. Il
Signore Iddio finalmente gli parla.
(Avendo già letto più volte tutto il brano,
ho notato che, da questo punto in poi, i
tre uomini spariscono nel nulla. È chiaro
che Dio non ha apprezzato il loro
inqualificabile comportamento a tavola e
li ha tolti di mezzo. Forse li condannerà
ad apparizioni di serie B, o a qualche
comparsata in sogni di gente devota che
digiuna per penitenza.)
E qui la narrazione biblica si trasforma.
Per come la vedo io, sembra la
sceneggiatura di un grande film western.
L'ambientazione era già perfetta fin
dall'inizio.
Un piccolo gruppo di querce in una
radura brulla e deserta. Sole a picco.
Polvere. Caldo torrido. Musica (poche
note tirate di una chitarra slide, o di
un'armonica a bocca, avete presente il
suono? Una cosa tipo TU DI DU!...).
Sotto una tenda, un vecchio. Immobile.
Aspetta qualcuno. O forse no. È lì e
basta, non serve spiegare, è l'attesa del
nulla, tipica di ogni buon western (TU DI
DU!...).
All'improvviso tre pistoleros, a cavallo. E
un quarto, poco più indietro.
Sono stranieri, barbe ispide, facce
bruciate dal sole, gente che non si lava,
che mastica tabacco in bocche poco
curate. Ghigno stampato. Per niente
raccomandabili.
Ma il Capo è quell'altro. Cappello calato
sulla fronte, gli occhi come due fessure,
sigaro spento fra i denti, barba curata,
forte, fascinoso, spietato. Ma giusto. Mai
un sopruso, è un uomo che mette al
primo posto l'onore. È Lui. Chi meglio di
Lui. È Clint Eastwood (TU DI DU!...).
Il vecchio Abramo (anche il nome va
bene) se li trova davanti e si agita subito
per cercare di tenerseli buoni. Corre a
chiamare la moglie e apre la locanda,
cucina qualcosa e intanto suda e si
asciuga la testa calva con il suo
grembiule sporco da oste.
Mangiano seduti nella penombra. I tre
ridono, urlano, sputano, bevono troppo.
Il Capo è a un tavolino in disparte. Non
mangia e non beve. Pensa guardando
nel vuoto. A che pensa? A un amore
lontano. A un viaggio infinito. Al destino.
Chissà. È un eroe, è un cow-boy
solitario, è Clint. E pensa a quel che gli
pare.
Ma in realtà, come sempre, Lui è venuto
perché ha una missione. Alla Sua Legge,
oscura ma conforme a giustizia, nessuno
potrà mai sfuggire.
Chiama l'oste e finalmente gli parla.
Eccoci al punto in cui ci eravamo
interrotti.
«Tornerò certamente da te fra un anno
ed ecco, Sara tua moglie, avrà un
figlio.»
Mi sembra di sentire perfettamente la
Sua inconfondibile voce. E il tono: è
nitido, penetrante e sicuro. Dice quella
frase soltanto, non è un ordine né una
minaccia, è semplicemente la Sua
parola.
Grandioso. Unico.
(Fin da bambino mi sono ammalato di
western. Colpa di mio zio Gustavo, un
pazzo affettuoso che girava armato con
una colt vera. Aveva il porto d'armi, ma
nessuno in famiglia sapeva il perché.
Per anni, al pomeriggio del sabato, mi
portava a vedere i film sui cow-boys.
Piacevano a lui e tanto anche a me, non
lo nego. Ma li vedevamo minimo tre
volte. Era lui che insisteva. E se io davo
segni di insofferenza, poggiava appena
la mano sulla fondina che teneva sotto la
giacca e mi fissava, come per dirmi:
sicuro che te ne vuoi proprio andare? Io
capivo che era meglio restare. Era
pazzo, l'ho detto. Clint era il suo dio. A
ogni sparatoria temeva che venisse
colpito e tratteneva il respiro, anche
quando sapeva, per averla già vista, che
la scena finiva al meglio per lui. Allora si
girava verso di me e urlava soddisfatto
nel buio: mi sembra che andiamo bene!
Mi vergognavo come soltanto un
bambino può vergognarsi di un adulto
bizzarro che lo accompagna. Ma al
sabato successivo eravamo lì di nuovo a
tifare per il pistolero più grande di tutti.
Difficile
a credersi,
ma tutto
rigorosamente vero.)
Come detto, il Signore Iddio ha una sola
parola.
Se ha deciso che Sara avrà un figlio,
vuol dire che Sara avrà un figlio.
Ma a Sara, che ascoltava all'ingresso
della tenda, scappa da ridere.
Occorre spiegare una cosa.
Sara non aveva mai dato figli ad Abramo.
Aveva sempre sofferto per questa sua
mancanza, ma era sterile e non poteva
farci niente. Così, un giorno prestò al
marito la sua giovane schiava egiziana
Agar, perché provasse a fare un figlio
con lei. Una donna evoluta, ce ne
fossero oggi di mogli così comprensive
e sportive.
Immagino Abramo, che in quel momento
ha più di ottant'anni: prima dice di non
volerci nemmeno provare, poi dice che
ci prova soltanto per farle un piacere.
Tutte bugie, in realtà non chiede
ovviamente di meglio. E infatti, alla fine,
Abramo ci prova. Probabilmente chiede
persino alla moglie di poterci provare più
volte. È chiaro che ci prova gusto, chi
non lo capirebbe. Ma purtroppo la
giovane donna resta subito incinta.
Purtroppo per Abramo, che non può più
provarci. Mannaggia. E così nacque
Ismaele, un figlio che il padre amò
sempre in maniera speciale. Forse
perché gli ricordava quei brevi e
meravigliosi incontri notturni, nei quali era
là fra le morbide braccia di Agar, non
credendo ai propri occhi di avere pure la
benedizione della moglie. Ma ormai è
acqua passata.
Figurarsi, dunque, quale reazione può
avere ora Sara nel sentire che, entro
l'anno, partorirà un figlio. Che rida è il
minimo. E infatti ride, da non riuscire a
tenersi.
Rise dunque Sara dentro di sé
dicendo: «Dopo di essere invecchiata
mi darò al piacere? E anche il mio
signore è vecchio».
In effetti, Abramo sta per compiere
cento anni e lei ne ha novanta suonati. È
più che altro il pensiero di una notte
d'amore fra loro che la fa sbellicare. Non
ricordano più nemmeno che cosa
esattamente si faccia in quei casi, è
normale.
Ma che qualcuno rida alle parole del
Capo, è una cosa che in un western non
può proprio accadere. O meglio: se
accade, quel qualcuno smette per
sempre di ridere.
Immagino il silenzio pesante che cala su
tutta la scena.
I tre della banda, che bevevano e
giocavano a carte, si interrompono e
mettono mano alle armi. Abramo,
tremante, cerca di scivolare sotto il
bancone e si prepara al peggio. Sara, in
un angolo, trattiene il respiro per
soffocare la sua imprudente risata.
Interminabili sono i secondi, forse i
minuti, nei quali il Signore guarda fisso
davanti a sé. E non fa niente altro. (TU DI
DU!...)
Poi finalmente Egli parla.
«Perché Sara ha riso dicendo: È mai
possibile che io possa partorire, ora
che sono vecchia? Vi è forse qualcosa
di difficile per il Signore?»
Solo Clint saprebbe interpretare a
dovere la durezza, lo sdegno, la tagliente
ironia di queste parole. Ho presente il
suo sguardo di ghiaccio. Riconosco quel
parlare di sé in terza persona. Il
messaggio è sempre lo stesso, occorre
cacciarselo in testa: se Lui dice una
cosa, quella cosa è Legge, chiaro?
«Tornerò da te fra un anno, di questo
tempo, e Sara avrà un figlio.»
Chiaro?
Chiarissimo Signore, chiarissimo.
Ora la tensione si scioglie. Tutti hanno
capito che Egli non ucciderà nessuno.
Non ne ha alcun bisogno, la Sua forza è
ben superiore a quella di quattro proiettili
sparati in fronte. È la forza del Suo
carisma. Della Sua Legge. Della Sua
parola. Ha promesso e manterrà la
promessa. Perché poi si sia messo in
testa di far partorire una bisnonna,
nessuno lo capirà mai, ma fa niente.
Anzi, meglio non farsi sentire a dire una
cosa del genere, meglio non pensarla
neppure, perché è capace di leggerti
anche nel cervello.
La scena sembra dunque finita. Fra
pochi istanti, dalla penombra di questo
ambiente si passerà a un'inquadratura
larga e luminosa, con tanti uomini a
cavallo che corrono nella prateria verso
un sole rosso fuoco che tramonta
all'orizzonte.
Ma Clint deve ancora dire qualcosa a
qualcuno.
Il Signore Iddio vuole mettere a posto
una persona che si è permessa di
dubitare di Lui: Sara. Gli basta voltarsi
appena per guardarla. Lei ha già capito.
Allora Sara negò dicendo: «Non ho
riso» perché ebbe paura.
Povera donna, sta per avere un attacco
di cuore.
Quanto ti fa paura Lui, quando ti guarda
senza parlare!
Mi ricorda mio padre (certo, il papà
quando sei piccolo piccolo a volte
sembra Dio) che per rimproverarmi, da
bambino, mi fissava con quel suo
sguardo torvo e severo che era peggio
di uno schiaffo.
Inutile e patetico il suo tentativo di
scagionarsi: dice di non aver riso, Sara.
Dài, Sara, ce ne siamo accorti tutti che
hai riso.
E infatti Dio non gliela fa passare.
Ma egli disse: «No, tu hai riso».
(TU DI DU!...)
Una chiusura degna del miglior Sergio
Leone.
Sul fermo immagine, prima che scorrano
i titoli di coda, una scritta:
Dopo un anno Sara e Abramo ebbero
un figlio e lo chiamarono Isacco, che in
ebraico significa: il figlio di una risata.
Già. Lo diceva sempre mio zio Gustavo:
«Quando Clint dice una cosa, è quella».
V
I gemelli diversi
Esaù e Giacobbe, che strana vicenda, la
loro.
La Bibbia, nella sua inesauribile fantasia
educativa, ci racconta il caso
assolutamente anomalo di due fratelli
gemelli che non si somigliano, non si
sopportano, non si stimano. E,
soprattutto, non sono in simbiosi, non si
«sentono», come capita sempre fra nati
dallo stesso parto.
Il loro rapporto richiama alla mente
l'atavico rude conflitto tra i primi fratelli
del mondo, Abele e Caino, conclusosi
purtroppo in tragedia. Fra i due figli di
Isacco e Rebecca, invece, non scorrerà
mai il sangue, ma – è il caso di dirlo –
non corre buon sangue (eppure è lo
stesso). Una fratellanza subita e sofferta,
alimentata da scontri, rancori e bugie, in
un'eterna competizione che diventa
nevrosi.
Molto antica e molto moderna, anzi
contemporanea. In tanti, probabilmente,
si riconosceranno in questi rissosi e
irrisolti gemelli diversi.
Già, gemelli eppure diversi.
Giacobbe è delicato di tratti e ha la pelle
vellutata e chiara. Esaù è rosso e peloso
in maniera imbarazzante (nella Genesi è
scritto che quando uscì dal ventre di sua
madre era già rosso tutto come un
mantello peloso).
Caratterialmente sono agli antipodi:
Giacobbe è riflessivo, intelligente e
scaltro, per non dire disonesto; Esaù è
scaltro, per non dire disonesto; Esaù è
istintivo, irascibile, ma facilmente
manovrabile.
Hanno gusti e passioni opposte: Esaù
esperto cacciatore e uomo di
campagna, Giacobbe uomo pacifico
che se ne stava sotto le tende (ecco
spiegata la carnagione pallida, se ne sta
sempre all'ombra).
Persino nell'affetto dei genitori sono
divisi.
Isacco preferisce di gran lunga Esaù,
perché ama come lui la caccia e le
grandi abbuffate di carne, mentre
Giacobbe, ragazzo di casa e ottimo
cuoco (soprattutto di minestre), è il
prediletto di mamma Rebecca.
Insomma, una famigliola come tante
altre,
nella
quale
si
covano
amorevolmente acidi conflitti.
I due sono in guerra dalla loro nascita, o
per meglio dire, sulla loro nascita.
Esaù è considerato da Isacco il suo
primogenito, perché al momento del
parto fu il primo a vedere la luce. Ma il
finto buono Giacobbe, sostenuto dalla
madre Rebecca, non ci vuole stare e
pretende la primogenitura per sé:
sostiene di essere stato vittima di un
sopruso già all'interno del ventre
materno.
In effetti, una qualche ragione potrebbe
anche averla, se si dà per buono il
racconto contenuto nella Genesi.
Uscì fuori il primo, rosso tutto come un
mantello peloso, e gli fu posto nome
Esaù. Poi uscì fuori suo fratello, il quale
con la mano teneva il calcagno di
Esaù, e gli fu posto nome Giacobbe.
Il fatto che Giacobbe sia comparso
avvinghiato al piede del fratello
inviterebbe a pensare a una sorta di
violenta colluttazione avvenuta poco
prima dell'uscita. Forse egli era, per così
dire, in prima fila e quel piccolo
energumeno peloso di Esaù lo ha
cacciato all'indietro a suon di pedate.
Peccato che nessuno, ai tempi, sapesse
ciò che sui gemelli oggi sappiamo tutti: il
secondo che nasce è stato concepito
per primo.
Formuletta semplice, anche da mandare
a memoria: il primo è secondo, il
secondo è primo.
(Un amico mi suggerisce che sarebbe
bastato attendere che Gesù dicesse gli
bastato attendere che Gesù dicesse gli
ultimi saranno i primi. Ribatto che il
Cristo aveva in mente problemi
certamente più seri.)
Insomma, l'intera questione si sarebbe
sgonfiata in un attimo.
(Per la verità, nemmeno oggi tutti i
medici sono d'accordo su questo
argomento.
Prima di tutto perché spostamenti e
assestamenti durante la gravidanza sono
sempre possibili. In secondo luogo
perché, nella maggior parte dei casi, i
gemelli si adorano e sono complici fra
loro. Capita spesso che, per prendere in
giro il resto del mondo, si divertano a
scambiarsi di posto, sia fuori che –
perché no? – dentro la pancia di
mamma.)
Ma torniamo a Giacobbe e al tarlo che lo
rode: la primogenitura.
Va detto che non si tratta di uno stupido
puntiglio, o di una mera questione di
principio, ma significa per lui, secondo le
leggi del tempo, la supremazia sul
fratello e il diritto a due terzi dell'eredità.
Giacobbe assolutamente la vuole ed è
pronto a tutto, pur di ottenerla. Persino a
comperarla, costi quel che costi. Non gli
costerà molto, in effetti.
Com'è andata lo ricordano tutti, più o
meno. È uno degli episodi più famosi.
Esaù torna una sera dalla caccia, è
esausto e non ci vede più dalla fame.
Giacobbe è ai fornelli: minestra di
lenticchie, la sua specialità. Da ogni
parte vengono ospiti per assaggiarla e
gli stranieri di passaggio deviano
apposta dai loro percorsi. Non è che
Giacobbe faccia un vero e proprio
servizio di ristorante. Ha semplicemente
del gran talento in cucina, fa primi e
minestre in brodo per pura passione, e
la gente lo sa. Giacobbe accoglie
chiunque e offre quello che ha cucinato
senza volere mai niente in cambio (se
qualcuno parla di pagare si offende di
brutto).
Ma se si presenta l'odiato Esaù, allora è
un altro paio di maniche.
«Che vuoi?» gli fa Giacobbe, scortese.
Ed Esaù disse a Giacobbe: «Fammi
mangiare, ti prego, di questa pietanza
rossa, perché io sono stanco».
Ignorante, pensa Giacobbe. La mia
minestra di lenticchie, segnalata in tutte
le guide dei gourmet palestinesi, lui la
chiama questa pietanza rossa! E la
vuole perché è stanco e vuole mangiare,
non ha il minimo gusto, non sa
apprezzare, gli basta buttar giù qualcosa
di caldo, è di quelli che dicono «ah, tanto
io mangio di tutto», avrei voglia di
prenderlo a calci, l'idiota. E poi ci si
stupisce che avranno successo i fastfood. Ma come fa a essere mio fratello?
È così becero, grezzo, ha ragione
mamma che dice sempre di lui: «Ma
questo da chi avrà preso, eh?».
A questo punto, chissà se per sfidarlo o,
più semplicemente, per toglierselo di
torno Giacobbe dice a Esaù:
«Vendimi subito la tua primogenitura.»
Sentite la risposta del fratello:
«Eccomi presso a morire, che me ne fo
della primogenitura?»
"Non ci credo, non ci credo!" pensa
Giacobbe. Una frase buttata lì per caso
diventa
un'occasione
imperdibile.
"Possibile che il fesso mi ceda il suo
prezioso diritto così, senza riflettere,
come se si trattasse di un utensile usato
che non gli serve più?"
E gli dice, per ulteriore verifica:
«Giuramelo subito.»
La Bibbia ha un pregio, fra i tanti: niente
chiacchiere a vuoto.
Ed egli giurò e vendette la sua
primogenitura a Giacobbe.
primogenitura a Giacobbe.
E Giacobbe diede ad Esaù del pane e
della minestra di lenticchie.
Ed egli mangiò e bevve, poi si levò e
se ne andò.
Ecco fatto. In tre righe, senza tante
manfrine, la questione si chiude.
Così, al prezzo di un primo più bottiglia
di vino più pane e coperto, Giacobbe
ottiene ciò che tanto voleva.
Confesso che, in questo frangente, mi
sale moltissimo in simpatia Esaù, che
appare fin troppo sbrigativo, fin troppo
sfacciatamente ingenuo per essere
credibile.
Il passo della Genesi si conclude con
quest'unico secco commento:
Così
Esaù
disprezzò
la
sua
primogenitura.
Come a dire: ha mancato di rispetto a
suo padre.
Secondo me, invece, Esaù non spregia
affatto la sua primogenitura, ma piuttosto
compie un gesto di consapevole
disprezzo verso il fratello. Da tempo ne
ha piene le scatole del tignoso
attaccamento di Giacobbe a quel
benedetto titolo e ha deciso di prendersi
gioco di lui.
Pensa, fra sé: "Ma che si pigliasse 'sta
primogenitura, tanto poi se la deve
comunque vedere con me. Io quando
vado a caccia stendo i cinghiali con un
pugno, figurarsi se mi impressionano le
sue chiacchiere e i giuramenti che mi
strappa quando ho troppa fame per
discutere. E voglio proprio vedere con
che faccia andrà a dirlo a nostro padre.
E se avrà questo coraggio, certamente
mio padre gli riderà in faccia, ne sono
sicuro, perché sta dalla mia parte. E
allora il poverino andrà a farsi consolare
da sua madre, è sempre stato il suo
cocco, lui e la sua mania per la cucina...
E, fra l'altro, questa tanto famigerata
minestra di lenticchie... era una vera
porcheria, arrabbiatissima di sale!".
Passano molti anni e nessuno pare più
tornare sulla questione.
Ma i rapporti in famiglia restano tesi,
soprattutto per via di Esaù che ha preso
l'abitudine di sposarsi in continuazione
con donne sgradite a sua madre.
(È la prova di quanto sia antica la
tradizione della suocera che odia la
nuora.
E di quanto sia irritante e bugiarda la
frase con la quale ogni mamma accoglie
le fidanzate del proprio figlio: «Con tutte
le donne che ci sono, proprio quella ti
sei andato a cercare?». Già, perché
Esaù ne sposò almeno una dozzina, ma
per Rebecca erano dodici esemplari di
proprio quella.)
Si giunge così all'episodio-chiave, ben
più decisivo e doloroso di quello della
zuppa di lenticchie, ma forse non
altrettanto famoso.
Nella Genesi va sotto il titolo:
Benedizione di Giacobbe.
Isacco è ormai molto anziano, costretto
in un letto e quasi completamente cieco,
purtroppo. Sente la morte che si avvicina
e convoca Esaù, quello che egli
considera
suo
figlio
maggiore.
considera
suo
figlio
maggiore.
Naturalmente, a nessuno è mai venuto in
mente di raccontare al marito e padre la
storia della minestra: Rebecca perché
teme la sua reazione, Giacobbe perché
se ne vergogna ed Esaù perché non le
dà alcun peso.
