Maggio - Primo Levi

Transcript

Maggio - Primo Levi
Rasoio di Ockham
Fascicolo speciale con i testi del
Concorso di Scrittura
Fascicolo speciale - 18 maggio 2013– Anno XI- Liceo “Levi” - Montebelluna
Anno scolastico 2011/2012
Anno XI - numero 63 (5) - 18 maggio 2013
Sommario
3
4-5
6-11
12
Editoriale
Sezione Poesia
Sezione Prosa
La Redazione del Giornalino
Rasoio di Ockham
Editoriale
Cari lettori,
Questo fascicolo, che vi presentiamo, non è dedicato ai nostri e vostri articoli come di consueto, bensì,
come avrete già potuto notare dalla copertina, ai testi premiati nell’ultimo concorso di scrittura.
Dato che i testi ve li abbiamo riportati in forma integrale nelle prossime pagine ci sembra giusto dedicare questo editoriale, non ad un compendio dei risultati del concorso, ma ad Antonia Arslan, scrittrice
di fama mondiale, nonché giudice di questa edizione.
Antonia Arslan nasce a Padova nel 1938, anche se di origini armene. Si laurea in archeologia e diventa
professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea, presso l’Università di Padova. Si dedica
poi alla scrittura ed il suo primo libro viene pubblicato nel 2004, con il titolo “La masseria delle allodole”, testo da noi analizzato per il progetto “Giornata della memoria” tre anni fa. Questo libro narra la
storia di un gruppo di armeni vissuti in Anatolia, al tempo del genocidio armeno da parte del governo
turco. Il libro è stato finalista al premio Campiello e ha vinto il premio Stresa di Narrativa.
Fra la sua bibliografia vi ricordiamo anche “Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni”,
“La strada di Smirne” e “Il libro di Mush”.
Dopo questa breve introduzione vi lasciamo ai testi dei nostri compagni.
Sperando che questo fascicolo sia di vostro gradimento, vi auguriamo una buona lettura!
Cristina, Ermes, Alessandra e Giacomo
P AGIN A 3
Rasoio di Ockham
Sezione POESIA
SEZIONE POESIA
POESIE SEGNALATE
Indietro
X∩Y
Erica Baccin ex V F
Riccardo Fogliato ex V E
Sali ma non parli,
Ascolti parole che non sono le mie.
È cambiato qualcosa tra noi
In un’affermazione ironicamente interrogativa.
La nostra unione dava un punto
nel grafico della vita,
ad una soluzione ero giunto.
Ovunque tradimenti, intersezioni desiderabili.
Tra noi è finita, troppe incognite variabili.
Stai li e mi guardi,
Osservi il mondo
(Come tu ostini a chiamarlo)
Che scivola sotto di noi.
Senti la mia voce che tuona
Amorevolmente parole in preghiera.
Ma ascolti altro.
Stai dietro,
Resti dietro,
Ti perdi indietro.
Verso il limite di noi stessi,
fino ai più irreali recessi,
andavamo alla deriva.
Vagavamo in cammini complessi,
ti cercavo:nessuno mi capiva.
Ancora integre, le nostre emozioni.
Costanti, le mie delusioni.
Con ciò che ti ho dato, non saremo mai pari.
Ma nulla conta, sotto il segno dell'amore.
3° CLASSIFICATI (ex aequo)
Occhi
Rimedi e rimpianti
Gianmarco Esposito ex V C
Cristiano Mantovanelli ex II B Classico
Nel mio ricordo
solo i tuoi occhi.
Inevitabile,
mi allucinarono.
Quasi velato
il tuo sguardo
da alcune parole,
senza senso.
Da quel sorriso
vero
mi sento pervadere
nel profondo.
Trafitto io,
mentre fuori
tutto è fermo
e tace
e il silenzio
e il mio pensiero.
Quando gli occhi
raggiungono il cuore
Atte a ricucire delle bombe son le schegge
le cose che non sono risolvibili per legge
ed è forse il solo modo di innescare un'esplosione
ignorare che ciò porta alla rovina e alla prigione.
Giudizio
La lirica ritrae un momento di forte intensità. La magia di uno sguardo arresta il tempo e sospende ogni parola.
Con espressione essenziale e nitida è resa l’atmosfera di stupore e di
attesa.
P AGIN A 4
Rifiutando le premesse di una storia irrealizzabile ,
iniziata con un uomo al capezzale di un cadavere,
ho capito che non sempre per difendere un amore
regalare tempo al tempo sia la scelta migliore,
un amore che ritorna in una scheggia nel menisco
che più smuovo camminando e più percepisco,
una scheggia del giaciglio che racchiuse quella storia,
una scheggia che è in metastasi al cervello, alla memoria.
E continuerò ad andare finché vecchio e rassegnato
non vorrò più alcuna donna per sentirmi innamorato,
ma una donna che mi ami per il mio conto in banca
una donna che mi ami per il tempo che mi manca.
Giudizio
Componimento dal contenuto ermetico, in cui si richiamano e si raccordano frantumi di ricordi, sentimenti spezzati e propositi oscillanti
fra la rassegnazione e la provocazione.
L’autore attesta una capacità di controllo sicuro della costruzione del
testo e doti di espressione di indubbia efficacia musicale.
Rasoio di Ockham
Sezione POESIA
2° CLASSIFICATO
Dilania-mente
Alessandro Bottin ex IV E
Baciate le vostre sigarette
Accarezzate le vostre tastiere
Addormentate i silenzi e svegliate le Muse
Violentate i bassi, pestate i tamburi
Strozzate le note, uccidete le melodie.
Tagliate le tele, dissanguatele, imbrattatele di buonsenso
Perseverate nel nonsenso, usurato e lercio
Bruciate i ricordi
Comprate qualche emozione usata, vendete le migliori.
