Maggio - Primo Levi
Transcript
Maggio - Primo Levi
Rasoio di Ockham Fascicolo speciale con i testi del Concorso di Scrittura Fascicolo speciale - 18 maggio 2013– Anno XI- Liceo “Levi” - Montebelluna Anno scolastico 2011/2012 Anno XI - numero 63 (5) - 18 maggio 2013 Sommario 3 4-5 6-11 12 Editoriale Sezione Poesia Sezione Prosa La Redazione del Giornalino Rasoio di Ockham Editoriale Cari lettori, Questo fascicolo, che vi presentiamo, non è dedicato ai nostri e vostri articoli come di consueto, bensì, come avrete già potuto notare dalla copertina, ai testi premiati nell’ultimo concorso di scrittura. Dato che i testi ve li abbiamo riportati in forma integrale nelle prossime pagine ci sembra giusto dedicare questo editoriale, non ad un compendio dei risultati del concorso, ma ad Antonia Arslan, scrittrice di fama mondiale, nonché giudice di questa edizione. Antonia Arslan nasce a Padova nel 1938, anche se di origini armene. Si laurea in archeologia e diventa professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea, presso l’Università di Padova. Si dedica poi alla scrittura ed il suo primo libro viene pubblicato nel 2004, con il titolo “La masseria delle allodole”, testo da noi analizzato per il progetto “Giornata della memoria” tre anni fa. Questo libro narra la storia di un gruppo di armeni vissuti in Anatolia, al tempo del genocidio armeno da parte del governo turco. Il libro è stato finalista al premio Campiello e ha vinto il premio Stresa di Narrativa. Fra la sua bibliografia vi ricordiamo anche “Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni”, “La strada di Smirne” e “Il libro di Mush”. Dopo questa breve introduzione vi lasciamo ai testi dei nostri compagni. Sperando che questo fascicolo sia di vostro gradimento, vi auguriamo una buona lettura! Cristina, Ermes, Alessandra e Giacomo P AGIN A 3 Rasoio di Ockham Sezione POESIA SEZIONE POESIA POESIE SEGNALATE Indietro X∩Y Erica Baccin ex V F Riccardo Fogliato ex V E Sali ma non parli, Ascolti parole che non sono le mie. È cambiato qualcosa tra noi In un’affermazione ironicamente interrogativa. La nostra unione dava un punto nel grafico della vita, ad una soluzione ero giunto. Ovunque tradimenti, intersezioni desiderabili. Tra noi è finita, troppe incognite variabili. Stai li e mi guardi, Osservi il mondo (Come tu ostini a chiamarlo) Che scivola sotto di noi. Senti la mia voce che tuona Amorevolmente parole in preghiera. Ma ascolti altro. Stai dietro, Resti dietro, Ti perdi indietro. Verso il limite di noi stessi, fino ai più irreali recessi, andavamo alla deriva. Vagavamo in cammini complessi, ti cercavo:nessuno mi capiva. Ancora integre, le nostre emozioni. Costanti, le mie delusioni. Con ciò che ti ho dato, non saremo mai pari. Ma nulla conta, sotto il segno dell'amore. 3° CLASSIFICATI (ex aequo) Occhi Rimedi e rimpianti Gianmarco Esposito ex V C Cristiano Mantovanelli ex II B Classico Nel mio ricordo solo i tuoi occhi. Inevitabile, mi allucinarono. Quasi velato il tuo sguardo da alcune parole, senza senso. Da quel sorriso vero mi sento pervadere nel profondo. Trafitto io, mentre fuori tutto è fermo e tace e il silenzio e il mio pensiero. Quando gli occhi raggiungono il cuore Atte a ricucire delle bombe son le schegge le cose che non sono risolvibili per legge ed è forse il solo modo di innescare un'esplosione ignorare che ciò porta alla rovina e alla prigione. Giudizio La lirica ritrae un momento di forte intensità. La magia di uno sguardo arresta il tempo e sospende ogni parola. Con espressione essenziale e nitida è resa l’atmosfera di stupore e di attesa. P AGIN A 4 Rifiutando le premesse di una storia irrealizzabile , iniziata con un uomo al capezzale di un cadavere, ho capito che non sempre per difendere un amore regalare tempo al tempo sia la scelta migliore, un amore che ritorna in una scheggia nel menisco che più smuovo camminando e più percepisco, una scheggia del giaciglio che racchiuse quella storia, una scheggia che è in metastasi al cervello, alla memoria. E continuerò ad andare finché vecchio e rassegnato non vorrò più alcuna donna per sentirmi innamorato, ma una donna che mi ami per il mio conto in banca una donna che mi ami per il tempo che mi manca. Giudizio Componimento dal contenuto ermetico, in cui si richiamano e si raccordano frantumi di ricordi, sentimenti spezzati e propositi oscillanti fra la rassegnazione e la provocazione. L’autore attesta una capacità di controllo sicuro della costruzione del testo e doti di espressione di indubbia efficacia musicale. Rasoio di Ockham Sezione POESIA 2° CLASSIFICATO Dilania-mente Alessandro Bottin ex IV E Baciate le vostre sigarette Accarezzate le vostre tastiere Addormentate i silenzi e svegliate le Muse Violentate i bassi, pestate i tamburi Strozzate le note, uccidete le melodie. Tagliate le tele, dissanguatele, imbrattatele di buonsenso Perseverate nel nonsenso, usurato e lercio Bruciate i ricordi Comprate qualche emozione usata, vendete le migliori. Soffocate