L`EDUCAZIONI DOMICILIARE NELLA SINDROME

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L`EDUCAZIONI DOMICILIARE NELLA SINDROME
L’EDUCAZIONE DOMICILIARE NELLA SINDROME DI DOWN E
NELLA SINDROME AUTISTICA
Angela Bettin, laureata in Scienze dell’Educazione all’Università di Padova.
Elisabetta Monari Martinez, Università di Padova.
Si tratta di un programma educativo individualizzato svolto a
domicilio, concordato con le famiglie e la scuola, rivolto a
bambini/ragazzi con sindrome di Down e/o con autismo. Esso
comprende attività ricreative, di doposcuola e per l’autonomia. In
particolare si vuole favorire il linguaggio e la comunicazione. La
famiglia è coinvolta attivamente, per poterlo continuare
autonomamente e per riaffermare il suo ruolo educativo. Dopo
aver presentato alcune delle attività svolte, si discutono i risultati
di un questionario proposto alle famiglie ed agli educatori: gli
interventi sono stati ritenuti efficaci, in particolar modo per lo
sviluppo della comunicazione e delle abilità cognitive.
Educazione domiciliare: caratteristiche fondamentali
L’educazione domiciliare nella sindrome di Down e nella sindrome autistica è un servizio iniziato in via sperimentale da
E. Monari Martinez nel 1999 in seno prima all’Associazione Down Padova, oggi Associazione Down Autismo e Disabilità
Intellettiva, e poi esteso nel 2001 anche ai soci dell’Associazione Autismo Padova, da lei fondata insieme ad altri
genitori. L’idea era nata dall’osservazione dei risultati importanti ottenuti da una logopedista “ripetitrice” su un ragazzo
Down e sordo. Il ragazzo infatti, come sordo, usufruiva del servizio dei “ripetitori” domiciliari, che la Provincia di Padova
da anni fornisce ai disabili sensoriali ipovedenti e ipoacusici, in età scolare. L’attività del ripetitore è sostanzialmente un
doposcuola pomeridiano per aiutare l’esecuzione dei compiti di casa e chiarire gli argomenti svolti a scuola. Purtroppo,
mentre nella disabilità sensoriale si ritiene doveroso investire in un miglioramento culturale fin dall’età scolare, perché il
bambino disabile possa fruire, in maniera adeguata per lui, delle conoscenze di tutta la comunità in cui vive, per il
bambino con disabilità intellettiva si ritiene che ciò sia inutile, perché comunque non avrebbe le capacità di fruire della
cultura di tutti. Ciò significa che anche l’integrazione scolastica è percepita come utile più dal punto di vista sociale che
per una vera promozione culturale del disabile. Al contrario noi riteniamo che anche nella disabilità intellettiva ci sia
necessità di investire in cultura, che è un bene universale, trovando le strategie giuste, perché risulti fruibile. D’altra
parte gli studi più recenti sul ritardo mentale stanno chiarendo quali sono le difficoltà cognitive per ciascuna patologia e
permettono di mettere a punto programmi più mirati: la sindrome di Down è sicuramente la più studiata, per la maggiore
incidenza, ma anche nell’autismo c’è una ricerca promettente.
Il servizio di educazione domiciliare si propone quindi di agire educativamente nell’ambiente domestico, cioè là dove la
persona vive, sostenendo che il suo benessere e la sua crescita sono direttamente collegati a quelli della sua famiglia.
Il servizio, dunque, aiuta la famiglia a svolgere un ruolo attivo, positivo e propositivo, ad apprendere modalità educative
specifiche ed efficaci, a migliorare le aspettative e l’accettazione della disabilità del figlio, condividendo i compiti
educativi e sentendosi di conseguenza sollevata dallo stress.
In questo paradigma dello scambio, la famiglia, attore e autore dell’intervento, pensa su di sé e cerca con gli educatori
soluzioni adeguate.
L’educatore (generalmente tirocinante in Scienze dell’Educazione o in Psicologia) che entra nelle case svolge un ruolo
con varie sfumature, rivolgendo il suo agire direttamente all’utente e in sinergia con la famiglia e le altre figure educative,
come gli insegnanti della scuola. Il lavoro di rete così creato, vede l’interazione anche con il mondo della scuola e della
riabilitazione allo scopo di dirigere le energie multiple verso la stessa meta, ed inoltre usufruire dello scambio di
conoscenze utili ad avere un quadro della situazione più completo e complesso.
Il servizio ha quindi un altro importante gruppo di obiettivi: la promozione della persona disabile nel linguaggio e nella
comunicazione, nel gioco, nelle abilità scolastiche e nell’educazione permanente, nel controllo del comportamento,
nell’acquisizione dell’autonomia, nell’integrazione sociale.
L’educazione domiciliare è stata proposta da E. Monari Martinez in vari progetti ed è stata finanziata ripetutamente dalla
Regione Veneto ed attualmente dall’ULSS n.16 di Padova.
Educazione domiciliare: Progetto
Il progetto si suddivide in tre fasi, formativa, esecutiva e di verifica, che spesso si sovrappongono.
La fase formativa prevede la formazione degli educatori (generalmente tirocinanti) attraverso materiale bibliografico,
convegni, corso di formazione, colloqui con la coordinatrice per la progettazione degli interventi, incontri di scambio tra
educatori. Nella formazione uno degli aspetti più significativi riguarda la messa a punto, la comprensione e l’acquisizione
di tecniche alternative di comunicazione (lingua dei segni, immagini, pittogrammi, lingua scritta, comunicazione facilitata,
disegno facilitato e non....). Nella fase formativa l’educatore entra già in contatto con i casi che seguirà, affiancando
l’educatore che già segue il bambino oppure, se il bambino non è stato seguito prima, affiancando altri educatori che
seguono casi simili.
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Questa fase prevede il coinvolgimento della famiglia nella preparazione del programma. Quando è possibile, è coinvolta
anche la scuola per la scelta dei programmi scolastici da compiere e l’èquipe riabilitativa, se accetta di collaborare. In
realtà gli interventi svolti in educazione domiciliare spesso vogliono essere di stimolo per la scuola e per il centro di
riabilitazione ad “osare” programmi un po’ più avanzati dal punto di vista accademico ed un po’ più variati: quello che si
vuole dimostrare è che i ragazzi possono fare di più, basta trovare le modalità giuste. La vasta gamma di approcci
utilizzati ed la filosofia di base, improntata alla fiducia nei confronti dei bambini/ragazzi, sono state spesso apprezzate
dalle scuole che hanno cambiato i programmi, hanno chiesto colloqui con gli educatori domiciliari ed addirittura hanno
invitato la coordinatrice del servizio a tenere dei corsi di formazione per gli insegnanti nelle singole scuole. Altre volte le
scuole e soprattutto le equipe riabilitative hanno visto con diffidenza questi programmi, ma in quasi tutti i casi la
diffidenza si è trasformata in una collaborazione proficua, osservando i risultati raggiunti.
