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RASSEGNA STAMPA
LUNEDÌ 22 MARZO 2010
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Rassegna Stampa del giorno 22 MARZO 2010
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
pag.1
UN AFORISMA AL GIORNO
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amiamo anche le lodi che
sappiamo non sincere!!
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Vaauuvveennaarrgguueess))
Rassegna Stampa del giorno 22 MARZO 2010
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pag.2
CORRIERE DELLA SERA
pag. 12-- sez. ECONOMIA
LUNEDÌ, 22 MARZO 2010
SERVIZI A CURA DI ADRIANO BARRI’, GIUDITTA MARVELLI E MARCO SABELLA
Piazza Affari Dividendi:
in arrivo 13,6 miliardi
Il rendimento medio delle blue chip raggiunge il 3,4% Enel e Terna le più generose, ecco su chi puntare
Tornano le banche e gli industriali scomparsi. Resistono — con yield superiori al 4% ma cedole
più magre in valore assoluto — i grandi pagatori di Piazza Affari, come Eni, Enel e Snam rete gas.
La campagna dei dividendi per le blue chip è entrata nel vivo. Aspettando lo «stacco», ecco le società che possono garantire agli azionisti rendimenti elevati e ripetibili nel tempo
Tornano le cedole scomparse di Unicredit, Intesa, Pirelli e Fiat. Resistono bene, anche se più
magri che in passato, i dividendi dei grandi pagatori di Piazza Affari: le miss di generosità sono
Enel e Terna, che viaggiano al 6%, mentre il listino rende in media il 3,4%. Più o meno quanto un
Btp decennale .
La campagna dividendi del 2010, giunta nel vivo per le 40 blue chip italiane, è certamente
all’insegna dell’ austerity e non della manica larga. Anche se i cassettisti hanno di fronte numeri e
promesse di qualità. «Oggi si comprano utili destinati a crescere anche del 30% dopo due anni di
drastico calo — dice Alessandro Capeccia, gestore di Azimut —. E si sfogliano bilanci ben più in ordine di quelli esibiti prima della crisi». Se la ripresa si stabilizza, insomma, le società potranno in
futuro aumentare i dividendi senza rivedere il pay out, la percentuale di utile destinata agli azionisti, perché la torta sarà più grande. La stima del monte dividendi oggi è di 13,6 miliardi, il 7% dei
200 che faranno il bottino cedolare di tutti i listini europei.
Storie
Le regine Enel ed Eni servono un piatto ricco (6% lo yield) anche se ipocalorico rispetto al
passato: Fulvio Conti — reduce dai successi del maxi bond cancella debiti — offre 0,25 euro, nel
2009 ne aveva sborsati il doppio (0,49). Paolo Scaroni, invece, è sceso da 1,30 a 1 euro, «per
proteggere la solidità patrimoniale». Limatura anche per la controllata Snam Rete Gas (da 0,23 a
0,20) che pure ha chiuso il 2009 con una notevole crescita degli utili (+38%). I big del petrolio,
però, oltre a vantare i rendimenti più elevati, promettono sostenibilità: da qui al 2013 l’aggancio
all’inflazione della cedola nel caso di Eni e una rivalutazione del 4% da parte di Snam. «L’impegno
pubblico alla ripetibilità nel tempo non è da sottovalutare — sottolinea Giuliano Cesareo, alla guida
di Augusta sim —. Si torna alla tradizione anglosassone dei titoli azionari da tenere a lungo in nome della remunerazione».
Più su
Atlantia e Luxottica, invece, hanno scelto di aumentare il premio per gli azionisti. Più scontata
la decisione della società autostradale, anti-ciclica per eccellenza e non particolarmente redditizia (
2,3% lo yield), mentre la creatura di Del Vecchio ha stupito il mercato. Nel 2009 Luxottica aveva
azzerato il dividendo in via prudenziale per poi, a sorpresa, remunerare i soci in novembre con 22
centesimi. Oggi ha deciso di salire a 35 (yield all’1,8%) in vista di un 2010 «normale» e della volontà di «dividere con gli azionisti i risultati del 2009 ottenuti in un difficile contesto», ha detto
l’amministratore delegato Andrea Guerra.
Poi ci sono quelli che ritornano dopo aver cancellato (senza ripensamenti autunnali) la cedola.