i pianti di un bambino ed alimentate la rabbia dei vecchi Ribollite dentro di voi qualche frase spezzata Seppellite la fratellanza e riesumate le discordie. Giudizio La mente dilaniata non si stanca di indagare la realtà contraddittoria. Di tanto in tanto la voce inaspettata del bambino o l’annuncio paradossale del folle ne svelano un aspetto. La lirica, intessuta di forti opposizioni e di immagini efficaci, risolve il crescendo in anafora degli imperativi insistiti con una lapidaria dichiarazione di smarrimento. Accomodatevi nell’odio ed assaggiate la purezza della gelosia Ripudiate una vita sicura Abbracciate l’oblio mentre sedete sul tagliente specchio precario del vostro essere. Io non so che farò. 1° CLASSIFICATO Vengo sempre Sconfitto Pietro Vettorazzo ex II B Vengo sempre sconfitto non tengo mai banco di fronte a quel vuoto fitto di un foglio bianco Scrivo prima sul bordo ho paura del vuoto quello spazio ingordo di un testo ignoto Poi più non voglio allungare le attese scrivo al centro del foglio parole che restan sospese Infine mi vergogno di quello che ho scritto prendo la gomma cancello e sto zitto Giudizio Il tema della “pagina bianca” ritorna insistente nelle pagine di poetica e diventa esso stesso contenuto forte di celebri componimenti lirici. Con autoironia è stato fatto proprio dall’autore di questa poesia. La polarità contrapposta fra il momento ideativo e quello della rinuncia finale esalta la presenza-assenza di quel “testo ignoto” che tutti vorremmo finalmente arrivare a comporre, ma che purtroppo rimane sempre sospeso. Leggerezza e musicalità assecondano, sul piano formale, lo sviluppo dell’intuizione iniziale. P AGIN A 5 Rasoio di Ockham Sezione PROSA SEZIONE PROSA MENZIONE SPECIALE FUORI CONCORSO Nuova costituzione: articolo uno e unico Alessandro Bottin ex IV E & Libera Campitelli ex II A Classico 1^ SCENA, PROLOGO: Il bene e il buono LIBERA1: Già eran quasi che ottavate l’ore che’l tempo dell’attesa ormai disparve or l’hippy Alessandro tosto m’apparve cui cromata chioma destò stupore Allegro ei sembrommi assai incannato co’ libri sotto il braccio egli sedette A lo mio posto, ratto lo cogliette fragrante mio cornetto addentato l’ebbe ed io sdegnata alquanto al quale: “Villano giovinastro, qual creanza tu a mio degno sguardo porgi male?” Ed elli: “Attesa mi parve mortale pel caval ferrato fu diligenza liceo non creso epulone sed tale PLATONE: (borbottando tra sé)2 “Manifestazione internazionale, scendono in piazza gli indignados. Nelle principali metropoli occidentali, si stimano fino a sei milioni di manifestanti”. Per Zeus, che stiano al loro posto! Che cosa credono di fare?” HIPPY: (esclamando) “Si stanno muovendo per una maggiore equità. Pretendono giustizia e libertà perché da tempo il sistema li ha resi schiavi! Non è forse la cosa più giusta che possano fare?” PLATONE: (irritato) “Schiavi e padroni non potrebbero mai diventare amici.” HIPPY: “Ma essi pretendono solo una giusta uguaglianza dopo anni di repressione!” PLATONE: “Per tutti i demiurghi, o giovane, davvero non capisci? L’uguaglianza fra ineguali diverrebbe ineguaglianza se non ci fosse un criterio di giusto limite! Ad ognuno spetta un posto e, per il bene comune, ognuno deve imparare a starci dentro.” HIPPY: (stizzito) “Non sono d’accordo! Non siamo forse tutti uguali? …Non mi faccia ridere, lei è solo un vecchio, e probabilmente ha pure alzato troppo il gomito…” PLATONE: (orgoglioso) “Si dia il caso che io sono una tra le più importanti menti che la storia abbia mai visto splendere!” HIPPY: “…Steve Jobs?” 1 PLATONE: “Brutto mascalzone, ci vai a scuola? Barba bianca, sguardo fiero, mente eccelsa…” HIPPY: “…Babbo Natale!” PLATONE: “Sono Platone, brutto reietto della società! Platone! E non sono affatto ubriaco, infatti io ragiono! RAGIONO!” HIPPY: “L’ho notato, si, lei ragiona, ma ragiona sbagliato! Gli indignados sono un movimento pacifista e scendono in piazza per i propri diritti, per avere quello che a loro spetta!” PLATONE: “…A loro non spetta nulla di più di ciò che il sommo Dio ha dato loro. Egli dà di più a ciò che vale di più, meno a ciò che vale meno, dà a ciascuno dei due ciò che ad essi spetta secondo il suo valore naturale.” HIPPY: “Ma quale Dio dovrebbe voler tale disuguaglianza? Io credo che, se mai possa esistere un creatore, penserebbe alla felicità di TUTTE le proprie creature, senza alcuna distinzione. Un vero dio dovrebbe garantirci la libertà di manifestare ciò in cui crediamo, anche se ciò comporta disordine.” PLATONE: “Dio, volendo che tutte le cose fossero buone, prese quanto c’era di visibile, che non stava quieto, e lo ridusse dal disordine all’ordine.” HIPPY: “Il Dio di cui tu parli non è forse l’uomo?” PLATONE: “Che intendi dire?” HIPPY: “Spetta all’uomo il compito di ordinare le cose per creare un sommo equilibrio che porti ognuno di noi alla pace, alla fratellanza, alla felicità!” PLATONE: “(si alza, infuriato) Basta, non puoi capire! Se credi in ciò, non