Soffocate i pianti di un bambino ed alimentate la rabbia dei vecchi
Ribollite dentro di voi qualche frase spezzata
Seppellite la fratellanza e riesumate le discordie.
Giudizio
La mente dilaniata non si stanca di indagare la realtà contraddittoria. Di tanto in tanto la voce inaspettata del bambino o l’annuncio
paradossale del folle ne svelano un aspetto.
La lirica, intessuta di forti opposizioni e di immagini efficaci, risolve il
crescendo in anafora degli imperativi insistiti con una lapidaria dichiarazione di smarrimento.
Accomodatevi nell’odio ed assaggiate la purezza della gelosia
Ripudiate una vita sicura
Abbracciate l’oblio mentre sedete sul tagliente specchio precario del
vostro essere.
Io non so che farò.
1° CLASSIFICATO
Vengo sempre Sconfitto
Pietro Vettorazzo ex II B
Vengo sempre sconfitto
non tengo mai banco
di fronte a quel vuoto fitto
di un foglio bianco
Scrivo prima sul bordo
ho paura del vuoto
quello spazio ingordo
di un testo ignoto
Poi più non voglio
allungare le attese
scrivo al centro del foglio
parole
che restan sospese
Infine mi vergogno
di quello che ho scritto
prendo la gomma
cancello e sto zitto
Giudizio
Il tema della “pagina bianca” ritorna insistente nelle pagine di poetica
e diventa esso stesso contenuto forte di celebri componimenti lirici.
Con autoironia è stato fatto proprio dall’autore di questa poesia.
La polarità contrapposta fra il momento ideativo e quello della rinuncia finale esalta la presenza-assenza di quel “testo ignoto” che tutti
vorremmo finalmente arrivare a comporre, ma che purtroppo rimane
sempre sospeso.
Leggerezza e musicalità assecondano, sul piano formale, lo sviluppo
dell’intuizione iniziale.
P AGIN A 5
Rasoio di Ockham
Sezione PROSA
SEZIONE PROSA
MENZIONE SPECIALE FUORI CONCORSO
Nuova costituzione: articolo uno e unico
Alessandro Bottin ex IV E & Libera Campitelli ex II A Classico
1^ SCENA, PROLOGO: Il bene e il buono
LIBERA1:
Già eran quasi che ottavate l’ore
che’l tempo dell’attesa ormai disparve
or l’hippy Alessandro tosto m’apparve
cui cromata chioma destò stupore
Allegro ei sembrommi assai incannato
co’ libri sotto il braccio egli sedette
A lo mio posto, ratto lo cogliette
fragrante mio cornetto addentato
l’ebbe ed io sdegnata alquanto al quale:
“Villano giovinastro, qual creanza
tu a mio degno sguardo porgi male?”
Ed elli: “Attesa mi parve mortale
pel caval ferrato fu diligenza
liceo non creso epulone sed tale
PLATONE: (borbottando tra sé)2 “Manifestazione internazionale,
scendono in piazza gli indignados. Nelle principali metropoli occidentali, si stimano fino a sei milioni di manifestanti”. Per Zeus, che stiano al loro posto! Che cosa credono di fare?”
HIPPY: (esclamando) “Si stanno muovendo per una maggiore equità.
Pretendono giustizia e libertà perché da tempo il sistema li ha resi
schiavi! Non è forse la cosa più giusta che possano fare?”
PLATONE: (irritato) “Schiavi e padroni non potrebbero mai diventare
amici.”
HIPPY: “Ma essi pretendono solo una giusta uguaglianza dopo anni
di repressione!”
PLATONE: “Per tutti i demiurghi, o giovane, davvero non capisci?
L’uguaglianza fra ineguali diverrebbe ineguaglianza se non ci fosse
un criterio di giusto limite! Ad ognuno spetta un posto e, per il bene
comune, ognuno deve imparare a starci dentro.”
HIPPY: (stizzito) “Non sono d’accordo! Non siamo forse tutti uguali?
…Non mi faccia ridere, lei è solo un vecchio, e probabilmente ha
pure alzato troppo il gomito…”
PLATONE: (orgoglioso) “Si dia il caso che io sono una tra le più importanti menti che la storia abbia mai visto splendere!”
HIPPY: “…Steve Jobs?”
1
PLATONE: “Brutto mascalzone, ci vai a scuola? Barba bianca, sguardo
fiero, mente eccelsa…”
HIPPY: “…Babbo Natale!”
PLATONE: “Sono Platone, brutto reietto della società! Platone! E non
sono affatto ubriaco, infatti io ragiono! RAGIONO!”
HIPPY: “L’ho notato, si, lei ragiona, ma ragiona sbagliato! Gli indignados sono un movimento pacifista e scendono in piazza per i propri
diritti, per avere quello che a loro spetta!”
PLATONE: “…A loro non spetta nulla di più di ciò che il sommo Dio ha
dato loro. Egli dà di più a ciò che vale di più, meno a ciò che vale meno, dà a ciascuno dei due ciò che ad essi spetta secondo il suo valore
naturale.”
HIPPY: “Ma quale Dio dovrebbe voler tale disuguaglianza? Io credo
che, se mai possa esistere un creatore, penserebbe alla felicità di
TUTTE le proprie creature, senza alcuna distinzione. Un vero dio dovrebbe garantirci la libertà di manifestare ciò in cui crediamo, anche
se ciò comporta disordine.”
PLATONE: “Dio, volendo che tutte le cose fossero buone, prese quanto c’era di visibile, che non stava quieto, e lo ridusse dal disordine
all’ordine.”
HIPPY: “Il Dio di cui tu parli non è forse l’uomo?”
PLATONE: “Che intendi dire?”