Pirelli festeggia la ricomparsa dell’utile e si rimette in pista con un dividendo di 0,0145 pari ad un
rispettabile yield del 3,3%. E Fiat si fa avanti con 17 centesimi ( 1,8% lo yield) contro il nulla del
2009, anche se i conti restano in rosso per oltre 800 milioni. «La società guidata da Sergio Marchionne è un caso emblematico — dice Marco Cristofori, responsabile ricerca azionaria di Centrobanca —. Nel 2009 ha lavorato per ridurre i debiti e per migliorare i flussi di cassa. La cedola era
una sfida possibile».
Possibili anche le ri-apparizioni delle grandi banche. Meno in affanno e tallonate dalle Fondazioni, hanno deliberato uno 0,03 centesimi nel caso di Unicredit (nel 2009 ai soci solo carta) e uno
0,07 nel caso di IntesaSanpaolo ( l’anno scorso zero tondo). E si rivede il cash (35 centesimi) dopo la scelta centaura del 2009 (pochi soldi e qualche azione) pure per le Generali. Anche in questo
caso utili in decisa rimonta (+52%) e premi morigerati per gli azionisti .
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CORRIERE DELLA SERA
pag. 6-- sez. ECONOMIA
LUNEDÌ, 22 MARZO 2010
di STEFANO RIGHI [email protected]
Generali La potente
ragnatela del Leone
Partecipazioni in Intesa, Telecom, Espresso, Rcs, Impregilo.
Investimenti per complessivi 341 miliardi
Inodi iniziano a sciogliersi. Il consiglio di amministrazione delle Generali ha licenziato i
conti del 2009 da presentare il 24 aprile all’approvazione dei soci. Unicredit ha lasciato
all’inedita coppia Crt-Ferak la propria restante quota di capitale della compagnia di Trieste.
Ora, mancano 11 giorni, da qui al 2 aprile, per decidere le liste di amministratori che andranno a formare il nuovo Cda. Su un punto sembrano convergere le opinioni dei più: quello chiuso il 31 dicembre 2009 sarà l’ultimo bilancio licenziato dal presidente Antoine Bernheim, 85
anni compiuti lo scorso 4 settembre. Mossa probabile, anche se Vincent Bolloré venerdì scorso
ha sottolineato che «non mi si può chiedere di pensare a qualcun altro che non sia Bernheim
alla presidenza delle Generali». Chi vincerà? Da più parti, si indica nell’attuale presidente di
Mediobanca, Cesare Geronzi, l’uomo giusto per quella poltrona. Lui, però, non ha mai detto di
essere interessato a trasferirsi da piazzetta Cuccia fino a Trieste.
L’equilibrio dei pesi
Il Leone, probabilmente, avrà anche un consiglio più ristretto. Su Trieste convergono gli
interessi di molti nomi importanti dell’imprenditoria e dell’economia italiana, da Francesco Gaetano Caltagirone a Leonardo Del Vecchio, dai Drago a Mario Draghi, visto che anche il fondo
pensioni della Banca d’Italia ha puntato su Generali per il proprio futuro. Ma a decidere sarà il
comitato nomine di Mediobanca, che del Leone è (con il 14,775 per cento), il primo azionista.
Lo compongono il presidente di Unicredit Dieter Rampl, il presidente di Havas Vincent Bolloré,
il presidente di Pirelli & C. Marco Tronchetti Provera, il direttore generale di Mediobanca, Renato Pagliaro, l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel e il presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi. Saranno loro a scegliere. Avendo ben presente che l’eventuale partenza di Geronzi per Trieste aprirebbe il problema della sua successione in piazzetta Cuccia.
Due in questo caso i nomi più gettonati: la soluzione interna Renato Pagliaro o il vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona, la cui posizione appare rinforzata dalla crescita di Crt-Ferak
nel Leone. Una crescita che dovrebbe garantire anche il futuro di Giovanni Perissinotto, con
Sergio Balbinot amministratore delegato delle Generali, da anni vicino ai soci di Ferak.
Soci assicurati
Resta da evidenziare l’origine dell’appetibilità di Generali. Che si spiega attraverso i numeri. Infatti, la compagnia di Trieste, è una fonte di liquidità e di potere, che si realizza anche attraverso una fitta rete di partecipazioni, non solo in società quotate. Sul listino, Generali è
presente nell’Editoriale l’Espresso (1,99 per cento), in Intesa Sanpaolo (5,074%), in Telco che
controlla Telecom Italia (28%), in Terna (2,026%), in Pirelli (5,485%), in Rcs Mediagroup che
edita questo giornale ( 3,957%) e in Atlantia (3,353%). Senza dimenticare Gemina (
2,879%), Uniland ( 2,062%), Banca Carige (2,969%), Lottomatica ( 3,276%), l’Autostrada
Torino-Milano (4,992%), la Saras dei Moratti ( 4,959%) Impregilo (3,324%), Erg (2,228%) e
Tamburi Investment partner (3,651%). Una penetrante ragnatela di interessi.
