lullaby. la ninna nanna della morte

Transcript

lullaby. la ninna nanna della morte
g
LE TORPEDINI
1
ISBN: 978-88-7615-378-5
I edizione: febbraio 2010
© Alberto Castelvecchi Editore Srl
Via Isonzo, 34
00198 Roma
Tel. 06.8412007 - fax 06.85865742
www.castelvecchieditore.com
[email protected]
BARBARA
BARALDI
Lullaby
La ninna nanna della morte
Stai fermo, stai calmo, stai tranquillo ora,
mio prezioso ragazzo, non lottare
o ti amerò ancora di più.
THE CURE, Lullaby
PROLOGO
Futuro prossimo
Alberi, sole accecante, campi di grano.
Insetti fluttuanti, ancora alberi e qualche fiore viola a
colorare un fosso.
Vedo la mole massiccia dell’ex acquedotto. Aumento il
passo per vincere il desiderio di scappare lontano e mettere a tacere l’ansia che mi attanaglia. Scavalco la recinzione
bassa. Poco più avanti è sfondata, ma preferisco avere la
sensazione di trasgredire.
«C’è nessuno?». Se anche ci fosse anima viva non potrebbe certo sentirmi se sussurro in questo modo.
Un rumore basso.
Procedo seguendo il perimetro, il grigio soffocante rilascia il calore che ha fagocitato, sembra di essere all’inferno. Ho le vertigini.
Proseguo calpestando la terra secca, graffiti volgari, promesse d’amore scritte a pennarello, bestemmie contro il
cielo.
L’ansia mi cresce dentro. Alzo il livello di guardia, devo
incollarmi a quel briciolo di razionalità che di solito ignoro. Non oggi, non in questo momento.
Seguo le scritte sul metallo consumato della cisterna piccola. Sbarro gli occhi, mi si secca la gola. Una mano rossa,
9
sembra fatta di sangue, un writer ispirato da un film horror.
Mi avvicino e mi accorgo che è in movimento. Sta colando.
Un balzo indietro.
Mi guardo alle spalle, ormai sono troppo lontana dalla
strada, completamente coperta dall’ombra della grande
cisterna. Avverto il pericolo, mai tornare indietro in caso di
pericolo. Troppo prevedibile. Allora corro in avanti.
Inciampo.
D’istinto allungo le braccia. Lo abbraccio quasi, la mia
bocca a pochi centimetri dalla sua. Spalancata.
Il cadavere, occhi vitrei che non vedono, mi fissa. Sgozzato, scomposto.
Grido.
Alcuni uccelli spiccano il volo con stridore di ali. Un
passo indietro.
Grida anche lui, ma nessun suono. Dalla bocca un filo di
saliva. Il collo squarciato. Un universo viscoso da cui partono fiotti rossi che si allargano in macchie dense sulla terra sterile. La testa reclinata all’indietro separata dal tronco
in un lago di orrore. La maglietta alzata, i pantaloni abbassati, graffi sul corpo, ferite violente, più o meno profonde.
Sembrano i segni che un naufrago disperato ha inciso su
un pezzo di legno per non perdere il conto dei giorni.
Trattengo un conato, un altro passo indietro, non posso
smettere di fissarlo.
Grido ancora, ma sento solo la terra che restituisce
un’eco sommessa e una voce che mi rimbomba nella testa. Scappa, scappa!
Comincio a correre.
10
I
Rivelazione
1
Marcello
«Ma cosa ti fissi con il precariato, la vita è precaria, la
fidanzata è precaria, tutto è precario a questo mondo».
«Sì, ma se tutti ragionassero come te vivremmo ancora
nelle caverne, o sopra gli alberi».
«E non sarebbe una cattiva idea, dato che poi viene il
terremoto e distrugge il lavoro di una vita intera. Vedi, siamo come formiche, cambia solo la scala infinitesimale: ci
affanniamo, costruiamo, ci diamo da fare e poi arriva un
bambino grasso e stronzo che versa l’alcol, butta il fiammifero e si diverte a vederci crepare con la pancia all’aria.