La fase esecutiva, che inizia dopo poche settimane di tirocinio, con gli interventi domiciliari di 2 o 3 ore a incontro per
due o tre volte la settimana in realtà si interseca con la fase formativa, in quanto non avrebbe senso una formazione in
astratto lontana dal caso con cui ci si deve confrontare: i colloqui a volte quotidiani, soprattutto nei casi gravi, con la
supervisore ed il “provare” i diversi approcci insegnano come muoversi.
Il programma così ottenuto possiede comunque un alto grado di flessibilità e può comprendere attività che investono
l’ambito scolastico (es. compiti, interessi culturali, ecc), il gioco e le attività ricreative (dalla danza alla manipolazione)
sino all’autonomia personale e sociale.
E’ sempre presente durante tutto il cammino la fase di verifica, che attraverso l’osservazione partecipante e il
monitoraggio quotidiano (descrizione scritta dell’intervento, analisi del compito e valutazione del comportamento)
permette di riprogrammare l’intervento in itinere.
Buona parte del successo che gli interventi di educazione domiciliare hanno avuto, come vedremo, è stata dovuta
anche alla motivazione di chi li eseguiva: le tirocinanti sapevano di stare facendo qualcosa di nuovo, di sperimentale,
che poteva cambiare la vita di questi bambini/ragazzi, spesso molto gravi, e per questo erano molto puntuali nella
preparazione del programma quotidiano, che quasi sempre prevedeva la costruzione di materiale didattico. Alcune di
loro dovevano spostarsi con i mezzi pubblici per raggiungere le famiglie, spesso in paesi della provincia di Padova, altre
sono state anche aggredite dai bambini/ragazzi autistici con graffi, sberle o morsi, ma hanno resistito (spesso non lo
segnalavano nemmeno alla coordinatrice), perché sapevano che il loro compito era quello di imparare a modificare il
comportamento dei ragazzi e ci sono riuscite quasi tutte: solo in un caso c’è stata la rinuncia dopo pochi mesi. La
maggioranza di loro ha anche scelto l’approfondimento dell’esperienza di tirocinio come argomento della loro tesi
sperimentale, che ha avuto molto spesso la supervisore come relatrice o correlatrice. Un limite di questo tipo di
intervento, che anche i genitori lamentano, è il fatto che i tirocini di Scienze dell’Educazione durano in media un anno
scolastico e manca quindi la continuità, ma d’altro canto, si evita così che gli educatori perdano l’entusiasmo e la voglia
di riuscire ad ogni costo.
Caratteristiche degli interventi di educazione domiciliare
Gli interventi di educazione domiciliare sono individualizzati e quindi variano a seconda del bambino/ragazzo a cui
sono rivolti, ma hanno delle costanti che possono essere così riassunte:
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gli interventi sono abbastanza strutturati e prevedibili, con momenti ricorrenti in cui si
svolgono attività diverse, ma dello stesso tipo. Per esempio all’inizio e alla fine si canta e si balla,
cambiando le canzoni o le danze, ma non sostituendo l’attività musicale con altro, a meno che il
bambino lo richieda; questa prevedibilità del programma e la famigliarità del luogo riduce l’ansia
soprattutto dei bambini autistici;
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si usano la lingua scritta e le immagini a supporto di quella orale, anche in bambini in età
prescolare. In questo caso si fornisce un supporto visuale scritto all’apprendimento dei fonemi di
base, cioè delle sillabe, e la sillaba scritta è a sua volta supportata dall’immagine riferita ad una
parola che la contiene come iniziale (per esempio il fonema “ca” viene associato al grafema “CA”
che è associato all’immagine di una casa). Sequenze di pittogrammi o di immagini aiutano poi la
formazione delle frasi (scritte e orali) e dei periodi;
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la lingua scritta, le immagini e la lingua dei segni possono essere di supporto alla lingua
orale, ma anche fornire metodi alternativi di comunicazione in mancanza o con grave
carenza di linguaggio orale; vengono favoriti la scrittura ed il disegno anche usando il supporto
fisico alla mano o al braccio: esso diminuisce l’ansia e permette l’apprendimento, quando sono
carenti le abilità imitative;
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viene favorita la libera scelta del bambino/ragazzo, sia relativa agli argomenti da trattare che
relativa all’ordine delle attività. Ciò avviene usualmente nella contrattazione iniziale. Nel caso di
mancanza di linguaggio si usano cartellini con immagini o frasi scritte fra cui scegliere;
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per “costruire” le attività si prende spunto anche dagli interessi del bambino/ragazzo per
ampliarli con elementi nuovi che portino ad acquisire nuove conoscenze e nuove abilità; per
esempio per il bambino che ama buttare in terra le macchinine, si può costruire un percorso in cui
sia previsto anche il lancio delle macchine “per saltare un fiume in piena”, fatto con la sciarpa
azzurra del fratello;
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si creano nuovi interessi aiutando a rielaborare ed a comprendere gli stimoli culturali
forniti dalla scuola e dalla comunità, attraverso i compiti scolastici o lo studio di libri o l’ascolto di
musica o la visione di videocassette o DVD; la cultura può diventare un mezzo di riabilitazione,
perché dà la motivazione per imparare: infatti anche le persone disabili vogliono fare quello che
fanno gli altri. Per la disabilità grave questo sembra a noi, normali, impossibile e spesso non ne
teniamo conto, relegandoli nelle “attività adatte a loro”;

insegnare a giocare è uno degli obiettivi principali sia per la valenza cognitiva che sociale:
giochi di interazione, di costruzione, gioco simbolico, giochi sociali, andare in bicicletta o sui
pattini. E’ importante anche insegnare a giocare con i propri giochi, perché l’attività può essere
continuata anche al di fuori dell’intervento. A volte è necessario orientare la famiglia sui giochi da
comprare, infatti molte famiglie hanno pochi giochi, perché il bambino non li richiede o li
distrugge, perché non sa come usarli;
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insegnamento della autonomie personali e sociali, come il vestirsi, tenere in ordine le proprie
cose, pulire la propria camera, preparare i pasti, orientarsi nel proprio quartiere ed usare il
denaro. Tutte queste attività sono particolarmente favorite dall’ambiente domestico;
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uso della musica, della danza e del canto anche come momenti ludici rilassanti o che
aumentano la motivazione nello svolgere altre attività, oltre che per il loro valore culturale
intrinseco;
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insegnamento per temi invece che frammentario e privo di nesso logico, usando le fiabe e i
racconti. Per esempio se si vuole insegnare a mettere in fila dei cubi, si proporrà di fare “il treno
per i nanetti che vanno nella miniera”; in questa maniera si evitano quei penosi esercizi di
addestramento, ripetitivi, spesso usati soprattutto con gli autistici, che servono per insegnare
alcune abilità, ma che sono privi di senso per il bambino e non stimolano né la fantasia né il
ragionamento logico. Per esempio la stessa abilità di “mettere in fila” può essere usata in
diversi contesti ed in diversi momenti, senza che venga vissuta come una ripetizione: fila dei
“bambini che salgono sull’autobus”, ecc.