potrai mai raggiungere l’ordine che sia io che te andiamo cercando. (si guarda attorno, guarda le persone) Sono inutile qui, ogni discorso nella vostra confusa realtà pare vano. Sarà meglio ch’io torni da dove son venuto.” HIPPY: (dispiaciuto) “Addio, filosofo.” PLATONE: “Addio, ragazzo. (se ne va)” 2^ SCENA: L'utile3 HIPPY (avvicina la testa all’orecchio di Protagora): “Bello, vero? L’ho fatto io!” PROTAGORA (scettico): “Beh, insomma… A che serve,d’altronde?” HIPPY: “In che senso, scusi?” PROTAGORA: “Qual è l’utilità di questo gesto e dell’immagine creata da esso? Non ne troverei nessuna utilità…. E’ semplicemente inutile, una perdita di tempo!” HIPPY (stizzito): “Starà scherzando!” PROTAGORA: “Ciascuno di noi è misura delle cose che sono e che non sono, ci corre un abisso tra un individuo e un altro...” HIPPY: “In questo caso tra me e Lei, io ignorante e lei sapiente, mi pare di interpretare il suo giudizio.” 1^ SCENA Occhio di bue su Libera (vestita con un lungo abito bianco). 2 Luce. Platone seduto al bar mentre sfoglia un quotidiano. Altre persone attorno. Entra l’hippy, che si siede a fianco del vecchio e prende qualcosa da bere. (sguardo perso nel vuoto). 3 Il ragazzo esce dal bar dopo un po’ (magari piccolo stacco musicale) e si dirige verso la panchina, aspettando alla fermata del treno. E’ seduto accanto a lui Protagora. P AGIN A 6 Rasoio di Ockham Sezione PROSA PROTAGORA: “Il sapiente fa apparire buone le opere cattive, ed in questo caso mi pare che sia Lei, o mio buon giovane. Per l'ammalato il cibo appare, ed è amaro, e per il sano, il contrario.” HIPPY: “Quindi nessuno fra noi due è da ritenersi più sapiente dell'altro. Mi toglie le parole dalla bocca.” PROTAGORA: “Io nego che qualcuno possa opinare il falso, e che un altro poi gli faccia opinare il vero; perché non è possibile opinare ciò che non è né altrimenti da ciò che si è provato; e questo perciò è sempre vero.” HIPPY: “Allora come fa Lei a giudicare una schifezza quest'opera?” PROTAGORA: “Posso però giudicarla sia una schifezza come lei si esprime oppure una bellezza.” HIPPY: “Lei si sta prendendo gioco di me, nei ruoli dovrebbe esser il contrario.” PROTAGORA: “Sia l'uno sia l'altro, se lei è un sapiente. I sapienti e valenti oratori fanno apparir come giuste alle città le cose oneste invece delle disoneste.” HIPPY: “Mi dica, come ne usciamo da questa empasse, lo cancelliamo o lo teniamo 'sto murales?” PROTAGORA: “È vero che quanto appar giusto e bello a ciascuna città, tale è anche per essa, finché lo reputi tale; ma appunto il sapiente, in luogo di singole cose dannose per i cittadini ne fa essere e apparire di utili.” HIPPY: “Mi sta dicendo che se è utile lo lasciamo ed invece se è inutile lo togliamo?” PROTAGORA: “Sì”. HIPPY: “Allora, siccome per me è utile a rallegrare una desolazione suburbana e per qualche benpensante è più utile la desolazione ne lasciamo solo metà?” PROTAGORA: “Ci devo pensare, ci devo pensare, ci devo pensare... “ (e se ne va) 3^ SCENA: La felicità4 HIPPY: “Cavolo, come faccio a tornare a casa oggi? Devo prendere il treno e non ho più uno spicciolo! Andrò a piedi, uff…” ARISTOTELE: “(si gira verso di lui) Non ti preoccupare, figliolo, tieni! (gli porge una mazzetta di denaro)” HIPPY: (stupefatto) “Ma… Sta scherzando? È sicuro? Non mi conosce nemmeno e mi dà tutti quei soldi in cambio di nulla?” ARISTOTELE: (calmo) “Tranquillo, ragazzo, a me non servono a nulla. Per me la cosa più importante è la felicità, non qualche luccicante moneta…” HIPPY: “Ha completamente ragione, se tutti la pensassero come lei! Ci sarebbe più felicità e nessuna discordia o guerra tra nazioni…” ARISTOTELE: “Come l’onore, del resto. A che potrebbe mai servire per ottenere felicità? Forse potrebbe rappresentare il mezzo per la felicità, ma non di certo il fine.” HIPPY: “Esatto, denaro e onore d’altronde sono superflui ed effimeri.” ARISTOTELE: “La ricchezza è mezzo per il quale ci si serve in vista di altro. Ma tanti mezzi non formano la felicità. L’onore dipende dagli altri e serve semmai per gratificare e gratificarsi.” HIPPY: “Esatto! Grazie del denaro, molto gentile da parte sua! Che bello, posso tornare a casa in tempo per stendermi sul prato con i miei amici e raccontar loro tutta questa strana mattinata!” ARISTOTELE: “Ecco, figliolo, devo dire che ti inganni tanto quanto chi ricerca ricchezza e onore!” HIPPY: “Come dice, scusi? Sta scherzando, vero? Ricchezza e onore sono una cosa, ma il piacere è una cosa buona e dona felicità!” ARISTOTELE: (sorridendo) “La felicità di cui tu parli è breve e istantanea, ma una volta soddisfatto il piacere, ne ricercherai ulteriore, quindi continuerai a ricercare solo mezzi in vista di altro, ma non raggiungerai mai il bene superiore, dunque la vera felicità.” HIPPY: “Non sono d’accordo, signore. Lei per me sta solo farneticando, perché in realtà io sono felice proprio grazie all’uso del piacere come esaltazione dei sensi. Se tutti pensassimo al piacere dei sensi, sempre