Isacco dice dunque al figlio:
«Vai a caccia, prendi della selvaggina e
preparami un piatto saporito, come
piace a me ... e io lo mangerò, perché
la mia anima ti benedica prima di
morire.»
Comprendendo che la sua fine è
imminente, Isacco desidera chiudere in
bellezza accanto al figlio prediletto.
Quanto mi piace questo nobile vecchio,
che rifiuta inutili flebo e disgustosi
brodini per una bella abbuffata di carne,
e che pensa, alla faccia di chi gli
sconsiglia strapazzi di stomaco: "Perché
mai
dovrei
preoccuparmi
della
digestione, se è probabile che non avrò
neppure tempo di cominciarla?".
(Penso con tenerezza al mio nonno
Maurizio, uomo magnifico, generoso e
gaudente, che amava gli affari e le
grandi mangiate. Si ammalò gravemente
e, fino all'ultimo, mi volle vicino al suo
letto a parlargli di ristoranti. Gli
raccontavo di pranzi e di cene nei più
minuti dettagli e lui, a occhi socchiusi,
chiedeva: «Quanto?». Mi inventavo un
conto ridicolo e lui soddisfatto: «La
prossima volta ci vengo». Se n'è andato
prima che potessi invitarlo. Ma tanto non
mi avrebbe mai permesso di pagare.)
Esaù parte subito per la caccia, felice di
far felice suo padre.
Ma la madre Rebecca, che era in ascolto
nascosta dietro una tenda, chiama l'altro
figlio, il suo prediletto e lo convince che
finalmente è giunto il momento di agire.
Lei preparerà in tutta fretta il piatto
saporito e lui si sostituirà al fratello,
strappando così la benedizione al padre
cieco e morente.
Giacobbe è incerto. Non ne fa una
questione di etica (tale e quale sua
madre), ma più che altro teme che il
padre scopra l'inganno: " È vero che non
ci vede più, ma se mai ... avesse a
palparmi" si chiede, "che faccio?". In
effetti, Esaù è talmente peloso che
nemmeno un orso marsicano sarebbe
sicuro di portare al successo lo
sicuro di portare al successo lo
scambio.
Ma Rebecca insiste, non molla. Nessuno
è più ostinato di una madre ostinata,
chiunque abbia una madre ostinata lo sa.
E dunque il figlio si arrende.
Lei prepara il piatto saporito (che sarà
esattamente? uno stufato? un brasato?
forse del cuscus?), poi fa indossare a
Giacobbe i vestiti del fratello e lo
costringe a coprirsi le braccia e il collo
con pellicce a pelo lungo.
Così combinato, camuffato, sudato,
agitato, entra nella tenda del padre.
La scena che segue è fantastica. È
tragica e comica. È un cult, per me.
Egli venne da suo padre e disse:
«Padre mio».
Immagino il cuore di Giacobbe che va a
mille. Sarà anche un cinico, ma quello è
pur sempre suo padre, è in buona fede
e malato. Immagino la testa che viaggia
fra tanti pensieri, un certo rimorso, un
interrogativo pressante: perché ho dato
retta a mia madre, perché sono qui
travestito da capra a cercare di truffare il
mio vecchio?
Ma ormai il gioco è partito, uscirne ora è
impossibile.
Ed egli rispose: «Eccomi, chi sei tu,
figlio mio?».
È evidente che Isacco ha la febbre e
straparla. Non c'è logica nella sua
domanda.
Se ha chiesto: «Chi sei tu?» vuol dire
che non ha capito chi gli si è presentato
davanti. Ma allora perché aggiunge:
«figlio mio»? Ha capito o non ha capito?
Forse – tenerezza da anziano – chiama
tutti quelli che vanno a trovarlo «figlio
mio».
E se invece, sapendo di che cosa è
capace sua moglie, Isacco avesse già
subodorato qualcosa e intendesse
smascherare il figlio che si spaccia per
l'altro figlio?
Probabile che questo sia soprattutto il
timore di Giacobbe, che maledice il
momento nel quale ha accettato di
prestarsi alla pagliacciata. Che faccio?
Che dico? Ha capito chi sono, cioè che
non sono chi voglio sembrare che sono?
Giacobbe si butta.
E Giacobbe disse a suo padre: «Sono
Esaù tuo primogenito, ho fatto come tu
m'hai detto. Alzati, dunque, siediti e
mangia della mia selvaggina, affinché
la tua anima mi benedica».
Così, tutto d'un fiato, vada come deve
andare.
In effetti Giacobbe, scegliendo la
soluzione delle parole a raffica, si è
mostrato sicuro di sé e non ha dato
tempo al padre di organizzare
mentalmente i suoi eventuali dubbi.
Ma una nuova angoscia si fa strada in lui
non appena finito di parlare...
E la voce? Non abbiamo pensato alla
voce! Mia madre mi ha sommerso di
pelliccia per sembrare Esaù e non le è
venuto in mente di farmi provare a
imitare la sua voce! Mio padre è
imitare la sua voce! Mio padre è
diventato cieco, mica sordo! Oddio, ora
me lo dice, ha capito che sono io e ora
me lo dice!
Ed Isacco replicò a suo figlio: «Come
hai fatto a trovarla così presto, figlio
mio?».
Macché. Sembra proprio che Isacco se
la sia bevuta. Per lui quello è Esaù. Non
ha fatto alcun caso alla voce, l'ansia di
Giacobbe era del tutto ingiustificata.
Ma egli è certamente ancora agitato dalla
situazione in cui si trova e un po'
confuso. In fondo, non è da tutti reggere
a lungo una parte senza perdere la
concentrazione, non è un attore
professionista, Giacobbe.
Me lo immagino – buffissima immagine
– in piedi, nella penombra davanti al
capezzale del padre, immerso negli abiti
del fratello taglia XXL e sommerso di
pellame per tentare di somigliargli,
sudato per la tensione e per il caldo, che
ripete fra sé, vagamente istupidito, la
domanda che gli ha fatto il padre e che
lui non ha capito: «Come hai fatto a
trovarla così presto?». "Come ho fatto a
trovare che cosa... Oddio, sto andando
in paranoia, con tutta questa fottuta
peluria non riesco a ragionare... Come
ho fatto a trovarla così presto... Cosa
cavolo... Ah! Imbecille che non sono
altro! La cacciagione! Già... come ho
fatto? Non sfugge niente a mio padre... "
"Mica posso dirgli che ho sgozzato due
capretti qua dietro..."
Ma
poi
Giacobbe
risponde
perfettamente a tono.
Ed egli rispose: «Perché il Signore, tuo
Dio, mi ci ha fatto imbattere».
Niente da dire, è una buona risposta. Noi
sappiamo che c'è un imbroglio sotto, ma
per l' ignaro Isacco è una risposta
plausibile. Giacobbe mostra la sua
raffinata intelligenza tirando in ballo Dio,
personaggio di fronte al quale nessuno
osa replicare.
A questo punto sembra fatta.
Ma il duetto riserva ancora parecchi colpi
di scena.
Ed Isacco disse a Giacobbe:
«Accostati, ti prego, figlio mio, che io ti
tasti. Sei tu davvero mio figlio Esaù o
no?».
Eh, ma allora non si fida! Per forza.
Isacco conosce troppo bene la sua
famiglia e vuole toccare con mano,
letteralmente. E quella storia della
partecipazione di Dio alla battuta di
caccia non lo ha per niente convinto,
figurarsi se il Signore ha tempo da
perdere per correre dietro a un cinghiale.
Giacobbe non ha scelta. Sapeva che
sarebbe potuto accadere e ora deve
farsi toccare, je tocca, come si dice a
Roma.
Giacobbe allora si accostò a suo padre
Isacco, il quale lo tastò, e quindi disse:
«La voce è la voce di Giacobbe, ma le
mani sono le mani di Esaù».
La voce! Aveva fatto caso anche alla
voce, eccome che ci aveva fatto caso!
Ma non ha detto niente sul momento per
non far capire che aveva capito. Lo
davano per quasi morto, invece il
vecchio glorioso patriarca Isacco è
tutt'altro che rincoglionito.
Ora lo smaschera. Lo sbugiarda. Lo
umilia. Gli dice il fatto suo. Lo prende a
schiaffi. Lo maledice. Lo manda via a
pedate. Anzi no, lo caccia via
scagliandogli il suo piatto saporito. E
urlando: odio il capretto in umido.
E invece...
E non lo riconobbe, perché le sue mani
erano divenute pelose come le mani di
Esaù suo fratello e lo benedisse.
Proprio così, Giacobbe incassa la
benedizione al posto del fratello.
Una benedizione spirituale, carica di
affetto e di buoni auspici. E, al tempo
stesso, ricca di indicazioni pratiche.
«Ecco l'odore del mio figlio,
è come l'odore di un campo
che il Signore ha benedetto.»
Parole dense di poesia per chi vive in
campagna, me ne rendo conto.
Ma io abito in città e l'odore di un campo
per me è disgustoso. Invade l'abitacolo
quando passo per le pianure in
autostrada. Da genitore, sinceramente
mi preoccuperebbe che fosse anche
l'odore del mio figlio.
«Che Dio ti dia
rugiada dal cielo,
fertilità della terra
e abbondanza di frumento e di mosto.»
Si tratta di auguri molto apprezzati fra
agricoltori, ovviamente.
Ma non altrettanto fra noi che facciamo
altri mestieri. Sarebbe un gran bel guaio
ricevere all' improvviso così tanto
frumento e mosto. Io non saprei
francamente nemmeno dove metterli.
«Ti servano i popoli,
si prostrino davanti a te le nazioni,
sii il padrone dei tuoi fratelli,
si inchinino a te i figli di tua madre,
sia maledetto chi ti maledice
e benedetto chi ti benedice.»
La forma è altisonante.
La sostanza è:
«Figliolo, andrà tutto alla grande, vedrai...
Quanto all'eredità, è roba tua, gestiscila
come ti pare... E a chi avesse intenzione
di mettersi di traverso, gli venga un
colpo, sono stato chiaro?»
Parole decisive per capire quanto ne
valesse la pena.
Che cosa?
Andare a farsi benedire.
Ma, almeno per me, si tratta di una
grande, davvero grande delusione. Il
raggiro è riuscito. La menzogna ha
trionfato. Ha scritto Cechov: «Si dice che
la verità trionfa sempre, ma questa non è
una verità». Eccone una prova. La Bibbia
ci consegna un sublime caso di truffa,
ancor più ignobile e intollerabile perché
perpetrata ai danni di un padre anziano e
malato.
Andrebbe detto, di passaggio, che tutto
questo
è
probabilmente
potuto
succedere per il fatto che la benedizione
veniva per tradizione impartita dal padre
e non dalla madre. Già, perché una
madre non scambierebbe mai un figlio
per un altro, una madre riconosce i
propri figli, non ha certo bisogno di
toccarli, li sente e basta.
Anche a migliaia di chilometri di distanza.
(Parlo per me. I miei genitori mi vogliono
bene, non si discute. Ma mia madre mi
sente anche a migliaia di chilometri di
distanza, mio padre assolutamente no.
Quando, per un breve periodo, ho
vissuto all'estero, mia madre mi
telefonava e mi diceva: «Oggi hai mal di
testa, vero?». Ci azzeccava sempre. Mio
padre invece non telefonava mai. L'unica
volta che ci siamo sentiti per sbaglio, mi
ha chiesto: «Perché non sei rientrato ieri
sera, dove cavolo ti sei cacciato?».
Insomma, lei non mi scambierebbe mai
per mio fratello, lui probabilmente sì.
Confesso che ci rimarrei molto male:
non ho fratelli.)
Ma... il povero Esaù, in tutto questo?
Il povero Esaù rientra dalla caccia
trafelato, cucina con grande impegno e
amore l'ormai famigerato piatto saporito
e si presenta entusiasta davanti al padre.
Ma il vecchio lo gela.
Gli domandò Isacco suo padre: «Chi
sei tu?».
Come chi sono... Il babbo sta
peggiorando di ora in ora, pensa Esaù.
Ed egli rispose: «Io sono Esaù, il tuo
figlio primogenito».
Ci risiamo, pensa Isacco. Meno male
che sto per andarmene, perché non li
sopporto più, ho tirato su una famiglia di
imbecilli.
Allora Isacco disse: «Chi è stato
dunque che ha preso della selvaggina
e me l' ha portata ed io ho mangiato di
tutto prima che tu venissi e poi l'ho
benedetto e benedetto sarà?».
A Esaù crolla il mondo addosso in pochi
istanti.
Quando Esaù ebbe inteso le parole di
suo padre diede in alte e amarissime
grida.
Una vera crisi di nervi. Mi commuove
l'immagine di quell'omone peloso che
strilla e piange come un bimbo,
inginocchiato davanti al padre. E che
pateticamente gli chiede di dimostrargli
che non lo sta schifando del tutto come
figlio.
«Benedici anche me, padre mio.»
Ma Isacco gli risponde:
«Eh, ma come faccio, benedetto
figliolo?»
No, no, sto scherzando naturalmente.
Ma egli rispose: «Tuo fratello è venuto
con inganno e ha carpito la tua
benedizione».
benedizione».
Esaù la prende malissimo.
«Eh, vabbe', ma sai a me che mi frega
di quell'enorme bastardo?»
Naturalmente non dice affatto così.
Ed egli disse: «A ragione gli fu posto
nome Giacobbe...».
Breve spiegazione. Nella lingua ebraica il
nome Giacobbe ha la stessa radice del
verbo soppiantare. Certo Esaù non
doveva essere proprio un fulmine di
guerra: come mai, in tanti anni, non gli è
mai venuto in mente che quel nome
poteva significare qualcosa? Sarebbe
come se io avessi un fratello che si
chiama Levatidaipiedibruttoidiota e non
chiama Levatidaipiedibruttoidiota e non
me ne facessi un problema.
«...ché due volte mi ha soppiantato: mi
ha tolto la primogenitura ed ora ha
carpito la mia benedizione. Ma tu non
hai serbato per me alcuna
benedizione?... Hai tu una sola
benedizione, padre mio? Benedici
anche me, padre mio.»
A me fa proprio tenerezza, Esaù. È
rozzo e ingenuo, ma ha una sua logica.
In fondo, sta tentando di far capire al
padre che, più che altro, ha bisogno del
suo amore. E che, al limite, gli andrebbe
bene pure una benedizione di seconda
mano.
Ma Isacco si dimostra affettuoso quanto
un impiegato di sportello: gli spiega che
ha già fatto tutto con Giacobbe e che
pertanto la procedura mica la si può
riaprire.
«Ecco, io l'ho costituito tuo padrone, gli
ho dato tutti i suoi fratelli per servi, l'ho
provvisto di frumento e di mosto. E ora,
che posso mai fare per te, figlio mio?»
È una risposta fredda, da burocrate dello
Stato.
A chiunque di noi è capitato di avere a
che fare con l'ottusità della burocrazia.
Con l'atteggiamento sconfortante di un
funzionario. Di quelli che oppongono alle
nostre richieste un muro di gomma di
«purtroppo non si può fare», di «non so
che dirle», di «la capisco benissimo, ma
ho le mani legate». In quei casi
l'esasperazione ci fa desiderare di
metterci a urlare, oppure di metterci a
piangere.
Il povero Esaù fa entrambe le cose.
Esaù levò la sua voce e pianse.
Si capisce molto bene perché Esaù
prese ad odiare Giacobbe.
E come mai Giacobbe partì in gran
fretta, senza nemmeno salutarlo.
Per parecchi anni non si videro più.
E dunque, per finire il racconto di questo
travagliato rapporto fra gemelli, occorre
fare un ulteriore salto in avanti. È difficile
che la Bibbia lasci sospese le questioni
personali. Una risoluzione, nel bene o
nel male, c'è sempre. E se non c'è, la si
trova. Il metodo è semplice: si prendono
i due e li si fa rincontrare.
L'iniziativa la prende Giacobbe. È giusto
che sia così, doveroso. L'uomo è
cresciuto, cambiato e compie un gesto
encomiabile di umiltà e di coraggio. Va
detto, perché comunque non è da tutti.
Certo, un po' di paura ce l'ha. Ma anche
questo lo rende assai umano. E comico,
inevitabilmente.
Giacobbe fa la prima mossa. Manda dei
messaggeri al fratello, tanto per tastare il
terreno. È inquieto ovviamente e si
raccomanda che gli parlino con estrema
calma, che gli spieghino tutto per bene.
«Ditegli che Giacobbe è suo servo, che
è a disposizione, che è qui con molto
bestiame e tanti altri doni, che insomma
è pronto a vederlo, ma senza forzare la
mano, soltanto se Esaù vuole, che non si
senta in alcun modo obbligato, se la
cosa non lo disturba o lo irrita, dite così,
sono stato chiaro, ragazzi? Ripetete, per
favore...»
I ragazzi tornano e dicono: «Siamo
andati da tuo fratello Esaù ed anzi egli
stesso sta venendoti incontro con
quattrocento uomini».
Porca
miseria
ladra
bastarda.
Quattrocento uomini. Ma chi me l'ha fatto
fare, stavo tanto bene a casa mia, vedi a
voler fare gesti encomiabili di umiltà e di
coraggio?
Se prima era soltanto inquieto, ora
Giacobbe è proprio agitato.
Tanto per far capire il suo stato d'animo,
dice: «Temo che Esaù venga e
percuota me e la madre oltre i figli». È
passato tanto tempo, Esaù sarà pure
invecchiato, ma il carattere non cambia e
le ferite sono tuttora aperte. Giacobbe
non ne è certo, ma se al fratello
girassero ancora le balle, c'è il rischio
che, prima ancora di salutarlo e
chiedergli come stai fratello, lo gonfi di
botte insieme a tutta la sua famiglia. Ha
due mogli, dodici figli più la servitù, vien
fuori una strage. E tutto per un'insulsa
questione di primogenitura che adesso
sembra così poco importante, quanto si
è deficienti quando si è giovani...
Da questo momento, Giacobbe è preda
di una frenesia incontenibile. Non sa
bene che fare e allora comincia
maniacalmente a dividere persone e
animali al seguito in gruppi diversi.
Dapprima divise la gente che aveva
con lui come pure il gregge, gli armenti
e i cammelli in due schiere. E dice: se
Esaù comincia a menare chi sta nella
prima schiera, quelli in seconda
scappano e si mettono in salvo. Poi però
cambia idea, forse vedendo le facce
poco convinte di quelli designati a stare
nel primo gruppo. Decide allora di
dividerli in cinque. In cinque? Sì, in
cinque, perché ha in mente qualcosa
(speriamo bene). Fa una contabilità un
po' complicata: duecento capre e venti
becchi, duecento pecore e venti
montoni, trenta cammelle allattanti coi
loro piccoli, quaranta vacche e dieci
giovenche, venti asine e dieci puledri.
Nessuno gli sta più dietro, che razza di
conti sta facendo? L'ho detto, Giacobbe
ha in mente qualcosa (speriamo bene
davvero). Consegna ai servi i singoli
branchi separatamente. Che vuol dire?
Non lo so, è scritto così, ma ho già detto
e ridetto che ha un piano (davvero?). Poi
ordina: «Andate davanti a me e lasciate
uno spazio fra un branco e l'altro». Si
comincia a capire, ha in mente qualcosa
(bene). Quindi chiama il primo. Il primo
chi? Il primo di che cosa? Ma è chiaro:
quello che parte col primo gruppo di
animali! Ecco che cosa ha pensato,
ecco il piano. Invece di aspettare che
venga Esaù, gli si va incontro noi,
capito? Il fratello incazzoso si troverà
davanti il branco numero uno e chiederà
al servo: «Chi sei? E di chi è tutta 'sta
roba?». E tu gli dirai (è Giacobbe che
spiega al primo servo cosa deve dire):
«È del tuo servo Giacobbe, è un regalo
inviato al mio signore, ad Esaù».
Capito, digli così... ora ripeti. Poi
Giacobbe ordina di fare la stessa cosa al
secondo, al terzo e via di seguito.
Insomma,
l'effetto
che
questa
complicata strategia fatta di numeri,
gruppi e animali da branco deve sortire è
quello di spiazzare Esaù, stonarlo di
regali e ammorbidirlo lungo la strada.
Fantastico, no? Del resto, è ben noto
che la gente che vive in Medio Oriente è
da sempre parecchio svitata.