HIPPY: “Spetta all’uomo il compito di ordinare le cose per creare un
sommo equilibrio che porti ognuno di noi alla pace, alla fratellanza,
alla felicità!”
PLATONE: “(si alza, infuriato) Basta, non puoi capire! Se credi in ciò,
non potrai mai raggiungere l’ordine che sia io che te andiamo cercando. (si guarda attorno, guarda le persone) Sono inutile qui, ogni discorso nella vostra confusa realtà pare vano. Sarà meglio ch’io torni
da dove son venuto.”
HIPPY: (dispiaciuto) “Addio, filosofo.”
PLATONE: “Addio, ragazzo. (se ne va)”
2^ SCENA: L'utile3
HIPPY (avvicina la testa all’orecchio di Protagora): “Bello, vero? L’ho
fatto io!”
PROTAGORA (scettico): “Beh, insomma… A che serve,d’altronde?”
HIPPY: “In che senso, scusi?”
PROTAGORA: “Qual è l’utilità di questo gesto e dell’immagine creata
da esso? Non ne troverei nessuna utilità…. E’ semplicemente inutile,
una perdita di tempo!”
HIPPY (stizzito): “Starà scherzando!”
PROTAGORA: “Ciascuno di noi è misura delle cose che sono e che non
sono, ci corre un abisso tra un individuo e un altro...”
HIPPY: “In questo caso tra me e Lei, io ignorante e lei sapiente, mi
pare di interpretare il suo giudizio.”
1^ SCENA
Occhio di bue su Libera (vestita con un lungo abito bianco).
2
Luce. Platone seduto al bar mentre sfoglia un quotidiano. Altre persone attorno. Entra l’hippy, che si siede a fianco del vecchio e prende
qualcosa da bere. (sguardo perso nel vuoto).
3
Il ragazzo esce dal bar dopo un po’ (magari piccolo stacco musicale) e si dirige verso la panchina, aspettando alla fermata del treno. E’ seduto accanto a lui Protagora.
P AGIN A 6
Rasoio di Ockham
Sezione PROSA
PROTAGORA: “Il sapiente fa apparire buone le opere cattive, ed in
questo caso mi pare che sia Lei, o mio buon giovane. Per l'ammalato
il cibo appare, ed è amaro, e per il sano, il contrario.”
HIPPY: “Quindi nessuno fra noi due è da ritenersi più sapiente
dell'altro. Mi toglie le parole dalla bocca.”
PROTAGORA: “Io nego che qualcuno possa opinare il falso, e che un
altro poi gli faccia opinare il vero; perché non è possibile opinare ciò
che non è né altrimenti da ciò che si è provato; e questo perciò è
sempre vero.”
HIPPY: “Allora come fa Lei a giudicare una schifezza quest'opera?”
PROTAGORA: “Posso però giudicarla sia una schifezza come lei si
esprime oppure una bellezza.”
HIPPY: “Lei si sta prendendo gioco di me, nei ruoli dovrebbe esser il
contrario.”
PROTAGORA: “Sia l'uno sia l'altro, se lei è un sapiente. I sapienti e
valenti oratori fanno apparir come giuste alle città le cose oneste
invece delle disoneste.”
HIPPY: “Mi dica, come ne usciamo da questa empasse, lo cancelliamo o lo teniamo 'sto murales?”
PROTAGORA: “È vero che quanto appar giusto e bello a ciascuna
città, tale è anche per essa, finché lo reputi tale; ma appunto il sapiente, in luogo di singole cose dannose per i cittadini ne fa essere e
apparire di utili.”
HIPPY: “Mi sta dicendo che se è utile lo lasciamo ed invece se è inutile lo togliamo?”
PROTAGORA: “Sì”.
HIPPY: “Allora, siccome per me è utile a rallegrare una desolazione
suburbana e per qualche benpensante è più utile la desolazione ne
lasciamo solo metà?”
PROTAGORA: “Ci devo pensare, ci devo pensare, ci devo pensare... “
(e se ne va)
3^ SCENA: La felicità4
HIPPY: “Cavolo, come faccio a tornare a casa oggi? Devo prendere il
treno e non ho più uno spicciolo! Andrò a piedi, uff…”
ARISTOTELE: “(si gira verso di lui) Non ti preoccupare, figliolo, tieni!
(gli porge una mazzetta di denaro)”
HIPPY: (stupefatto) “Ma… Sta scherzando? È sicuro? Non mi conosce
nemmeno e mi dà tutti quei soldi in cambio di nulla?”
ARISTOTELE: (calmo) “Tranquillo, ragazzo, a me non servono a nulla.
Per me la cosa più importante è la felicità, non qualche luccicante
moneta…”
HIPPY: “Ha completamente ragione, se tutti la pensassero come lei!
Ci sarebbe più felicità e nessuna discordia o guerra tra nazioni…”
ARISTOTELE: “Come l’onore, del resto. A che potrebbe mai servire
per ottenere felicità? Forse potrebbe rappresentare il mezzo per la
felicità, ma non di certo il fine.”
HIPPY: “Esatto, denaro e onore d’altronde sono superflui ed effimeri.”
ARISTOTELE: “La ricchezza è mezzo per il quale ci si serve in vista di
altro. Ma tanti mezzi non formano la felicità. L’onore dipende dagli
altri e serve semmai per gratificare e gratificarsi.”
HIPPY: “Esatto! Grazie del denaro, molto gentile da parte sua! Che
bello, posso tornare a casa in tempo per stendermi sul prato con i
miei amici e raccontar loro tutta questa strana mattinata!”
ARISTOTELE: “Ecco, figliolo, devo dire che ti inganni tanto quanto chi
ricerca ricchezza e onore!”