rispettando gli altri, si creerebbe un’atmosfera di felicità globale e il mondo sarebbe migliore!” ARISTOTELE: “Per me ti inganni e basta. Impara a ricercare il bene superiore e non fermarti a contemplare qualche mezzuccio inutile.” HIPPY: “Per me si inganna lei. Io continuerò a provar piacere perché sento che è la cosa più giusta e buona da fare.” ARISTOTELE: “Come vuoi, ragazzo. Però un giorno ti sentirai triste e ripenserai alle mie parole. Grazie della conversazione, io scendo qui. Arrivederci.” HIPPY: “Non credo arriverà mai il momento in cui mi sentirò triste. Grazie a lei, sia per la conversazione che per i soldi! Buona giornata!” EPILOGO LIBERA: Quivi termino mio racconto e lode Di gesta di giovin fattone, il quale In viaggio mattutin occasionale Ebbe onor di cui sol’egli or gode Dialogare cum sì tal filosofi Illustri padri d’accademia Ateniese Sofista colui che d’util s’intese, Il Protagora sancì misosofi. Articolo 1 e unico della costituzione: “Al centro di ogni iniziativa, l'attenzione della Stato e dei cittadini va innanzitutto all'essere umano”. 4 Il ragazzo esce dal bar dopo un po’ (piccolo stacco musicale) e si dirige verso la panchina, aspettando alla fermata del treno. E’ seduto accanto a lui Protagora. Arriva il treno. L’Hippy si alza dalla panchina ed entra in un vagone, dove c’è pure Aristotele. P AGIN A 7 Sezione PROSA Rasoio di Ockham 4° CLASSIFICATA Le fauci della notte Marianna Pincin ex V B Ginnasio Nella gelida notte, il fuggitivo correva impacciato, cercando di fuggire i ringhi dei cani. Rami neri dalle dita artigliate gli graffiavano il viso e gli laceravano i vestiti da detenuto con le mani di scheletri demoniaci. Cadde, si rialzò, continuò a correre, inciampò e si trovò di nuovo a terra, con il viso nel fango. Ancora una volta si alzò e riprese la sua fuga disperata. Ansimando, chiese alle gambe un ulteriore sforzo: doveva accelerare o i cani lo avrebbero raggiunto. Sentì i muscoli contrarsi ad ogni nuovo passo, gemere per lo sforzo e finalmente rilassarsi per poi tendersi di nuovo, in un circolo continuo e sempre più doloroso. Appoggiò il piede destro a terra, il ginocchio cedette, troppo stanco per continuare, e di nuovo sentì l’odore della terra fredda e umida entrargli nei polmoni. Provò a rialzarsi ma le braccia non lo reggevano e continuavano a cedere sotto il peso del suo corpo. Sentì i ruggiti dei cani sempre più vicini, ormai riusciva anche a sentire l’odore orribile di quelle bestie affamate. In quel momento cominciò a piovere, prima piano, poi, sempre più forte, fino a diventare un acquazzone. I ricordi della vita passata gli riaffiorarono alla mente: sua madre, bella come la ricordava, con i capelli castani raccolti in una crocchia dalle venature argentate, il suo primo bacio, sotto una pioggia battente come quella che ora percuoteva le sue membra stanche, suo padre che gli insegnava ad andare in bicicletta in una soleggiata mattina di luglio. Tutti questi ricordi si mescolarono in una grossa palla colorata che gli fece girare la testa. E poi giunse il ricordo più doloroso, il suo ingiusto processo. La sua impossibilità di dimostrarsi innocente solo perché la sera dell’omicidio assieme a lui non c’era nessuno. E così, lui era diventato l’unico indiziato. Eppure quella sera, lui era nella propria casa, in quel bar non ci era entrato e quella ragazza non l’aveva mai sfiorata. Erano solo amici, e neanche molto stretti, ma questo alla giustizia non importava, c’era bisogno di un colpevole e ne avevano trovato uno in lui. Ma egli aveva deciso di non accettare a testa bassa quel destino immeritato e così si era ribellato, era fuggito, sapendo che non c’era clemenza per un evaso ma solo una sentenza: morte. Meglio morire piuttosto che passare solo un altro minuto in quella cella, pensò il fuggitivo mentre le prime zampe nere dei cani avanzavano verso il suo corpo indifeso. Il primo morso gli lacerò la gamba sinistra, strappandogli un lungo grido di dolore che andò a disperdersi nel nero della notte, colpendo le gocce di pioggia con la forza della disperazione. Altri ricordi lo invasero, gli occhi colmi di lacrime della madre quando erano venuti ad arrestarlo, l’ultimo bacio che gli aveva dato la sua amata, veloce e leggero come il battito d’ali di una farfalla, carico di tristezza e addio, e in infine, lo sguardo di suo padre, duro e carico di rabbia verso i giudici che stavano punendo ingiustamente suo figlio. Calde lacrime gli rigarono il volto mescolandosi alle gocce gelide di pioggia. Il dolore lo fece tornare nel suo crudele presente. Le forti mascelle non mollavano la presa e molte altre attaccarono il suo corpo rubandogli altre grida atroci. Sentì il sangue bagnargli le vesti già fradice di pioggia, percepì il suo corpo conteso tra i cani e strattonato con forza prima da una parte e poi dall’altra, sopra di sè vide gli occhi dei cani, famelici e rabbiosi, rossi come tizzoni ardenti pieni di crudeltà. Il fuggitivo si chiese per quanto