Questa è una vicenda tutta sorprendente
e illuminante, in ogni dettaglio. Esaù
davvero si addolcisce, ma non accetta
nessun regalo. Giacobbe lotta con un
angelo per l'intera notte (forse la sua
coscienza) e ne esce più forte e
consapevole.
Ma ciò che più sorprende e illumina è
che, quando finalmente giunge il
momento del tanto atteso incontro, ogni
momento del tanto atteso incontro, ogni
calcolo, ogni rancore, ogni paura
scompare e i due gemelli, per la prima
volta, si sentono.
E la prosa semplice ed essenziale della
Bibbia vince su tutto.
Poi Giacobbe alzò gli occhi e guardò,
ed ecco Esaù che veniva con
quattrocento uomini. Allora egli passò
davanti a loro e si chinò sette volte a
terra, finché fu vicino al fratello. Esaù
gli corse incontro, l'abbracciò, gli si
gettò al collo, lo baciò e piansero.
Un breve pensiero, a chiudere.
La storia dell'estenuante guerra fra Esaù
e Giacobbe mette seriamente in crisi il
mito dell'amore fraterno, che è spesso
descritto come il più saldo, complice e
disinteressato che esista. Chissà
perché. Nemmeno l'apparente lieto fine,
con la commovente riconciliazione fra i
due, serve a cancellare la sensazione
che «volersi bene come fratelli» sia un
clamoroso malinteso. Gli stessi gemelli
biblici, dopo l'affettuoso chiarimento, si
rasserenano andando ognuno per la
propria strada. Come dire: rappacificati,
ma lontani. Insomma, è tutto da
dimostrare che sia giusto porsi come
modello la tanto esaltata fratellanza.
Forse, sarebbe più onesto dire che
avere dei fratelli è, a volte, soltanto
un'enorme fregatura. Parlo così per pura
invidia: l'ho già detto, sono figlio unico.
VI
Giacobbe e Rachele, un vero
colpo di fulmine
Giacobbe non è un uomo votato
all'avventura.
Se potesse, se ne starebbe tutto il
giorno seduto all'ombra a pensare ai fatti
suoi. L'unica vera passione che
vorrebbe coltivare è quella per la cucina.
Sarebbe l'ideale titolare di uno di quei
ristorantini un po' fuori mano, con pochi
tavoli, una buona carta dei vini e menù
creativo: stufato di bue alla salsa di
ribes, soppressata di cammello all'aceto
balsamico, focaccette di segale con
fonduta di caprino di fossa e ovviamente
minestra di lenticchie con porri, tartufo,
rabarbaro e canditi (è solo per fare un
esempio).
Ma, purtroppo per lui, le vicende familiari
lo costringono a inventarsi viaggiatore.
All'inizio del capitolo 28 della Genesi,
Giacobbe parte per Paddan-Aram.
Il suo non è un viaggio di piacere, ma più
precisamente una fuga.
Proprio così. Il nostro futuro patriarca
scappa di casa perché si rende conto
che il fratello Esaù, esausto di discutere
con lui sulla questione
della
primogenitura, ha in mente una soluzione
radicale al problema: ucciderlo.
Quello che Giacobbe non può certo
sapere è che, proprio grazie a quella
poco onorevole ritirata, farà presto l'
incontro più sconvolgente della sua vita.
Ma andiamo con ordine.
Giacobbe intanto, partito da Bersabea,
si diresse verso Caran. E giunse in
quel luogo dove passò la notte, perché
il sole era già tramontato.
Dunque, Giacobbe è in viaggio verso
Caran, giunge al tramonto in una località
imprecisata e decide di fermarsi a
dormire.
Ma evidentemente tutti gli alberghi sono
pieni e non trova posto da nessuna
parte, neanche una singola in una
pensione.
Solo chi viaggia molto per lavoro sa che
è buona regola prenotare.
(Noi attori, quando siamo in tournée, lo
facciamo sempre.)
Forse a Caran c'è una qualche fiera e le
aziende hanno occupato le camere per i
loro dirigenti e rappresentanti con molti
mesi di anticipo.
(Noi attori, quando siamo in tournée, non
facciamo che trovare una qualche fiera e
aziende che hanno occupato le camere
con mesi di anticipo.)
Che fare? Chiunque, al suo posto,
andrebbe a cercare una sistemazione
altrove.
Alla peggio uno pensa: dormo in auto,
mica posso bivaccare per strada.
Ma Giacobbe non è tipo da farsi troppi
problemi.
Prese una delle pietre del posto, se la
pose come capezzale e in quello
stesso luogo si coricò.
Proprio così: lui decide di bivaccare (in
effetti però gli manca l'opzione auto).
Sceglie una pietra – liscia e angolata,
immagino – decide di considerarla come
un cuscino e si sdraia per terra,
poggiandovi sopra la testa.
Dopo pochi istanti si addormenta, di
sasso naturalmente.
Mi piace immaginarlo così, frugale e
adattabile, accovacciato per strada,
sereno nel suo anticonformismo, come
si trattasse di un vecchio hippy o di un
giovane no-global (e non ha nemmeno il
sacco a pelo).
Dorme così profondamente che
fece un sogno: ed ecco una scala era
poggiata sulla terra e la sua cima
arrivava fino al cielo. Ed ecco gli angeli
di Dio salivano e scendevano per essa.
Ed ecco, il Signore stava sopra di
essa...
essa...
Un sogno straordinario, irripetibile. Di
quelli che non si dimenticano di certo al
risveglio. Del resto Giacobbe non è mica
un ometto qualunque, è il futuro grande
patriarca dal quale discenderanno le
dodici tribù di Israele. Insomma, non è
da tutti sentirsi dire da Lui In Persona:
«Io sono il Signore ... Io darò a te e alla
tua discendenza la terra sopra la quale
tu ora sei coricato. La tua discendenza
sarà come la polvere della terra ... Ed
ecco, io sono con te e ti custodirò
dovunque tu andrai, ti ricondurrò in
questo paese e non ti abbandonerò...»
(A noi attori, quando siamo in tournée,
capita tutt'altro. Dopo aver mangiato a
notte fonda una pizza malcotta e
indigesta nell'unica pizzeria rimasta
aperta, andiamo a dormire in certi
alberghetti tremendi massimo due stelle
e ci corichiamo in letti composti da un
cuscino minuscolo e moscio e da un
materasso – quello sì – duro come una
pietra. In quei casi, non facciamo quasi
mai sogni, ma veri e propri incubi. Il più
ricorrente è quello nel quale ci troviamo
su uno sconosciuto palcoscenico a
recitare una misteriosa commedia,
senza ricordare una sola parola del
copione. E improvvisamente, in piedi
sulla scala del loggione, ci compare una
figura minacciosa che ci dice: «Io sono il
signore che ha fatto l'abbonamento a
teatro... Il tuo spettacolo fa schifo... Ed
ecco io sono con te e ti inseguirò
dovunque tu andrai, ti ricondurrò in
questo teatro e non ti abbandonerò
finché non mi avrai reso i soldi del
biglietto...».)
Al suo risveglio, Giacobbe pronuncia una
delle frasi più belle dell'intero libro della
Genesi:
«Veramente il Signore è in questo
luogo e io non lo sapevo.»
Impossibile davvero immaginare un
modo più limpido, intenso e semplice
allo stesso tempo per esprimere il
gioioso stupore provocato dalla
rivelazione della Fede.
Chissà che sensazione di benessere
pervade Giacobbe quella mattina, chissà
quanta energia, quanto desiderio di
rimettersi in strada e continuare a
viaggiare...
E l'incredulità: Dio è venuto nel mio
sogno e mi ha parlato!
Un tipo di apparizione che nel linguaggio
cinematografico
verrebbe
definita
partecipazione straordinaria. Come ha
fatto Giacobbe a ottenere che il Signore
apparisse nel suo piccolo sogno a
basso costo? Un Attore Immenso come
Lui, che è sempre superimpegnato e ha
un
compenso
assolutamente
impagabile?
Sarebbe come se De Niro accettasse di
comparire nel video della festa di
compleanno della nostra nipotina. Tutti si
chiederebbero: che ci fa Bob in posa,
con una fetta di torta in mano, accanto a
zia Clara e a suo cognato?
Misteri della Fede.
(Tento di dare una risposta seria. La mia
risposta, ovviamente.
Dio può essere la fonte della nostra
interna forza spirituale. In questo senso,
si può dire che Egli è già dentro di noi.
Siamo noi a custodirne e proteggerne
l'esistenza.
Giacobbe si sveglia e scopre di avere
sognato Dio. Allora capisce che può
rimettersi in cammino senza più alcuna
paura. Sa bene che non sarà immune dai
mille rischi che la vita comporta, ma si
affida con fiducia alla Sua guida, ovvero
alla propria forza interiore. Io interpreto
così il senso di quella presenza proprio
nel suo sogno.)
Bene. Ma ora Giacobbe deve rimettersi
in viaggio. Arrivato a destinazione, dovrà
trovare lo zio Labano. Naturalmente, a
Caran non ci sono i nomi delle strade e i
numeri civici. Quella è gente nomade,
sono quasi tutti dediti alla pastorizia e, se
anche avessero un indirizzo, lo
cambierebbero di continuo.
L'esperienza insegna che è meglio
aspettare, molto meglio che mettersi a
cercare.
Tanto la vita per loro dura in media
centosettanta anni, il tempo c'è.
Giacobbe dunque giunge nei pressi di
Caran. Aggirandosi per le campagne,
assiste a una scena sconcertante, che lo
lascia assai perplesso.
E[Giacobbe] guardò, ed ecco nella
campagna un pozzo, ed ecco, là vicino
ad esso stavano sdraiati tre greggi di
ad esso stavano sdraiati tre greggi di
pecore, poiché a quel pozzo si
abbeveravano i greggi, ma sulla bocca
del pozzo c'era una grande pietra. E
quando tutti i greggi si erano radunati
là, rotolavano la pietra dalla bocca del
pozzo, abbeveravano i greggi e quindi
rimettevano la pietra al suo posto, sulla
bocca del pozzo.
Diciamolo con franchezza. A noi che
siamo poco pratici di pastorizia, la scena
appena descritta non provoca alcuna
emozione. E ci chiediamo come mai
Giacobbe, invece, ne sia tanto colpito.
Semplice:
perché
per
lui
il
comportamento dei pastori non ha
senso. In primo luogo, non si è mai visto
permettere a delle greggi di starsene
sdraiate in pieno giorno. Per pecore e
capre quello è orario di lavoro. E la
pausa-pranzo non è affatto prevista
(anzi, per animali che brucano di
mestiere, mangiare è proprio l'attività
professionale). Quanto poi alla stupida
pietra appoggiata sulla bocca del pozzo,
perché attendere che tutti siano presenti
per spostarla e far abbeverare le bestie?
Si tratta di un'ingiustificabile perdita di
tempo. Ma come cavolo lavorano da
queste parti? Se questi sono pastori
stipendiati dallo zio – pensa Giacobbe –
occorrerà che ci pensi io a rimetterli in
riga. Sembra l'atteggiamento che
assume un milanese medio, in vacanza
in Sardegna, quando gli capita di
osservare le astruse abitudini dei pastori.
Ma, naturalmente, il nostro patriarca non
svela subito le proprie intenzioni e anzi si
svela subito le proprie intenzioni e anzi si
avvicina al gruppo con aria amichevole.
Giacobbe disse loro: «Fratelli miei, di
dove siete?».
Se posso dire, eccede persino in
confidenza. I pastori non sono tipi molto
affettuosi ed espansivi, si sa.
Risposero: «Siamo di Caran».
Risposta ridotta all'osso. Come volevasi
dimostrare.
Ma Giacobbe insiste.
Disse loro: «Conoscete Labano figlio di
Nacor?».
Risposero: «Lo conosciamo».
Niente da fare, i pastori non si lasciano
andare. È tipico delle persone poco
comunicative. L'effetto della risposta è
comico. Sarebbe come se chiedessimo
a qualcuno per strada: «Scusi, sa dove
posso trovare una farmacia?» e ci
sentissimo replicare: «Certo che lo so».
Non ne caveremmo informazioni utili alla
cura della nostra salute, ma forse ci
verrebbe da ridere.
Giacobbe non si perde d'animo e
continua il faticoso dialogo.
E disse: «Sta bene?».
Risposero: «Sta bene...».
E qui c'è davvero il rischio che si faccia
notte, perché i pastori sembrano decisi a
proseguire nella tattica irritante di
ripetere in tono affermativo le frasi che
vengono loro rivolte con tono
interrogativo. Ma non è così.
Bisogna leggere la risposta per intero.
«Sta bene, ed ecco Rachele, sua figlia,
che viene col gregge.»
Quello che sorprende, in questo
frangente, non è tanto che i pastori
segnalino a Giacobbe l'arrivo di Rachele,
quanto il fatto che egli ostentatamente la
ignori. È fin troppo chiaro che il suo
desiderio primario è cazziare quella
massa di sfaccendati.
E infatti.
Allora egli disse: «Ecco, il giorno è
ancora alto, non è tempo di radunare il
bestiame: abbeverate il bestiame e
tornate a pascolare».
Non può non impressionare il suo piglio
severo e autoritario. Chiunque di noi si
permettesse di aggredire verbalmente
dei caprettari, impartendo ordini così
perentori, rischierebbe grosso (a voler
essere
pessimisti,
persino
l'incaprettamento).
Ma evidentemente Giacobbe sa quello
che fa.
Tanto è vero che i pastori capiscono di
doversi giustificare con lui.
Ma essi risposero: «Non possiamo,
finché non si siano radunati tutti i
greggi e si rotoli la pietra dalla bocca
del pozzo; solo allora potremo
abbeverare il gregge».
Avete capito com'è la faccenda? No?
Be', siete giustificati. Io ci sono arrivato
dopo averci ragionato su parecchio. Ma
è semplice, in realtà. La pietra che copre
il pozzo è talmente pesante che può
essere spostata soltanto grazie allo
sforzo congiunto di tutti. Fine del
mistero. C'è dunque un patto fra i
pastori, stipulato sulla reciproca sfiducia,
che intende impedire abusi nell'utilizzo
dell'acqua. L'enorme macigno, che
nessuno è in grado di rimuovere da solo,
ne è la rudimentale e in qualche modo
geniale garanzia.
Forse vi stupirete nello scoprirmi così
addentrato su questioni di diritto
pastorizio. Invece, io me ne frego dei
pastori e delle loro stupide greggi,
davvero. Quello che mi interessa qui è
unicamente il dettaglio che riguarda la
pesantissima pietra. Ma ci torneremo
sopra più avanti, perché ora è
necessario registrare un repentino
cambio di marcia nella narrazione.
Che succede?
Succede che Giacobbe all'improvviso si
disinteressa dei pastori e sente
qualcosa.
Si volta e vede Rachele!
Io adoro questo passaggio. Invidio –
benevolmente, s'intende – quest'uomo
così fortunato che, inconsapevole, si
appresta all'incontro folgorante e fatale.
Mi identifico, mi incarno, godo e soffro
con lui. So di che si tratta, è capitato
anche a me. È l'amore a prima vista,
squassante, travolgente, irripetibile.
Nel cuore del Libro più alto e spirituale,
ecco un lampo di vita vera, descritto con
poche scarne, asciutte parole, eppure –
a saper leggere fra le righe – così denso
di umana passione.
Leggiamo, con calma.
Giacobbe stava ancora parlando con
loro, quando venne Rachele con il
gregge di suo padre, perché anche lei
pasceva il gregge.
Notate la prosa sintetica. L'entrata in
scena di Rachele, che sarà una delle
donne più importanti di tutta la Bibbia, è
resa
semplicemente
con venne
Rachele. Ai grandi protagonisti non
servono né squilli di trombe né roboanti
presentazioni, né fiumi di inutili parole. In
qualche modo stupisce, piuttosto, che si
dia così tanta importanza alla presenza
d e l gregge di suo padre, tanto da
aggiungere: perché anche lei pasceva
il gregge. È una precisazione tipica dello
stile biblico, ma a me sembra superflua.
Scusate: non sembra logico anche a voi
che se Rachele arriva in compagnia del
gregge di suo padre è certamente perch
é lo sta facendo pascolare? Per quale
altro motivo la ragazza dovrebbe portare
in giro quelle pecore? Per venderle ad
altri pastori? Per fingersi pubblicamente
dedita alla pastorizia e coprire un'attività
illecita?
Ma nel Libro nulla è detto per caso. Nella
f r as e perché anche lei pasceva il
gregge la parola chiave è anche.
Significa che Rachele non era soltanto
giovane e bella, ma anche una ragazza
seria, una con la testa sulle spalle, gran
lavoratrice, che dava una mano sia in
casa che nell'azienda di famiglia.
Tutte informazioni utili a inquadrarla, per
noi, ma non certo per Giacobbe, già
folgorato d'amore e totalmente inebetito.
E appena Giacobbe ebbe veduto
Rachele, figlia di Labano, fratello di
sua madre...
Altro classico esempio dello stile
narrativo biblico: nel pieno della tensione
del racconto, mentre stai chiedendoti
che mai succederà, giunge un'altra
precisazione, di tipo anagrafico stavolta,
che inevitabilmente ti distrae...
Rachele, figlia di Labano, fratello di
sua madre...
D'accordo. Trattandosi di un libro
lunghissimo, con migliaia di personaggi,
non è del tutto fuori luogo fornire utili
informazioni per collocarli all'interno della
storia. C'è tanta gente – io per primo –
che durante la lettura (e peggio ancora,
al cinema) fa una gran fatica a ricordare
l'identità dei personaggi (i nomi poi, non
ne parliamo). Rachele? Rachele chi? Ah,
è la figlia di... Come la figlia? Ma non
era... E quindi lui sarebbe il fratello
della... Allora è lo zio...
Insomma, la Bibbia, con lungimiranza,
anticipa i dubbi di tutti coloro che,
continuando a porre fastidiose domande
ad
alta
voce,
disturbano
la
concentrazione.
Riprendiamo dallo stesso punto.
E appena Giacobbe ebbe veduto
Rachele, figlia di Labano, fratello di
sua madre, con il gregge di Labano,
fratello di sua madre...
fratello di sua madre...
A me però sembra che si stia
esagerando qui. Perché, se è vero che
ci sono molte persone – io per primo –
che fanno una certa confusione con le
parentele, è anche vero che la troppa
insistenza nelle precisazioni fa
precipitare verticalmente il pathos della
narrazione. Senza contare che si
insinua il sospetto che il narratore ci
abbia preso per un branco di idioti.
Abbiamo capito e stracapito che
Labano è il fratello di sua madre, è lo
zio, lo zio, capito, capito, sì.
A meno che...
A meno che – precisando fino alla
nausea che il Labano di cui si parla è
sempre lo stesso, cioè il fratello di sua
madre – non si voglia fugare il dubbio
che Rachele porti a pascolare il gregge
di un altro Labano, un omonimo del
padre che ha un gregge pure lui. Ma
chi potrebbe mai aver avuto un dubbio
simile? E perché la ragazza dovrebbe
fare un dispetto del genere al proprio
padre? Non avevamo detto che è una
figliuola tanto perbene? No, non sta in
piedi.
(Io credo che se fosse stata scritta ai
nostri giorni, la Bibbia annoterebbe per
sicurezza anche i codici fiscali: RCL,
figlia di LBN, fratello di RBC.)
E dunque: appena Giacobbe ebbe
veduto Rachele
Giacobbe si appressò...
Io me lo vedo, come le si avvicina,
ipnotizzato da quella visione.
E sono sicuro: la ama!
Di già? Sì, di già!
Non
sapete
come
succede?
Esattamente così, ti avvicini alla tua lei
con un unico pressante imperativo: non
devo perderla di vista, mai più!
Eccolo Giacobbe, è in una nuvola, non
sente i rumori, le voci, più niente.
È incurante di tutto quello che ha
intorno, non si accorge dei pastori, che
probabilmente stanno cercando di
richiamarlo a una imbarazzante realtà,
ossia al fatto che quella è Rachele,
figlia di Labano, fratello di sua madre!
A forza di ripeterlo, ormai lo sanno tutti.
E glielo urlano in coro: «È Rachele,
figlia di Labano, fratello di tua
madre!!!».