HIPPY: “Come dice, scusi? Sta scherzando, vero? Ricchezza e onore
sono una cosa, ma il piacere è una cosa buona e dona felicità!”
ARISTOTELE: (sorridendo) “La felicità di cui tu parli è breve e istantanea, ma una volta soddisfatto il piacere, ne ricercherai ulteriore, quindi continuerai a ricercare solo mezzi in vista di altro, ma non raggiungerai mai il bene superiore, dunque la vera felicità.”
HIPPY: “Non sono d’accordo, signore. Lei per me sta solo farneticando, perché in realtà io sono felice proprio grazie all’uso del piacere
come esaltazione dei sensi. Se tutti pensassimo al piacere dei sensi,
sempre rispettando gli altri, si creerebbe un’atmosfera di felicità globale e il mondo sarebbe migliore!”
ARISTOTELE: “Per me ti inganni e basta. Impara a ricercare il bene
superiore e non fermarti a contemplare qualche mezzuccio inutile.”
HIPPY: “Per me si inganna lei. Io continuerò a provar piacere perché
sento che è la cosa più giusta e buona da fare.”
ARISTOTELE: “Come vuoi, ragazzo. Però un giorno ti sentirai triste e
ripenserai alle mie parole. Grazie della conversazione, io scendo qui.
Arrivederci.”
HIPPY: “Non credo arriverà mai il momento in cui mi sentirò triste.
Grazie a lei, sia per la conversazione che per i soldi! Buona giornata!”
EPILOGO
LIBERA:
Quivi termino mio racconto e lode
Di gesta di giovin fattone, il quale
In viaggio mattutin occasionale
Ebbe onor di cui sol’egli or gode
Dialogare cum sì tal filosofi
Illustri padri d’accademia Ateniese
Sofista colui che d’util s’intese,
Il Protagora sancì misosofi.
Articolo 1 e unico della costituzione: “Al centro di ogni iniziativa, l'attenzione della Stato e dei cittadini va innanzitutto all'essere umano”.
4
Il ragazzo esce dal bar dopo un po’ (piccolo stacco musicale) e si dirige verso la panchina, aspettando alla fermata del treno. E’ seduto accanto a lui Protagora. Arriva il treno. L’Hippy si alza dalla panchina ed entra in un vagone, dove c’è pure Aristotele.
P AGIN A 7
Sezione PROSA
Rasoio di Ockham
4° CLASSIFICATA
Le fauci della notte
Marianna Pincin ex V B Ginnasio
Nella gelida notte, il fuggitivo correva impacciato, cercando di fuggire i ringhi dei cani.
Rami neri dalle dita artigliate gli graffiavano il viso e gli laceravano i
vestiti da detenuto con le mani di scheletri demoniaci.
Cadde, si rialzò, continuò a correre, inciampò e si trovò di nuovo a
terra, con il viso nel fango. Ancora una volta si alzò e riprese la sua
fuga disperata.
Ansimando, chiese alle gambe un ulteriore sforzo: doveva accelerare
o i cani lo avrebbero raggiunto.
Sentì i muscoli contrarsi ad ogni nuovo passo, gemere per lo sforzo e
finalmente rilassarsi per poi tendersi di nuovo, in un circolo continuo
e sempre più doloroso.
Appoggiò il piede destro a terra, il ginocchio cedette, troppo stanco
per continuare, e di nuovo sentì l’odore della terra fredda e umida
entrargli nei polmoni.
Provò a rialzarsi ma le braccia non lo reggevano e continuavano a
cedere sotto il peso del suo corpo.
Sentì i ruggiti dei cani sempre più vicini, ormai riusciva anche a sentire l’odore orribile di quelle bestie affamate.
In quel momento cominciò a piovere, prima piano, poi, sempre più
forte, fino a diventare un acquazzone.
I ricordi della vita passata gli riaffiorarono alla mente: sua madre,
bella come la ricordava, con i capelli castani raccolti in una crocchia
dalle venature argentate, il suo primo bacio, sotto una pioggia battente come quella che ora percuoteva le sue membra stanche, suo
padre che gli insegnava ad andare in bicicletta in una soleggiata
mattina di luglio. Tutti questi ricordi si mescolarono in una grossa
palla colorata che gli fece girare la testa. E poi giunse il ricordo più
doloroso, il suo ingiusto processo. La sua impossibilità di dimostrarsi
innocente solo perché la sera dell’omicidio assieme a lui non c’era
nessuno. E così, lui era diventato l’unico indiziato. Eppure quella
sera, lui era nella propria casa, in quel bar non ci era entrato e quella
ragazza non l’aveva mai sfiorata. Erano solo amici, e neanche molto
stretti, ma questo alla giustizia non importava, c’era bisogno di un
colpevole e ne avevano trovato uno in lui. Ma egli aveva deciso di
non accettare a testa bassa quel destino immeritato e così si era
ribellato, era fuggito, sapendo che non c’era clemenza per un evaso
ma solo una sentenza: morte.
Meglio morire piuttosto che passare solo un altro minuto in quella
cella, pensò il fuggitivo mentre le prime zampe nere dei cani avanzavano verso il suo corpo indifeso.
Il primo morso gli lacerò la gamba sinistra, strappandogli un lungo
grido di dolore che andò a disperdersi nel nero della notte, colpendo
le gocce di pioggia con la forza della disperazione.
Altri ricordi lo invasero, gli occhi colmi di lacrime della madre quando erano venuti ad arrestarlo, l’ultimo bacio che gli aveva dato la sua
amata, veloce e leggero come il battito d’ali di una farfalla, carico di
tristezza e addio, e in infine, lo sguardo di suo padre, duro e carico di
rabbia verso i giudici che stavano punendo ingiustamente suo figlio.
Calde lacrime gli rigarono il volto mescolandosi alle gocce gelide di
pioggia.
