Appunti Alessandrini, 25/02/2012, Marco Ciani

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Appunti Alessandrini, 25/02/2012, Marco Ciani
La mossa del riccio. Al potere con
tenerezza e disciplina
Posted on 25 febbraio 2012
Marco Ciani
Ieri, 24 febbraio a Valenza, nel corso delle iniziative organizzate dal Coordinamento
alessandrino di Libera, si è tenuta una serata con Davide Mattiello, membro dell’Ufficio di
Presidenza di Libera, con responsabilità sull’organizzazione territoriale nazionale
e presidente della Fondazione Benvenuti in Italia.
Mattiello ha presentato il suo ultimo libro “La mossa del riccio. Al potere con tenerezza e
disciplina”, edizioni Add (107 pagine, costo 7 euro).
Nel titolo c’è già il programma di una possibile via umana al potere. Ma possiamo anche
chiamare questo particolare tipo di potere con il suo nome: politica. Non c’è infatti politica
concreta, che non prevede una qualche forma di rapporto con il potere.
Ma qui già si pone un problema che Davide pone all’interno del libro: il “potere buono”
esiste?
A prima vista sembrerebbe che non possa pensarsi un potere senza compromissione. E
quindi nemmeno che sia possibile fare politica senza metter le mani nel “guano”. Anche
questa è una piccola esperienza che Davide ci regala nel libro, quando ripercorre il periodo
in cui, con l’Associazione Acmos di cui era presidente dovette ripulire in prima persona
l’imponente scalone monumentale di ingresso di un imponente edificio abbandonato e
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messo a disposizione della comità, grazie all’intervento di Don Luigi Ciotti.
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cosa più difficile e (talvolta) pericolosa che si dimostra il proprio attaccamento alla causa”.
Perché dunque sporcarsi le mani? La risposta mi pare illuminante perché “è facendo la
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E una cosa ancora più difficile fa Danilo Dolci, post
e così, tutti i nuovi
del con sito. un balzo all’indietro, ci
spostiamo all’incipit del saggio, siciliano di Trappeto nel 1952, quando decise di straiarsi
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sopra un pagliericcio dove un bimbo era morto di fame. Stiamo parlando di un bambino
che muore di fame nell’Italia degli anni Inserisci il tuo indirizzo e­mail
1950. Certo, avrebbe potuto farsene una ragione.
Del resto di quante cose dobbiamo farci anche noi una ragione tutti i giorni per
sopravvivere? E invece no, Danilo decide di mettersi in sciopero della fame, con un
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piccolo gesto rivoluzionario, perché dice “ci sono cose che a farsene una ragione ti
riducono disumano”. L’intervento di Danilo creò mobilitazione e ottenne quanto meno che
le autorità mettessero mano ad un intervento urgente alle fogne.
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Danilo ci insegna con quel gesto a non fare diventare dei bambini dei “calli” da grandi, duri
e impermeabili. Ma per ottenere questo risultato non basta parlare, non basta informarsi.
Bisogna dare l’esempio.
E qui si introduce un altro tema enorme della società attuale. Pensate ai social network,
come Facebook, Twitter, le Chat, etc. tI Danno la sensazione di controllare il monda dal
tuo PC. Ti tengono informato (o perlomeno pseudo­informato). Puoi approvare, dire la tua,
condividere (parola abusatissima) moltiplicando i messaggi all’infinito secondo una catena
di Sant’Antonio resa possibile dalla nuova tecnologia. Se oltre che a condividere ho pure
cliccato il “mi piace” su una giusta causa, allora sono a posto con il mondo.
Ma è questa la vera rivoluzione: avere tutto il mondo nella testa e niente tra le mani?
Davide osserva acutamente “L’idea che la sola informazione generi indignazione,
mobilitazione, trasformazione: ecco una spina travestita da petalo. Un’idea che va
smascherata, perché è funzionale alla conservazione delle cose così come stanno”.