Hai capito, Giacobbe? L'abbiamo
capito anche noi, Rachele è tua
cugina, capito?
Ma egli non se ne cura, non sente, è
partito, fulminato!
E anche avesse sentito, che gliene
importa? È una cugina? E che sarà
mai?
(A quanti di noi è successo di
innamorarsi di una cugina e pensare: e
che sarà mai?) "Probabilmente" pensa
Giacobbe "è una cugina alla lontana, di
terzo o quarto grado..." Ma no! Allora
sei tosto: è Rachele, figlia di Labano,
fratello di...
"Di mia madre, ho capito, ho capito"
pensa Giacobbe "ma è bella, è bella!"
Sconvolto. Vi ho detto che so come
vanno queste cose.
E allora che fa?
...rotolò la pietra dalla bocca del
pozzo...
Come? Cosa? Di che pietra stiamo
parlando? Mica quella che i pastori
spostavano soltanto quando erano tutti
insieme? Eh? Proprio quella? Ma sono
trecento chili di pietra! Non ci credo,
non ci credo...
E invece io ci credo. Sono sicuro che
sia andata esattamente così!
Giacobbe vede la ragazza, ha una
scarica di adrenalina, prende la pietra
e la sposta! I pastori intorno, allibiti! Ma
chi è? L'incredibile Hulk? E qualcuno:
«Sì, è Hulk, figlio di Helk, fratello di sua
madre...».
Incredibile. La sposta da solo. Anzi,
non è scritto che la sposta, ma che la
fa rotolare, fa del virtuosismo, capite?
Probabilmente la lancia anche per aria,
la stoppa, di petto, di tacco, palleggia...
...poi Giacobbe baciò Rachele...
Non si erano nemmeno presentati,
semplicemente la vede, fa il brillante,
l'equilibrista e, spudorato, la bacia!
Impensabile, a quei tempi. Ma anche
oggi sarebbe un comportamento
considerato perlomeno stravagante...
Dopodiché:
...alzò la voce...
Si mette a urlare. È impazzito, sta
perdendo totalmente il controllo.
Immaginatelo,
urla:
«Aaaaahhhhh!!!!!!!!».
Per finire:
...e pianse.
Crollo nervoso. Scoppia in singhiozzi.
La tensione, la vergogna, la gioia, un
miscuglio, un subbuglio... Piangi,
piangi, sfogati amico, io ti capisco e lei,
vedrai, apprezzerà...
Sì, è vero, Rachele apprezzerà.
E dunque, eccolo, il grande, l'ottimo,
l'eccellente, il Giacobbe elevato a
simbolo nei secoli a venire, il
campione della spiritualità e della
devozione al Signore, il patriarca
mitico; eccolo, eccolo qui di fronte a
noi, giovane gradasso che si bulla (a
rischio d'ernia) con la cuginetta, che
sposta macigni, che salta, balla e fa il
brillante, che bacia a sproposito, che
esagera, travalica i confini e poi si
pente, che fa il buffone, il pirla, che
urla, ride, strepita e poi alla fine piange,
versa lacrime vere, ormai totalmente
incapace di controllarsi.
Ma il racconto biblico va avanti e ci
dimostrerà come può avvenire un
miracolo: il colpo di fulmine che si
trasforma, pian piano, in un amore
profondo.
Giacobbe ha visto Rachele e non ha
più alcun dubbio: vuole restare. Lo zio
(è proprio lui, sì, il famoso Labano,
fratello di sua madre!) lo accoglie con
insincero ed esagerato calore. Gli dice:
«Tu sei proprio delle mie ossa e della
mia carne». Che brutta frase, vorrebbe
sembrare un'espressione affettuosa e
invece suona come un insulto. È un
viscido, un bugiardo e un calcolatore, il
Labano. Ma Giacobbe è troppo
dolcemente istupidito dall'amore per
rendersene conto. Vive in uno stato di
grazia e tutto gli appare più bello di
quello che è: si trova a Caran, che è
davvero un postaccio, e gli sembra di
essere a Saint-Tropez. E poi ha voglia
di fare, trova giusto sdebitarsi per
l'ospitalità dando una mano, perciò si
mette a lavorare con lo zio, che lui
vorrebbe già chiamare papà. Dopo un
mese, Labano lo prende da parte e gli
dice: «Perché sei mio fratello, dovrai
servirmi per niente? Indicami quale
deve essere il tuo compenso».
Giacobbe dapprima non capisce e
pensa: perché mi chiama fratello? è
scemo? casomai è lui che è Labano,
fratello di mia madre, mi hanno fatto
una testa così i pastori il mese scorso...
Ma poi si rende conto che lo zio gli sta
offrendo un assist insperato e perciò
risponde: «Ti servirò sette anni per
Rachele, tua figlia minore». E Labano:
«Ma è tua cugina, ciccio!». No,
naturalmente non gli dice così. Al
contrario accetta con entusiasmo.
«Meglio a te che a un altro» gli dice. Io
però francamente non capisco perché
il nostro si sia sbilanciato a questa
maniera. Che bisogno c'era di
impegnarsi per così tanto tempo? Sette
anni sono uno sproposito. Ma dico,
prendi esempio dai grandi: Dio quanto
ha lavorato, sei giorni, mica sei anni,
no? Potevi proporgli un mese, oppure
un contratto a termine, ma breve, al
limite rinnovabile, ma sempre – insisto
– breve! Si può ragionare con un uomo
innamorato? Assolutamente no. Anzi, il
bello (lo dico senza ironia, perché si
tratta proprio di un atteggiamento
immensamente bello) è che Giacobbe
servì per Rachele sette anni, e gli
parvero pochi giorni tanto era l'amore
che le portava. Che uomo meraviglioso
è?
Sarebbe
interessante
raccontare
qualcosa di quei sette anni, gli inverni
al gelo, le estati torride, i progetti, i
sogni, le parole spese, gli incontri, le
esperienze. E tanti altri fatti, piccoli,
medi e grandi, quelli che percorrono,
influenzano e segnano la vita delle
persone lungo un arco così lungo di
tempo. Sarebbe interessante, ma non
si può fare.
Perché nella Bibbia è scritto così:
Poi Giacobbe disse a Labano: «Dammi
mia moglie, perché è passato il
tempo...».
Davvero, come passa il tempo. Il dono
della sintesi, tipicamente biblico,
raggiunge qui il massimo risultato
possibile: sette anni di vita vengono
concentrati in quel poi.
Ho interrotto la frase di Giacobbe, però.
Egli dice esattamente allo zio:
«Dammi mia moglie, perché è passato
il tempo e io voglio entrare da lei.»
È una terminologia un po' spiccia, in
effetti.
Ma
Giacobbe
è
comprensibilmente impaziente, sette
anni sono sette anni, altro che quel poi.
Speriamo si comporti comunque da
gentiluomo. Per la verità, le parole di
Giacobbe fanno riferimento all' usanza
di allora: la sposa, coperta da un velo,
veniva condotta per prima nella tenda
nuziale e attendeva, al buio, che
entrasse da lei il marito.
Ma
attenzione,
ora
avviene
l'imprevedibile e si scopre di che pasta
è fatto Labano.
Non è Rachele a venire introdotta nella
tenda, bensì sua sorella, Lia.
È lo zio che ha organizzato tutto. Che
simpatico burlone, non è vero?
Vi chiederete da dove sbuchi questa
Lia. Nella Bibbia è scritto che, per
l'appunto, Labano aveva due figlie:
Rachele, la minore, era bella di forme e
bella di sembianze, un gran pezzo di
figliola insomma, mentre Lia, la
maggiore, aveva gli occhi smorti.
Come dire che soltanto un demente
avrebbe dubitato su quale preferire.
Ma purtroppo Giacobbe non si accorge
di nulla, non si sa se per colpa del buio
o dei troppi ormoni in circolazione. Per
tutta la notte, dunque, fa l'amore con
Lia credendo si tratti di Rachele.
Probabilmente la chiama anche per
nome, come succede fra amanti
quando si è presi dalla passione...
«Rachele, amore mio, finalmente!
Rachele, Rachele! Oh mia Rachele,
sei tu, tu, proprio tu!» Insomma chiama
Lia Rachele. Niente di strano, capita.
Quella di chiamare una donna con il
nome di un'altra è una cosa che capita,
sì, a molti uomini. Soprattutto a quelli
che viaggiano. Ma anche a quelli che
non viaggiano. È molto spiacevole, sì.
Ma, in questo caso, Giacobbe non ne è
consapevole, è stato imbrogliato,
truffato, preso in giro. E tutto si è svolto
nell'oscurità della notte, chiunque
sarebbe potuto cadere in errore.
Che
storia!
Giacobbe
è
felice,
probabilmente come non lo è mai
stato. Abbraccia la sua donna,
Rachele. La stringe a sé. Lei si fa
piccola piccola, al suo fianco. È così
dolce. E lui, malgrado l'intensa notte
d'amore, non chiude occhio, resta
sveglio perché ha deciso di attendere il
giorno, la prima notte di nozze è unica,
non capiterà ancora, Giacobbe vuole
viverla fino in fondo, consumandola
lentamente, aspettando i primi bagliori
che gli sveleranno il volto della sua
donna amata, colei per la quale diede
di matto nei pressi di quel pozzo anni
fa, quanto sarà? sette anni, già. Cerca
di scorgere i suoi lineamenti, la luce
ancora tenue dell'alba li mette a fuoco
pian piano. Quanto sei bella, Rachele,
il tuo viso sarà sempre... Il tuo viso...
Ma... Ma scusa... Fatti guardare... No...
Non è assolutamente possibile... Ma
sono io che sono impazzito, o cosa?...
Ma al mattino, ecco apparve che essa
era Lia.
Finalmente si è accorto che non è la
sua adorata Rachele.
Ma forse ho descritto la scena con un
eccesso di romanticismo. La prosa
biblica è secca e diretta. Occorre
adeguarsi.
E
dunque
immaginiamo
più
semplicemente
che
Giacobbe
possiede furiosamente Lia, quindi
crolla in un sonno profondo come
fanno tutti gli uomini, si risveglia nella
penombra del primo mattino e scorge
accanto a sé due occhi smorti che lo
fissano. Allora pensa: "Ma dove li ho
già visti questi occhi smorti?".
Aggiungo io, di mio, che Lia
probabilmente non ha affatto gli occhi
smorti in quel momento, perlomeno
non così smorti come suo solito. Al
contrario, io mi immagino occhi
percorsi da una luce vivace e
compiaciuta. Sostituire la sorella è
stato meno terribile del previsto, in
fondo.
(Ho letto un midrash rabbinico assai
singolare su questo doloroso scambio
di persona. Rachele ha inventato un
linguaggio di segni per farsi
riconoscere dal suo promesso sposo
anche al buio. Evidentemente,
conosce troppo bene la malvagità di
suo padre e teme che egli possa, al
momento delle nozze, costringerla allo
scambio con la sorella. Giacobbe
impara quel codice segreto, anche se
non capisce a che cosa possa mai
servirgli. Ma quando Lia, obbligata da
Labano, entra nella tenda al posto suo,
Rachele non regge al pensiero che ne
esca umiliata e perciò le insegna i
gesti che dovrà fare a Giacobbe per
non insospettirlo. Con questa prova di
solidarietà fra loro, le due sorelle ci
fanno una gran bella figura. Tanto, a
fare quella brutta ci pensa sempre lui.)
Giacobbe, giustamente rabbioso, si
precipita dallo zio.
«Cosa mi hai fatto? Non è forse per
Rachele che io ti ho servito? Perché mi
hai ingannato?»
Parole persino troppo contenute. Con
Labano bisognerebbe andar giù molto
più pesante. Ma Giacobbe sembra
frenato. Credo di sapere il perché.
Il nostro patriarca ha la coscienza
sporca, non può prendersela più di
tanto.
Che vuole fare, maestro? L'offeso,
l'indignato per lo scambio di persona?
Proprio lei? Proprio lei che ha avuto la
faccia tosta di travestirsi da orso per
estorcere al suo vecchio padre malato
e cieco la benedizione al posto del suo
peloso fratello Esaù?
È il contrappasso, chi di truffa ferisce...
L'aspetto forse più curioso della
faccenda è che la punizione giunga a
Giacobbe da un componente della
famiglia di sua madre Rebecca, la
complice del raggiro ai danni di Isacco.
Proprio da lui, il solito, ben noto,
ossessionante (tutti in coro): Labano,
fratello di sua madre! Famiglia di
imbroglioni, è più forte di loro.
E che risponde lo zio?
«Non si usa così dalle nostre parti, che
si dia la minore prima della
maggiore...»
Ma non potevi dirglielo prima? Che
soggetto irritante.
Sì, d'accordo, ma ora come si fa?
Labano, a questo punto, gli confeziona
un magistrale pacco-dono, un
capolavoro di fregatura che lo inchioda.
Con l'aria di chi abbia avuto l'idea lì per
lì, sul momento gli dice:
«Senti, caro Giacobbe, facciamo in
questo modo, ti daremo anche quella
(quella è Rachele) per il servizio che
mi presterai per altri sette anni.»
Porca miseria, se non è bastardo
questo, ditemi voi chi lo è.
Comunque, andò proprio così.
Giacobbe lavorò quattordici anni
consecutivi per avere la donna della
quale si era innamorato al primo
sguardo. E che gli resterà accanto per
tutta la vita.
Mi fermo qui. Ma su Giacobbe c'è da
leggere e raccontare ancora tanto.
Fa parte di un trio, con Abramo e
Isacco: i grandi padri nostri.
Ma il mio preferito è lui. Non è il
patriarca consegnato all'iconografia,
superiore e distante. È un uomo che
per amore soffre, si macchia, si umilia.
Sì, per amore.
Che tipo di amore? Quello incerto,
volatile, illusorio e folgorante.
L'amore che, al contrario di ciò che si
pensa, non finisce mai.
Se avrò un figlio maschio, magari lo
chiamo Jacob.
VII
Nessuno è profeta in patria,
figurarsi fuori
L'avventura di Giona è ben presente
nell'immaginario collettivo per il suo
aspetto più fantastico, la lunga
permanenza nella pancia di una balena.
Ma non tutti conoscono a fondo l'intera
vicenda
di
questo
profeta
tremendamente cocciuto, che ha il
coraggio di misurarsi in un conflitto
aperto con Dio.
Giona ha un rapporto speciale con il
Signore, è un Suo dipendente diretto, in
continuo contatto con la Sua superiore
volontà.
Tutti i profeti, del resto, sono nella
medesima condizione, ma soltanto
alcuni fra loro speculano sul privilegio di
avere una linea esclusiva d'ascolto della
parola di Dio. Il famoso Isaia o
l'altrettanto famoso Ezechiele, ad
esempio, fanno spesso pesare quella
loro «relazione» influente, insomma se la
tirano parecchio, come si direbbe oggi.
Salvo poi farsi piccoli piccoli quando il
Titolare li chiama a rapporto.
Giona invece è di tutt'altra razza. È un
uomo abituato a pensare e a discutere.
Ha uno spirito indipendente e caustico,
perciò non è servile e non cerca
consensi.
Il Signore lo tiene in grande
considerazione, proprio per questo.
La storia comincia quando Dio compare
a Giona e gli dice:
«Su, va' a Ninive, la grande città, e
grida contro di essa, perché la loro
malvagità è salita sino a me.»
L'ordine è perentorio.
Poche parole che fanno capire quanto
sia scomodo e ingrato il mestiere di
profeta.
Giona deve immediatamente partire per
una metropoli lontana, ben nota per
essere abitata da persone poco
raccomandabili.
E
non
appena
sistematosi
là,
dovrà
insultare
pesantemente i suoi ospiti, facendo loro
capire che stanno marcando malissimo
e che il Signore ha in mente soluzioni
assai drastiche, tipo radere al suolo il
centro storico o sommergere con
un'alluvione tutte le periferie (me le sono
inventate, ma sono credibili).
Il compito è molto delicato e molto
rognoso: in sostanza, si tratta di dire
cose assai sgradevoli a gente che,
presumibilmente, non ha alcuna
intenzione di ascoltarle.
Ed è una missione ad alto rischio,
perché nessuno garantisce a Giona che
gli abitanti di Ninive non lo accoglieranno
a colpi di fiocina, o peggio, non lo
appenderanno per le ascelle a un
portale, o peggio ancora, non
affetteranno il suo corpo con una roncola
(mi sono inventato anche queste, ma
sono altrettanto credibili).
Giona non ha alcuna paura, né dei
niniviti, né delle loro usanze barbare.
Eppure decide di non obbedire a Dio.
Il perché lo capiremo più avanti.
Per il momento dobbiamo prendere atto
di una cosa soltanto: Giona fugge.
Leggiamo.
Ma Giona s'alzò per fuggire a Tarsis,
lungi dal cospetto del Signore.
Proprio così. Giona si sottrae al suo
incarico.
Ascoltate le parole del Signore senza
alcun commento, scende al porto, trova
una nave che sta salpando per Tarsis,
paga all' equipaggio il prezzo (una sorta
di passaggio-ponte) e si imbarca,
proprio per fuggire lontano dal cospetto
del Signore.
Qualcuno sostiene che per Tarsis si
debba intendere un porto sulla costa
della Spagna meridionale. Altri ipotizzano
invece che si tratti di una località della
Sardegna. Personalmente propendo per
la Sardegna, perché è ben noto che se
uno vuole scomparire, non c'è luogo
migliore. Se ti nascondi in certe zone
dell'entroterra nuorese, davvero non ti
trova neanche Dio.
Sta di fatto che il comportamento di
Giona appare piuttosto bizzarro, per non
dire ingenuo. Non si capisce come egli
possa illudersi, non essendo peraltro
uno sprovveduto, di sfuggire allo
sguardo
infinitamente
vigile
del
Padreterno.
E infatti il Signore non soltanto si
accorge della sua fuga, ma se la prende
parecchio. Per Lui, è un atto di palese
insubordinazione. Per noi, è un
atteggiamento a dir poco spiazzante.
Giona è talmente sfacciato da non
attendere nemmeno che la nave lasci il
porto. Si sistema nella stiva, si sdraia
comodamente e si addormenta
tranquillo, come se niente fosse,
incurante della reazione del suo
Principale.
Reazione che, naturalmente, non tarda a
manifestarsi.
Devastante e furiosa, come è nel
carattere di Dio.
Ma il Signore scatenò un gran vento
sul mare e vi fu una sì grande burrasca
in mare che il vascello minacciava di
sfasciarsi.
Strano perché le previsioni erano ottime
e l'ultimo bollettino ai naviganti non aveva
segnalato alcuna perturbazione in arrivo.
È la prova che, fin dai tempi più antichi, i
notiziari non ci azzeccano mai.
Ne ebbero paura i marinai e gridarono,
ciascuno al suo dio, e gettarono in
mare le mercanzie ch'erano sul
vascello per alleggerirlo.
I marinai vengono colti totalmente alla
sprovvista e cercano di fronteggiare la
situazione come possono. Ma il mare si
ingrossa sempre più e tutti sono ben
presto preda dello sconforto e del
panico.
È evidentemente un equipaggio
internazionale, perché ogni componente
del personale di bordo prega il suo dio.
(Immagino come se la rida il nostro Dio,
che non solo si ritiene l'Unico esistente,
ma è anche l'unico responsabile di quel
vero marasma.)
E Giona, in tutto questo?
Non fa una piega.
Giona invece era sceso in fondo al
vascello, anzi s'era coricato e dormiva
profondamente.
Pur nella grande confusione e
concitazione
del
momento,
al
comandante della nave non sfugge
l'assurdità del comportamento di quello
sconosciuto passeggero, che dorme
come un angioletto e se ne frega della
burrasca.
Lo sveglia perciò bruscamente e gli
dice:
«Complimenti amico! Che razza di
prodotto prendi contro il mal di mare?»
No, naturalmente non dice così. Gli dice
invece:
«Che hai tu, dunque, che dormi? Su,
grida al tuo Dio, forse Dio si darà
pensiero di noi, e non periremo.»
È abbastanza assurdo anche il
comportamento del comandante, però.
Con il sovrapporsi di preghiere di quel
momento, non si capisce per quale
motivo egli si convinca che proprio il Dio
di quel tizio debba essere quello giusto
al quale rivolgersi.
Ma naturalmente è l'intuizione vincente.