Aveva ragione la cicala. Meglio godersi la vita, ché la primavera, poi, magari nemmeno esiste…».
«Ma fammi il piacere e smettila con la tua retorica, che
hai quarant’anni e non hai mai dovuto lavorare! Vivi ancora
con la pensione della mamma improvvisandoti scrittore».
«Se permetti io sono uno scrittore. E poi non potrei fare
un altro lavoro neanche se volessi. Mia madre ha bisogno
di assistenza continua e se non fosse per me dovrebbe pagare un’infermiera, e sai quanto costano? O magari mi consigli la badante rumena, così una sera ci avvelena entrambi
13
e ci fotte tutto per mantenere i ragazzini che ha seminato
in patria?».
«Sei pure razzista! Ma che testa di cazzo, guarda. Va’,
Gianni, dammi un altro spritz che il nostro comune amico oggi ha voglia di darci lezioni di vita».
«Anche per me», esplodo mentre sbottono il colletto
della camicia.
È una sera come tante al bar da Gianni. Ci siamo io e il
Fede, il mio migliore amico dalle elementari.
Sì, perché in paese funziona così, o forse in tutto il mondo funziona così: gli amici te li fai per caso, non per scelta.
Conosci i compagni di banco, i vicini di casa e poi un po’
per noia, un po’ per abitudine non te li levi più di torno.
Queste amicizie decise non si sa bene da chi o da cosa danno il diritto a due persone completamente diverse, e a volte
incompatibili, di dirsi ogni sorta di cattiveria mascherandola sotto forma di consiglio di chi ti vuole bene. Te lo dico
da amico, anzi, da fratello, perché quando si superano i dieci anni di amicizia, volenti o nolenti si diventa fratelli.
Mio fratello Fede, detto anche «quello stronzo del Fede», mi ha appena dato del fallito, e neanche troppo velatamente, ma io so come pareggiare i conti.
Tracanno un sorso per schiarirmi la gola, lo guardo negli occhi stretti di un colore indefinito. Non sono mai riuscito a decifrarlo, il colore, neanche quando era meno
saccente e attaccava i chewingum sotto il banco.
Anche adesso ha il vizio di masticare di continuo. La sua
bocca deve essere in perpetuo movimento. Parole, cibo,
aria, poco importa. Quello che conta è muovere le fauci.
Ora gli spengo quell’espressione da «ho avuto l’ultima
parola».
14
«Sai, il figlio di Nicola il panettiere, quello alto che va
sempre in giro con i capelli a punta…».
«Non mi piace quel ragazzo, dicono che si droga», mi
interrompe.
Ecco la frase del secolo, dicono che si droga. Chi lo dice?
In che modo si droga? Una canna? O si brucia le narici a
forza di sniffare. Oppure si fa in vena o mangia le pasticche
come fossero Zigulì o no, forse è coltivatore diretto di funghetti che ha comprato su Internet, di quelli allucinogeni,
che poi ti sembra di volare e scambi tua madre per uno
zombie e ti risvegli con le sue budella tra le mani.
«Sì, l’ho sentito dire. Non solo si droga, spaccia. E a volte non si fa pagare», aggiungo.
«Che cosa vuoi dire?».
«Voglio dire che a volte invece dei soldi, a certa gente,
piace chiedere altri tipi di favori».
Lui rimane a fissare le ultime due dita arancione sbiadito del suo spritz, sta spremendosi le meningi, ma non riuscirà a comprendere il senso malizioso delle mie parole.
Aspetto ancora un po’. Ingurgita l’ultimo sorso aggrappandosi al potere visionario del prosecco unito al Campari, non ce la può fare.
«Se la fa con le ragazzine in cambio della droga. Canne
in cambio di un pompino», aggiungo lapidario.
«Non ci credo. Ma chi te l’ha detto?».
«Mario, del bar della stazione. Lo vede sempre bazzicare in quella zona, è lì che incontra le sue prede. Spesso sono minorenni».
«È una cosa davvero vergognosa! E i genitori?».