Numeri e utili
Industrialmente il gruppo, leader in Italia, è secondo in Francia e in Spagna e primo assicuratore vita, per le polizze a premio non ricorrente, in Cina. Generali ha chiuso il 2009 con
un utile in crescita del 52,1 per cento a oltre 1,3 miliardi di euro. Il reddito degli investimenti
ha toccato al 31 dicembre scorso 1,62 miliardi e il totale degli investimenti è arrivato a quota
341 miliardi. «I risultati di Generali — dice Claudio Cacciamani, docente di Economia degli intermediari finanziari e di Economia delle aziende di assicurazione all’università di Parma —
sono all’altezza delle attese degli analisti, più che in linea con il trend assunto dal mercato assicurativo. Sono dati che evidenziano la complessiva solidità del gruppo, anche alla luce dei
criteri di Solvency 2. Generali ha una massa critica che può essere passibile solo di miglioraRassegna Stampa del giorno 22 MARZO 2010
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menti, sia pure con qualche preoccupazione derivante periodicamente dai danni catastrofali (
il terremoto d’Abruzzo è costato circa 270 milioni alla compagnia, nda). Sul piano dei costi, il
decreto Bersani, da un lato, ha causato un aumento degli oneri di intermediazione, dall’altro,
è stato un’ulteriore occasione per fidelizzare la rete degli agenti . Probabilmente, a livello strategico, il gruppo dovrà in futuro verificare e ottimizzare il portafoglio delle partecipazioni per
salvaguardare e recuperare, eventualmente, ulteriore patrimonio di vigilanza. In ogni caso,
nel complesso la compagnia ha ancora ingenti riserve di liquidità ».
I frutti del periodo
Una liquidità generata (anche) dalla crescita del ramo Vita (+34 per cento a 2,45 miliardi
di euro), mentre il ramo Danni si segnala per un combined ratio al 98,3 per cento (102,4 sul
solo mercato italiano). La fotografia scattata il 31 dicembre scorso lascia intravedere che Trieste inizia a comportarsi da gruppo integrato. Luciano Romeo, responsabile delle operations sta
mettendo in comune la macchina operativa, mentre a livello di prodotto la segmentazione per
canali di età inizia a essere più di un progetto e presto verrà esportata all’estero, colmando il
gap esistente in alcuni mercati con Axa e Allianz.
Sintetizza un osservatore esterno alla compagnia: le Generali stanno trasformandosi da
somma di repubbliche confederate a gruppo vero. In attesa di un presidente.
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CORRIERE DELLA SERA
pag. 8-- sez. ECONOMIA
LUNEDÌ, 22 MARZO 2010
di MASSIMO MUCCHETTI [email protected]
Polizze La grande sfida
con Allianz e Axa
Tedeschi e francesi sono i primi concorrenti sul mercato mondiale.
Mentre in Italia il Leone domina
La compagnia di Trieste ha immobili e terreni valutati 17 miliardi. In Borsa
per tutti valori lontani dai massimi
Come in politica, anzi peggio: per il rinnovo del consiglio delle Generali, che poi eleggerà il
presidente, è in corso una spregiudicata battaglia, che ricorda i congressi dei partiti della Prima Repubblica e però non sembra legata ad alcun progetto verificabile. I risultati del Leone
non vengono discussi seriamente. Si parla solo di poltrone senza porle in relazione né agli obiettivi di rendimento auspicabili né ai piani industriali ordinari né, tantomeno, alla qualità degli attivi e alle operazioni di carattere straordinario che su questi attivi si possono architettare: tema non irrilevante in Italia, dove l’appropriazione privata dei benefici del controllo è la
regola non scritta di tanta parte del governo della cosa pubblica, ma anche di buona parte
della finanza.
Gli investimenti
Generali mette in campo 341 miliardi di euro di investimenti. In Europa solo due compagnie fanno di più: la tedesca Allianz e la francese Axa. Negli Usa c’era l’Aig, che sembrava un
fenomeno, ma solo l’intervento del Tesoro le ha evitato il fallimento. Gli investimenti delle
Generali, insomma, sono una gran cifra, pari a un quinto del Pil italiano, per quanto, trattand
o s i d i una multinazionale, riguardino l’Italia per meno d e l 40%. Questa somma copre in
misura abbondante le riserve tecniche a garanzia degli impegni con gli assicurati, che ammontano a 310 miliardi. Perciò è in massima parte investita in obbligazioni, per lo più statali.