No ci dice l’autore. “La rivoluzione ha bisogno di qualcosa d’altro per radicarsi nell’animo
umano. Qualcosa di speciale ed esigente. Qualcosa che va oltre l’informazione, che pure
è evidentemente necessaria”. Cosa è questa cosa? E’ il pagare di persona. E se vuoi
condividere veramente “ghiccarisi insemmola”, che nella lingua siciliana di Trappeto
significa buttarsi insieme. Tuffarsi dentro.
E questo è un atteggiamento radicale. Se volete chiamatela solidarietà. Ricordando però
che solidarietà significa pagare in solidum, espressione che alla fine del IV secolo,
indicava l’obbligazione da parte di un individuo, appartenente a un gruppo di debitori, di
pagare integralmente il debito. Ed è proprio per questo motivo che è dalla parola latina
solidum che deriva anche il nostro soldo.
Ce lo ricorda anche nel testo Paulo Freire di cui Davide riprende “La pedagogia degli
oppressi”. Sostiene Freire che “la vera solidarietà nasce solo nella pienezza di un atto
d’amore esigente, giacchè esige che colui che divente solidale assuma la situazione di
coloro che ha scoperto oppressi”.
Ma questa condivisione di umanità, questa “tenerezza”, comporta un rischio: quello di
rimanere affranti, quasi schiacciati sotto un peso e spalanca pozzi artesiani dai quali è
difficile risalire. E puoi arrivare a chiederti se valga la pena di continuare la battaglia?
Davide tra da questa condizione un’immagine, quella delle persone­pozzo, come le
chiama nel libro, che sono fondo e orlo allo stesso tempo: persone che non si fanno
distrarre da valutazioni sulla vita e sulla storia, ma rimangono concentrate sul concreto.
Persone che dalla memoria di quanto subito, e trasformato in identità e poi in rabbia,
traggono la forza per andare avanti.
Come affrontare altrimenti anche un’esperienza aspra e ricchissima come quella del
Cottolengo di Torino, esperienza che Davide coltiva a 18 anni, dove la prima tentazione
che ti assale è quella di scappare a gambe levate? “E’ ancora una volta il legame stretto e
confidente che salva. Insomma, se vuoi bene a una persona che resiste, tu resisti con
lei”.
Questa condizione di condivisione vera, non virtuale, rende possibile anche la reazione ai
mali della società. Tra questi Davide, giovane neo laureato in legge a Torino (con lode e
menzione) ed esponente della Gioventù Operaia Cristiana, sperimenta la fatica, grazie ad
alcuni preti operai, di come si possa trasformare una scuola abbandonata, preda di
umanità di vario genere, emarginati, tossici, spacciatori, disperati, in una comunità.
Un’avventura durata inizialmente cinque anni, in cui pagare anche qualche prezzo. Infatti
un luogo come quello è una oasi per la criminalità alla quale, Davide assieme all’amico
Fabbio, vanno a rompere le uova nel paniere. E da qui la reazione della malavita che prima
spacca e poi incendia, nell’intento di scoraggiare il tentativo di recupero.
Ma i due amici decidono di resistere consapevoli che la rivoluzione è una questione di
vuoti e pieni: se tu arretri loro avanzano e viceversa. Alla fine reazione e convivenza
portano frutto e il frutto buono è sempre la liberazione dalla paura e dal bisogno. Lo
scandalo di quel luogo abbandonato è trasformato in occasione di incontro, di accoglienza,
di formazione, di sostegno.
Da queste esperienze, dalla reazione solidale, nasce quindi la buona strada per la politica.
Citando Marcos, il rivoluzionario subcomandante dell’Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale, Davide ci ricorda che “l’essere umano deve lottare per essere libero quando è
schiavo e quando è libero deve lottare perché anche gli altri esseri umani lo siano”.
Ma su quale ethos fondare un’azione politica? Su quale ethos informare lo spirito degli
individui che governano e che sono governati? Secondo Gustavo Zagrebelsky, presidente
emerito della Corte Costituzionale, l’ethos democratico, cioè lo spirito che deve alimentare
una democrazia si deve alimentare di almento una convinzione: che il potere possa essere
esercitato in modo tale da generare giustizia e libertà. Malgrado i mille e mille esempi
contrari, nei quali potere è esercizio della prevaricazione del più forte. Ma per sconfiggere
questa seconda accezione, gli adulti in posizione di potere testimoniano ai giovani che
quel potere è asservizio del bene comune.