Del resto, quando uno è mago,
veggente e indovino, mica può
pretendere di passare inosservato.
Evidentemente, persino nel modo di
russare, Giona aveva un che di profetico.
Tutti si precipitano nella stiva, lasciando
la barca in balia delle onde.
Poi si dissero l'un l'altro: «Orsù,
gettiamo le sorti e sapremo per colpa
di chi ci capita questa disgrazia».
Noi tutti sappiamo bene che cosa
s ig nif ic a tirare a sorte: scegliere
qualcuno affidandosi al caso, per mezzo
di un'estrazione, di una conta o cose del
genere.
Invece, la pratica di gettare le sorti è
piuttosto oscura ed è usata raramente
nella Bibbia. Non è nemmeno molto
chiaro in cosa consista. Peraltro, quello
che colpisce qui è che venga utilizzata
per stabilire chi è il colpevole. Bella
forma di giustizia, non c'è che dire.
forma di giustizia, non c'è che dire.
Insomma, va proprio così:
Gettarono le sorti e la sorte cadde su
Giona.
Ma guarda un po' che combinazione!
Io ci vedo netto lo zampino del Signore
in tutto questo, non può essere
altrimenti.
Ma come sono andate le cose? Provo a
immaginarmelo.
Forse hanno scrollato violentemente il
profeta, lo hanno svegliato a suon di
schiaffi, gli hanno aperto le cinque dita
della mano e chiesto a bruciapelo: «Pari
o dispari?».
Oppure gli hanno chiuso il palmo della
mano a pugno, infilato dentro la
pagliuzza più corta e poi tutti a gridare:
«È lui! È lui!».
Il povero Giona, ancora intontito dal
sonno, si ritrova così in mezzo alla vera
tempesta, ovvero circondato da decine
di persone imbufalite e urlanti che lo
tempestano di domande.
E gli dissero: «Facci dunque
conoscere tu, per cui questa sciagura
ci è capitata, le tue faccende. Di dove
vieni? Qual è il tuo paese? A quale
popolo appartieni?».
Il nostro profeta non è lucido a
sufficienza per inventarsi una bugia. O
forse, è troppo onesto per mentire.
«Io sono ebreo e temo il Signore, il Dio
dei cieli, colui che ha fatto il mare e la
terraferma.»
È la notizia peggiore che potesse dare a
quegli uomini già tanto allarmati.
Andiamo bene! Ci mancava un ebreo!
Ma mica perché siano razzisti e
antisemiti. Figurarsi se a gente del
genere, marinai abituati a girare il mondo
e a vederne di tutti i colori, importa di che
religione uno sia.
Il problema è che tutti sanno quanto è
incazzoso il Dio degli ebrei, quando a
qualcuno dei Suoi salta in mente di farGli
venire i cinque minuti (ma bastano anche
i cinque secondi).
E Giona conferma loro
che,
effettivamente, al momento ha qualche
problemino con il suo Signore Iddio.
Quegli uomini furono presi da grande
spavento e gli dissero: «Perché mai
hai agito così?».
Già, è quello che continuiamo a
chiederci anche noi: perché mai abbia
agito così.
Giona non risponde e non spiega.
Si scioglie dall'assedio dei marinai e
sguscia veloce in coperta.
Me lo vedo: ora è là sul ponte, a prua,
tranquillo, fermo sulle sue gambe e
osserva, soddisfatto e con aria quasi di
sfida, i flutti che fanno ondeggiare
paurosamente il vascello. Sembra voglia
dire: "Bravo, stai facendo un ottimo
lavoro, mi piace quando mostri i Tuoi
Attributi, Signore!".
Poi tranquillizza tutti, mostrandosi
estremamente pragmatico.
Okay, è in corso una burrasca, ma non è
il caso di farne una tragedia, tanto la
colpa è soltanto mia, quindi ecco la
soluzione, semplicissima:
«Prendetemi e gettatemi in mare, e si
placherà il mare attorno a voi.»
Si può chiedere qualsiasi cosa a un
marinaio, ma non di gettare in mare un
uomo vivo, è contro la sua etica.
Purtroppo, però, gli ulteriori sforzi
dell'intero equipaggio per guadagnare
terra remando risultano vani,
perché il mare andava crescendo e
ingrossando sempre più contro di loro.
Si dibattono, urlano, pregano, ma non c'è
niente da fare.
E dunque, sebbene a malincuore,
sollevarono Giona, lo gettarono in
mare, e il mare s'acquetò dal suo
furore.
Visto? Bastava così poco. Peccato per il
carico perso, peccato per qualche
attacco di cuore non previsto, ma la
navigazione adesso potrà riprendere
regolarmente.
Ora, esistono due diverse possibili
interpretazioni di questo evento.
La prima, più ottimistica, è suggerita in
qualche modo dal testo biblico.
Gli uomini furon presi da gran spavento
verso il Signore. Offrirono un sacrificio
al Signore e fecero dei voti.
In sostanza, tutti i marinai si convertono
all'istante, impressionati dalla potenza di
Dio. È la dimostrazione evidente che i
migliori risultati si ottengono sempre con
le maniere forti.
La seconda è un'interpretazione libera e
nasce dalla constatazione evidente che,
buttando a mare l'ebreo Giona, i marinai
si sono cavati immediatamente dai guai.
In altre parole, anche se non fossero mai
stati razzisti e antisemiti, è certo che da
quel momento lo sono diventati.
È ben noto, del resto, che i marinai di
tutto il mondo conoscono la storia del
profeta Giona. E che, dunque, non
perdono occasione per incolpare gli
ebrei di qualunque disgrazia capiti per
mare.
Proprio così. Altrimenti non si
spiegherebbe
questa
storiella
raccontatami anni fa da uno skipper
ebreo che incontrai sull'isola greca di
Santorini.
C'è un signore ebreo, che si chiama
Rosenberg, che decide di partire in
crociera con la moglie per festeggiare i
venticinque anni di matrimonio. Tutto fila
liscio fino a quando, una notte, c'è mare
grosso e la navigazione si fa molto
angosciante e pericolosa. Tutti a bordo
temono il peggio, ma per fortuna la nave
tiene. Al mattino successivo, i
passeggeri,
provati
ma
felici,
commentano fra loro l'accaduto, mentre
fanno colazione nel grande salone sul
ponte principale. Improvvisamente, fa
irruzione il comandante della nave e con
aria minacciosa chiede ad alta voce:
«C'è qualche ebreo qui?». Il signor
Rosenberg e sua moglie hanno un
sussulto. «Ho chiesto se c'è qualche
ebreo qui!» urla nuovamente il
comandante. A questo punto, il nostro
Rosenberg si fa avanti e per nulla
intimorito dice: «Certo! Eccomi qua! Mi
chiamo Rosenberg e questa è la mia
signora! C'è qualche problema?». «Lo
immaginavo!» fa il comandante. Poi,
senza alcuna esitazione, lo colpisce con
un pugno violentissimo, facendolo
precipitare lungo disteso sul pavimento.
«Questo è per la burrasca di stanotte!»
Tutti i presenti restano senza parole,
impietriti. Il signor Rosenberg non fa
nemmeno in tempo a risollevarsi
completamente da terra che un secondo
pugno, ancor più forte del precedente, lo
stende nuovamente al tappeto. «E
stende nuovamente al tappeto. «E
questo è per l'affondamento del
Titanic!» gli strilla il comandante.
«Veramente quello è stato per colpa di
un iceberg» sussurra appena il
poveraccio, ancora dolorante e intontito.
«Sì, sì, appunto!» fa il comandante.
«Iceberg, Rosenberg, sempre ebrei
siete, no?»
(Naturalmente, non è affatto vero che i
marinai sono tutti antisemiti. È vero
invece che esistono molti pregiudizi sugli
ebrei, in tutti gli ambienti. Ci si può pure
scherzare sopra, ma ciò non toglie che
esistano. Sono quasi sempre frutto di
ignoranza, nel senso di scarsa
conoscenza o di informazione sbagliata.
I pregiudizi negativi – controllano il
mondo, sono avidi, sono colpevoli di
tutto – ma anche quelli paradossalmente
positivi – sono troppo intelligenti, hanno
una marcia in più – pesano sulla
coscienza dell'umanità e sono stati
all'origine di tanti dolori personali e
collettivi.
Gli ebrei sono molto orgogliosi delle
proprie antiche tradizioni religiose e
hanno dovuto quasi sempre combattere
strenuamente per conservarle e
difenderle.
Per
questo,
sono
storicamente poco comunicativi con il
resto del mondo. Ma è falso,
ovviamente, che abbiano così tanti pregi
e difetti in comune fra loro. Sono
persone ottime o stupide, eccelse o
fetenti, a seconda dei casi, proprio come
tutte le altre. È che i pregiudizi,
purtroppo, sono più duri a morire delle
persone.)
persone.)
Eccoci dunque, finalmente, al momento
tanto atteso.
Giona è in balia delle onde e sta per
affogare.
Direte: ma il mare non si era
improvvisamente placato?
Certamente, ma non per il profeta.
Attorno a lui, il Signore ha organizzato
una piccola burrasca personale. Non
dimentichiamo che Giona ha disubbidito
e l'Onnipotente, con una punta di
sadismo, desidera dargli una lezione che
non possa dimenticare facilmente.
Perciò, dopo averlo lasciato per un bel
pezzo al freddo, a mollo, in preda alla
paura di morire, lo fa infine inghiottire da
un grande pesce. Si tratta, con tutta
probabilità, di una balena e fa parte della
famiglia di quei grandi cetacei che Egli
aveva inventato, in tutta fretta e senza
una reale utilità, al quinto giorno della
Creazione. Un animale terribilmente
ingombrante, immangiabile e che era
forse sul punto di far estinguere.
Ma il Signore è saggio. Come mia
nonna. «Non si butta via niente» diceva.
Ed ecco che ti torna buono anche il
cetaceo.
Così per tre giorni e tre notti stette
Giona nel ventre del pesce.
L'insolita immagine, un uomo rifugiato
nel ventre di un pesce, nasce qui, nel
racconto della vicenda del profeta
Giona.
Ma molti – ho notato – sono convinti di
averne sentito parlare altrove.
Ciò accade perché, nel corso dei secoli,
essa è diventata un simbolo. E ha perciò
conosciuto
molteplici
declinazioni
letterarie, poetiche e artistiche. È stata
elaborata e rielaborata in decine di
versioni diverse da musicisti, pittori,
raccontatori di fiabe, storici e psicanalisti.
Ma l'originale è questa. Non c'è niente da
fare, la Bibbia è proprio un libro
straordinario e speciale.
Io però cerco di essere pratico.
E dico che settantadue ore nel ventre,
vale a dire nello stomaco (o
nell'intestino?) di un balenottero, è
un'esperienza da definirsi in un modo
soltanto: disgustosa.
E su come il pover'uomo abbia passato
tutto quel tempo là dentro, il testo biblico
non ci dice niente. C'è soltanto una lunga
e accorata preghiera, con la quale Giona
ringrazia (?) il Signore per tutta la Sua
misericordia (!?).
Per il resto, mistero assoluto. Che cosa
ha mangiato: altri pesci che entravano?
Come ha dormito: sdraiato lungo
l'esofago? Che faceva per ingannare il
tempo: contava i villi intestinali? Oppure
aveva qualcosa da leggere?
È molto strano che nulla venga spiegato,
perché la Bibbia è solitamente molto
minuziosa e generosa di particolari, a
volte pure insignificanti.
Ma questa volta, proprio niente.
E dunque, finalmente:
Il Signore comandò al pesce ed esso
rigettò Giona sulla terraferma.
Il fatto che la balena lo vomiti, perlomeno
ci chiarisce quel dubbio riguardo
all'esatta ubicazione di Giona al suo
interno: le era rimasto sullo stomaco.
(È un dettaglio confortante, perché se il
profeta avesse soggiornato nell'intestino
l'uscita sarebbe stata segnalata altrove.)
La faticosa e istruttiva avventura di Giona
potrebbe anche chiudersi qui.
Il profeta avrebbe imparato che è assai
complicato e rischioso sfuggire alla
volontà del Signore. Noi avremmo
imparato che è altrettanto complicato e
rischioso organizzare crociere last
minute.
Resterebbe soltanto un interrogativo
sospeso.
Perché Giona non è voluto andare a
Ninive?
Ma, in fondo, dalla Bibbia scaturiscono
tante domande che non trovano risposta,
tante domande che non trovano risposta,
perciò una in più poco ci cambierebbe.
Dormiremmo comunque sonni tranquilli.
Il Signore però non è un tipo che si
arrende così facilmente. Egli vuole
andare fino in fondo.
Perciò si presenta al Suo uomo appena
sputato fuori e, senza nemmeno
attendere che si faccia una doccia e si
cambi d' abito, gli fa:
«Su, va' a Ninive, la grande città, e
grida contro di essa quel che ti dirò.»
Come se niente fosse! Ostinato e
implacabile.
Che può fare, a questo punto, Giona?
Ovvio: ci va.
Il testo biblico descrive Ninive come una
città di proporzioni abnormi, ci volevano
tre giorni ad attraversarla, forse per
l'assenza di semafori e di un piano
adeguato per regolare il traffico, una
specie di Città del Messico, per
intenderci.
Il profeta comincia a penetrarla e grida:
«Ancora quaranta giorni e Ninive sarà
distrutta.»
Immaginate un uomo tutto solo, senza
neppure un megafono, che cerca di farsi
sentire in quel tremendo caos. Chiunque
avrebbe mollato per la disperazione. Ma
evidentemente gli abitanti di Ninive
hanno la coscienza non sporca, di più.
Perché accade l'incredibile: nessuno lo
prende per matto, nessuno lo prende a
sassate, ma al contrario tutti lo prendono
tremendamente sul serio.
Gli abitanti di Ninive credettero in Dio,
indissero un digiuno e si rivestirono di
sacchi, dal più grande al più piccolo.
Una stupefacente e rapidissima
conversione di massa, che coinvolge
l'intera città.
Anche il re si toglie il manto, si veste di
sacco e si siede sulla cenere. E con un
decreto impone di fare penitenza a tutti,
persino agli animali.
«Uomini e bestie, sia gli armenti che i
greggi, non gustino nulla, non
pascolino, né bevano acqua. Si
ricoprano di sacco, uomini e bestie, e
gridino a Dio con forza e si ritragga
ciascuno dalla sua malvagia condotta
e dalla violenza ch'è nelle sue mani.»
Esagerati. Non ci viene detto come si
comportassero prima, ma c'è da
immaginare che fossero una manica di
malavitosi, delinquenti e assassini. E
hanno la reazione tipica di chi è
consapevole di aver superato ogni limite:
passano da un eccesso all'altro. Ora
sono in preda a un'ondata irrefrenabile di
buonismo, una sorta di impazzimento al
contrario.
Ma io penso alle conseguenze pratiche.
Dove andranno a pescare tutti quei
sacchi? E che tipi di sacchi dovranno
utilizzare? Basteranno sacchi che
coprano i vestiti, oppure dovranno
infilarcisi dentro con tutto il corpo, testa
compresa? E per gli animali come
faranno? Passi per i conigli e le galline,
ma provate voi a infilare in un sacco una
mandria di mucche. Ci sarà sicuramente
la corsa per accaparrarsi i sacchi, si
alzeranno i prezzi, ci sarà chi ci specula
sopra, si creerà un mercato nero dei
sacchi. Il re dovrà fare un secondo
decreto, con il quale proibirà ogni
commercio di sacchi e punirà con la
morte coloro che verranno colti con le
mani nel sacco, anzi nei sacchi.
Scherzavo. Siamo a Ninive, in Assiria.
Mica in Italia.
Insomma, l'ardore e l'impegno sono
talmente evidenti, il cambiamento è così
tanto sincero, che il Padreterno perdona
gli abitanti di quella città.
Dio si pentì del male che aveva
predetto di fare loro e non lo compì.
È una decisione a sorpresa. Alla faccia
di chi pensa che questo Signore stia
sempre sul piede di guerra. Al contrario,
è armato di pietà e di buon senso. Ha
persino il coraggio di contraddire Se
Stesso. Mi piace. Bravo.
Una volta tanto, una storia che si chiude
con un lieto fine.
Tutti contenti? Niente affatto.
Ma Giona ne provò gran dispiacere e
se ne sdegnò.
Che Giona fosse un uomo dal carattere
difficile si era capito da subito. Che
amasse andare sempre controcorrente,
pure. Ma che ora si dispiaccia perché
Dio non ha fatto a pezzi i niniviti con tutti i
loro animali insaccati (che sia nata da qui
l'idea di fare prosciutti e salami?)
sembra francamente un po' troppo.
Verrebbe da dirgli: scusa amico, qual è il
problema?
Per la verità, il profeta mostra ancora una
volta di avere il coraggio delle proprie
idee, ha del fegato insomma, perché
dice a Dio quello che pensa di tutta la
faccenda.
«Ah, Signore! Non lo dicevo io forse,
mentr'ero ancora nella mia patria? Per
questo m' ero affrettato a fuggire a
Tarsis. Sapevo infatti che tu sei un Dio
clemente e misericordioso, lento alla
collera e pieno di benevolenza, facile a
pentirsi del male. Orbene, Signore,
toglimi, ti prego, la vita, poiché è
meglio per me morire che vivere.»
Grazie a queste parole, possiamo
finalmente sciogliere quell'interrogativo
rimasto a lungo sospeso.
Ecco perché Giona non voleva andarci,
a Ninive!
Perché sapeva come sarebbe andata a
finire.
(Bisogna tener conto che un profeta, in
fatto di futuro, ci azzecca quasi sempre,
non è proprio un indovino di professione,
ma opera pur sempre nel settore delle
previsioni.)
Il suo ragionamento non fa una piega.
Dice in sostanza Giona al Signore:
«Tu mi hai mandato a Ninive ad
annunciare che avresti distrutto la città,
poi hai cambiato idea perché in fondo
sei un buono e così la figura dell'idiota
ce l'ho fatta io, ora tutti penseranno che
Giona è un visionario, o peggio uno che
porta sfiga, mi hai bruciato come profeta,
almeno avresti potuto evitare che io
parlassi di una scadenza precisa, "fra
quaranta giorni" mi hai fatto dire, se mi
fossi potuto tenere più sul vago con
formule tipo "verrà il giorno che" o "ci
sarà un'epoca in cui" (come fai sempre
dire ai tuoi protetti, i tuoi delfini Ezechiele
e Isaia), ora non sarei totalmente
sputtanato, tanto lo sapevi benissimo
che li avresti tutti perdonati, cosa che io
non trovo affatto giusta, anzi mi fa
proprio schifo se ti interessa la mia
opinione, mi disgusta sì, mi fa sdegnare
proprio che questa immonda fogna di
città Tu non la rada al suolo, che tutti
questi mascalzoni, ladri, avanzi di galera
la passino liscia soltanto perché hanno
recitato la stomachevole commedia dei
recitato la stomachevole commedia dei
poveri peccatori pentiti, mentre invece
non sono nient'altro che degli infami, gli
infami di sempre, dei maledetti ipocriti
bugiardi che non appena Tu girerai la
testa riprenderanno a fare le loro porcate
di sempre, e con ancora più arroganza di
prima, convinti come saranno di averti
fatto fesso con quattro preghiere e con
quei ridicoli sacchi in cui si sono infilati in
compagnia dei loro animali (immagine
disgustosa per me, non si riusciva
neppure a distinguere quali fossero gli
uomini e quali le bestie!), e se Ti dà
fastidio che dica tutto questo
ammazzami pure perché io non ho paura
della morte, anzi mi faresti un enorme
piacere dato che a me la vita, se è
questa la vita che mi offri, se è questa la
giustizia che mi proponi, be' a me non
giustizia che mi proponi, be' a me non
piace proprio per niente, e dato che lo
sai, perché Tu sai tutto, non capisco
davvero perché non ti sei sbarazzato di
me molto prima, perché per esempio
non mi hai lasciato affogare quando i
marinai mi hanno buttato in mare o
perché non hai lasciato che quella tua
balena, invece di vomitarmi, mi digerisse
per sempre!»... più o meno, parola più
parola meno.
Giona è talmente fuori di sé che non
ascolta nemmeno la risposta del
Signore.