ancora avrebbe dovuto soffrire, per quanto tempo ancora, gli dei si sarebbero divertiti a guardarlo rantolare tra quelle zanne e quegli artigli, prima di concedergli finalmente il lusso della fine. Poi, finalmente, tutto divenne nero e la beata incoscienza prese possesso della sua mente, trasportandolo in un luogo incantato dove il dolore sa di miele e la paura profuma di rose. 3° CLASSIFICATI (ex aequo) Mio nonno era un musicista Miriam Bettamin ex V A Ginnasio Da piccola non ero abituata a passare molto tempo dai nonni; ma quando mamma e papà divorziarono io, mia mamma e mio fratello maggiore Filippo ci trasferimmo nell’appartamento sotto la casa dei nonni e le cose cambiarono radicalmente. Quando si è piccoli la curiosità è una delle caratteristiche che ci vengono rimproverate più spesso e io, come ogni bambina di sette anni amavo andare in giro per la casa dei nonni, curiosando senza meta per sfuggire alla tristezza e alla noia. La nonna era molto paziente con me e io in poco tempo diventai la sua ombra nei lunghi pomeriggi della mia infanzia. Cercando di combattere la noia, seguivo la nonna che andava in cucina, si sedeva e cominciava a raccontarmi le storie della sua gioventù, i suoi incontri con il nonno… Io ascoltavo e anch’io raccontavo qualcosa, della scuola o delle mie compagne. Venne però l’estate e tutto cambiò. Con mio nonno non avevo grandi rapporti, se ne stava tutto il giorno P AGIN A 8 chiuso nel suo studio, un luogo in cui mi era proibito entrare, ma si sa che, quando una cosa è proibita, bisogna assolutamente farla… Così un pomeriggio, credendo che lui fosse andato in giardino, entrai di soppiatto nella stanza e quel che vidi mi sconvolse totalmente! Lo studio sembrava piuttosto piccolo visto da dentro, forse per via degli scaffali colmi di libri e videocassette, forse per le pareti zeppe di diplomi e premi, forse per via della gigantesca scrivania in mogano che ricordo essere colma di fogli pieni di segni che per me non avevano alcun senso allora. Ero dentro da mezz’ora credo, ma sarebbero potuti essere anche solo pochi minuti, stavo leggendo i titoli dei volumi sugli scaffali quando una voce giunse dalle mie spalle: <<Cosa stiamo combinando qui, signorina?>> quella frase non era detta col tono di un rimprovero, era una voce profonda ma gentile, che fino ad allora avevo sentito poche volte. Stranamente il nonno non mi rimproverò per essere entrata nel suo studio, si accomodò sulla poltrona alla scrivania e mi fece segno di sedermi sulle sue ginocchia. Io andai, un po’ riluttante, un po’ spaventata, il nonno non disse niente all’inizio, si limitò a guardarmi con due occhi grandi, azzurri e imperscrutabili; così dopo un po’ fui io a Rasoio di Ockham Sezione PROSA decidermi a parlare: <<Nonno, cosa sono gli strani segni sui fogli qui sopra?>> dissi, indicando dei quaderni aperti <<Sono musica>> rispose mio nonno <<Musica>>. Rigirai la parola nella mente, ripetendola un paio di volte, muovendo le labbra a vuoto. Certo, avevo una vaga idea di cosa fosse la musica, ma non sapevo si potesse scrivere, i suoni non mi sembravano una cosa che si potesse fermare su un pezzo di carta. Il nonno mi chiese se mi piaceva la musica, io risposi che non ne ascoltavo molta <<Beh, bisogna rimediare a questa lacuna>> mi disse. Non ricordo nient’altro della prima volta che entrai nello studio del nonno ma da quel giorno tutto cambiò e io presi ad entrare in quella stanza molto più spesso, senza bisogno di farlo di nascosto. Ogni pomeriggio andavo dal nonno che mi insegnò a leggere la musica e a dare un significato a tutti quei piccoli strani segni chiamati note che stavano sui fogli che si chiamavano spartiti. Un giorno ricordo che gli domandai da dove veniva fuori la musica e lui rispose che c’era qualcuno che la inventava, si chiamavano compositori. Non avevo idea di cosa fosse un compositore, il nonno me lo spiegò, mi fece ascoltare tutti i più grandi. Iniziò da Bach e Vivaldi per arrivare a Verdi e Puccini, ognuno di loro aveva un genere di musica, c’era la musica barocca, classica, romantica… io ascoltavo e mi perdevo in quel mondo fatto di suoni e nomi e storie affascinanti che raccontavano di uomini, di tempi e luoghi lontani dal nostro, che avevano scritto meraviglie che noi potevamo ascoltare ancora oggi, potevamo suonare ancora oggi. Era un mondo totalmente nuovo per me, era qualcosa d’ incredibile ed affascinante eppure era vero. Passavo ore con il nonno, facendomi raccontare gli episodi più buffi della vita dei compositori, o di cosa avesse ispirato un capolavoro e un giorno mi raccontò anche di come aveva cominciato a suonare. Avevo da poco compiuto nove anni quando iniziai a suonare anch’io, ovviamente mi insegnò il nonno. All’inizio non fu troppo difficile, sapevo già leggere la musica e pian Sancta Sanctorum, il cuore del mondo Marco Casagrande ex V E Vive nelle Lande Desolate dell'Est, lontano da ogni compagnia, ad eccezione della sua vecchia pipa. Coltiva un