Davide prosegue il racconto ricordando il suo ingresso in Libera nel 2000, di cui nel 2001 è
già referente per il Piemonte e l’esperienza accanto a persone straordinarie come Laura e
Giancarlo Caselli, Piera Aiello, Rita Borsellino, Pino e Marisa Masciari, Margherita Asta,
Viviana Matrangola, Paola Caccia, Maddalena e Carla Rostagno, Vincenza e Augusta
Agostino, Giovanni Impastato, Bruno Piazzese, veri e propri pozzi artesiani,
nell’accezione di cui dicevamo prima.
Persone senza le quali non sarebbe possibile un’opera civile, oltre che giudiziaria, di
contrasto alla mafia; quella stessa mafia, frammentata in centinaia di schegge di dolore,
che è anche la storia delle 800 vittime innocentio di mafia che Libera ricorda ogni anno.
Una mafia dunque potente, che usa il potere come una clava sulla testa delle persone,
spesso con connivenze di ogni genere a partire dalla politica e, purtroppo anche in
Alessandria ne sappiamo qualcosa, un potere che può anche fare venire voglia di uscire
dal sistema, di farsi travolgere dalla tentazione dell’anarchia.
Ma è una tentazione che deve cedere il passo perché la partecipazione democratica non
può ridursi allo scatto iniziale con il quale ci si inalbera di fronte alle ingiustizie. E’
piuttosto una condizione esistenziale permanente figlia della convivenza e madre di
un’ostinata responsabilità.
Una responsabilità che induce a fare la cosa più difficile se necessaria. E la cosa più
difficile è decidere, ordinare. Lì dove, in un sistema liberale e quindi complesso, l’atto del
decidere non è il frutto eroico dell’ispirazione di uno, ma il frutto ponderato del
comportamento di molti.
E’ un processo difficile. E’ anche il motivo per cui molto dell’impegno di Libera è volto a
incoraggiare i giovani ad entrare dentro le istituzioni, a fare politica, ad assumere ruoli di
responsabilità nella gestione del potere.
Eccoci tornati all’inzio, alla politica, al potere. Dopo aver compreso l’orrore del potere, ma
anche la sua necessità. Ecco perché, come citato nell’introduzione al saggio, dedicata agli
anarchici tormenati e suscitando qualche suggestione schopenhaueriana, “siamo come
ricci: non troppo lontani da morire di freddo, non così vicini da ferirci a morte, Faremo quel
che c’è da fare per governare per governare con i mezzi questa storia: Costituzione,
Libertà, Uguaglianza, Democrazia, Repubblica. Fino a prova contraria.
Ma poiché non c’è potere che si possa adoperare senza cultura dell’autocontrollo, del
limite o per dirla con una parola chiara al Mahatma per eccelenza: “disciplina”. Ecco
disvelato anche il secondo paradigma. Una disciplina da esercitare senza personalismi
forzanti e senza spontaneismi dannosi.
La rivoluzione che vogliamo e questa è la conclusione, è impastata di tenerezza e
disciplina. Cosi si può fare: si può vincere.
Insomma, si tratta di un bel libro, molto denso pur nella piacevolezza della lettura, che
costituisce un manifesto o, volendo, un piccolo ma prezioso manuale di politica che tutti
dovrebbero leggere. In particolare, a mio modo di vedere, due categorie: i giovani che
vogliono avvicinarsi alla politica per capire che il potere non è solo malaffare o,
all’opposto, idealità priva di costrutto; e i politici “incalliti” (cioè induriti dall’esercizio del
potere) per re­imparare il potere come servizio.
Un libro decisamente da acquistare e regalare.
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2 THOUGHTS ON “LA MOSSA DEL RICCIO. AL POTERE CON TENEREZZA E DISCIPLINA”
icittadiniprimaditutto
in 26 febbraio 2012 alle 00:28 ha detto:
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
icittadiniprimaditutto
in 26 febbraio 2012 alle 13:20 ha detto:
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