Si allontana, esce dalle mura, cerca un
punto panoramico sulla città a oriente, lo
trova, ci costruisce un capanno
e vi si sedette sotto, all'ombra, per
vedere ciò che sarebbe accaduto alla
città.
Vuole vedere come andrà a finire. Vuole
vedere se davvero il Signore avrà il
coraggio di far prevalere la pietà sulla
giustizia. Insomma, fa un sit-in di
protesta. Un presidio con capanno per la
giustizia giusta. Come un radicale. Se
potesse, raccoglierebbe anche delle
firme per fare un referendum che
abroghi Ninive. Ma non può, perché
nessuno firmerebbe. Perlomeno non lì,
proprio davanti alla città da abrogare.
Allora il Signore, nella Sua immensa
pazienza, decide che Giona ha assoluto
bisogno di una lezione pratica. Basta con
i ragionamenti teorici, anche perché
quell'uomo ostinato sembra imbattibile
quanto a chiacchiere.
Allora il Signore Iddio, dispose che un
ricino crescesse al di sopra di Giona
per far ombra al suo capo e per
liberarlo dal suo dispiacere. E Giona
provò una grande gioia per quel ricino.
Il ricino è una pianta dalle foglie molto
larghe, che può superare anche i due
metri e che si sviluppa molto in fretta. Ma
non in mezza giornata, naturalmente. È
curioso che Giona, che si è sistemato in
una spianata arida col sole a picco, non
si insospettisca per quella crescita
improvvisa. Evidentemente è troppo
stanco e perciò si gode l'ombra senza
farsi tante domande, pover'uomo.
(Al suo posto, io mi sarei allarmato,
invece. Non conosco bene il ricino, ma
ho sentito parlare dell'olio che se ne
estrae. Bastava che Giona avesse un
minimo di cultura antifascista per fare
due più due.)
Infatti.
Poi Dio comandò che l'indomani, al
sorgere dell'aurora, un verme colpisse
il ricino, che seccò.
Ma non è finita.
Ed ecco che al sorgere del sole Dio
preparò un vento orientale bruciante e
il sole picchiò sul capo di Giona che si
sentì venir meno...
Ora, ci mancherebbe altro che io
discutessi il diritto del Creatore di fare e
disfare a Suo piacimento. Se Gli garba
di far nascere un albero e al mattino
seguente di farlo crepare, se ha voglia di
suscitare all'improvviso una tremenda
ventata di scirocco, ne ha facoltà. È che
non sono convinto dei Suoi metodi
educativi. A me pare che nei confronti
del profeta, che in fondo dovrebbe
essere un Suo protetto, stia usando una
mano troppo pesante. Gliene ha fatte
passare di cotte e di crude. È
accanimento questo, su...
...[Giona] bramò la morte dicendo:
«Meglio è per me morire che vivere».
Ma è logico! Arrivati a questo punto,
chiunque sarebbe stremato.
Giona sembra un toro da corrida stordito
e ferito.
(Sono stato una volta, a Madrid, in una
plaza de toros. Mi ricordo di un torero
molto maldestro, che continuava a
colpire il toro senza riuscire a stenderlo.
La gente era indignata, inferocita e gli
urlava di ucciderlo con la spada:
«Mátalo, mátalo con la pica!». Capite?
Non sopportavano che la bestia
soffrisse così a lungo, inutilmente.
Una speciale forma di amore per gli
animali che ho sempre apprezzato negli
spagnoli.)
Mi verrebbe da gridare al Signore:
«Finiscilo, finiscilo con un bastone!».
Ma Dio ha un progetto educativo, non
dimentichiamolo.
Allora Dio disse a Giona: «Hai tu
ragione di sdegnarti così per il ricino?».
Rispose: «Sì, ho ragione di sdegnarmi
sino alla morte».
sino alla morte».
È buffo. Il Signore fa finta di credere che
Giona se la sia presa per il destino
crudele riservato al ricino, nato e morto
in un giorno. Ma è chiarissimo che il
profeta, con tutto l'amore che può avere
per le piante, se ne frega del ricino ed è
sdegnato per come è stato trattato.
Ed eccoci giunti, finalmente, alla morale.
Il Signore disse: «Tu hai pietà del ricino
per il quale non ti sei affaticato, che tu
non hai fatto crescere; è nato in una
notte e in una notte è scomparso...».
Signore, non vorrei insistere: ma a Giona
non importa niente del ricino e...
D'accordo Signore, come vuoi... Sto zitto
e ascolto il ragionamento per intero...
«...E non dovrei io avere pietà di
Ninive, la grande città, nella quale vi
sono più di centoventimila persone,
che non sanno distinguere tra la destra
e la sinistra, e tanto bestiame?»
Molto chiaro. Valeva la pena di farLo
finire.
Il Signore dà una lezione esemplare al
Suo profeta. E anche a tutti noi.
Il libro di Giona ci consegna dunque un
Padreterno illuminato e illuminante. Ci
offre una chiave per comprendere il
senso profondo di una scelta non facile,
per nessuno: abbandonare la tentazione
maligna della vendetta.
Perdonare è complicato, costoso,
pesante. Non sempre ci si riesce. E non
è nemmeno detto che sia possibile.
Possiamo noi perdonare i tedeschi di
oggi per quello che hanno fatto i loro
padri e nonni nazisti agli ebrei, agli
zingari,
agli
omosessuali,
agli
handicappati, agli oppositori di ogni
genere? Credo di no, perché i
protagonisti sono tutti assenti, per motivi
diversi. Ma fa senz'altro bene alla nostra
salute fisica e spirituale non covare alcun
desiderio di vendicarci. Senza nulla
dimenticare, ovviamente. Era giusto per
fare un esempio. Ma ce ne potrebbero
essere tanti altri, tratti dalla vita
quotidiana e spicciola di ognuno di noi.
Una conclusione molto seria, accidenti.
Un momento. E il profeta? Che fine fa?
Va detto che il libro di Giona si
interrompe bruscamente su quella frase
di Dio. Non c'è replica, né commento
alcuno. È un finale aperto. E allora?
alcuno. È un finale aperto. E allora?
Ci penso io.
Dopo aver riflettuto sulle ultime parole
del Signore, Giona smantella il capanno,
mangia qualcosa (nella sua furia radicale
aveva avuto la pessima idea di
cominciare un digiuno di protesta),
brucia il banchetto delle firme (ne aveva
raccolte soltanto quattro, quella del
giardiniere chiamato per tentare di
salvare il ricino, di sua moglie e dei due
figli), dà ancora un'occhiata alla città di
Ninive (nella quale il traffico è ripreso
caotico, e ora sappiamo anche perché: è
tutta gente che non sa distinguere tra la
destra e la sinistra) e si incammina
verso occidente. Dove andrà? Quasi
certamente a Tarsis. Ci arriverà salpando
con una barca privata, senza equipaggio,
per carità di Dio. Prenderà in affitto una
casetta sul mare e passerà gran parte
delle sue giornate sulla riva, a pescare.
E a pensare, in assoluto silenzio. Con
una piccola segreta e tenera speranza
nel cuore: che una sera, preceduta da
un'inevitabile onda anomala, venga a
salutarlo sulla spiaggia l'unica balena alla
quale vuole un bene dell'anima.
VIII
Gioele, ma quale profeta
minore
Al profeta Gioele sono legato per ovvi
motivi.
Porto il suo nome con grande orgoglio e
con qualche fatica.
Chissà se anche a lui capitava di
sentirselo continuamente storpiare in
JOEL o GIOELLE. Chissà se anche a lui
toccava di vederlo scritto nove volte su
dieci nella più sintetica versione di GIOLE,
senza la E.
(Davvero un fatto curioso questo: quasi
tutti lo trascrivono sbagliato, perché il
d i t t o n g o OE
sembra
sfuggire
malignamente anche al più attento dei
correttori di bozze. Non è mica
importante, sia chiaro; ma noi pochi,
p o c his s imi GIOELI/GIOLI ci facciamo
ovviamente più caso.)
(Qualche tempo fa, sull'autostrada nei
pressi di Rimini, mi fermo in un'area di
servizio per bere un caffè. La signora
che sta alla cassa mi vede entrare e si
illumina in volto. Rispondo al suo
splendido sorriso e la saluto. Lei si
precipita fuori dalla sua postazione e si
mette a correre fra gli scaffali di libri
bagnoschiuma e provoloni gridando:
«Gioele, tu non puoi sapere!». È bello,
penso, che certe persone vogliano
manifestarti il proprio affetto in modo
così plateale. La signora mi raggiunge,
mi butta le braccia al collo e mi bacia,
quasi con prepotenza. Poi mi ripete:
«Gioele, tu non puoi sapere!». E
aggiunge esaltata: «È un sacco di tempo
che mi dico: "Passerà prima o poi di qui
il Gioele, porca boia!"». Sono troppo
divertito e stordito per rendermi conto
che tutte le persone presenti nell'autogrill
stanno seguendo l'insolita sceneggiata.
È lei ad accorgersene e, forse per
togliermi dall'imbarazzo, butta lì un «Eh
be'? Che c'è? Non posso abbracciare
un sfigato come me?». Rido
macchinalmente perché davvero non ci
sto capendo più nulla. Finalmente la
donna mi tira in disparte e mi dice
sottovoce, con tono complice e un po'
afflitto: «Tu soltanto mi puoi capire. Sai
che bella idea hanno avuto i miei genitori
quando son nata? Mi han chiamato
GIOELA!». C'è sempre qualcuno che sta
un po' peggio di noi.)
Sul profeta Gioele non si hanno grandi
notizie.
Si sa soltanto che faceva parte della
classe sacerdotale e che era figlio di un
tale, chiamato Petuel, che in quanto al
nome era forse ancora più sfortunato di
lui.
Niente altro si sa, né sulla sua vita, né sul
suo carattere.
Nessuna informazione precisa su
persone frequentate, viaggi intrapresi,
successi, infortuni, passioni, mogli o
amanti.
La vicenda umana del profeta Gioele è
avvolta in una fitta nube di mistero.
Che non sia mai esistito?
È l'ipotesi che recentemente ha fatto
qualcuno, ma io non sono d'accordo.
Non ci credo, o meglio: non voglio e non
posso crederci. Sarebbe un colpo
troppo deciso inferto al mio ego, già
fragile e precario di suo e in cerca di
continue conferme.
È pur vero che persino sull'esistenza di
Omero sono stati espressi documentati
e autorevoli dubbi.
Ma allora io dico, ai diffidenti studiosi, ai
perplessi scienziati, che di continuo
mettono in forse l'identità dei poeti: ma
che ve ne importa? perché non li lasciate
in pace? perché non ci lasciate in pace?
Se
pagine
intense,
stupende,
memorabili hanno retto per secoli e
secoli grazie a una firma, forse falsa,
eppure accettata in garanzia da tutti, a
che scopo insinuare e seminare
incertezze proprio adesso, in tempi già
così discutibili e discussi?
Toglietemi tutto, ma non il mio profeta.
Gioele ha scritto un'unica brevissima
profezia, nella quale attribuisce dolorosi
significati simbolici a un'imminente
quanto terrificante invasione di cavallette.
Niente a che vedere con il prolifico
profeta
Ezechiele,
del
quale
conserviamo centinaia di predicazioni
contenute in uno straordinario e
voluminoso libro di ben quarantotto
capitoli; o con l'ancor più produttivo
Isaia, al quale sono riservate nella Bibbia
ben duecento pagine stracolme di
preghiere, inni e lamentazioni.
In altre parole, carriere molto diverse.
È probabilmente per questo motivo che
Gioele viene considerato un profeta
minore.
E io nuovamente dissento, perché trovo
ingiusto che la qualità profetica si misuri
in base alla quantità dei pensieri
espressi, sensati o meno che siano.
È vero che da Gioele riceviamo soltanto
otto paginette (scritte larghe, peraltro).
È anche vero che profetizzare
un'invasione di cavallette, a quei tempi e
con quelle condizioni climatiche, non
costituiva un grande colpo di genio.
Ma resta pur vero il fatto – indiscutibile –
che il racconto del cataclisma provocato
dagli insetti assassini è un capolavoro
letterario, micro ma capolavoro.
Non solo. Poiché ci sono sconosciuti i
particolari sulla sua esistenza, non
sappiamo per quali motivi il profeta
Gioele abbia profetato così poco. Forse
non fu per colpa sua. Altri fattori
potrebbero aver condizionato il suo
percorso professionale. Forse non fu
assistito dalla fortuna. Forse sognava fin
da ragazzo di fare il profeta, ma dovette
adattarsi a forza a un altro mestiere. Di
quanti grandi talenti nascosti o sprecati è
piena la Storia? Forse Gioele ebbe gravi
problemi in famiglia. Chissà suo padre, il
misterioso Petuel, che tipo era. Forse
era un poco di buono e abbandonò la
moglie con dodici figli piccoli (ai quali
aveva imposto nomi ancora più brutti del
suo). Forse Gioele era il primogenito e
fu costretto a occuparsi degli sfortunati
fratellini mantenendoli fino a che ebbero
tutti quanti finito gli studi (e il dodicesimo,
Bdulfauèl, si laureò a quasi quarant'anni).
E dunque, soltanto in tarda età Gioele,
finalmente libero dagli obblighi familiari,
riuscì a coronare il suo sogno di
riuscì a coronare il suo sogno di
diventare un profeta. Ipotesi, nient'altro.
Perché di sapere come sia andata, non
c'è verso.
E aggiungo: se un uomo di talento trova
la propria massima espressione nella
sintesi di un'unica idea folgorante,
perché dovrebbe sforzarsi oltre?
Prendiamo ad esempio il mondo dei
musicisti. È meglio aver composto una
sola bellissima canzone che entrerà
nella memoria collettiva di milioni di
persone
e
che
nessuno
più
dimenticherà; oppure aver scritto cento
canzoni tutte uguali che in breve tempo
verranno confuse con mille altre simili?
La genialità di Gioele sta nella
modernissima intuizione della potenza
d e l big hit, quello che ti identifica da
subito e ti fa vivere comodamente di
rendita.
Gioele non era un profeta minore, era
forse un profeta pigro. Ed è questo che
me lo rende ancor più simpatico.
Il libro di Gioele è, come detto, un
gioiello della letteratura antica.
Non sono certo io a dirlo per primo, è
l'autorevole opinione di molti biblisti di
ogni epoca. Per averne la prova, basta
leggere il racconto della devastante
invasione delle cavallette, o locuste.
Gioele, nel testo originale, chiama quegli
insetti addirittura con quattro nomi
diversi, ma probabilmente sempre di
cavallette si tratta.
Leggiamo e godiamo (se non vi piace,
non fate commenti che ci rimango male,
è il mio profeta).
L'inizio è potente.
Narratelo ai vostri figli
e i vostri figli ai loro figli,
e i loro figli alla
successiva.
generazione
Certo, in lingua originale è tutta un'altra
cosa.
Il resto del grillo
lo ha divorato la locusta...
Sentite il ritmo.
...il resto della locusta
lo ha mangiato il bruco...
È un crescendo.
...il resto del bruco
lo ha mangiato la cavalletta.
Tenete conto che in lingua originale è
incomprensibile, ma è tutta un'altra cosa.
Ora Gioele paragona la moltitudine degli
animali invasori a un grande popolo.
Subito dopo l'immagine si trasforma in
quella di un invincibile esercito.
Giorno di tenebre e di oscurità,
giorno di nubi e di caligine.
Come fuliggine, si spande sui monti
un popolo numeroso e forte.
Per rendere l'idea della massa
impressionante di locuste che, a detta di
chi ha visto fenomeni del genere nei
deserti asiatici o africani, oscurano
letteralmente il cielo, Gioele usa cinque
parole che vogliono dire la stessa cosa:
tenebre, oscurità, nubi, caligine e
fuliggine. È un espediente da letterato
furbo, ma colto.
Simile a lui mai ve ne fu,
né mai ve ne sarà dopo di lui,
sino agli anni dell'ultima generazione.
Questo non è affatto vero, e Gioele lo
sa: di invasioni di cavallette ce ne sono
già state e altre ce ne saranno. È un
fenomeno frequentissimo ai suoi tempi,
quasi come lo è, ai nostri, la nebbia nella
pianura padana. La sua abilità sta
nell'enfatizzare ed esagerare la portata
dell'avvenimento attuale.
È lo stesso metodo che usano oggi i
giornalisti televisivi quando gonfiano a
dismisura «notizie» che non sono
notizie: una giornata invernale un po'
freddina diventa «L'Italia nella morsa del
gelo!».
Dinanzi a lui un fuoco divora
e dietro a lui una fiamma brucia.
Efficace l'idea di associare la
devastazione provocata dal passaggio
delle cavallette agli effetti di un incendio.
Fuoco e fiamma sono sinonimi assoluti,
l'abilità di Gioele sta nel farci credere
che descrivano due situazioni totalmente
diverse.
Il paese è un giardino d'Eden dinanzi a
lui,
ma dietro a lui è un deserto desolato:
non v'è scampo da lui.
Come nei versi precedenti, Gioele
esagera le conseguenze dell'invasione
esasperando, seppur poeticamente, le
condizioni del prima e del dopo. Ma è
difficile credere che prima dell'arrivo
delle cavallette la zona fosse un idilliaco
giardino. Probabilmente era già un
desolato deserto, perché non c'è mai
stato un filo d'acqua da quelle parti, lo
sanno tutti. Insomma, la verità che
Gioele non dice è che le cavallette sono
una disgrazia nella disgrazia. Ma non può
dirlo, perché l'effetto tipicamente
ansiogeno della profezia ne verrebbe
compromesso.
Il suo aspetto è aspetto di cavalli,
corrono come cavalieri.
Qui Gioele sembra incerto sul paragone.
Che aspetto hanno? Di cavalli o di
cavalieri? Di cavalli, d'accordo. Ma
perché corrono come cavalieri? E non
come cavalli? Forse intendeva dire che
corrono come cavalieri a cavallo. Sì,
deve essere per forza così. I cavalieri,
per correre veramente, bisogna che
stiano sul cavallo. Perché se sono a
piedi quanto possono correre? Magari
correranno anche veloce, ma sempre
meno dei loro cavalli. Basta, si tratta di
una delle più classiche licenze poetiche
e a un grande del calibro di Gioele vale
senz'altro la pena di concederla.
Sono come un fragore di carri
che saltellano sulla cima dei monti,
come un crepitio di fiamma infocata
che divora la paglia,
come un popolo possente
schierato a battaglia.
Fantastico. Anche Bob Dylan lo ha
copiato. Ha scritto una canzone,
contenuta nel disco del 1970 «New
Morning», che si intitola Day of the
Locusts, il giorno delle locuste. Il
ritornello fa:
and the locusts sang
yeah, they give me a chill
oh the locusts sang
such a sweet melody
oh the locust sang
that high whining trill...
Uguale! Se non è copiare questo. Il
testo di Dylan è un po' diverso, ma il
suono è il medesimo. Soprattutto se
confrontato con il testo di Gioele in
lingua originale. Peccato che siano
entrambi incomprensibili.
Dinanzi a lui tremano i popoli,
si sbiancano i volti di tutti.
Gioele scrive come se pensasse alla
sceneggiatura di un thriller ed è
magistrale nel far decollare la tensione.
Prima descrive la devastante avanzata
delle cavallette soltanto attraverso rumori
assordanti e inquietanti (immagino una
colonna sonora ricca di effetti, fragori e
crepitii realizzati in dolby surround). Poi
racconta il terrore dipinto sui volti di tutti
(vedo una lunga serie di primi e
primissimi piani, di taglio, dal basso,
dettagli di occhi sbarrati, bocche
spalancate, mani che si stringono in un
montaggio serrato e convulso).
E va avanti così, sempre
appassionante e incalzante.
più
Corrono come prodi,
come uomini di guerra
scalano le mura.
Vanno ciascuno per il proprio cammino
e non deviano dai loro sentieri.
...passano attraverso i dardi
senza rompere le file.
Si precipitano nella città,
corrono sulle mura,
s'arrampicano su per le case,
entrano dalle finestre come un ladro.
Scene da kolossal, con migliaia di
comparse. E milioni di cavallette,
aggiunte in postproduzione rielaborando
le immagini al computer.
le immagini al computer.
Gioele era un visionario e pensava in
grande.