«Cosa vuoi, i genitori fanno quello che possono. I ragazzi d’oggi sanno essere bugiardi. Vado dall’amica a farmi
15
spiegare il compito che non ho capito e invece si vanno a
far riempire la bocca in cambio di un po’ di sballo».
«Ma dai, un po’ di decenza! Sei sempre così volgare! Ho
afferrato anche se non entri nei particolari».
Con il Fede certe cose non si possono nominare, solo far
intendere. A volte penso che con sua moglie l’abbiano fatto
solo quell’unica volta, per concepire la bambina, e magari
sono rimasti pure vestiti.
Ricomincio con la mia favola della malanotte: «L’altra
sera sono uscito dopo cena. Avevo finito le sigarette e mi
servono per concentrarmi quando scrivo», aggiungo per
vedere bene il suo sorriso illuminarsi mentre pensa che ci
vorrebbe ben altro che un pacchetto di sigarette per accendermi l’ispirazione. «Ho sentito dei rumori mentre entravo
al bar, ma non ci ho fatto troppo caso. Poi sono uscito e
me ne sono accesa una. Era buio, ma con la luce soffusa
dell’unico lampione ho visto qualcosa…».
«Che cosa?», chiede con una punta di curiosità morbosa.
«L’ho riconosciuto, era il figlio del panettiere, con quei
capelli non ti puoi sbagliare. Era con una piccolina, sembrava una bambina. Ho sentito degli strani mugolii così mi
sono avvicinato per controllare che nessuno stesse male».
Sghignazzo interiormente.
«Be’, quando ero abbastanza vicino si sono fermati. Lei
si è alzata di scatto dalla patta dei suoi pantaloni ed è fuggita via. Strano, forse mi ha visto e ha avuto paura di essere riconosciuta».
Ora Fede sta facendo quell’espressione, quella di quando un pensiero brutto ti si incolla addosso e non riesci più
a scrollartelo via. Ordina una grappa, si guarda la punta
delle scarpe.
16
La mia pausa è studiata per generare pathos, sono uno
scrittore d’altronde.
Non ce la fa più.
«Ma l’hai riconosciuta?».
«Chi?», fingo di cadere dalle nuvole.
«La ragazza, come chi, quella di cui stavi parlando proprio adesso». È spazientito.
Faccio un’altra pausa. «No, troppo buio. Aveva un giubbottino rosa. Immagino non ce ne siano tante in paese, di
adolescenti con la giacchetta rosa confetto».
Sbianca, inghiotte la sua grappa. Si alza, balbetta una
scusa, la moglie, il lavoro arretrato, tutti e due. Paga anche per me e se ne va.
«Evviva i figli», e alzo il bicchiere. Gianni mi guarda
senza capire. Adesso il mio cuore è più leggero. Mi sento
ispirato. Vado a scrivere.
Oggi è la volta buona che finisco il primo capitolo.
Cammino sotto la falce di luna. Cammino con il cielo
nero sopra la testa. Nessuna stella, solo quella polare,
grande e lucente come una pietra preziosa.
Forse il libro che ho cominciato a scrivere non terminerà mai. Penso e ripenso fino a spremermi dentro, ma
quando mi ritrovo davanti la pagina bianca del pc, le parole che mi frullavano in testa scompaiono. È come se si
smembrassero, perdessero di consistenza. Diventassero
trottole indemoniate che sbattono l’una contro l’altra.
Rumore sordo nelle orecchie.
Mi sembra di scoppiare e allora devo alzarmi e accendermi una sigaretta.
Che cosa mi manca?
17
Nessuna risposta. Solo il russare cadenzato dalla camera di mia madre.
Comincio a pensare che forse è lei a rubare i miei pensieri.
Lei, che si attacca alla vita con la violenza di un corpo
decrepito che non vuole scomparire.
Lei, che mi ha sempre trattenuto in questo paese di merda con la sua volontà di ferro e i ricatti sottili nascosti tra i
silenzi delle nostre giornate.
Se lei fosse morta io potrei…
Potrei?
Appoggiato allo stipite della porta mi avvicino con passi
felpati alla sua figura immobile; la guardo febbricitante,
un sorriso da clown stampato in volto. Allungo la mano e
sposto leggermente il lenzuolo di lino bianco che la copre
come un sudario.