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insegnamento parallelo di attività a diversi livelli, quando è utile. Per esempio, per un ragazzo
adolescente che non riesce ancora a scrivere da solo sono utili esercizi di scrittura a livello
elementare, accanto ad esercizi di comprensione del testo su temi di antologia tipici della scuola
media, perché la sua difficoltà di scrittura non implica difficoltà di comprensione di un testo più
adatto all’età. Così come ad esercizi sul conteggio possono essere affiancati problemi sulle
quattro operazioni, perché carenze sul conteggio non implicano carenze sul significato delle
quattro operazioni. Nei disabili gravi usualmente non viene fatta un analisi accurata dei tipi di
difficoltà presenti nei diversi ambiti, ma si dà per scontato che certe abilità non ci siano e si
propongono programmi al livello più basso. Per questo in questi programmi di educazione
domiciliare si è spesso provato a fare attività di livello più avanzato, ottenendo risultati a volte
sorprendenti.
Alcuni esempi di attività svolte.
I primi tre esempi sono stati sperimentati da E. Monari Martinez col proprio figlio Antonio Maria, non verbale, con
sindrome di Down e autismo, e poi riproposti da varie tirocinanti a bambini autistici e/o con sindrome di Down.
Fiabe e storielle con i segni.
L’idea di usare la lingua dei segni per aiutare lo sviluppo del linguaggio nella sindrome di Down viene dalle esperienze
inglesi studiate da Sue Buckley, dell’Università di Portsmouth (UK), dagli anni ’80 (Buckley et al.) e vuole permettere ai
bambini di esprimersi nel periodo in cui ancora non riescono a parlare o lo fanno in maniera poco chiara. D’altra parte
l’uso dei segni insieme alle parole da parte dell’educatore aiuta a comprendere meglio il significato stesso delle parole.
Si enfatizza così una fase prelinguistica naturale in cui anche i bambini normodotati usano i gesti per esprimersi,
cercando di colmare il gap, molto accentuato nella sindrome di Down, fra sviluppo del linguaggio ricettivo e di quello
espressivo. Un adattamento alla situazione italiana di tale metodo è stato fatto dal 1994 in collaborazione con Barbara
Scarso, interprete della lingua italiana dei segni, scrivendo un vocabolario, traducendo molte fiabe e canzoni a gesti
(Italiano Segnato) (Monari Martinez et al.) ed insegnandoli a bambini e ragazzi con sindrome di Down in Corsi
organizzati per l’Associazione Down Padova. Esperienze del genere con l’autismo sono rare per il pregiudizio che
l’autistico “non voglia parlare”, attribuendo al disturbo un’origine psicologica. L’ipotesi che noi sosteniamo è che anche
gli autistici vorrebbero comunicare, ma non ci riescono ed hanno spesso scarse capacità di esprimersi coi gesti
spontanei e con la mimica: a volte usano l’indicazione o accompagnare la persona per richiedere ciò che vogliono. L’uso
della mimica e dei gesti spontanei sono al contrario punti di forza dei bambini Down (Buckley, Kumin, Caselli et al.), che
non hanno particolari problemi nell’imitazione.
Nell’autismo si riscontrano invece spesso difficoltà variabili
nell’imitazione, che sono spesso gravi ed impediscono un apprendimento per imitazione di ciò che si vede fare (Meltzoff
& Prinz, Surian). D’altra parte ci sono molti autistici che riescono ad imitare i gesti visti (alcuni bene, altri in maniera
particolare e non facilmente comprensibile) e altri che imparano col tempo a farlo. In ogni caso dare anche a loro
questa possibilità ci sembra importante, perché dà loro l’autonomia di poter esprimere qualcosa senza l’ausilio di
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immagini o di altro ma solo col proprio corpo. Il ragazzo autistico che improvvisamente si sdraia sul marciapiede e non
vuole più andare avanti, ma si batte il petto con la mano aperta, ripetendo il segno di “paura”, vuol dire che deve essere
tranquillizzato, che gli si deve spiegare dove siamo e dove stiamo andando e perché lo facciamo. Magari ha imparato
solo pochi segni, però, anche se pochi, quei segni possono aiutare lui e noi. Ma come insegnare i segni? Una maniera
piacevole è attraverso le fiabe, le storie e le canzoni. Per bambini in età prescolare sono state spesso usate le storielle
di Altan (Altan): il segno sottolinea le parole chiave che vengono dette mentre si fa il segno e spesso ne enfatizza il
significato. In un primo momento il bambino tenta di ripetere il segno e poi segno e parola: anche se la parola
pronunciata è molto storpiata, il segno ci permette di riconoscerla e di non vanificare lo sforzo del bambino, che
finalmente si sente capito. Quando il bambino parlerà in maniera comprensibile, non segnerà più perché non ne avrà più
bisogno. Fare il segno può essere divertente e fa anche diminuire l’ansia sulla pronuncia della parola che spesso blocca
alcuni bambini. Con questo metodo, nella nostra esperienza, non solo bambini Down hanno iniziato a parlare o
aumentato il loro vocabolario, ma anche alcuni bambini autistici. Un caso è stato descritto nella tesi di Erika Capuzzo
(Capuzzo): una bambina autistica di 4 anni da lei seguita nell’educazione domiciliare, durante l’estate, ha iniziato a
parlare ripetendo la parola “caio” (caldo) mentre Erika faceva il segno di “caldo” durante la lettura “segnata” di un
raccontino di Altan ed ha continuato poi ripetendo parole e segni. Oggi parla senza più segnare. Riteniamo che sia stato
importante ripetere più volte lo stesso semplice racconto, mostrando le immagini, segnando e leggendo, sillabando, le
parole chiave scritte in maiuscolo su cartelli (Monari Martinez 2000). L’aggiunta della parola scritta permette
l’apprendimento della lettura logografica, cioè il riconoscimento delle parole intere ed è spesso utile con i bambini Down,
ma può essere non gradita dai bambini autistici che, avendo uno stile cognitivo che privilegia il particolare rispetto al
globale (Surian), si trovano di fronte a troppi segni grafici da ricordare. Antonio, che purtroppo non ha iniziato a parlare,
con questo metodo ha imparato molti segni che poi ha usato per la comunicazione quotidiana: i segni non venivano
imitati subito, ma spesso venivano ripetuti molto dopo, molto più piccoli e spesso storpiati. La sequenza di segni prevista
dalla canzone permetteva di riconoscere anche quelli più storpiati che non sarebbero stati riconoscibili se visti isolati. La
comunicazione era molto spesso non relativa ai bisogni primari, per esempio “andiamo - mare” o “mi piace - vestito –
mamma” o “scusa” . Altre esperienze di questo tipo, in cui bambini autistici hanno imparato alcuni segni sono descritte
anche nelle tesi di Possamai, Bernardello, Zanon, Zanini, Callegari, Minauda, Bellia.
Schede sillabiche di disegno e scrittura.
Per favorire l’apprendimento della lettura e quindi lo sviluppo del linguaggio abbiamo puntato sulla lettura sillabica e
quindi sulla conversione grafema-fonema delle singole sillabe associate ad una parola-immagine che le ha come iniziali,
per esempio CA associato all’immagine di una casa, come già detto. Per arricchire di significato questo studio, che
altrimenti può risultare sterile e ripetitivo, si è pensato di legarlo ad un’altra attività collegata in cui spesso soprattutto i
bambini autistici sono molto carenti: il disegno e la scrittura manuale. Per far ciò si sono preparate le Schede sillabiche
(Monari Martinez 2000)
in cui sulla sinistra in alto c’è l’immagine disegnata da colorare e sotto c’è lo spazio per ricopiare il disegno e colorarlo.