Fosse vissuto ai nostri giorni in America,
avrebbe potuto fare del cinema, di quello
molto costoso, con grandi mezzi. E se
l'avesse fatto, probabilmente avrebbe
avuto successo. I suoi fan avrebbero
detto di lui: «È il genio indiscusso del
thriller spirituale d'autore, è un cult, il suo
cinema è Bibbia per noi». E i suoi
detrattori:
«Scrive
film catastrofici
soltanto per soldi, è un flop culturale, è
un mestierante e un falso profeta». Ma
sarebbe stato comunque uno di quelli
che lasciano il segno.
Forse sarò di parte, ma a me questo
Gioele non dispiace affatto.
Non era per niente un sfigato.
E anche non fosse mai esistito,
pazienza! Come fantasma ha comunque
una ottima personalità e molta fantasia.
Sarà per questo che mi identifico così
tanto in lui: perché a volte anch' io mi
convinco di avere personalità e fantasia,
ma non sono tanto sicuro di esistere.
Postfazione
Fin da bambino venni attratto dalla Bibbia
come libro di storie. Me le raccontavano
e io credevo che fossero vere. Perché
mai avrei dovuto pensare il contrario? La
mia immaginazione viaggiava al galoppo,
rincorrendo quegli uomini e quelle donne
con le loro arcaiche vicende. Provai
simpatia istintiva per alcuni di quei
personaggi, forse perché mi parevano
buffi o teneri o terribilmente incoerenti. E
altri, invece, magari irascibili o deboli o
troppo spietati, li detestai da subito,
senza peraltro cambiare più opinione,
neppure da grande.
Tutte le storie contenute nel Libro,
simboliche o reali che siano, contengono
altro, si sa. E qui sta il punto cruciale. La
Bibbia ci parla soprattutto di Dio.
La Sua presenza nel mondo (o la Sua
assenza dal mondo) è un tema che
ognuno declina e risolve a suo modo.
C'è chi crede, c'è chi è perplesso, c'è
chi fugge o dimentica. E c'è chi aspetta
soltanto di vedere come andrà a finire.
Ma per chiunque – presto o tardi che sia
– Dio è il problema. Persino per chi
esclude categoricamente che esista.
Penso al mio nonno materno, Alberto,
elegante ribelle per tutta una vita, che
anni fa mi disse: «Ringraziando Iddio,
sono ateo!».
Per quel che mi riguarda, considero il
problema parzialmente irrisolto. È come
un cantiere aperto, i lavori sono ancora in
corso e la data di consegna continua a
slittare. Non ho dubbi sull'esistenza di
Dio (nonno mi dispiace, so di darti un
dolore), ma cerco Sue tracce più chiare
n e l l a mia, di esistenza. Vorrei
avvicinarmi e, di quando in quando, ci
provo. Lo facciamo in tanti, peraltro. La
soluzione è incerta, ma il metodo ci
sembra sicuro: inutile attendersi che Dio
si occupi personalmente di ognuno,
perciò è giusto metterci noi in contatto
per primi.
Purtroppo il Signore, che ai tempi di
Abramo e di Giona si faceva vivo con
una certa frequenza, ha cambiato
abitudini e, attualmente, si comporta
come un signore assai riservato. Non è
dato sapere se ciò accada perché è
stanco e si è concesso una pausa, o
perché ha deciso di investire su gente
diversa da noi, in altri universi. Se così
fosse, io dico: pazienza, peggio per Lui.
Del resto, nessuno è perfetto.
Ringraziamenti
Un libro è quasi sempre il frutto del
lavoro del suo autore. Non mi sottraggo
perciò alle responsabilità connesse a ciò
che ho scritto, nel bene e nel male. Ma
voglio ringraziare alcune persone che, a
diverso titolo, hanno favorito e
influenzato il mio appassionante
impegno.
Ringrazio Andrée Ruth Shammah per
avermi suggerito l' idea di esplorare a
mio modo l'inossidabile Libro e per
avermi guidato, con la generosità che le
è consona, nella versione teatrale del
biblico progetto. Senza di lei, questo
(ossidabile) libro probabilmente non
esisterebbe.
Ringrazio Cesare Picco per avermi
supportato, complice e amico, nel
percorso creativo e critico ai bordi del
magico Libro, inventando atmosfere e
climi sonori che molto hanno contribuito
al successo dello spettacolo dal vivo.
Ringrazio tutti gli spettatori che hanno
affollato il teatro Franco Parenti durante
le serate di replica dello spettacolo, per
aver condiviso con me la gioia e il gusto
di affabulare attorno alle parole del
mitico Libro, senza profanarle.
E infine ringrazio Clara Kopciowski per
avermi offerto molte chiavi di accesso al
sacro
e
contraddittorio
Libro,
illuminandomi con poche decisive
parole, come solo chi è lucido, colto e
saggio può permettersi di fare.
Appendice
Primo racconto della creazione
(Genesi 1, 1-31)
1In
principio Dio creò il cielo e la terra.
terra era una massa informe e vuota
e le tenebre erano sulla superficie
dell'abisso e lo spirito di Dio aleggiava
sulla superficie delle acque.
3E Dio disse: «Sia la luce» e la luce fu.
4Dio vide che la luce era buona e separò
la luce dalle tenebre, 5e chiamò Giorno
la luce e chiamò Notte le tenebre. E fu
sera e fu mattino: il primo giorno.
6E Dio disse: «Ci sia un firmamento in
mezzo alle acque che divida le acque
dalle acque».
7E Dio fece il firmamento, separando le
2La
acque che sono sotto il firmamento e le
acque che sono sopra il firmamento. E
così
fu. 8E Dio chiamò Cielo il
firmamento. E fu sera e fu mattino: il
secondo giorno.
9E Dio disse: «Si raccolgano in un luogo
solo le acque che sono sotto il cielo e
appaia l'asciutto». E così fu. 10E Dio
chiamò Terra l'asciutto e chiamò Mare la
massa delle acque. E Dio vide che ciò
era buono.
11E Dio disse: «Produca la terra
germogli, erbe che facciano semente,
alberi fruttiferi che diano frutti, contenenti
il seme secondo la loro specie sulla
terra». E così fu. 12La terra produsse
germogli, erbe che fanno semente
secondo la loro specie e alberi fruttiferi
aventi il proprio seme secondo la loro
specie. E Dio vide che ciò era buono.
13E fu sera e fu mattino: il terzo giorno.
14E Dio disse: «Vi siano delle luci nel
firmamento del cielo per distinguere il
giorno e la notte e siano come segni per
le stagioni, per i giorni e per gli anni, 15e
servano da luci nel firmamento del cielo,
per illuminare la terra». E così fu. 16E
Dio fece due grandi luci: la luce
maggiore per reggere il giorno e la luce
minore per reggere la notte, ed inoltre le
stelle. 17E Dio le collocò nel firmamento
del cielo per illuminare la terra, 18reggere
il giorno e la notte e separare la luce
dalle tenebre. E Dio vide che ciò era
buono. 19E fu sera e fu mattino: il quarto
giorno.
20E Dio disse: «Brulichino le acque di un
brulichio di esseri viventi e volatili volino
sopra la terra, dinanzi al firmamento del
cielo». 21E Dio creò i grandi cetacei e
tutti gli esseri vivi guizzanti di cui
brulicarono le acque, secondo la loro
specie e tutti i volatili alati secondo la
loro specie. E Dio vide che ciò era
buono, 22e Dio li benedisse dicendo:
«Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite
le acque dei mari; si moltiplichino pure i
volatili sulla terra». 23E fu sera e fu
mattino: il quinto giorno.
24E Dio disse: «La terra produca esseri
viventi secondo la loro specie: animali
domestici, rettili e fiere della terra,
secondo la loro specie». E così fu. 25E
Dio fece le fiere della terra secondo la
loro specie, gli animali domestici
secondo la loro specie e tutti i rettili della
terra, secondo la loro specie. E Dio vide
che ciò era buono.
26E Dio disse: «Facciamo l'uomo a
nostra immagine, secondo la nostra
somiglianza, e abbia potere sui pesci del
mare e sui volatili del cielo, sugli animali
domestici, su tutte le fiere della terra e
sopra tutti i rettili che strisciano sulla
terra».
27E
Dio creò l'uomo a sua immagine.
A immagine di Dio lo creò.
Maschio e femmina li creò.
28E
Dio li benedì e disse loro: «Siate
fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra,
soggiogatela e abbiate potere sui pesci
del mare, sui volatili del cielo e su ogni
animale che striscia sopra la terra».
29E Dio aggiunse: «Ecco, io vi do ogni
erba producente semente che è sulla
superficie di tutta la terra e ogni albero
che ha frutto di albero producente seme:
vi servirà da cibo. 30Ad ogni animale
della terra, ad ogni volatile del cielo, a
tutto quanto striscia sopra la terra ed ha
anima vivente do per cibo il verde
dell'erba». E così fu.
31Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed
ecco, era molto buono. E fu sera e fu
mattino: il sesto giorno.
Secondo racconto della creazione. Il
Paradiso
(Genesi 2, 4b-9 e 15-25)
4bQuando
il Signore Iddio fece la terra e
il
la terra non c'era ancora
alcun arbusto della campagna, né
alcun'erba dei campi era ancora
germogliata, perché il Signore Iddio non
cielo, 5sopra
germogliata, perché il Signore Iddio non
aveva ancora fatto piovere sulla terra, né
c'era l'uomo a coltivare il suolo 6e a far
salire dalla terra l' acqua dei canali per
irrigare tutta la superficie del suolo.
7Allora il Signore Iddio con la polvere del
suolo modellò l'uomo, gli soffiò nelle
narici un alito di vita e l'uomo divenne
essere vivente. 8Poi il Signore Iddio
piantò un giardino in Eden, ad oriente, e
vi collocò l'uomo che aveva modellato.
9Il Signore Iddio fece spuntare dal suolo
ogni sorta di alberi piacevoli all'aspetto e
buoni a mangiare e l'albero della vita in
mezzo al giardino e l' albero della
conoscenza del bene e del male.
15Il
Signore Iddio prese dunque l'uomo
e lo pose nel giardino di Eden, perché lo
coltivasse e lo custodisse. 16Poi il
coltivasse e lo custodisse. 16Poi il
Signore
Iddio
diede
all'uomo
quest'ordine: «Tu puoi mangiare di ogni
albero del giardino, 17ma dell'albero
della conoscenza del bene e del male
non ne mangerai, perché il giorno in cui
ne mangiassi, di certo moriresti».
18Disse quindi il Signore Iddio: «Non è
bene che l' uomo sia solo; gli farò un
aiuto degno di lui». 19Fece dunque il
Signore Iddio dal suolo ogni sorta di
animali terrestri e tutti i volatili del cielo, li
condusse all'uomo, per vedere come
costui li avrebbe chiamati: qualunque
nome infatti avesse posto l'uomo a
ciascun animale, quello sarebbe stato il
suo nome. 20E l'uomo impose nomi a
tutti gli animali domestici e ai volatili del
cielo e a tutte le fiere della terra. Ma per
l'uomo non si trovò un aiuto adatto a lui.
21Allora il Signore Iddio fece cadere un
sonno profondo sull'uomo che si
addormentò; gli tolse quindi una delle
costole, rinchiudendo la carne al suo
posto. 22Poi il Signore Iddio con la
costola tolta all'uomo formò una donna e
la condusse all'uomo. 23Allora l'uomo
esclamò:
«Questa volta sì, è ossa delle mie ossa
e carne della mia carne.
Costei avrà nome dall'uomo
perché fu tratta dall'uomo.»
24È
per questo che l'uomo abbandona il
padre e la madre e si unisce alla sua
donna e i due diventano una carne sola.
25E ambedue erano nudi, l'uomo e la sua
donna, ma non ne avevano vergogna.
La circoncisione
(Genesi 17, 1-15 e 22-27)
1Ora,
quando Abram fu giunto all'età di
novantanove anni, il Signore apparve ad
Abram e gli disse: «Io sono Dio
Onnipotente, cammina alla mia presenza
e sii perfetto. 2Stabilirò il mio patto fra
me e te e ti moltiplicherò grandemente».
3Allora Abram si prostrò con la faccia a
terra e Dio gli parlò dicendo: 4«Sono io,
ecco il mio patto con te: Tu sarai padre
di una moltitudine di nazioni; 5non ti
chiamerai più Abram, ma il tuo nome
sarà Abramo, perché ti ho costituito
padre di una moltitudine di nazioni. 6Ti
renderò grandemente prolifico, ti farò
diventare nazioni e dei re usciranno da
7
te. 7Stabilirò il mio patto fra me e te e la
tua discendenza dopo di te, nelle sue
generazioni, come patto perpetuo, per
essere il Dio tuo e della tua discendenza
dopo di te. 8Darò a te ed alla tua
discendenza dopo di te la terra delle tue
peregrinazioni, tutta la terra di Canaan in
possesso perpetuo, e io sarò il loro Dio»
.
9E Dio disse ancora ad Abramo: «Anche
tu osserverai il mio patto e così la tua
discendenza dopo di te, nelle sue
generazioni. 10Questo è il mio patto che
osserverete, tra me e voi e la tua
discendenza dopo di te: Sia circonciso
tra voi ogni maschio. 11Circonciderete la
carne del vostro prepuzio e questo sarà
il segno del patto fra me e voi; 12e nel
corso delle vostre generazioni saranno
circoncisi all'età di otto giorni tutti i
maschi tra voi, sia i nati in casa come
quelli comprati con denaro da qualunque
straniero e che non siano della tua
progenie. 13Si deve circoncidere sia
colui che è nato in casa come colui che
è stato comprato con denaro; così il mio
patto sarà nella vostra carne come patto
perpetuo. 14Un incirconciso, un maschio
la carne del cui prepuzio non sia stata
circoncisa, una tal persona sia recisa dal
suo popolo: ha violato il mio patto».
15Dio poi disse ad Abramo: «Quanto a
Sarai tua moglie, non chiamarla più
Sarai, perché Sara è il suo nome».
22E
finito che ebbe di parlare con lui, Dio
si partì da Abramo. 23Allora Abramo
prese suo figlio Ismaele, tutti coloro che
erano nati nella sua casa come pure
erano nati nella sua casa come pure
coloro che aveva comprato col suo
denaro, tutti i maschi tra gli uomini della
casa di Abramo, e in quel medesimo
giorno circoncise la carne del loro
prepuzio, come Dio gli aveva ordinato.
24Ora Abramo aveva novantanove anni
quando circoncise la carne del suo
prepuzio 25e Ismaele, suo figlio, aveva
tredici anni quando fu circoncisa la carne
del suo prepuzio. 26In quel medesimo
giorno fu circonciso Abramo con suo
figlio Ismaele. 27E furono circoncisi con
lui pure tutti gli uomini della sua casa,
tanto i nati in casa quanto quelli comprati
con denaro dagli stranieri.
L'apparizione di Mamre
(Genesi 18, 1-15)
1Il
Signore gli apparve poi presso il
Querceto di Mamre, mentre egli era
seduto all'ingresso della tenda sul caldo
del giorno. 2Alzati gli occhi, guardò ed
ecco, tre uomini erano in piedi davanti a
lui. Appena egli li ebbe veduti, corse loro
incontro dall'ingresso della tenda, si
prostrò a terra 3e disse: «Signor mio, se
ho trovato grazia ai tuoi occhi, ti prego,
non passare oltre il tuo servo.
4Permettete che vi faccia portare un po'
d'acqua, vi laverete i piedi e vi riposerete
sotto quest'albero. 5Io prenderò un
pezzo di pane, rinfrancherete il vostro
cuore, poi potrete proseguire; certo per
questo siete passati dal vostro servo».
Ed essi risposero: «Fa' pure come hai
detto».
6Abramo allora se ne andò in fretta nella
tenda da Sara e le disse: «Presto,
prendi tre seà di fior di farina, impastala
e fanne delle focacce». 7Poi Abramo
corse all' armento, prese un vitello
tenero e buono e lo diede al servo che
s'affrettò a prepararlo; 8quindi prese
della giuncata, del latte e il vitello che
aveva preparato e li pose davanti a loro,
mentre egli se ne stava in piedi vicino a
loro sotto l'albero: ed essi mangiarono.
9Poi gli dissero: «Dov'è Sara tua
moglie?». Ed egli rispose: «Eccola, è
nella tenda». 10E l'ospite: «Tornerò
certamente da te fra un anno ed ecco,
Sara tua moglie, avrà un figlio». Sara
intanto ascoltava all'ingresso della tenda,
dietro di lui.
11Ora Abramo e Sara erano vecchi,
avanzati in età e Sara aveva cessato di
avere i corsi che sogliono avere le
donne.
12Rise dunque Sara dentro di sé
dicendo: «Dopo di essere invecchiata mi
darò al piacere? E anche il mio signore è
vecchio». 13Ma il Signore disse ad
Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo:
È mai possibile che io possa partorire,
ora che sono vecchia? 14Vi è forse
qualcosa di difficile per il Signore?
Tornerò da te fra un anno, di questo
tempo, e Sara avrà un figlio». 15Allora
Sara negò dicendo: «Non ho riso»
perché ebbe paura. Ma egli disse: «No,
tu hai riso».
Nascita di Esaù e di Giacobbe
(Genesi 25, 21 e 24-26)
21Isacco
pregò il Signore per sua moglie
che era sterile. Il Signore l'esaudì e
Rebecca sua moglie concepì.
24Quando
venne il tempo di partorire,
ecco, due gemelli erano nel suo seno.
25Uscì fuori il primo, rosso tutto come un
mantello peloso, e gli fu posto nome
Esaù. 26Poi uscì fuori suo fratello, il
quale con la mano teneva il calcagno di
Esaù, e gli fu posto nome Giacobbe.
Isacco aveva sessant'anni quando li
generò.
Esaù vende la primogenitura
(Genesi 25, 27-34)
27Intanto
i fanciulli crebbero: Esaù
divenne un esperto cacciatore e uomo di
campagna, mentre Giacobbe fu uomo
pacifico che se ne stava sotto le tende.
28Isacco amava Esaù perché gli piaceva
la cacciagione, Rebecca invece
prediligeva Giacobbe.
29Ora Giacobbe aveva cotto una
minestra quando Esaù giunse dalla
campagna molto stanco. 30Ed Esaù
disse a Giacobbe: «Fammi mangiare, ti
prego, di questa pietanza rossa, perché
io sono stanco». Per questo fu chiamato
E d o m . 31Ma Giacobbe rispose:
«Vendimi subito la tua primogenitura».
32Ed Esaù disse: «Eccomi presso a
morire, che me ne fo della
primogenitura?». 33E Giacobbe rispose:
«Giuramelo subito». Ed egli giurò e
vendette la sua primogenitura a
Giacobbe. 34E Giacobbe diede ad Esaù
del pane e della minestra di lenticchie.
Ed egli mangiò e bevve, poi si levò e se
ne andò. Così Esaù disprezzò la sua
primogenitura.
Benedizione di Giacobbe
(Genesi 27, 1-38 e 41-44)
1Intanto
Isacco era invecchiato ed i suoi
occhi si erano indeboliti da non vederci
più. Allora chiamò Esaù suo figlio
maggiore e gli disse: «Figlio mio». Ed
egli rispose: «Eccomi». 2Gli disse:
«Ecco, io sono vecchio e ignoro il giorno
della mia morte. 3Ebbene, ti prego,
prendi le tue armi, la tua faretra e il tuo
arco, va' per i campi e prendimi della
selvaggina. 4Poi preparami un piatto
saporito, come piace a me, portamelo e
io lo mangerò, perché la mia anima ti
benedica prima di morire».
5Ora Rebecca stava ad ascoltare,
mentre Isacco parlava ad Esaù suo
figlio. E quando Esaù se ne fu andato in
campagna a caccia di selvaggina da
portare a suo padre, 6Rebecca parlò a
Giacobbe suo figlio dicendo: «Ecco, ho
udito tuo padre parlare a Esaù, tuo
fratello,
dicendo: 7Portami della
selvaggina e preparami un piatto
saporito; ne mangerò e ti benedirò
davanti al Signore prima della mia morte.
8Ora dunque, figlio mio, ascolta la mia
voce in ciò che io ti comando: 9Va' al
gregge e prendimi di là due bei capretti,
affinché io ne faccia un piatto saporito
per tuo padre come piace a lui, 10poi lo
porterai a tuo padre ed egli ne mangerà,
affinché ti benedica prima della sua
11
m o r t e » . 11E Giacobbe rispose a
Rebecca, sua madre: «Ma mio fratello è
peloso, mentre io sono di pelle liscia.