Ma le dimensioni sono tali da lasciare cospicui margini di manovra nell’immobiliare e nella finanza. Immobili e terreni sono a libro per 17 miliardi; secondo le stime ufficiali, ne valgono
24, ma il tam tam dei bene informati parla di 35 miliardi. È un tesoro che periodicamente alimenta appetiti. Basti ricordare il caso del progetto sui palazzi parigini, avanzato da investitori
locali vicini ai francesi di Mediobanca e poi stoppati in silenzio a Trieste. D’altra parte, anche il
monte degli investimenti azionari è alto, 28 miliardi. Una frazione non trascurabile è stata storicamente usata per affiancare Mediobanca in società particolari, Fiat e Pirelli per esempio, ma
anche, secondo una «logica di sistema», in imprese come Telecom dov’è immediatamente
maturata una perdita rilevante.
Il credito
Detto questo, le Generali godono di un ampio credito sul mercato, rafforzato in modo particolare dalla crisi. In questi giorni si è esaltato l’incremento del 53% dell’utile consolidato
2009 rispetto all’anno precedente. In realtà, non è questo il punto, perché se le Generali hanno fatto profitti per 1,3 miliardi, Axa ne ha dichiarati per 3,6 miliardi e Allianz per 4,3: risultati
maggiori non solo in cifra assoluta ma anche in rapporto ai premi (70 miliardi Generali, 84
Axa e 93 Allianz) e agli investimenti (341 miliardi Generali, 560 Axa, 437 Allianz senza più
Dresdner).
Se paragoniamo il 2009 al 2007, prima della crisi conclamata, le Generali sono ancora
sotto del 55%, Allianz del 46% e Axa del 36. Il punto vero è che le Borse valutano Generali
sempre meglio delle sue rivali. In rapporto a premi e risultato operativo, il titolo del Leone
quota un po’ di più; in rapporto all’utile quota molto di più degli altri.
Alla base di questo ottimismo, c’è la tenuta dei valori intrinseci di Generali nel corso della
crisi. Per quanto l’embedded value sia calcolato i n modo non perfettamente omogeneo, il valore del gruppo triestino è oggi di 27,3 miliardi, con una differenza negativa sul 2007 pre-crisi
di soli 1,7 miliardi, mentre quello di Axa è di 35,7 miliardi, 14,9 in meno, e quello di Allianz è
di 34,8 miliardi, 9,1 in meno .
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Leadership
La leadership storica di Mediobanca nell’azionariato di Generali ha favorito il controllo del
mercato italiano e una rilevante ma graduale espansione all’estero nel quadro di una prudente
gestione del patrimonio accumulato nel tempo. A Mediobanca e ai suoi soci storici
facevano riferimento non solo Generali, ma anche Toro, Sai e Fondiaria.
Autonome erano solo Ina-Assitalia, statale, Unipol, controllata dalle coop rosse, e il sistema Ras-Allianz. Una volta privatizzata, Ina-Assitalia è stata mangiata
dal Leone, e così la Toro, mentre Sai ha assorbito Fondiaria ma ha anche fatto ricorso a Mediobanca quale sottoscrittore di ingenti prestiti subordinati. All’estero,
invece, Generali ha fatto acquisizioni rilevanti specialmente in Germania, ma non
rilevantissime. I l gran balzo l’avrebbe potuto fare scalando la francese Agf, ma nella circostanza non ebbe, si dice, l’appoggio di Mediobanca. Certo, le nuove attività
in Cina promettono, ma ci vorrà tempo.
Prospettive
Il nuovo consiglio dovrebbe dire al mercato se ora intende tentare balzi in avanti o continuare nella prudenza, se guarda al mondo o se torna in Italia, luogo pieno di tentazioni come
la fusione Generali-Mediolanum o il take over reverse di Generali su Mediobanca.
Tentazioni che la storia al momento qualifica come sogni proibiti, visto che Mediolanum
non è stata considerata conveniente sia da Unicredit che da Generali, mentre l’idea di una
grande assicurazione che controlla una grande banca, cara all’Unipol di Giovanni Consorte, è
stata bocciata dall’esperienza dell’olandese Ing, che ha dovuto separare le attività bancarie
dalle assicurative pena il fallimento, e da quella di Allianz che, dopo anni di perdite, ha dovuto
infine cedere la Dresdner Bank.