Sulla destra invece c’è la parola scritta nei tre caratteri, stampato maiuscolo, minuscolo e corsivo da ricopiare. Spesso la
parola è in parte già ricopiata ad eccezione della sillaba iniziale e lo spazio di copiatura è disponibile sotto ciascuna
parola. Inizialmente le schede sono state preparate per dare agli insegnanti della scuola del materiale sempre pronto ad
essere usato, anche nei “tempi morti”, che fosse famigliare per il bambino: infatti la “cornice”, cioè la presentazione, è
sempre uguale, anche se cambiano i contenuti. La “cornice” spesso è importante soprattutto per i bambini autistici,
perché rende più accettabile il compito, tranquillizzando il bambino. (D’altra parte anche noi adulti siamo spesso messi
in ansia da un semplice cambio di “cornice”: si pensi al cambio dei moduli per la dichiarazione dei redditi o ai nuovi
telefoni pubblici!). Dopo aver compilato le schede, quando il bambino ricordava bene l’associazione immagine - sillaba
detta – sillaba scritta, si è passati ai cartellini con la sola sillaba scritta ( o maiuscolo o minuscolo o corsivo) da associare
al cartellino con l’immagine corrispondente, uguale a quella delle schede. Questa associazione veniva fatta a scelta
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multipla con 4 o 5 diverse possibilità. Ciò permetteva di capire se i bambini, che comunque non riuscivano a dire la
sillaba, la sapevano distinguere fra le altre associandola all’immagine giusta in una lettura a mente. Altri bambini
riuscivano a leggere il cartellino con la sillaba e poi lo andavano ad associare all’immagine corretta. Questo esercizio è
stato utile per alcuni bambini sia Down che autistici che hanno iniziato a leggere le sillabe dei cartellini prima di iniziare a
parlare ed ha permesso ai bambini autistici non verbali di imparare a leggere mentalmente. L’esecuzione delle schede,
nei bambini autistici più gravi, ha dovuto essere fatta “con la mano tenuta”, cioè con il supporto mano su mano che
tranquillizza il bambino e gli permette di usare la matita o la penna, impedendogli di buttarla via o di scarabocchiare tutto
con movimenti inconsulti, ma permettendogli di esprimersi in maniera il più possibile autonoma. Tutto questo non è
immediato, ma matura mano a mano che cresce la relazione di fiducia fra il bambino e chi lo guida: per cui all’inizio la
guida è quasi completa, accontentandosi del fatto che il bambino rimane lì a farsi guidare, poi si sollecita verbalmente il
bambino verso un movimento autonomo lasciando che sia lui a spingere la matita e incoraggiando qualsiasi suo
tentativo, purchè non inconsulto, anche se strampalato per noi. (Non è facile distinguere fra movimento inconsulto, di
negazione del lavoro che si sta facendo, e movimento voluto per interpretare il disegno). In questa maniera, anche
attraverso il disegno, loro ci rivelano come vedono il mondo: per esempio Antonio ha disegnato il pesce, invece che con
la bocca chiusa, con la bocca aperta ed i denti, ha disegnato la luna non a falce ma rotonda ed ha aggiunto all’immagine
della nonna gli orecchini, che forse lui osservava sempre. La bambina autistica seguita da Marcella Possamai
(Possamai) ha disegnato, senza bisogno di guida fisica, una casa in cui le linee di contorno erano tratteggiate, quasi a
dare uno spessore al tratto ed erano anche tratteggiati i segni del corsivo, mentre il bambino autistico seguito da Elisa
Vida (Vida) disegnava la mela e il gelato non con il contorno, ma tratteggiati come se fossero “pieni”, forse a sottolineare
la loro fisicità di oggetti concreti. Riguardo alla scrittura alcuni bambini hanno dimostrato di preferire il corsivo, che per
altri risultava troppo difficile. Antonio ha imparato a scrivere manualmente con diversi facilitatori dimostrando di aver
acquisito una propria calligrafia (Russo) e parlando spesso di sé, del proprio vissuto e delle proprie emozioni, ma non
riuscendo a scrivere senza sostegno, se non poche parole. In alcuni casi si sono fatte schede simili, ma solo con lo
stampato maiuscolo, per non confondere il bambino: ogni intervento va adattato alla persona (Capuzzo, Bellia,
Possamai, Boer, Iposi, Bernardello, Zanon, Zanini, Callegari).
La tastiera di carta.
Si tratta della riproduzione della tastiera QWERTY del computer su carta per avviare alla scrittura al computer, ma
anche per facilitare il riconoscimento delle lettere dell’alfabeto non solo in base alla loro forma, ma anche in base alla
loro posizione. Questo non è banale per i bambini autistici che spesso guardano poco ciò che viene loro proposto, per
esempio nella discriminazione sillabica di cui abbiamo appena parlato, ma ricordano meglio la dislocazione spaziale,
soprattutto se è fissa.
La tastiera di carta inoltre, rispetto al computer, offre meno stimoli, meno distrazioni e può essere fatta più grande di
quella del computer. La misura ideale è quella di un A3, mentre più grande può essere dispersiva. Antonio e altri
bambini che già avevano studiato l’alfabeto, usano la tastiera di carta e su di essa posizionano dei timbri di gomma o di
legno con le lettere maiuscole e coi numeri. Per la matematica Antonio usa anche un’altra tastiera coi numeri ed i
simboli matematici: i segni delle operazioni, di percentuale, di frazione, di radice quadrata e le parentesi tonde e quadre.
I timbri sulla tastiera permettono un lavoro più lento e meditato rispetto al computer: sistemazione iniziale di tutti i timbri,
che aiuta a ricordare le loro posizioni, scelta del timbro, intingerlo nel tampone con l’inchiostro, stamparlo sul quaderno e
rimetterlo sulla tastiera. Ecco un esempio: la consegna era “Scrivi il nome”.
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La tastiera di carta, tenuta in una busta di plastica trasparente per proteggerla dall’inchiostro dei timbri, inoltre è leggera
e poco ingombrante, può essere portata a scuola e permette la scrittura sui normali quaderni o dove richiesto. Per i
bambini, che non riescono a scrivere manualmente senza supporto fisico alla mano, offre il vantaggio che può
richiedere meno supporto perché gli unici movimenti richiesti sono il raggiungimento del timbro, il suo spostamento ed il
premerlo: per esempio Antonio coi timbri riesce a scrivere anche alcune parole da solo o è sufficiente il tocco al gomito,
mentre sia al computer che nella scrittura manuale ha bisogno di maggior sostegno per riuscire a controllare i
movimenti.