Il dolore lo fece tornare nel suo crudele presente. Le forti mascelle
non mollavano la presa e molte altre attaccarono il suo corpo rubandogli altre grida atroci.
Sentì il sangue bagnargli le vesti già fradice di pioggia, percepì il suo
corpo conteso tra i cani e strattonato con forza prima da una parte e
poi dall’altra, sopra di sè vide gli occhi dei cani, famelici e rabbiosi,
rossi come tizzoni ardenti pieni di crudeltà.
Il fuggitivo si chiese per quanto ancora avrebbe dovuto soffrire, per
quanto tempo ancora, gli dei si sarebbero divertiti a guardarlo rantolare tra quelle zanne e quegli artigli, prima di concedergli finalmente il
lusso della fine.
Poi, finalmente, tutto divenne nero e la beata incoscienza prese possesso della sua mente, trasportandolo in un luogo incantato dove il
dolore sa di miele e la paura profuma di rose.
3° CLASSIFICATI (ex aequo)
Mio nonno era un musicista
Miriam Bettamin ex V A Ginnasio
Da piccola non ero abituata a passare molto tempo dai nonni; ma
quando mamma e papà divorziarono io, mia mamma e mio fratello
maggiore Filippo ci trasferimmo nell’appartamento sotto la casa dei
nonni e le cose cambiarono radicalmente.
Quando si è piccoli la curiosità è una delle caratteristiche che ci vengono rimproverate più spesso e io, come ogni bambina di sette anni
amavo andare in giro per la casa dei nonni, curiosando senza meta
per sfuggire alla tristezza e alla noia.
La nonna era molto paziente con me e io in poco tempo diventai la
sua ombra nei lunghi pomeriggi della mia infanzia.
Cercando di combattere la noia, seguivo la nonna che andava in
cucina, si sedeva e cominciava a raccontarmi le storie della sua gioventù, i suoi incontri con il nonno… Io ascoltavo e anch’io raccontavo
qualcosa, della scuola o delle mie compagne.
Venne però l’estate e tutto cambiò.
Con mio nonno non avevo grandi rapporti, se ne stava tutto il giorno
P AGIN A 8
chiuso nel suo studio, un luogo in cui mi era proibito entrare, ma si
sa che, quando una cosa è proibita, bisogna assolutamente farla…
Così un pomeriggio, credendo che lui fosse andato in giardino, entrai
di soppiatto nella stanza e quel che vidi mi sconvolse totalmente!
Lo studio sembrava piuttosto piccolo visto da dentro, forse per via
degli scaffali colmi di libri e videocassette, forse per le pareti zeppe
di diplomi e premi, forse per via della gigantesca scrivania in mogano
che ricordo essere colma di fogli pieni di segni che per me non avevano alcun senso allora.
Ero dentro da mezz’ora credo, ma sarebbero potuti essere anche
solo pochi minuti, stavo leggendo i titoli dei volumi sugli scaffali
quando una voce giunse dalle mie spalle: <<Cosa stiamo combinando qui, signorina?>> quella frase non era detta col tono di un rimprovero, era una voce profonda ma gentile, che fino ad allora avevo
sentito poche volte.
Stranamente il nonno non mi rimproverò per essere entrata nel suo
studio, si accomodò sulla poltrona alla scrivania e mi fece segno di
sedermi sulle sue ginocchia. Io andai, un po’ riluttante, un po’ spaventata, il nonno non disse niente all’inizio, si limitò a guardarmi con
due occhi grandi, azzurri e imperscrutabili; così dopo un po’ fui io a
Rasoio di Ockham
Sezione PROSA
decidermi a parlare: <<Nonno, cosa sono gli strani segni sui fogli qui
sopra?>> dissi, indicando dei quaderni aperti <<Sono musica>> rispose mio nonno <<Musica>>.
Rigirai la parola nella mente, ripetendola un paio di volte, muovendo
le labbra a vuoto. Certo, avevo una vaga idea di cosa fosse la musica,
ma non sapevo si potesse scrivere, i suoni non mi sembravano una
cosa che si potesse fermare su un pezzo di carta.
Il nonno mi chiese se mi piaceva la musica, io risposi che non ne
ascoltavo molta <<Beh, bisogna rimediare a questa lacuna>> mi
disse.
Non ricordo nient’altro della prima volta che entrai nello studio del
nonno ma da quel giorno tutto cambiò e io presi ad entrare in quella
stanza molto più spesso, senza bisogno di farlo di nascosto.
Ogni pomeriggio andavo dal nonno che mi insegnò a leggere la musica e a dare un significato a tutti quei piccoli strani segni chiamati
note che stavano sui fogli che si chiamavano spartiti.
Un giorno ricordo che gli domandai da dove veniva fuori la musica e
lui rispose che c’era qualcuno che la inventava, si chiamavano compositori.
Non avevo idea di cosa fosse un compositore, il nonno me lo spiegò,
mi fece ascoltare tutti i più grandi. Iniziò da Bach e Vivaldi per arrivare a Verdi e Puccini, ognuno di loro aveva un genere di musica, c’era
la musica barocca, classica, romantica… io ascoltavo e mi perdevo in
quel mondo fatto di suoni e nomi e storie affascinanti che raccontavano di uomini, di tempi e luoghi lontani dal nostro, che avevano
scritto meraviglie che noi potevamo ascoltare ancora oggi, potevamo suonare ancora oggi.
Era un mondo totalmente nuovo per me, era qualcosa d’ incredibile
ed affascinante eppure era vero. Passavo ore con il nonno, facendomi raccontare gli episodi più buffi della vita dei compositori, o di
cosa avesse ispirato un capolavoro e un giorno mi raccontò anche di
come aveva cominciato a suonare.