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pag.7
CORRIERE DELLA SERA
pag. 14- sez. ECONOMIA
LUNEDÌ, 22 MARZO 2010
di GINO PAGLIUCA
Mutui Quando è meglio
alleggerirne il peso
L’estinzione in genere è conveniente. Ameno che non si riesca a investire a
un tasso più elevato di quello che si paga
La tipologia
Se è caro va estinto. Le famiglie che si trovano nella fortunata condizione di disporre della
liquidità per ridurre in parte, o saldare del tutto un mutuo, si trovano di fronte a un bel dilemma: continuare a pagare le rate ai tassi di oggi — ai minimi storici per i prestiti variabili —
tenendo i soldi investiti o liberarsi del debito? Il caso, se dobbiamo basarci sui quesiti che arrivano sul forum «I nostri soldi» di corriere.it, non è certo infrequente e non può ricevere una
risposta univoca; si possono comunque fare alcuni considerazioni di carattere generale per
sciogliere il dubbio.
Dal punto di vista della matematica finanziaria la questione non è complessa: estinguere
un mutuo equivale a investire la somma necessaria all’estinzione a un tasso uguale a quello
netto del mutuo. Se, quindi, si è in grado di investire la liquidità disponibile a un tasso superiore l'estinzione non conviene, altrimenti sì.
Questo significa che in una fase di mercato come questa, caratterizzata da un gap di circa
tre punti tra tassi fissi e tassi variabili, è determinante la tipologia di mutuo che si ha in corso.
Con un mutuo a tasso fisso si ha quasi sempre convenienza ad abbattere o eliminare il debito.
Come mostra la tabella, infatti, perché l’estinzione non risulti conveniente bisogna ottenere
tra il 4,2 e il 5,5% netto dall’investimento della liquidità, tassi estremamente elevati e raggiungibili solo in parte con l’acquisto di Btp trentennali.
Ipotizziamo, come mostrano i nostri esempi, un mutuo da 100mila euro a 20 anni stipulato ad aprile 2005: per chiuderlo bisogna disporre di 86.094 euro; per potersi pagare il mutuo
investendo la stessa somma bisognerebbe ricavare almeno il 4,4% netto, un risultato che si
ottiene investendo in obbligazioni al 5,1% lordo (dagli interessi bisogna dedurre le ritenute fiscali) e riuscendo a reinvestire gli interessi fino all'ultimo centesimo.
Il discorso cambia radicalmente se si sta pagando un tasso variabile: bastano rendimenti
netti inferiori al 2% (conseguibili anche con i conti di liquidità) perché si possa considerare
l'opportunità di non chiudere subito il mutuo.
E’ vero che i tassi dei prestiti indicizzati con tutta probabilità risaliranno e che ben difficilmente in questo caso i conti di liquidità, appesantiti come sono da trattenute fiscali al 27%,
potranno risultare ancora competitivi, ma nulla vieta di aspettare lucrando nel frattempo il
vantaggio sui tassi.
L'estinzione del finanziamento può anche essere parziale; in questo caso la riduzione della
rata è direttamente proporzionale alla percentuale di estinzione. Tornando al mutuo ventennale fisso del nostro esempio precedente oggi il cliente paga una rata mensile è di 687,89 euro e la somma occorrente per chiuderlo è di 86.094 euro, comprensivi di penale; se si versano
8.609,40 euro (cioè il 10% della somma) anche la rata si riduce del 10%, scendendo così a
619,10 euro. Un’estinzione parziale appare consigliabile anche per i mutui variabili, perché
abbattendo il capitale residuo si diminuiscono anche i rischi legati a un incremento dei tassi.
Fisco & psicologia
Da un punto di vista finanziario se non si tiene conto del fattore fiscale non c'è differenza
tra abbattere il mutuo nella prima parte della sua vita piuttosto che più avanti: è vero che sulle prime rate si pagano maggiori interessi, ma è anche vero che se si dispone della liquidità e
la si investe nel tempo si ottengono più interessi. Il Fisco, però, consente di ottenere detrazioni sui mutui prima casa per quote interessi fino a 4.000 euro l'anno, se si paga di più è
consigliabile estinguere o comunque ridurre il debito in modo da ottimizzare il vantaggio fiscale.
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pag.8
Il confronto proposto solo da un punto di vista finanziario non esaurisce del tutto il problema. Chiudere, o comunque ridurre il mutuo, anche quando potrebbe sembrare vantaggioso
tenersi la liquidità ha comunque un valore psicologico da non trascurare: significa togliersi di
torno una delle principali fonti di preoccupazione per il futuro (i tassi variabili potrebbero
schizzare di nuovo all’insù), rende più vendibile la casa e anche più agevole cambiare banca.