12Se mai mio padre avesse a palparmi,
diverrei ai suoi occhi come un truffatore
e mi attirerei addosso maledizione
invece di benedizione». 13Ma la madre
gli rispose: «Sia sopra di me la tua
maledizione, figlio mio; tu però ascolta la
mia voce: va' e portami i capretti».
14Allora egli andò, li prese e li portò a
sua madre, e sua madre ne fece un
piatto saporito, come piaceva a suo
padre.
15Poi Rebecca prese gli abiti di Esaù,
suo figlio maggiore, i più belli che
avesse in casa presso di sé e ne rivestì
Giacobbe suo figlio minore, 16mentre
con le pelli dei capretti ricoprì le sue
17
braccia e il suo collo liscio, 17quindi mise
in mano a Giacobbe, suo figlio, il piatto
saporito e il pane che ella aveva
preparato.
18Egli venne da suo padre e disse:
«Padre mio». Ed egli rispose: «Eccomi,
chi sei tu, figlio mio?». 19E Giacobbe
disse a suo padre: «Sono Esaù tuo
primogenito, ho fatto come tu m'hai
detto. Alzati, dunque, siediti e mangia
della mia selvaggina, affinché la tua
anima mi benedica». 20Ed Isacco replicò
a suo figlio: «Come hai fatto a trovarla
così presto, figlio mio?». Ed egli
rispose: «Perché il Signore, tuo Dio, mi
ci ha fatto imbattere». 21Ed Isacco disse
a Giacobbe: «Accostati, ti prego, figlio
mio, che io ti tasti. Sei tu davvero mio
figlio Esaù o no?». 22Giacobbe allora si
accostò a suo padre Isacco, il quale lo
tastò, e quindi disse: «La voce è la voce
di Giacobbe, ma le mani sono le mani di
Esaù». 23E non lo riconobbe, perché le
sue mani erano divenute pelose come le
mani di Esaù suo fratello e lo benedisse.
24E disse ancora: «Sei tu proprio il mio
figlio Esaù?». Ed egli rispose: «Sono
proprio io». 25Allora gli disse: «Porgimi
della selvaggina, figlio mio, perché ne
mangi e poi l'anima mia ti benedica».
Gliela porse ed egli ne mangiò; gli portò
anche del vino ed egli ne bevve. 26Poi
Isacco, suo padre, gli disse: «Avvicinati
e baciami, figlio mio».
27Ed egli si avvicinò e lo baciò. E sentì la
fragranza delle sue vesti e lo benedisse,
dicendo:
«Ecco l'odore del mio figlio,
è come l'odore di un campo
che il Signore ha benedetto.
28Che Dio ti dia
rugiada dal cielo,
fertilità della terra
e abbondanza di frumento e di mosto.
29Ti servano i popoli,
si prostrino davanti a te le nazioni,
sii il padrone dei tuoi fratelli,
si inchinino a te i figli di tua madre,
sia maledetto chi ti maledice
e benedetto chi ti benedice.»
30Ma
quando Isacco ebbe finito di
benedire Giacobbe e Giacobbe era
appena uscito dalla presenza di Isacco
suo padre, ecco tornare dalla sua caccia
Esaù suo fratello. 31Preparò anche lui un
piatto saporito e lo portò a suo padre e
piatto saporito e lo portò a suo padre e
gli disse: «Si alzi mio padre e mangi
della selvaggina di suo figlio, affinché la
tua anima mi benedica». 32Gli domandò
Isacco suo padre: «Chi sei tu?». Ed egli
rispose: «Io sono Esaù, il tuo figlio
primogenito». 33Allora Isacco fu preso
da un grande spavento e disse: «Chi è
stato dunque che ha preso della
selvaggina e me l'ha portata ed io ho
mangiato di tutto prima che tu venissi e
poi l'ho benedetto e benedetto sarà?».
34Quando Esaù ebbe inteso le parole di
suo padre diede in alte e amarissime
grida, poi disse al padre: «Benedici
anche me, padre mio». 35Ma egli
rispose: «Tuo fratello è venuto con
inganno ed ha carpito la tua
benedizione». 36Ed egli disse: «A
ragione gli fu posto nome Giacobbe, ché
due volte mi ha soppiantato: mi ha tolto
la primogenitura ed ora ha carpito la mia
benedizione. Ma tu, soggiunse, non hai
serbato per me alcuna benedizione?».
37E Isacco, prendendo la parola, rispose
ad Esaù: «Ecco, io l'ho costituito tuo
padrone, gli ho dato tutti i suoi fratelli per
servi, l'ho provvisto di frumento e di
mosto. E ora, che posso mai fare per te,
figlio mio?». 38Esaù disse a suo padre:
«Hai tu una sola benedizione, padre
mio? Benedici anche me, padre mio».
Poi Esaù levò la sua voce e pianse.
41Esaù
prese ad odiare Giacobbe a
motivo della benedizione con la quale
suo padre l'aveva benedetto ed Esaù
disse in cuor suo: «Si avvicinano i giorni
del lutto per mio padre, allora io ucciderò
del lutto per mio padre, allora io ucciderò
Giacobbe, mio fratello». 42Furono però
riferite a Rebecca le parole di Esaù suo
figlio maggiore ed ella mandò a
chiamare Giacobbe suo figlio minore e
gli disse: «Ecco, Esaù tuo fratello si
vuole vendicare di te, uccidendoti.
43Ebbene, figlio mio, ascolta la mia
voce, levati e fuggi a Caran, da Labano
mio fratello. 44Rimarrai con lui per
qualche tempo, finché non si sia calmata
l'ira di tuo fratello».
Il sogno di Giacobbe
(Genesi 28, 10-16)
10Giacobbe
intanto, partito da Bersabea,
si diresse verso Caran. 11E giunse in
quel luogo dove passò la notte, perché il
sole era già tramontato. Prese una delle
pietre del posto, se la pose come
capezzale e in quello stesso luogo si
coricò. 12E fece un sogno, ed ecco una
scala era poggiata sulla terra e la sua
cima arrivava fino al cielo. Ed ecco gli
angeli di Dio salivano e scendevano per
essa.
13Ed ecco, il Signore stava sopra di
essa e diceva: «Io sono il Signore, il Dio
di Abramo, tuo padre e il Dio di Isacco.
Io darò a te e alla tua discendenza la
terra sopra la quale tu ora sei coricato.
14La tua discendenza sarà come la
polvere della terra. Ti estenderai a
occidente e ad oriente, a settentrione e a
mezzogiorno. Tutte le nazioni della terra
poi saranno benedette per te e per la tua
discendenza. 15Ed ecco, io sono con te
e ti custodirò dovunque tu andrai, ti
ricondurrò in questo paese e non ti
abbandonerò finché non avrò compiuto
quanto ti ho detto».
16Svegliatosi dal sonno Giacobbe disse:
«Veramente il Signore è in questo luogo
e io non lo sapevo».
Giacobbe in casa di Labano
(Genesi 29, 1-30)
1Poi
Giacobbe si rimise in cammino e
giunse nel paese dei figli dell'Oriente. 2E
guardò, ed ecco nella campagna un
pozzo, ed ecco, là vicino ad esso
stavano sdraiati tre greggi di pecore,
poiché a quel pozzo si abbeveravano i
greggi, ma sulla bocca del pozzo c'era
una grande pietra. 3E quando tutti i
greggi si erano radunati là, rotolavano la
pietra dalla bocca del pozzo,
abbeveravano i greggi e quindi
rimettevano la pietra al suo posto, sulla
bocca del pozzo. 4Giacobbe disse loro:
«Fratelli miei, di dove siete?».
Risposero: «Siamo di Caran». 5Disse
loro: «Conoscete Labano figlio di
Nacor?». Risposero: «Lo conosciamo».
6E disse: «Sta bene?». Risposero: «Sta
bene, ed ecco Rachele, sua figlia, che
viene col gregge». 7Allora egli disse:
«Ecco, il giorno è ancora alto, non è
tempo di radunare il bestiame:
abbeverate il gregge e tornate a
pascolare». 8Ma essi risposero: «Non
possiamo, finché non si siano radunati
tutti i greggi e si rotoli la pietra dalla
bocca del pozzo; solo allora potremo
abbeverare il gregge».
9Egli stava ancora parlando con loro,
quando venne Rachele con il gregge di
suo padre, perché anche lei pasceva il
gregge. 10E appena Giacobbe ebbe
veduto Rachele, figlia di Labano, fratello
di sua madre, con il gregge di Labano,
fratello di sua madre, Giacobbe si
appressò, rotolò la pietra dalla bocca del
pozzo e abbeverò il gregge di Labano,
fratello di sua madre, 11poi Giacobbe
baciò Rachele, alzò la voce e pianse.
12Quindi Giacobbe dichiarò a Rachele
che egli era fratello di suo padre e figlio
di Rebecca. Ed ella corse e lo riferì a
suo padre.
13Quando Labano ebbe appreso la
notizia di Giacobbe, figlio di sua sorella,
gli corse incontro, l'abbracciò, lo baciò e
lo condusse a casa sua. Ed egli
raccontò a Labano tutte queste cose.
14Poi Labano gli disse: «Tu sei proprio
delle mie ossa e della mia carne». Ed
egli rimase con lui un mese intero.
15Allora Labano disse a Giacobbe:
«Perché sei mio fratello, mi dovrai
servire per niente? Indicami quale deve
essere il tuo compenso». 16Ora Labano
aveva due figlie, la maggiore si chiamava
Lia e la minore Rachele. 17Lia aveva gli
occhi smorti, Rachele invece era bella di
forme e bella di sembianze. 18Perciò
Giacobbe amava Rachele. Disse
dunque: «Ti servirò sette anni per
Rachele, tua figlia minore». 19Rispose
Labano: «È meglio la dia a te che ad un
altro uomo. Rimani con me». 20Così
Giacobbe servì per Rachele sette anni,
e gli parvero pochi giorni tanto era
l'amore che le portava.
21Poi Giacobbe disse a Labano:
«Dammi mia moglie, perché è passato il
tempo e io voglio entrare da lei».
22Allora Labano invitò tutta la gente del
luogo e fece un banchetto. 23Ma la sera
prese sua figlia Lia e la condusse da lui.
Ed egli entrò da lei. 24Labano diede
inoltre per serva a sua figlia Lia la sua
serva Zilpa. 25Ma al mattino, ecco
apparve che essa era Lia. Allora egli
disse a Labano: «Cosa mi hai fatto? Non
è forse per Rachele che io ti ho servito?
Perché mi hai ingannato?». 26Rispose
Labano: «Non si usa così dalle nostre
parti, che si dia la minore prima della
maggiore. 27Compi pure la settimana
con questa e ti daremo anche quella per
il servizio che mi presterai per altri sette
anni». 28Giacobbe fece così; compì la
settimana con quella ed allora Labano gli
diede in moglie anche sua figlia
Rachele. 29Labano diede inoltre come
serva a sua figlia Rachele la sua serva
Bila. 30Ed egli entrò anche da Rachele e
amò Rachele più di Lia e servì Labano
per altri sette anni.
Disobbedienza del profeta a Dio
(Giona 1, 1-16)
1La
parola del Signore fu rivolta a Giona,
figlio di Amittai, per dire: 2«Su, va' a
Ninive, la grande città, e grida contro di
essa, perché la loro malvagità è salita
sino a me». 3Ma Giona s'alzò per fuggire
a Tarsis, lungi dal cospetto del Signore.
Scese a Ioppe, vi trovò un vascello che
salpava per Tarsis, pagò il prezzo e vi
salì per andare con loro a Tarsis, lungi
dal cospetto del Signore.
4Ma il Signore scatenò un gran vento sul
mare e vi fu una sì grande burrasca in
mare che il vascello minacciava di
sfasciarsi. 5Ne ebbero paura i marinai e
gridarono, ciascuno al suo dio, e
gettarono in mare le mercanzie ch'erano
sul vascello per alleggerirlo. Giona
invece era sceso in fondo al vascello,
anzi s'era coricato e dormiva
p ro f o nd ame nte . 6Allora
il
capo
dell'equipaggio gli s'accostò e gli disse:
«Che hai tu, dunque, che dormi? Su,
grida al tuo Dio, forse Dio si darà
pensiero di noi, e non periremo». 7Poi si
dissero l'un l'altro: «Orsù, gettiamo le
sorti e sapremo per colpa di chi ci capita
questa disgrazia». Gettarono le sorti e la
sorte cadde su Giona.
8E gli dissero: «Facci dunque conoscere
tu, per cui questa sciagura ci è capitata,
le tue faccende. Di dove vieni? Qual è il
tuo paese? A quale popolo appartieni?».
9Egli rispose loro: «Io sono ebreo e
temo il Signore, il Dio dei cieli, colui che
ha fatto il mare e la terraferma». 10Quegli
uomini furono presi da grande spavento
e gli dissero: «Perché mai hai agito
così?». Quegli uomini infatti erano venuti
a sapere che egli fuggiva dal cospetto
del Signore, avendolo egli dichiarato
loro. 11E gli dissero: «Che dobbiamo
farti perché il mare si plachi attorno a
noi?». Il mare infatti andava crescendo e
ingrossando sempre più. 12Rispose loro:
«Prendetemi e gettatemi in mare, e si
placherà il mare attorno a voi. So infatti
che è per colpa mia che una sì grande
burrasca s'è alzata contro di voi».
13Nondimeno quegli uomini cercarono,
remando, di guadagnare terra, ma non lo
poterono, perché il mare andava
crescendo e ingrossando sempre più
contro di loro. 14Allora gridarono al
Signore dicendo: «Deh, Signore, che
non abbiamo a perire noi per la vita di
quest'uomo e non far ricadere su noi del
sangue innocente, poiché sei tu, o
Signore, che hai agito come ti è
piaciuto». 15Allora sollevarono Giona, lo
gettarono in mare, e il mare s'acquetò
dal suo furore. 16Gli uomini furon presi
da gran spavento verso il Signore.
Offrirono un sacrificio al Signore e
fecero dei voti.
Giona nel ventre del pesce. Suo
cantico al Signore
(Giona 2, 1-2 e 11)
1E
il Signore dispose che un gran pesce
inghiottisse Giona; così per tre giorni e
tre notti stette Giona nel ventre del
pesce. 2E dal ventre del pesce Giona
pregò il Signore, suo Dio.
11Allora
il Signore comandò al pesce ed
esso rigettò Giona sulla terraferma.
Predicazione e ravvedimento di
Ninive
(Giona 3, 1-10)
1La
parola del Signore fu rivolta a Giona
una seconda volta per dire: 2«Su, va' a
Ninive, la grande città, e grida contro di
essa quel che ti dirò». 3S'alzò dunque
Giona e andò a Ninive, secondo la
parola del Signore. Ninive era una città
grande davanti a Dio; ci volevano tre
giorni
ad
attraversarla. 4E Giona
cominciò a penetrare nella città per il
cammino di un giorno e gridò in questi
termini: «Ancora quaranta giorni e Ninive
sarà distrutta». 5Gli abitanti di Ninive
credettero in Dio, indissero un digiuno e
si rivestirono di sacchi, dal più grande al
più piccolo. 6E la nuova pervenne al re di
Ninive, che s'alzò dal suo trono, si tolse
di dosso il manto, si coprì di sacco e
sedette sulla cenere. 7Per volere del re
e dei suoi grandi fu proclamato e letto in
Ninive un decreto in questi termini:
«Uomini e bestie, sia gli armenti che i
greggi, non gustino nulla, non pascolino,
né bevano acqua. 8Si ricoprano di
sacco, uomini e bestie, e gridino a Dio
con forza e si ritragga ciascuno dalla sua
malvagia condotta e dalla violenza ch'è
nelle sue mani. 9Chi sa che Dio non muti
e si penta, che deponga l'ardore della
sua ira, sì che noi non periamo».
10E quando Dio vide le loro azioni, come
si erano ravveduti dalla loro condotta
malvagia, allora Dio si pentì del male che
aveva predetto di fare loro e non lo
compì.
Sdegno di Giona e risposta del
Signore
(Giona 4, 1-11)
1Ma
Giona ne provò gran dispiacere e
se ne sdegnò. 2E pregò il Signore
dicendo: «Ah, Signore! Non lo dicevo io
forse, mentr'ero ancora nella mia patria?
Per questo m'ero affrettato a fuggire a
Tarsis. Sapevo infatti che tu sei un Dio
clemente e misericordioso, lento alla
collera e pieno di benevolenza, facile a
pentirsi del male. 3Orbene, Signore,
toglimi, ti prego, la vita, poiché è meglio
per me morire che vivere». 4Ma il
Signore disse: «Hai tu ragione a
sdegnarti così?».
5E Giona uscì dalla città e si pose a
sedere ad oriente della città; ivi si fece
un capanno e vi si sedette sotto,
all'ombra, per vedere ciò che sarebbe
accaduto alla città.
6Allora il Signore Iddio, dispose che un
ricino crescesse al di sopra di Giona per
far ombra al suo capo e per liberarlo dal
suo dispiacere. E Giona provò una
grande gioia per quel ricino. 7Poi Dio
comandò che l'indomani, al sorgere dell'
aurora, un verme colpisse il ricino, che
seccò. 8Ed ecco che al sorgere del sole
Dio preparò un vento orientale bruciante
e il sole picchiò sul capo di Giona che si
sentì venir meno e bramò la morte
dicendo: «Meglio è per me morire che
vivere». 9Allora Dio disse a Giona: «Hai
tu ragione di sdegnarti così per il ricino?
». Rispose: «Sì, ho ragione di
sdegnarmi sino alla morte». 10Ma il
Signore disse: «Tu hai pietà del ricino
per il quale non ti sei affaticato, che tu
non hai fatto crescere; è nato in una
notte e in una notte è scomparso. 11E
non dovrei io avere pietà di Ninive, la
grande città, nella quale vi sono più di
centoventimila persone, che non sanno
distinguere tra la destra e la sinistra, e
tanto bestiame?».
Invasione delle cavallette
(Gioele 1, 1-4)
1Parola
del Signore che fu rivolta a
Gioele, figlio di Petuel.
2Udite questo, o anziani,
porgete orecchio, abitanti tutti del paese.
È mai avvenuto ciò ai vostri giorni,
o ai giorni dei vostri padri?
3Narratelo ai vostri figli
e i vostri figli ai loro figli,
e i loro figli alla generazione successiva.
4Il resto del grillo
lo ha divorato la locusta,
il resto della locusta
lo ha mangiato il bruco,
il resto del bruco
lo ha mangiato la cavalletta.
Il giorno del Signore
(Gioele 2, 1-10)
1Suonate
il corno a Sion,
mandate grida sul mio monte santo.
Tremino tutti gli abitanti del paese,
perché viene il giorno del Signore,
perché è vicino.
2Giorno di tenebre e di oscurità,
giorno di nubi e di caligine.
Come fuliggine, si spande sui monti
un popolo numeroso e forte.
Simile a lui mai ve ne fu,
né mai ve ne sarà dopo di lui,
sino agli anni dell'ultima generazione.
3Dinanzi a lui un fuoco divora
e dietro a lui una fiamma brucia.
Il paese è un giardino d'Eden dinanzi a
lui,
ma dietro a lui è un deserto desolato:
Non v'è scampo da lui.
4Il suo aspetto è aspetto di cavalli,
corrono come cavalieri.
5Sono come un fragore di carri
che saltellano sulla cima dei monti,
come un crepitio di fiamma infocata
che divora la paglia,
come un popolo possente
schierato a battaglia.
6Dinanzi a lui tremano i popoli,
si sbiancano i volti di tutti.
7Corrono come prodi,
come uomini di guerra
scalano le mura.
Vanno ciascuno per il proprio cammino
e non deviano dai loro sentieri.
8Nessuno incalza l'altro,
vanno ciascuno per il proprio sentiero,
passano attraverso i dardi
senza rompere le file.
9Si precipitano nella città,
corrono sulle mura,
s'arrampicano su per le case,
entrano dalle finestre come un ladro.
10Dinanzi a lui trema la terra,
si scuotono i cieli.
Sole e luna s'oscurano
e le stelle perdono il proprio splendore.