Avevo da poco compiuto nove anni quando iniziai a suonare anch’io,
ovviamente mi insegnò il nonno.
All’inizio non fu troppo difficile, sapevo già leggere la musica e pian
Sancta Sanctorum, il cuore del mondo
Marco Casagrande ex V E
Vive nelle Lande Desolate dell'Est, lontano da ogni compagnia, ad
eccezione della sua vecchia pipa. Coltiva un orticello polveroso; accanto ad esso scorre un ruscello, dal quale il lupo solitario trae l'acqua, la risorsa più rara e preziosa di quelle terre selvagge. A stento
ricorda come è fatto il mondo, d'altronde a lui basta conoscere l'area
che si estende per qualche centinaio di passi attorno alla sua casupola. Un villaggio modesto è situato qualche iarda più lontano, lui però
non l'ha mai visitato. Si limita ad osservarlo mentre si staglia all'orizzonte, stranamente luminoso quando il Sole di Mezzogiorno brilla
alto nel cielo. Il tempo scorre placido come una bisciastriscia che
serpeggia fra i granelli di sabbia. Oggi, tuttavia, quell'armonia ripetitiva e pacifica è turbata dal prosciugarsi del ruscello. Il lupo solitario
medita a lungo, seduto comodamente su una poltrona e fumando la
pipa con gusto. Si ricorda poi dell'esistenza del Sancta Sanctorum, il
luogo dove la gente si reca quando necessita di aiuto, dove le domande trovano sempre una risposta, dove ogni speranza si riaccende.
Parte, sperando che il viaggio sia breve, dato che non vuole consumare troppo la suola delle scarpe sgualcite che indossa da innumerevoli
anni. Si dirige verso Sud: magari incontrerà i profughi che sono fuggiti
piano iniziai a capire qual era il meccanismo.
Con il tempo provai un certo piacere a vedere le mie dita muoversi
agili e veloci senza sbagliare e a sentire quello che io suonavo.
Era qualcosa di meraviglioso, sentire il suono cristallino che si diffondeva nell’aria e avere la consapevolezza che quel suono l’avevo emesso io.
Quando compii dodici anni il nonno pensò che si poteva provare
l’ammissione al conservatorio, così iniziammo a scegliere i pezzi e a
fare prove su prove. O meglio io provavo, il nonno ascoltava, correggeva, dava suggerimenti ma ormai non suonava più; si era ammalato
e stava troppo male per suonare così si limitava ad ascoltare senza
accompagnarmi.
Non sapevo cosa avesse e preferivo non saperlo, ma ultimamente
era sempre meno allegro del solito e si stancava sempre più facilmente
Durante la prova d’ammissione ero agitatissima ma in qualche modo
riuscii a cavarmela, mi dissero che mi avrebbero fatto sapere e mi
congedarono.
Poi venne un giorno, era il 3 luglio, ricevetti LA telefonata. Era pomeriggio, mia mamma, mio fratello e la nonna erano usciti da un pezzo
e il nonno era in camera sua a riposare.
Quando squillò il telefono e la segretaria mi disse che ero stata ammessa corsi in camera del nonno, senza preoccuparmi del fatto che
stava dormendo, col solo pensiero che dovevo assolutamente dire al
nonno dell’ammissione.
<<Nonno, svegliati! Nonno!>> ma lui non rispose, lo chiamai più
volte, gli urlai nelle orecchie anche, ma lui non rispondeva.
Non seppe mai che ero stata ammessa.
Ora sono io la musicista.
Giudizio
Una scoperta casuale apre una relazione interpersonale delicata e
profonda ed una imprevista avventura professionale.
Il racconto è condotto con garbo e finezza di annotazioni, sostenuto
da una espressione piana e trasparente.
dai pericoli delle Lande Desolate alla ricerca di una vita migliore. Non
tutti apprezzano le schermaglie garbate con i lupi ombrosi o gli agguati insidiosi dei camaleoni. Gli torna in mente un amico di vecchia
data: egli aveva scoperto a sue spese che a volte le rocce non sono
inanimate come sembrano. Dopo essersi seduto su un camaleone ed
essere miracolosamente sopravvissuto, aveva dovuto prenotare svariate sedute dallo psicologo. Dopo qualche giorno, la sua gola è secca
come una spugna che aspetta invano di essere imbevuta. Decide di
deviare verso Rossospuma, la città dai dolci e verdi declivi, produttrice del vino più buono al mondo. Lungo le ampie vie della famosa
località, non vi è nessun ubriaco che festeggia la sua fortuna, come
era tradizione in passato. Non si odono nemmeno gli interminabili
strepiti dei fringuicchi che minacciano le coltivazioni sulle colline,
spinti dalla fame. La città è popolata soltanto da inquietanti statue di
vetro antropomorfe. Di certo il loro scultore aveva impiegato una
cura straordinaria nel rifinirne i dettagli. Il viandante non ha tempo da
perdere. Rompe la vetrina di un elegante negozio e prende alcune
bottiglie di vino pregiato: agli abitanti spettrali di Rossospuma non
sarebbero più servite. Approfitta del loro consenso inespresso per
rifornirsi anche di cibo e per procurarsi degli indumenti nuovi. Adesso
perfino i nobili altezzosi di Babele avrebbero dovuto portargli rispetto. Da tempo incalcolabile, questi ometti un po' paranoici cercavano
P AGIN A 9
Sezione PROSA
di dimostrare la propria grandezza costruendo case sempre più alte.