Per iniziare l’uso della tastiera di carta con bambini o ragazzi che non conoscono le lettere dell’alfabeto (o non si sa se
le conoscono), si inizia con una tastiera più grande a muro da tenere verticale in cui la casella di ciascuna lettera è
coperta, per tre quarti, da un rettangolo di carta da lucidi trasparente incollato ai bordi laterali e inferiore a formare una
piccola tasca. All’inizio del lavoro in ciascuna tasca viene messo un cartoncino bianco che nasconda la lettera disegnata
sul cartone della tastiera in modo si possa iniziare facendo vedere al bambino solo poche lettere e poi si continui con
molta gradualità scoprendole pian piano, fino a mostrare tutta la tastiera. Per ciascuna lettera che si decide di mostrare,
si preparerà un cartellino plastificato, da mettere nella tasca, con la lettera maiuscola disegnata da un lato e con
l’immagine di un oggetto il cui nome ha quella lettera come iniziale dall’altro. La scelta delle immagini è importante e
deve rispecchiare gli interessi del bambino: per esempio per un bambino autistico goloso sono state messe le immagini
di cibi ed è stato bello quando è andato a prendere la G perché c’era dietro l’immagine del gelato, alla richiesta “Che
cos’è quella cosa fredda che ti piace tanto?” (Angaran). Le immagini all’inizio possono dare la motivazione a tutto il
lavoro, perché il bambino non sa quello che vogliamo fare! In ciascuna tasca verranno messi anche altri foglietti con la
stessa lettera, ma senza immagine, per permettere la composizione delle parole. Infatti sin dal primo giorno si
inizieranno a comporre parole con le lettere presentate: per esempio, se il primo giorno si mostra la A come “albero”, la
M come “mucca” e la P come “pesce”, si potranno subito comporre la parole “mamma”, “papà” e “pam” (il rumore del
pallone che scoppia), magari associandole alle foto dei genitori ed al disegno di uno scoppio. Questo per dare subito
un’idea di quello che si vuole fare ed a che cosa serve. Questo lavoro ha dato sempre buoni risultati ed ha permesso ad
alcuni bambini e ragazzi di dimostrare il loro interesse per la scrittura, che nessuno sospettava, soprattutto nel caso di
adulti (Angaran, Bellia, Bernardello, Boer, Callegari, Capuzzo, Frasson, Iposi, Minauda, Possamai, Vida, Zanini, Zanon).
Presentiamo ora alcune attività svolte da Angela Bettin nell’ambito dell’educazione domiciliare, durante il tirocinio,
coordinato da E. Monari Martinez, come supervisore.
Organizzazione delle attività e calendario. (Bettin)
Si prepara una scatola contenente cartoncini di colore diverso con le immagini relative alle principali attività che si
possono fare, comprendendo in esse quelle a carattere ludico, i compiti di scuola e generalmente la merenda.
All’avvio dell’incontro è prevista l’attività di contrattazione dove il bambino/ragazzo sceglie insieme all’educatrice la
sequenza delle attività e le ordina in sequenza temporale sopra il tavolo: al termine di ogni attività il cartoncino viene
riposto dentro la scatola.
Tale metodo è stato particolarmente usato in casi di compresenza di sindrome di Down ed iperattività ed in casi di
sindrome autistica.
Questi strumenti visivi permettono di organizzare insieme al bambino il tempo e stimolare l’attenzione, evitando il
passaggio continuo da un’attività all’altra, senza concludere nulla.
Per organizzare in sequenza temporale il ricordo degli avvenimenti accaduti o collocare nel tempo quelli che devono
accadere si preparava anche un calendario mensile (Monari Martinez 2000), in cui i numeri dei giorni erano disposti su
una retta orizzontale, con linguette di colore diverso a seconda del giorno della settimana, che venivano staccate ogni
giorno. Questo dava l’idea del tempo che passa e permetteva di contare il numero di giorni passati da un certo
avvenimento o quanto giorni mancavano per un altro. Gli avvenimenti erano segnalati da una foto o un disegno posti
nello spazio al di sopra della retta del tempo e collegati al giorno e al periodo da una riga. Per esempio potevano
essere messi in evidenza i giorni delle vacanze di Natale con immagini natalizie.
Uso trasversale della drammatizzazione (Bettin)
Questa attività è stata utilizzata con un ragazzo Down di 13 anni, che chiameremo Giovanni. La definiamo “trasversale”
poiché comprende diversi contesti di apprendimento.
L’episodio che andremo a raccontare era inizialmente legato allo svolgimento di un’attività di lettura. Nel secondo
incontro di educazione domiciliare lo svolgimento dei compiti per casa prevedeva la lettura e comprensione di una parte
di un testo presente nell’antologia. Si decide, quindi, di scomporre il compito di lettura nel seguente modo:
- leggi il titolo del testo, da dove è tratto e la prefazione ad esso,
- leggi paragrafo per paragrafo (spiegando brevemente cosa sia un paragrafo) e al termine di ognuno dire
brevemente chi sono i protagonisti e cosa è accaduto,
- finita la pagina, si racconta tutta la storia.
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L’attività inizia speditamente mentre l’educatrice rilegge la prima frase, dando una migliore intonazione, facendo
osservare la presenza di punti e virgole e spiegando il significato di alcune parole sconosciute da Giovanni. Si passa,
dunque, alla frase successiva e, terminato il paragrafo, Giovanni, senza nessuna richiesta, dà la spiegazione di quanto
avvenuto con una simulazione.
Il testo era composto da un dialogo al telefono tra due amici, e Giovanni lo ripropone chiedendo all’educatrice di fare la
parte dell’antagonista mentre lui predilige quella del protagonista.
All’incontro successivo, Giovanni corre incontro all’educatrice e prima ancora che parli, incomincia a simulare il brano
letto la volta precedente con proprietà di linguaggio e in modo particolareggiato; al termine fa numerose domande
all’educatrice come se stesse interrogandola sul testo, ed esclama: “Brava, ti sei ricordata, ti do un buono!”.
Questo evento inaspettato ha permesso di scoprire alcune caratteristiche di Giovanni, tra cui l’interesse per il teatro, la
sua precedente partecipazione ad un corso di teatro e la presenza di un progetto teatrale nella classe.
Durante i colloqui con la coordinatrice si decide di sfruttare subito questa abilità, usando la drammatizzazione per la
comprensione d’alcuni testi articolati e per l’apprendimento della storia.
L’attività si svolgeva nel seguente modo:
- Presentazione del tipo di tecnica che si sarebbe utilizzata, per esempio: “Giovanni, oggi studiamo questa materia
facendo una simulazione: tu farai un personaggio, io un altro,… ora però leggiamo la pagina”. Questo creava in lui
un tale entusiasmo che iniziava la lettura speditamente e con molta attenzione;
- scomposizione del testo in paragrafi;
- lettura di un paragrafo;
- decisione dei ruoli e simulazione, con l’aiuto dell’educatrice nel rievocare alcuni particolari;
- lettura dei paragrafi successivi e simulazione;
- lettura complessiva del testo;
- simulazione completa senza alcuna guida;
- ripetizione verbale delle sequenze senza la simulazione.
Questo obiettivo è stato brillantemente raggiunto in breve tempo, ottenendo risultati molto buoni nella motivazione ad
apprendere, nella capacità di ricordare, nella proprietà di linguaggio, nella capacità di comunicare, nella capacità di
scomporre un testo (abilità utile per lo studio).