Al contrario bisognerebbe valutare con molta prudenza l'ipotesi di chiudere del tutto il mutuo se per farlo si impiegano proprio tutti i risparmi precludendosi la possibilità di fare fronte a
esborsi imprevisti. E questo vale a maggior ragione se invece vi sono già in programma altre
spese. Chiudere un mutuo a tasso fisso al 5% per poi finanziare al 9% l'acquisto di un'auto
non è un' operazione particolarmente astuta. In casi come questi meglio puntare su un'estinzione parziale.
Le penali
Per quanto infine riguarda le spese legate all'estinzione del mutuo ricordiamo che per i finanziamenti stipulati dal 2 febbraio 2007 (la data del decreto Bersani sui mutui) non ci sono
più penali. Per i prestiti stipulati in precedenza le norme distinguono tra tassi fissi (penale
massima 1,9%) e variabili (massimo 0,5%): vedi tabella. Nel caso di estinzione totale la banca deve procedere alla chiusura dell'ipoteca senza costi per l'ex debitore.
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la Repubblica
pag. 14 -- sez. ECONOMIA
LUNEDÌ, 22 MARZO 2010
di BARBARA ARDÙ
“I paesi ricchi devono ridurre il debito”
L’allarme dell´Fmi: con questi conti crescita tagliata dello 0,5% l´anno
Berlusconi: “Se la Ue non aiuta la Grecia allora non ha motivo di esistere”
Barroso: sì ad aiuti bilaterali per Atene Ma la Merkel frena: “Non hanno chiesto interventi”
ROMA - Si avvicina il momento di tirare i remi in barca, di ridurre gli stimoli che i governi hanno elargito a
grandi mani per sostenere l´economia dopo la crisi, aumentando così a dismisura il livello del debito. John
Lipsky, vicedirettore del Fondo monetario internazionale, chiede ai Paesi ricchi di tagliare i debiti di bilancio
e di consolidare i conti pubblici a cominciare dal 2011, sempre che le previsioni di ripresa vengano confermate. L´Fmi pone dunque una data a quella exit strategy sempre rimandata, lasciando ancora un piccolo
margine di manovra: il tempo che manca da qui alla fine del 2010. Poi, aggiunge, «sarà bene cominciare a
preparare l´opinione pubblica» a qualche sacrificio.
Al contrario, avverte Lipsky, la crescita rischia un rallentamento. «Mantenere il livello di debito ai livelli postcrisi - ha detto intervenendo al China Development Forum - potrebbe ridurre la crescita potenziale nelle economie avanzate di 0,5 punti percentuali all´anno rispetto ai livelli pre-crisi». Non è una novità quella che
arriva dall´Fmi. Già il suo direttore, Dominique Strauss-Kahn, parlando qualche giorno fa
all´Europarlamento, aveva ribadito la necessità di cominciare a ritirare gradualmente le misure di sostegno.
«Una sfida difficile», ammette lo stesso Lipsky, ma necessaria perché i Paesi del G7, se si escludono Germania e Canada, «avranno un rapporto debito/Pil superiore al 100% nel 2014». Non solo. Le misure di stimolo, che «hanno giocato un ruolo fondamentale nel sostenere la ripresa economica», potrebbero non produrre più gli effetti sperati. È tempo dunque che i Paesi si mettano all´opera per ridurre il debito, perché già
quest´anno il rapporto debito/Pil in alcune economie raggiungerà livelli che non si vedevano dagli anni Cinquanta. Ma allora si era appena usciti da una guerra.
La ricetta suggerita prevede interventi sul welfare, riforma delle pensioni (tagli e elevamento dell´età per lasciare il lavoro) e contenimento della spesa sanitaria, da conseguire attraverso una migliore gestione delle
risorse. Manovre che dovranno andare di pari passo con una politica fiscale «utilizzata attivamente per ridurre eccessivi disavanzi o surplus nella spesa corrente».
L´Europa continua intanto ad avvitarsi sulla crisi greca. L´ipotesi di un intervento congiunto Ue e Fmi è visto
bene dal numero uno dell´Ocse, Gurria, che auspica una combinazione di aiuti, prestiti e garanzie. Ma la
Germania continua a puntare i piedi. «Il vertice Ue di giovedì - ha ribadito ieri la Cancelliera Angela Merkel non si occuperà di aiuti alla Grecia perché Atene non ne ha chiesti».