Ha i lineamenti contratti, le pieghe attorno alla bocca la
trasformano in una maschera grottesca. Labbra socchiuse per respirare avidamente. Russa, un rumore sordo, non
le basta respirare semplicemente. Ansima, è golosa d’aria.
Una folle idea si impadronisce dei miei pensieri. Sorrido
appena, turbato dallo stesso desiderio che ha preso forma
dentro di me.
Rimango immobile a un passo da lei.
Lei, abbandonata all’incoscienza con fiducia.
Lei, che potrei allungare una mano e…
La fine, finirebbe così la sua vita. In fin dei conti, se mi
ha fatto nascere, io potrei benissimo farla morire.
La dolce penombra della stanza nasconde la mia figura
scura, in piedi di fronte al sudario. Mi sento improvvisamente più alto, più forte, mi sento come una penna pronta a scrivere la storia della vita di un’altra persona.
18
È strano come a volte le folgorazioni, le verità nascoste,
l’essenza stessa della vita che tanto hai cercato e agognato
arrivino così, quando meno te lo aspetti.
Mi avvicino piano.
Piano. Una parola che a volte fa male, ma oggi no, oggi
fa bene. Mi fa godere muovermi a rilento, sentirmi la mano di Dio che tutto può su una vita inerme.
Ora io sono il bambino grasso con l’alcol e i fiammiferi.
Ora io sono. A pochi centimetri da lei e dal suo alito cadenzato.
Mi allungo lievemente e afferro il cuscino al suo fianco.
Lo stringo tra le mani.
Arma soffice. Arma letale.
La guardo, immagazzino tutti i particolari del volto segnato, la ricordo giovane, io bambino. È lei che sta per
morire, ma sono io a vedere il film della sua vita.
Sento il primo vagito, immagino i primi passi barcollanti, le prime simpatie, il giorno che ha conosciuto l’uomo che è diventato suo marito e non riesco a chiamare
padre perché se n’è andato prima che nascessi.
Mammà, che ha saputo risposarsi ed essere moglie modello e madre… madre?
Che madre è stata? Affettuosa mai, e nemmeno dolce o
tutti gli altri aggettivi che di solito usano i bambini per
riempire la letterina della festa della mamma. Per quanto
mi riguarda, era la maestra a dovermi suggerire ogni anno qualcosa da scrivere. Mi vedeva con la testa china sul
foglio, confuso. Restava a fissarmi per un po’, poi abbassava il viso e mi dettava all’orecchio una frase banale, forse impietosita dalla mia rassegnazione.
Presente. Ecco, una madre presente. Così presente da
vivere anche la mia vita, insieme alla sua.
19
In questo momento la odio così tanto… ma è strano: la
comprendo. La comprendo in quanto è un essere umano.
Ma non da essere umano. Perché ora io sono un dio alato.
Vendicativo, potente, veloce, spietato.
Trattengo a stento una risata violenta.
Io, in piedi con un cuscino in mano, a un soffio dal respiro di mia madre.
Illuminante.
2
Marcello
Spalanco gli occhi. Sono nel letto, un braccio attorno al
cuscino. Il lenzuolo disordinato sul pavimento come uno
spettro calpestato.
Mi guardo intorno. Il portatile è aperto anche se lo schermo è scuro. Addormentato.
Dieci minuti di inattività e si spegne. I primi tempi rischiavo di diventare matto a forza di fissarlo senza scrivere una parola. Ora, se rimango imbambolato a lungo lui
mi abbandona, mi fa capire che sono un perdente.
Un risveglio estraniante, souvenir vaghi della notte trascorsa. Nessun rumore di vita attorno a me, sembro solo
al mondo.
Forse guardando fuori dalla finestra mi accorgerò che
l’universo è esploso e sto vagando in un mare di detriti, sospinto dalle onde di un destino crudele che mi ha risparmiato, unico testimone del delirio finale. Un piccolo uomo stupido, in una casa che galleggia sui ricordi della vita che
non ho mai vissuto.
20