Il coinvolgimento dimostrato da Giovanni nel simulare i testi letti e il convincimento che fosse un modo utile e divertente
per avvicinarlo alle materie da lui meno amate, ha portato l’educatrice a proporre la stessa tecnica per l’apprendimento
della storia, dalla Rivoluzione Francese a Napoleone. Si è utilizzato la drammatizzazione anche per altri argomenti e
persino nell’apprendimento delle poesie: la tecnica ha riscosso sempre un grande entusiasmo, ottimi risultati
nell’apprendimento e la curiosità dei genitori che increduli si affacciavano alla porta per osservare. Giovanni, oltre al
divertimento, ha ottenuto anche un’altra grande soddisfazione: ottenere come voto “ottimo” nell’interrogazione a scuola,
proprio in quegli argomenti appresi a casa con la simulazione.
L’uso dei pittogrammi per comporre una frase
L’attività è stata svolta con ragazzi con sindrome di Down o autistici che hanno difficoltà nella formazione delle frasi. Si
tratta di visualizzare con immagini stilizzate (pittogrammi) le singole parole che costituiscono la frase, costituendo una
frase ad ideogrammi, e poi di tradurre i singoli pittogrammi in parole per costruire la frase scritta. Questa tecnica
permette al ragazzo di concentrare l’attenzione prima sull’assemblaggio della frase considerando il significato delle
singole parole, evocato dall’immagine del pittogramma, ma non badando alla composizione scritta delle singole parole,
e poi di passare all’assemblaggio delle lettere nelle parole singole (Monari Martinez 2000)
Si inizia creando una sorta di vocabolario minimo dove identificare il pittogramma con la parola corrispondente ed il suo
significato. Si propongono poi semplici frasi di due pittogrammi, con soggetto e verbo, per arrivare a frasi composte da
soggetto, verbo e complemento oggetto o a frasi in cui compaiono anche le preposizioni. Ne diamo un esempio eseguito
da un ragazzo con sindrome di Down di 13 anni (Bettin).
L’uso del registratore per favorire il racconto. (Bettin)
Questa attività è nata seguendo il caso di un ragazzo di 13 anni con sindrome di Down, che chiameremo Paolo, che
parlava pochissimo annuendo spesso. Si decise così di stimolare la comunicazione verbale. Inizialmente l’attenzione
era rivolta alla relazione: secondo la madre e l’insegnante di sostegno Paolo si esprimeva molto di più in ambienti e
relazioni familiari. Dopo circa cinque mesi Paolo parlava di più, anche se non interrogato, particolarmente nel caso in cui
usciva per strada e incontrava persone conosciute o sconosciute. Si è pensato quindi che Paolo fosse bloccato
7
dall’ansia di dover eseguire correttamente un compito richiesto, ma possedesse sia la capacità che la volontà di parlare:
questo accade spesso nella sindrome di Down ed ancor più nella sindrome autistica. Una strategia utile poteva essere
quella di usare materiale visivo illustrato per ricordargli ciò che doveva dire e in quale sequenza dirlo e di lasciarlo solo
nella stanza con un registratore per non sentirsi osservato dalla persona che lo ascoltava e poteva giudicare la sua
prestazione. Il materiale utilizzato fu inizialmente costituito da brevi storie riprodotte in circa 6 vignette, che l’educatrice
raccontava a Paolo e che poi lui, da solo nella stanza, ripeteva registrando la sua voce. Le vignette che seguono sono
state utilizzate per raccontare la sua vacanza a Rimini.
In seguito alle vignette si accompagnarono dei pittogrammi che componevano la frase di descrizione per sostituire
progressivamente la vignetta con la frase, lavoro che si concluse con l’esecuzione di un dolce la cui ricetta era scritta
con pittogrammi e disegni numerati che riproducevano le fasi di preparazione. Questa tecnica del registratore ha
permesso a Paolo di acquistare maggiore autostima e di parlare maggiormente anche con le persone. A volte Paolo non
raccontava subito quello che gli si chiedeva di dire, ma anche cose o eventi che gli piacevano (come la premiazione del
Festivalbar) in modo meno comprensibile e più ripetitivo, rispetto all’attività di lavoro, perché erano frutto della sua
creatività personale e potevano essere l’inizio di una sua espressione autonoma.
Il gioco dell’oca dell’autobiografia (Bettin)
Questa attività è stata svolta con Giovanni, un ragazzo Down di 13 anni.
Di fronte alla richiesta della scuola di produzione di testi scritti, Giovanni scriveva spontaneamente frasi con una ridotta
ampiezza di vocabolario e che si riferivano sempre ad avvenimenti quotidiani e gli argomenti erano ripetitivi. A questo
punto A. Bettin ha pensato di introdurre “il gioco dell’oca dell’autobiografia” (Famiglia cristiana, Favaro). Esso è
costituito da un semplice gioco dell’oca composto da 45 caselle numerate e su ognuna di esse c’è un’immagine ed una
parola (es 1- maschio o femmina, 2- il mio nome, 3- il fuoco, 4- una fiaba, 5- ninna nanna o filastrocca, ecc.). Come nel
tradizionale gioco dell’oca, lanciando i dadi, a turno si capita in caselle differenti in cui bisogna raccontare e raccontarsi
qualcosa che personalmente ci riguarda in merito a quell’argomento.
Gli obiettivi del gioco sono di incoraggiare il racconto autobiografico, imparando a conoscere sé stessi ma anche gli altri
partecipanti. Altri obiettivi collegati sono inerenti le abilità di scrittura, la metacognizione e le abilità sociali.
La prima volta che Giovanni ha giocato con Angela si è prodotto il seguente dialogo scritto:
Giovanni
(filastrocca o ninna nanna)
mi a mamma, quand’ero piccolo mi cantava
“ninna nanna, ninna nanna, …di questo
cane a chi lo do…ahh..!”
(dietro la porta)
penso a cosa che dietro.
Un giorno la mamma diceva a A. “non
andare” perché si era infortunato un piede,
dietro c’era un cane di pezza.
(i colori)
mio fratello mi ha regalato una scatola di
pennarelli e di pastelli ad olio, e sai, “mi
appiccico alla vetrina” come te, allora ho
preso il cavalletto ed ho colorato tutto.
(la strega)
Tuo fratello andava fuori, vestito da strega
e faceva paura!!mister gomedi!!!
(buon compleanno)
Angela
(la balena mangia)
avevo un libro vecchio di Pinocchio, in cui
c’era un’immagine di una gigantesca balena
che si stava mangiando Pinocchio, ma
anche se era molto bella, mi faceva un po’
paura.
(i colori)
mia cugina mi ha regalato una bellissima
scatola di colori ad olio, sai mi pace molto
dipingere, e quando passo davanti ad una
vetrina di colori “mi appiccico il naso”.
(i verso degli animali)
vicino casa mia c’è un bel pavone, il suo
verso è veramente stano, e quando le sento,
senza vederlo, rimango ogni volta stupita.
(la principessa)
quand’ero piccola mia mamma mi
raccontava tante storie con le principesse,
ma non mi piacevano per niente!