orticello polveroso; accanto ad esso scorre un ruscello, dal quale il lupo solitario trae l'acqua, la risorsa più rara e preziosa di quelle terre selvagge. A stento ricorda come è fatto il mondo, d'altronde a lui basta conoscere l'area che si estende per qualche centinaio di passi attorno alla sua casupola. Un villaggio modesto è situato qualche iarda più lontano, lui però non l'ha mai visitato. Si limita ad osservarlo mentre si staglia all'orizzonte, stranamente luminoso quando il Sole di Mezzogiorno brilla alto nel cielo. Il tempo scorre placido come una bisciastriscia che serpeggia fra i granelli di sabbia. Oggi, tuttavia, quell'armonia ripetitiva e pacifica è turbata dal prosciugarsi del ruscello. Il lupo solitario medita a lungo, seduto comodamente su una poltrona e fumando la pipa con gusto. Si ricorda poi dell'esistenza del Sancta Sanctorum, il luogo dove la gente si reca quando necessita di aiuto, dove le domande trovano sempre una risposta, dove ogni speranza si riaccende. Parte, sperando che il viaggio sia breve, dato che non vuole consumare troppo la suola delle scarpe sgualcite che indossa da innumerevoli anni. Si dirige verso Sud: magari incontrerà i profughi che sono fuggiti piano iniziai a capire qual era il meccanismo. Con il tempo provai un certo piacere a vedere le mie dita muoversi agili e veloci senza sbagliare e a sentire quello che io suonavo. Era qualcosa di meraviglioso, sentire il suono cristallino che si diffondeva nell’aria e avere la consapevolezza che quel suono l’avevo emesso io. Quando compii dodici anni il nonno pensò che si poteva provare l’ammissione al conservatorio, così iniziammo a scegliere i pezzi e a fare prove su prove. O meglio io provavo, il nonno ascoltava, correggeva, dava suggerimenti ma ormai non suonava più; si era ammalato e stava troppo male per suonare così si limitava ad ascoltare senza accompagnarmi. Non sapevo cosa avesse e preferivo non saperlo, ma ultimamente era sempre meno allegro del solito e si stancava sempre più facilmente Durante la prova d’ammissione ero agitatissima ma in qualche modo riuscii a cavarmela, mi dissero che mi avrebbero fatto sapere e mi congedarono. Poi venne un giorno, era il 3 luglio, ricevetti LA telefonata. Era pomeriggio, mia mamma, mio fratello e la nonna erano usciti da un pezzo e il nonno era in camera sua a riposare. Quando squillò il telefono e la segretaria mi disse che ero stata ammessa corsi in camera del nonno, senza preoccuparmi del fatto che stava dormendo, col solo pensiero che dovevo assolutamente dire al nonno dell’ammissione. <<Nonno, svegliati! Nonno!>> ma lui non rispose, lo chiamai più volte, gli urlai nelle orecchie anche, ma lui non rispondeva. Non seppe mai che ero stata ammessa. Ora sono io la musicista. Giudizio Una scoperta casuale apre una relazione interpersonale delicata e profonda ed una imprevista avventura professionale. Il racconto è condotto con garbo e finezza di annotazioni, sostenuto da una espressione piana e trasparente. dai pericoli delle Lande Desolate alla ricerca di una vita migliore. Non tutti apprezzano le schermaglie garbate con i lupi ombrosi o gli agguati insidiosi dei camaleoni. Gli torna in mente un amico di vecchia data: egli aveva scoperto a sue spese che a volte le rocce non sono inanimate come sembrano. Dopo essersi seduto su un camaleone ed essere miracolosamente sopravvissuto, aveva dovuto prenotare svariate sedute dallo psicologo. Dopo qualche giorno, la sua gola è secca come una spugna che aspetta invano di essere imbevuta. Decide di deviare verso Rossospuma, la città dai dolci e verdi declivi, produttrice del vino più buono al mondo. Lungo le ampie vie della famosa località, non vi è nessun ubriaco che festeggia la sua fortuna, come era tradizione in passato. Non si odono nemmeno gli interminabili strepiti dei fringuicchi che minacciano le coltivazioni sulle colline, spinti dalla fame. La città è popolata soltanto da inquietanti statue di vetro antropomorfe. Di certo il loro scultore aveva impiegato una cura straordinaria nel rifinirne i dettagli. Il viandante non ha tempo da perdere. Rompe la vetrina di un elegante negozio e prende alcune bottiglie di vino pregiato: agli abitanti spettrali di Rossospuma non sarebbero più servite. Approfitta del loro consenso inespresso per rifornirsi anche di cibo e per procurarsi degli indumenti nuovi. Adesso perfino i nobili altezzosi di Babele avrebbero dovuto portargli rispetto. Da tempo incalcolabile, questi ometti un po' paranoici cercavano P AGIN A 9 Sezione PROSA di dimostrare la propria grandezza costruendo case sempre più alte. Ora Babele non ha nessun pinnacolo da sfoggiare: è caduta in rovina e solo le macerie testimoniano la sua esistenza. L'abitante dell'Est, si incammina nuovamente verso il Sancta Sanctorum; sembra quasi che raggiungere quel luogo crei più problemi di quanto esso non ne risolva in seguito. Il paesaggio non è più come nei suoi ricordi: il mare ha invaso le vaste pianure e le