Tutto il contrario di quanto pensa il presidente della Commisione Ue, Manuel Barroso, che ha chiamato gli
Stati dell´Eurozona a predisporre un sistema di prestiti bilaterali, qualora la Grecia non riuscisse a reperire
capitali sul mercato internazionale. Sulla stessa linea il premier Berlusconi. «Penso che se all´interno della
Ue non ci sia disposizione ad aiutare un Paese in crisi - ha detto parlando a Firenze - allora la Ue non ha
motivazione di esistere».
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pag.10
la Repubblica
pag. 15 - sez. ECONOMIA
LUNEDÌ, 22 MARZO 2010
di ALESSANDRO PENATI
l’analisi
Azienda Italia s.p.a. ecco come
in 15 anni siamo rimasti indietro
La Borsa e il male oscuro del nostro capitalismo
Il mercato dei corporate bond è stato ucciso da Cirio e Parmalat. Da noi l´unico prodotto di successo della new economy è Fastweb
Oggi esce dal Mib la Mondadori. Il 35% del listino è fatto di banche e servizi finanziari. Quasi tutto
il resto di utilities ed Eni
Oggi cambia la composizione dell´indice Ftse/Mib: il paniere delle 40 maggiori società quotate, che meglio
rappresenta Piazza Affari. Esce Mondadori, un´icona della nostra industria, ed entra Azimut, risparmio gestito. Il cambiamento della composizione di un indice di Borsa è un fatto marginale sia per il mercato azionario, sia per le società coinvolte; e irrilevante per l´economia nel suo complesso. Ma ha una valenza simbolica. Ed è un buon pretesto per fotografare il nostro capitalismo, e confrontarlo con quello degli altri, dopo
i postumi della crisi e a 15 anni dall´avvio del processo di risanamento economico, privatizzazioni, liberalizzazioni, regolamentazioni, sfociato nella costituzione dell´Eurozona.
L´immagine del capitalismo italiano che si riflette nello specchio dell´indice Ftse/Mib sembra una fotografia
ingiallita di 15 anni fa. La cosa dovrebbe farci riflettere perché rappresenta un´ipoteca sul nostro futuro benessere.Invece, sembra provocare solo scarso interesse, se non paradossali sussulti d´orgoglio per una ipotetica "via italiana" al capitalismo che, come l´isola di Peter Pan, non c´è, ma è un mito troppo bello per
essere sfatato.
La Borsa italiana oggi è fatta da pochissime grandi imprese. Le 40 del Ftse/Mib rappresentano l´87% della
capitalizzazione totale (valore di mercato di tutte le imprese quotate). Dei primi 150 titoli del listino, la metà
ha una capitalizzazione inferiore ai 696 milioni. Il numero delle società quotate è limitato, non molto distante
da quello di 25 anni fa. L´intero mercato azionario italiano vale, ai prezzi attuali, solo il 30% del Pil 2009.
Non è neppure pensabile un confronto con gli Stati Uniti: basti ricordare che negli USA, anche dopo la crisi,
il rapporto tra valore della Borsa e Pil è al 103%, e nelle prime 150 società, la metà vale più di 25 miliardi
euro. Ma siamo il fanalino di coda anche dell´Europa Continentale: il nostro rapporto borsa/Pil è meno della
metà di quello francese (74%), ed è inferiore anche a quello tedesco (40%), anche se in Germania, tradizionalmente le imprese si sono sviluppate al di fuori del mercato azionario; ma dove, tra le prime 150 società, la mediana è grande il triplo della nostra.
Questa non è l´inevitabile conseguenza del nostro capitalismo, familiare e manifatturiero. Anche in Francia
e Germania molte imprese sono controllate da un gruppo spesso ricollegabile al fondatore, ma il peso delle
grandi imprese nei settori dei beni di consumo e industriali è il doppio del nostro: tra le principali 40 società
quotate francesi e tedesche ci sono colossi in settori come moda, beni per la persona, alimentare (Luis
Vuitton, Adidas, Danone, Beiersdorf, Hermes, …) anche cinque, dieci volte più grandi delle nostre medie
imprese d´eccellenza. Per non parlare della meccanica. I vantaggi delle economie di scala ci sono, e notevoli, anche nel settore manifatturiero tradizionale, specie se la fonte di crescita dell´economia mondiale è
sempre più lontana dall´Europa. Vantaggi non solo per le aziende, ma pure per il Paese, visto che i grandi
gruppi necessitano di figure più qualificate sotto il profilo professionale, richiedono mediamente maggiori
competenze e pagano quindi remunerazioni più elevate. La quotazione è poi indispensabile per permettere
l´espansione all´estero tramite acquisizioni, come dimostrano anche i rari casi italiani presenti nel Ftse/Mib:
Luxottica, Lottomatica, Mediaset, Autogrill, Campari.