(buon compleanno)
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Ho invitato gli amici e abbiamo cantato
“tanti auguri”, dopo siamo andati sul letto
con la torta in mano, (canzone “Happy
birthday”)
(i giochi)
Io e Angela giochiamo sempre a pallina,
orsetti, dadi, tennis, e metti anche il cane!
Bravissimo
benissimo!!
Giovanni,
hai
cantato
(i giochi)
Sai è bello inventarsi le cose, con un po’ di
fantasia si possono costruire anche i giochi.
Io da piccola lo facevo sempre, è divertente,
se vuoi un giorno lo possiamo fare!
…..
……….
Giovanni è stato entusiasta del gioco ed ha voluto farlo, anche in forma orale, con un gruppo di amici. Il gioco può
essere fatto anche usando forme alternative di comunicazione, per coloro che non parlano o hanno grosse difficoltà,
come la lingua dei segni o l’uso di immagini e di pittogrammi. Queste diverse modalità spesso si integrano e non sono
usate in maniera esclusiva: lo scopo principale è quello di ottenere una comunicazione significativa a prescindere dalla
modalità.
Il gioco del fruttivendolo (Monari Martinez, 2000)
Questo gioco è stato utilizzato in molti casi, sia per bambini della scuola elementare, sia per ragazzi della scuola media,
con sindrome di Down e/o con sindrome autistica per promuovere le abilità matematiche: corrispondenza biunivoca,
riconoscimento delle cifre numeriche, conteggio, somma, moltiplicazione, uso del denaro, seguire le regole del gioco.
Infatti, se si usano monete tutte uguali (per esempio un euro) e, per esempio, si pone che ciascuna arancia costa due
euro, per acquistare tre arance, dovrò mettere in fila sotto a ciascuna arancia due monete e poi fare lo scambio: si
danno sei monete per avere tre arance. Rispetto al gioco tradizionale che viene svolto oralmente e con il conteggio a
mente, qui si usano due tabelle per il conteggio, una fino a dieci ed una fino a trenta, una tabella con i prezzi dei frutti
(costo unitario e non a peso) ed uno “scontrino” scritto, come quello in figura fatto da Marco, un bambino con sindrome
di Down ed iperattività di 9 anni (Bettin). Le tabelle di conteggio (la prima per i frutti e la seconda per la somma finale di
tutte le monete del costo di tutta la spesa, se superiore al 10) sono costitute rispettivamente da una fila di 10 caselle
numerate da 1 a 10 (o da due file di 5 caselle disegnate su un A4) e da tre file di 10 caselle numerate da 1 a 30, più
piccole delle precedenti, disegnate su un A3. Il numero è scritto ben visibile sotto ciascuna casella. La frutta o le monete
vengono disposte sulle tabelle di conteggio cominciando dalla prima in alto a sinistra, denominata 1 e seguendo l’ordine
della numerazione, mettendo un oggetto per ciascuna casella secondo l’ordine numerico dato alle caselle (da sinistra a
destra e dall’alto in basso perché il più usuale nella nostra cultura). Ciò permette di visualizzare l’operazione di
conteggio, memorizzando le cifre numeriche ed il loro ordine: per questo il gioco è adatto anche a bambini che non
sanno ancora contare, infatti è sufficiente che imparino ad ordinare gli oggetti sulle tabelle. Per riportare il numero
dell’ultima casella occupata dagli oggetti, che dà la quantità, basta o ricopiarlo o riconoscerlo fra numeri scritti in ordine
su etichette adesive e riportarlo sullo scontrino. Il gioco può quindi essere fatto anche con bambini che non riescono né
a parlare né a scrivere, ma sanno staccare e attaccare adesivi o li sanno semplicemente indicare. Anche la tabella dei
prezzi visualizza il numero di monete occorrenti per ciascun frutto. Per esempio accanto all’immagine dell’arancia c’é “ =
€2 “ seguito dall’immagine di due monete da un euro, per coloro che non sanno ancora associare al numero la quantità.
In prezzi, in un primo momento, variano solo da 1 a 3, perché la quantità in questo caso è riconoscibile da tutti tramite il
processo innato di subitizzazione (Butterworth). Lo studio dell’apprendimento di questo gioco da parte di bambini
autistici è stato fatto da Silvia Marinello nella sua tesi di Psicologia (Marinello).
immagine di uno scontrino ottenuto
con il gioco del fruttivendolo
Schede e programma per l’uso autonomo del telefono pubblico (Bettin)
Tutti i programmi svolti sono pensati con l’obiettivo di raggiungere una maggiore autonomia personale e sociale. Ora
descriviamo l’apprendimento dell’uso del telefono pubblico. Partendo dall’abilità d’uso del telefono di casa, già acquisita
in parte, l’educatrice ha preparato una serie di schede che riproducevano fedelmente il telefono pubblico della Telecom,
quasi a grandezza originale.
L’analisi del compito prevedeva:
9
la comprensione complessiva dell’oggetto “telefono pubblico” attraverso una scheda da colorare ;
l’assimilazione della dislocazione spaziale dei tasti con una scheda da ricomporre mettendo le immagini dei tasti
al giusto posto ( taglia- incolla);
- la spiegazione attraverso immagini in sequenza delle azioni necessarie per fare una telefonata;
- la simulazione con un telefono di cartone costruito assieme a Paolo.
Terminato questo primo passo si è sperimentato nella realtà il risultato, provando a telefonare prima con aiuto e poi da
solo, a numeri che il ragazzo sapeva a memoria (casa, ecc) e a numeri che il ragazzo non conosceva a memoria, ma
che l’educatrice dettava. La telefonata diceva “Parlo con famiglia Rossi? Sono Paolo. Come stai? Buongiorno”.
Naturalmente c’era un accordo precedente con le famiglie che venivano chiamate.
-
L’indagine conoscitiva sul servizio di educazione domiciliare
(Bettin).
Per poter comprendere quali sono stati i risultati ottenuti grazie agli interventi di educazione domiciliare, si è pensato di
raggiungere con un questionario (cfr. Niero, Paparella e Santo) sia le famiglie che gli educatori che hanno fatto parte del
progetto. I questionari (uno specifico per le famiglie e l’altro per gli educatori) sono stati somministrati ai genitori ed agli
educatori sia dei bambini con sindrome di Down che degli autistici, che verranno trattati come gruppi separati per
permetterne un confronto.
La nostra ricerca focalizza l’attenzione sul periodo che va dall’avvio del servizio (1999) sino al novembre 2002 in cui 34
famiglie/utenti hanno usufruito in quest’arco di tempo del servizio di educazione domiciliare.
Le 34 famiglie sono composte da 19 appartenenti al gruppo con sindrome di Down e 15 al gruppo con sindrome
autistica.
Le caratteristiche della popolazione investita da questo servizio sono le seguenti:
- Per il 76% l’utenza è di sesso maschile;
- Ha una fascia d’età prevalentemente compresa tra i 12 ed i 18 anni;
- Risiedono tutti nella Provincia di Padova, e più della metà nel Comune di Padova;
- Una gran parte di loro frequenta la scuola media;
- Quasi tutte le famiglie sono di tipo tradizionale.