frane hanno sgretolato le montagne. I prati sono diventati savane, le savane sono diventate deserti. Si accorge di una chiazza verdognola in lontananza: è la famosa foresta di cactuspini, che ora però si è trasformata in una palude maleodorante. Gli dispiace di come la natura sia degenerata poiché quel legno sarebbe stato perfetto per intagliarci una pipa, nel caso in cui la sua si fosse rotta. A causa della scomparsa dei cactuspini, gli abili falegnami di Porto Truciolo avrebbero dovuto senz'altro cambiare lavoro, se fossero stati ancora in vita. Anche di loro sono rimaste solamente gelide statue di vetro. Tutta questa desolazione non impressiona affatto il viandante, lui è abituato ad essere circondato dal nulla. Probabilmente il suo isolamento era stato un metodo per sfuggire alla compagnia. Fortuna sfacciata? Istinto animale? Egli certamente possiede almeno una di queste doti, dato che giunge al Sancta Sanctorum. Chissà quanto denaro facile avrebbe potuto guadagnare al Casinò Des Palmiers, che ora marcisce avvolto in grigie ragnatele abbandonate. Se i suoi frequentatori avevano scommesso di sopravvivere, erano morti da miseri perdenti. Davanti all'ingresso del Sancta Sanctorum è accalcata una marea di statue di vetro che sembrano lottare tra loro, come se stessero fuggendo da un terribile abominio. Il lupo solitario si apre la strada mandandone molte in frantumi; svanito lo stupore e subentrata l'abitudine, quelle figure hanno perso ogni valore ai suoi occhi. Il pensiero di incontrare per caso l'abominio, il probabile re- Rasoio di Ockham sponsabile di tutto questo caos, lo fa esitare. Aveva dimenticato il significato del terrore dopo aver respinto gli attacchi dei lupi ombrosi per dieci notti consecutive. Vivere nelle Lande Desolate dell'Est ha un prezzo molto alto, sia per gli uomini che per le bestie. Fortunatamente, i lupi ombrosi avvertono le proprie vittime ululando di giorno ed attaccando al calar della notte. La loro condotta morale però non li ha salvati dagli spari di una carabina: la mancanza assoluta di onore è una delle armi migliori degli esseri umani. Scende nelle viscere del Sancta Sanctorum, fino a raggiungerne il cuore. Nell'ultima stanza, vi è un semplice specchio che riflette la sua immagine. Durante il viaggio sotto il Sole cocente, l'abitante dell'Est ha cambiato la propria domanda: gli dispiace rinunciare al benestare del suo ruscello, ma non ha altra scelta. "Quale calamità, quale abominio ha colpito il mondo?" chiede con il sollievo di chi finalmente è giunto alla resa dei conti. La sua controparte riflessa sghignazza ruvidamente per un intero minuto, poi risponde gelidamente: "Tu li hai uccisi. Tu sei la calamità. Tu sei l'abominio. Come puoi ancora vivere, sapendo ciò?". Egli replica in tal modo: "Oggi, la mia lenta vita si è trasformata in una lenta morte. Potrò forse riscattarmi, portando questo terribile fardello?". Ma il riflesso tace. Intanto il Sancta Sanctorum, il cuore del mondo, si sgretola: non ne rimangono nemmeno le macerie. Giudizio Reminiscenze antiche e archetipi esistenziali sono alla base di questo racconto d’invenzione. Un fervido lavoro di fantasia crea un rapido susseguirsi di colpi di scena e il luogo di salvezza cercato si rivela essere l’epicentro della desolazione. Il linguaggio, ben variato, asseconda adeguatamente l’immaginazione. 2° CLASSIFICATA Capita che l’amore a volte non basti Serena De Bortoli ex IV G L'amore che una volta era tutto, un giorno, all'improvviso, inizia a non bastare più, nemmeno per un'ultima carezza al cuore. E dal giorno alla notte Alice si era ritrovata a vestire i panni dell'adulta. All'epoca aveva poco più di dodici anni, era solo una ragazzina spaventata, non era pronta a crescere. Non era pronta a smettere di credere all'amore. Da bambina le piaceva girare intorno alla casa sulla sua bicicletta rosa, papà le creava sempre dei labirinti d'erba in cui disperdere i suoi sogni. Le piacevano le capriole tra i fiori di primavera, le piaceva andare a raccogliere lamponi e arrampicarsi sugli alberi. "Papà, prendimi, non riesco a scendere da sola!". Aveva la famiglia che tutti i bambini meriterebbero: una mamma sempre presente, un papà compagno di tanti giochi, e due sorelline con cui crescere. Ma Alice di quelle giornate non ricorda altro che le urla. Urla di un amore che svaniva, che piano piano si trasformava in odio e rancore. Scappava in giardino, premeva forte le mani contro le piccole orecchie e chiudeva gli occhi. Si immaginava in un posto lontano da quel luogo di amore consumato, convinta di non sentir più nulla. Ma non era mai così. Ancora la irrigidiscono le urla. Alice non le ha mai superate certe mancanze, certe sofferenze. Ogni tanto ci ripensa, perché lei, perché loro, perché in modo così brutale. Ancora piange non trovando risposte ai suoi mille perché. “Ma dov’è papà, mamma?”. P AGIN A 1 0 “E’ andato in una comunità con persone che possono aiutarlo, amore”. “E che posto è?”