Ma è la composizione settoriale delle maggiori società quotate che ci distacca maggiormente dal resto
dell´Eurozona, per non parlare degli Stati Uniti. Da noi, anche dopo la crisi, il 35% dell´indice è costituito da
banche e servizi finanziari: quasi il doppio di Francia e Germania. Negli Usa, dove la bulimia del settore finanziario aveva innescato la crisi, banche e finanza pesano oggi la metà che in Italia. Un ridimensionamento drastico quanto salutare.
Rassegna Stampa del giorno 22 MARZO 2010
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
pag.11
Il resto di Piazza Affari è fatto di servizi di pubblica utilità ed Eni: insieme alle banche, fanno quasi l´80%. È
il retaggio del peso dominante nella nostra economia dello Stato imprenditore. Un peso però ancora presente, dato che il 41% delle aziende nel Ftse/Mib ha un´azionista di riferimento pubblico, Stato o Ente locale (tra le banche ho considerato il solo Monte Paschi). Se a queste aggiungiamo le società interamente cedute dallo Stato ai privati (come Autostrade, Sme, Telecom o le genco dell´Enel), si arriva all´assurdo che il
69% delle nostre grandi aziende quotate è pubblica o nata dalla mano pubblica. Inevitabile in un capitalismo storicamente senza capitali? No. È vero che 20 anni fa, senza mobilità internazionale dei capitali, il risparmio degli italiani doveva necessariamente finanziare il deficit pubblico. E in mancanza di un mercato
finanziario, tutto passava per le banche. Ma l´Euro, le liberalizzazioni, lo sviluppo e l´integrazione dei mercati, avrebbero dovuto liberare i nostri capitalisti dallo storico vincolo della carenza di capitali.
Invece, il mercato dei corporate bond è stato ucciso sul nascere da Cirio e Parmalat. Possono emettere un
bond solo le poche aziende private che hanno accesso ai mercati esteri. E la crisi ha affossato anche quel
poco di cartolarizzazioni non bancarie che c´erano in Italia. La Borsa è servita soprattutto allo Stato per
vendere e far cassa; a molti gruppi privati di vecchio lignaggio, per compiere operazioni ad alta leva finanziaria; e a troppi imprenditori per sfruttare le ricorrenti ondate di facili entusiasmi per collocare a caro prezzo
quote di minoranza (investendo altrove il ricavato): la triste scia di perdite causate dalle matricole è li a
rammentarcelo. Negli Usa la bolla delle dot.com ha provocato tanti disastri, ma l´euforia per gli investimenti
azionari ha anche reso possibile la nascita di giganti, come Google, Amazon, Qualcomm, o Cisco. Da noi,
invece, l´unica realtà di successo sopravvissuta al Nuovo Mercato è Fastweb: non esattamente un caso da
indicare a esempio.
Con il pretesto di difendere l´italianità si è sbarrato la strada ai capitali esteri. Così, i flussi finanziari in Italia
sono tornati a passare obbligatoriamente per il sistema bancario nazionale. Come vent´anni fa. Solo che
ora il numero delle banche si è ridotto e l´influenza della politica è meno trasparente (ma forse non meno
efficace). Da un capitalismo senza capitali, siamo passati a un capitalismo senza capitalisti: gestire relazioni e rapporti col settore pubblico è altro che creare imperi economici.
L´ultimo elemento della fotografia che dovrebbe far riflettere è la totale assenza in Italia di grandi imprese
nei settori a maggior crescita della produttività: non solo tecnologia, informatica e farmaceutica (39% negli
Stati Uniti) ma anche settori tradizionali che incorporano innovazione tecnologica e manageriale come i beni di largo consumo per il tempo libero e la grande distribuzione. In questo, anche il resto dell´Europa non
tiene il passo degli Usa, e non sembra capace di sfruttare la crisi per cambiare il modello produttivo. In Italia
il gap sembra incolmabile. Ma, purtroppo, il reddito delle generazioni future dipende proprio dalla capacità
di spostare le risorse nei settori a maggior crescita della produttività.
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La Fiba-Cisl Vi augura
una giornata serena
Arrivederci a domani
per una nuova
rassegna stampa!
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