I questionari alle famiglie
Sono stati spediti 34 questionari alle famiglie, di cui sono stati riconsegnati, compilati 29.
Delle 19 appartenenti al gruppo con sindrome di Down, 17 hanno risposto (89,47%), mentre delle 15 appartenenti al
gruppo con sindrome Autistica hanno risposto in 12 (80%).
La strutturazione del questionario è la seguente:
- items riferiti al tempo d’attuazione del servizio (domande 1,2,3);
- modalità di erogazione del servizio (domande 4,5,6);
- accoglienza del servizio ed aspettative (domande 7,8);
- figura dell’educatore/ educatrice (domande 9,10,11);
- rapporto tra il figlio e l’educatore/ educatrice ed efficacia dell’intervento (domande 12, 13, 14);
- bilancio complessivo dell’esperienza (domande 15, 16, 17, 18, 19, 20).
I questionari agli educatori
Gli educatori che dal 1999 al mese di Novembre 2002 hanno compiuto interventi di educazione domiciliare presso il
gruppo con sindrome di Down, sono 24 ed a loro dobbiamo aggiungere i 18 che dal 2000 al mese di Novembre 2002
hanno praticato il medesimo servizio con il gruppo con sindrome autistica (totale 42).
Di questi hanno risposto al questionario il 91,66% (22/24) per il gruppo con sindrome di Down ed il 72% (13/18) per il
gruppo di autistici.
Il questionario è così strutturato:
I
Dati quantitativi in riferimento al tipo di utenza, alla durata dell’intervento, all’assegnazione dell’incarico, alla
qualifica dell’esperienza (tirocinio, volontariato..) domande dalla 1 alla 8;
II
Conoscenze richieste e date dall’Ente nelle domande 9, 10 e 11;
III
Le tecniche utilizzate (domanda 12) ;
IV
Rapporto educatore-famiglia ed educatore-utente (dalla domanda 13 alla 16);
V
I cambiamenti riscontrati (domanda 17);
VI
Connotazione di lavoro individuale, di rete o d’équipe (domanda 18);
VII
Le rimanenti domande di carattere qualitativo richiedono il giudizio critico dell’educatore in merito all’esperienza
svolta.
Il nucleo centrale del questionario, (dalla 13 alla 17) è stato proposto anche nel questionario specifico per le famiglie
per effettuare un confronto incrociato.
I risultati significativi
La durata di un intervento di educazione domiciliare va da 6 a 9 mesi, con un singolo educatore. Nel tempo una
famiglia può aver usufruito di più interventi (cioè può aver accolto più educatori in successione). Infatti ogni singolo
educatore segue un caso per un periodo compreso tra i 6 ed i 9 mesi, fatto generalmente coincidere con l’anno
scolastico e con il periodo del suo tirocinio universitario.
10

Rapporto educatore/ famiglia
Il rapporto educatore famiglia che si è così instaurato sottolinea il ruolo fondamentale della famiglia, e la sinergia
lavorativa, infatti circa il 74% dei familiari e più dell’80% degli educatori afferma che il rapporto instaurato tra educatori
e famiglie, è prevalentemente paritario e di reciproca collaborazione.
Che tipo di rapporto si è instaurato tra genitori ed educatori.
90,00%
81,82%
83,33%
80,00%
70,00%
84,62%
64,70%
60,00%
famiglie gruppo Down
50,00%
famiglie gruppo Autismo
40,00%
educatori gruppo Down
educatori gruppo Autismo
30,00%
20,00%
10,00%
17,65% 16,67%
9,09%
17,65%
9,09% 7,69%
7,69%
0,00%
0,00%
0,00%
l'educatrice aveva un
ruolo di esperto
rapporto paritario e di la famiglia ha svolto un
reciproca
ruolo di tutori
collaborazione
nessun tipo di
collaborazione

Miglioramenti osservati nelle persone disabili:
quelli osservati dalle famiglie e dagli educatori si differenziano in alcuni punti ma prevalgono nei seguenti ambiti:
linguaggio ed abilità espressive, ambito cognitivo e scolastico, autonomia.
Gli educatori dimostrano di apprezzare molto di più i miglioramenti rispetto alle famiglie che comunque li notano.
ambito cognitivo e scolastico
miglioramenti osservati nelle persone disabili
linguaggio ed abilità espressive
nelle relazioni
integrazione
manualità
autonomia
100,00%
100,00%
90,00%
86,36%86,36%
80,00%
81,82%
84,62%
70,00%
50,00%
61,54%
58,33%
60,00%
50,00%
47,06%
41,66%
40,00%
30,00%
20,00%
35,30%
29,41%
23,53%
23,53%
17,65%
40,91%
50,00%
33,33%
46,15%
30,77%
25,00%25,00%
16,66%
15,38%
10,00%
0,00%
famiglie gruppo Down
famiglie gruppo Autismo
educatori gruppo Down
educatori gruppo Autismo

Punti del servizio da migliorare
La mancanza più significativa del servizio di educazione domiciliare è stata ben rilevata dalle famiglie: la continuità.
Infatti purtroppo si verifica la rottura del rapporto educativo instaurato con l’educatore, quando quest’ultimo termina il
suo percorso di tirocinio e non sempre si riesce a sostituirlo con un altro.
In ogni caso circa un terzo dei genitori di persone autistiche non cambierebbe nessuna delle caratteristiche del
servizio.
Conclusioni
L’educazione domiciliare è un servizio alla persona disabile ed alla sua famiglia, che si inserisce nel contesto abitativo
dell’utente e coordina la propria attività con quella delle altre agenzie educative.
Grazie all’indagine conoscitiva qui esposta, si è potuto constatare quali siano gli aspetti positivi e negativi di tale
servizio.
11
Gli aspetti che rendono efficace questo servizio sono:

la produzione di un rapporto paritario e di collaborazione con le famiglie,

i miglioramenti dei bambini/ragazzi con autismo e/o con sindrome di Down nel linguaggio, nelle
abilità espressive ed in ambito cognitivo e scolastico,

l’incentivazione della loro autonomia,

la sostanziale concordanza tra famiglie ed educatori nel valutare i risultati degli interventi, anche
se gli educatori enfatizzano maggiormente i risultati positivi.
Il punto negativo si individua nella mancanza di continuità nel tempo, causata dal fatto che il personale è costituito da
tirocinanti che al termine del loro iter finiscono l’intervento. La carenza di fondi, per sostenere economicamente gli
educatori che svolgono questo compito domiciliare, è quindi la difficoltà da superare.
Ringraziamenti.
Si ringraziano tutti coloro che hanno collaborato in questo progetto: i bambini e i ragazzi con autismo e/o con sindrome
di Down, le loro famiglie, gli educatori, i Servizi Sociali della Regione Veneto, l’ULSS n.16 di Padova, la Provincia di
Padova, il Comune di Padova e l’Università di Padova.
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Per informazioni:
Elisabetta Monari Martinez, Dipartimento di Matematica Pura ed Applicata, Università di Padova,
via Belzoni, 7 35131 PADOVA Tel. 049 8275946 e-mail: [email protected]
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