Ora Babele non ha nessun pinnacolo da sfoggiare: è caduta in rovina
e solo le macerie testimoniano la sua esistenza. L'abitante dell'Est, si
incammina nuovamente verso il Sancta Sanctorum; sembra quasi che
raggiungere quel luogo crei più problemi di quanto esso non ne risolva in seguito. Il paesaggio non è più come nei suoi ricordi: il mare ha
invaso le vaste pianure e le frane hanno sgretolato le montagne. I
prati sono diventati savane, le savane sono diventate deserti. Si accorge di una chiazza verdognola in lontananza: è la famosa foresta di
cactuspini, che ora però si è trasformata in una palude maleodorante.
Gli dispiace di come la natura sia degenerata poiché quel legno sarebbe stato perfetto per intagliarci una pipa, nel caso in cui la sua si fosse
rotta. A causa della scomparsa dei cactuspini, gli abili falegnami di
Porto Truciolo avrebbero dovuto senz'altro cambiare lavoro, se fossero stati ancora in vita. Anche di loro sono rimaste solamente gelide
statue di vetro. Tutta questa desolazione non impressiona affatto il
viandante, lui è abituato ad essere circondato dal nulla. Probabilmente il suo isolamento era stato un metodo per sfuggire alla compagnia.
Fortuna sfacciata? Istinto animale? Egli certamente possiede almeno
una di queste doti, dato che giunge al Sancta Sanctorum. Chissà
quanto denaro facile avrebbe potuto guadagnare al Casinò Des Palmiers, che ora marcisce avvolto in grigie ragnatele abbandonate. Se i
suoi frequentatori avevano scommesso di sopravvivere, erano morti da miseri perdenti. Davanti all'ingresso del Sancta Sanctorum è
accalcata una marea di statue di vetro che sembrano lottare tra loro,
come se stessero fuggendo da un terribile abominio. Il lupo solitario
si apre la strada mandandone molte in frantumi; svanito lo stupore e
subentrata l'abitudine, quelle figure hanno perso ogni valore ai suoi
occhi. Il pensiero di incontrare per caso l'abominio, il probabile re-
Rasoio di Ockham
sponsabile di tutto questo caos, lo fa esitare. Aveva dimenticato il
significato del terrore dopo aver respinto gli attacchi dei lupi ombrosi
per dieci notti consecutive. Vivere nelle Lande Desolate dell'Est ha un
prezzo molto alto, sia per gli uomini che per le bestie. Fortunatamente, i lupi ombrosi avvertono le proprie vittime ululando di giorno ed
attaccando al calar della notte. La loro condotta morale però non li ha
salvati dagli spari di una carabina: la mancanza assoluta di onore è
una delle armi migliori degli esseri umani. Scende nelle viscere del
Sancta Sanctorum, fino a raggiungerne il cuore. Nell'ultima stanza, vi
è un semplice specchio che riflette la sua immagine. Durante il viaggio sotto il Sole cocente, l'abitante dell'Est ha cambiato la propria
domanda: gli dispiace rinunciare al benestare del suo ruscello, ma
non ha altra scelta. "Quale calamità, quale abominio ha colpito il
mondo?" chiede con il sollievo di chi finalmente è giunto alla resa dei
conti. La sua controparte riflessa sghignazza ruvidamente per un intero minuto, poi risponde gelidamente: "Tu li hai uccisi. Tu sei la calamità. Tu sei l'abominio. Come puoi ancora vivere, sapendo ciò?". Egli
replica in tal modo: "Oggi, la mia lenta vita si è trasformata in una
lenta morte. Potrò forse riscattarmi, portando questo terribile fardello?". Ma il riflesso tace. Intanto il Sancta Sanctorum, il cuore del mondo, si sgretola: non ne rimangono nemmeno le macerie.
Giudizio
Reminiscenze antiche e archetipi esistenziali sono alla base di questo
racconto d’invenzione. Un fervido lavoro di fantasia crea un rapido
susseguirsi di colpi di scena e il luogo di salvezza cercato si rivela essere l’epicentro della desolazione.
Il
linguaggio,
ben
variato,
asseconda
adeguatamente
l’immaginazione.
2° CLASSIFICATA
Capita che l’amore a volte non basti
Serena De Bortoli ex IV G
L'amore che una volta era tutto, un giorno, all'improvviso, inizia
a non bastare più, nemmeno per un'ultima carezza al cuore. E
dal giorno alla notte Alice si era ritrovata a vestire i panni
dell'adulta. All'epoca aveva poco più di dodici anni, era solo
una ragazzina spaventata, non era pronta a crescere. Non era
pronta a smettere di credere all'amore. Da bambina le piaceva
girare intorno alla casa sulla sua bicicletta rosa, papà le creava
sempre dei labirinti d'erba in cui disperdere i suoi sogni. Le
piacevano le capriole tra i fiori di primavera, le piaceva andare
a raccogliere lamponi e arrampicarsi sugli alberi. "Papà, prendimi, non riesco a scendere da sola!". Aveva la famiglia che tutti
i bambini meriterebbero: una mamma sempre presente, un
papà compagno di tanti giochi, e due sorelline con cui crescere.
Ma Alice di quelle giornate non ricorda altro che le urla. Urla di
un amore che svaniva, che piano piano si trasformava in odio
e rancore. Scappava in giardino, premeva forte le mani contro
le piccole orecchie e chiudeva gli occhi. Si immaginava in un
posto lontano da quel luogo di amore consumato, convinta di non
sentir più nulla. Ma non era mai così. Ancora la irrigidiscono le
urla. Alice non le ha mai superate certe mancanze, certe sofferenze. Ogni tanto ci ripensa, perché lei, perché loro, perché in
modo così brutale. Ancora piange non trovando risposte ai suoi
mille perché.
“Ma dov’è papà, mamma?”.
P AGIN A 1 0
“E’ andato in una comunità con persone che possono aiutarlo,
amore”.
“E che posto è?”.
“E’ un posto dove vanno le persone per guarire da se stesse”.