. “E’ un posto dove vanno le persone per guarire da se stesse”. “Come un ospedale, mamma?”. “Una specie, un ospedale del cuore”. Alice non l’ha mai capito perché un padre potesse soffrire tanto da preferire una dipendenza alla sua famiglia. Mal d’amore forse? O semplice egoismo? “Papà, papà, ma quando torni a casa?”. “Presto pulcino, presto”. Alice non ricorda molto di quel periodo. Ricorda le lacrime, le mancanze, le grida d’aiuto della madre. Ricorda la puzza di menzogna invaderle i polmoni, e arrivarle fin dentro alle ossa. Ricorda che il padre non guarì da se stesso quella prima volta, neanche la seconda, e nemmeno la terza. Ma un giorno in particolare è ancora vivido e forte in lei. Lo vide rientrare con due ore di ritardo, avanzava verso la cucina senza neanche fermarsi a darle un bacio, e poi. . . le urla. “Ma dove sei stato? Che cosa hai fatto? Guarda, sanguini!”. “Sono solo caduto al lavoro”. “L’hai fatto di nuovo? Avevi promesso di cambiare!”. “Non ho fatto niente”. Le persone mentono, sempre, a volte per vergogna, altre per paura. Ma non ci si rende conto di quanto possano diventare malvagie le menzogne, finché anche un marito arriva a mentire a una moglie che tanto aveva amato. Rasoio di Ockham Sezione PROSA “Papà, perché piangi? Stai andando via?” “Ti voglio bene, pulcino.” “Ma torni, vero?” “Ciao pulcino. Papà deve andare.” Quel giorno, Alice, non l’ha mai dimenticato. Eccolo, l’esatto momento in cui all’improvviso l’amore non bastava già più. Non è bastato a un padre per cambiare, a una madre per perdonare, a una figlia per accettare. Non è bastato a tenere unita una famiglia. Eccolo, il momento che le ha marchiato la pelle come ferro rovente. Alice da quel giorno non è più stata la stessa. Giudizio Racconto compatto pur nella continua alternanza di piani temporali diversi. Oltre al pieno controllo della struttura compositiva, si apprezzano la forza del contenuto, ricco di significativi spunti di indagine psicologica, e l’espressione molto comunicativa. 1° CLASSIFICATA Sherazade Annachiara Durante ex III B Classico Pesò la pasta. Quanti erano oggi a pranzo? In tre, ovviamente. Si sentiva così forte in quel gesto, evocativo, di preparare il pranzo per la sua famiglia. L’acqua bolliva? Non ancora. L’attesa. Farà a tempo a cucinarsi prima che arrivino? Forse doveva scegliere la tovaglia nel frattempo. Certo, era di questo che si doveva occupare. Chissà cosa stava facendo sua figlia ora. Era arrabbiata con lei? Stava crescendo, forse non l’amava più come un tempo. Come fare a chiederglielo? Si era creato un opaco muro di quotidianità. L’acqua bolliva. Ma, aveva tempo per specchiarsi un attimo prima di gettare la pasta? cco perché all’uomo piace combattere. Altro che gloria. Il dolore, è questo che attrae fatalmente l’uomo. Il dolore e la paura. La sua immagine riflessa la pugnalava, ma sarebbe rimasta ore, infilzata davanti allo specchio, a cercare la paura nei suoi occhi di vetro. Le mancavano i suoi capelli. Non si ricordava più com’era prima. Bella, forse. Suo marito l’aveva rasata una sera, in bagno. Era stato uno di quei gesti simbolici, caricati di ritualità, teatrali, che si posano con un tonfo nel subconscio. E poi ci nevica sopra. Il sale! Dannazione il sale doveva buttare il sale prima della pasta! Che sciocca perdita di tempo l’esistenza. Lei era una donna con un tumore, che stava preparando il pranzo. Si sentì indicibilmente forte nella sua giustificata debolezza. Non c'era più nessun occhio che vegliava su di lei, solo quello del tempo. Stava invecchiando, c’era scritto nelle sue mani. Ne mise una in tasca. Vi trovò un foglietto. “ Per te sarò Sherazade, inventerò ogni notte una favola nuova, affinché tu possa sognare come quando eri bambina. I tuoi occhi sotto le delicate ciglia rincorreranno un mondo di fate e folletti, di cieli azzurri, di prati fioriti, di corse a piedi nudi ridendo nel vento. Per te ripercorrerò ogni notte i sentieri della fantasia, e saprò inventarmi una favola nuova, perché il nostro amore possa crescere, e non finire mai.” Era proprio pazza, sua figlia. Ora sentiva la felicità scorrerle tra le dita. Forse era di seta, la felicità. Giudizio Il flusso di pensieri, che subito ed efficacemente alludono ad una situazione-limite, si alterna con il compimento dei gesti più ripetitivi della quotidianità. Passo passo si svela un intreccio di relazioni, di cui ciascun protagonista, presente o evocato, custodisce un segreto. E l’esistenza, apparentemente “sciocca ed inutile”, genera un tempo infinito che Sherazade riempirà di favole nuove. P AGIN A 1 1 Rasoio di Ockham La redazione del Giornalino · Direttori: Ermes Pozzobon IV D, Cristina Vendramin IV D, Giacomo Marcolin III D, Alessandra Gonnella IV D · Caporedattrici centrali: Chiara Fedato III A & Greta Bressan III D · Settore Tecnico: Ermes Pozzobon IV D & Giacomo Marcolin III D · Settore Grafico: Miriam De Martin V B La Redazione del “Rasoio di Ochkam “ vi augura buona lettura! E-Mail: [email protected]