“Come un ospedale, mamma?”.
“Una specie, un ospedale del cuore”.
Alice non l’ha mai capito perché un padre potesse soffrire tanto
da preferire una dipendenza alla sua famiglia. Mal d’amore forse? O semplice egoismo?
“Papà, papà, ma quando torni a casa?”.
“Presto pulcino, presto”.
Alice non ricorda molto di quel periodo. Ricorda le lacrime, le
mancanze, le grida d’aiuto della madre. Ricorda la puzza di menzogna invaderle i polmoni, e arrivarle fin dentro alle ossa. Ricorda che il padre non guarì da se stesso quella prima volta, neanche la seconda, e nemmeno la terza. Ma un giorno in particolare è ancora vivido e forte in lei. Lo vide rientrare con due ore
di ritardo, avanzava verso la cucina senza neanche fermarsi a
darle un bacio, e poi. . . le urla.
“Ma dove sei stato? Che cosa hai fatto? Guarda, sanguini!”.
“Sono solo caduto al lavoro”.
“L’hai fatto di nuovo? Avevi promesso di cambiare!”.
“Non ho fatto niente”.
Le persone mentono, sempre, a volte per vergogna, altre per
paura. Ma non ci si rende conto di quanto possano diventare
malvagie le menzogne, finché anche un marito arriva a mentire
a una moglie che tanto aveva amato.
Rasoio di Ockham
Sezione PROSA
“Papà, perché piangi? Stai andando via?”
“Ti voglio bene, pulcino.”
“Ma torni, vero?”
“Ciao pulcino. Papà deve andare.”
Quel giorno, Alice, non l’ha mai dimenticato. Eccolo, l’esatto
momento in cui all’improvviso l’amore non bastava già più. Non
è bastato a un padre per cambiare, a una madre per perdonare, a una figlia per accettare. Non è bastato a tenere unita una
famiglia. Eccolo, il momento che le ha marchiato la pelle come
ferro rovente. Alice da quel giorno non è più stata la stessa.
Giudizio
Racconto compatto pur nella continua alternanza di piani temporali
diversi.
Oltre al pieno controllo della struttura compositiva, si apprezzano la
forza del contenuto, ricco di significativi spunti di indagine psicologica, e l’espressione molto comunicativa.
1° CLASSIFICATA
Sherazade
Annachiara Durante ex III B Classico
Pesò la pasta. Quanti erano oggi a pranzo? In tre, ovviamente.
Si sentiva così forte in quel gesto, evocativo, di preparare il pranzo
per la sua famiglia.
L’acqua bolliva? Non ancora.
L’attesa.
Farà a tempo a cucinarsi prima che arrivino? Forse doveva scegliere la
tovaglia nel frattempo.
Certo, era di questo che si doveva occupare.
Chissà cosa stava facendo sua figlia ora. Era arrabbiata con lei? Stava
crescendo, forse non l’amava più come un tempo. Come fare a chiederglielo? Si era creato un opaco muro di quotidianità.
L’acqua bolliva. Ma, aveva tempo per specchiarsi un attimo prima di
gettare la pasta?
cco perché all’uomo piace combattere. Altro che gloria. Il dolore, è
questo che attrae fatalmente l’uomo. Il dolore e la paura. La sua immagine riflessa la pugnalava, ma sarebbe rimasta ore, infilzata davanti allo specchio, a cercare la paura nei suoi occhi di vetro.
Le mancavano i suoi capelli. Non si ricordava più com’era prima. Bella, forse.
Suo marito l’aveva rasata una sera, in bagno. Era stato uno di quei
gesti simbolici, caricati di ritualità, teatrali, che si posano con un tonfo
nel subconscio. E poi ci nevica sopra.
Il sale! Dannazione il sale doveva buttare il sale prima della pasta!
Che sciocca perdita di tempo l’esistenza.
Lei era una donna con un tumore, che stava preparando il pranzo.
Si sentì indicibilmente forte nella sua giustificata debolezza.
Non c'era più nessun occhio che vegliava su di lei, solo quello del
tempo. Stava invecchiando, c’era scritto nelle sue mani.
Ne mise una in tasca. Vi trovò un foglietto.
“ Per te sarò Sherazade, inventerò ogni notte una favola nuova, affinché tu possa sognare come quando eri bambina. I tuoi occhi sotto le
delicate ciglia rincorreranno un mondo di fate e folletti, di cieli azzurri, di prati fioriti, di corse a piedi nudi ridendo nel vento. Per te ripercorrerò ogni notte i sentieri della fantasia, e saprò inventarmi una
favola nuova, perché il nostro amore possa crescere, e non finire
mai.”
Era proprio pazza, sua figlia.
Ora sentiva la felicità scorrerle tra le dita. Forse era di seta, la felicità.
Giudizio
Il flusso di pensieri, che subito ed efficacemente alludono ad una situazione-limite, si alterna con il compimento dei gesti più ripetitivi
della quotidianità.
Passo passo si svela un intreccio di relazioni, di cui ciascun protagonista, presente o evocato, custodisce un segreto.
E l’esistenza, apparentemente “sciocca ed inutile”, genera un tempo
infinito che Sherazade riempirà di favole nuove.
P AGIN A 1 1
Rasoio di Ockham
La redazione del Giornalino
· Direttori: Ermes Pozzobon IV D, Cristina Vendramin IV D, Giacomo Marcolin III D,
Alessandra Gonnella IV D
·
Caporedattrici centrali: Chiara Fedato III A & Greta Bressan III D
·
Settore Tecnico: Ermes Pozzobon IV D & Giacomo Marcolin III D
·
Settore Grafico: Miriam De Martin V B
La Redazione del “Rasoio di Ochkam “
vi augura buona lettura!
E-Mail: [email protected]