La devianza
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La devianza
La devianza 1. Introduzione In questi ultimi anni si è affermato un orientamento critico verso i tradizionali modi di spiegare e trattare il problema della devianza. Tale orientamento è nato sia dal contributo teorico di psico-sociologi come Lemert e Becker, sia dall'autocritica fatta da una ristretta minoranza di psichiatri e psicoanalisti verso il ruolo ideologico delle loro conoscenze e pratiche istituzionali. Da un punto di vista concreto questo ha contribuito a rimettere in discussione concetti come quello di "normalità" e "patologia" ormai acquisiti stabilmente alla pratica ed alla ricerca clinica. In questo orientamento non si è più cercato di spiegare o interpretare l'agire del deviante partendo dal tradizionale quadro concettuale basato sull'idea dell'esistenza di comportamenti normali e patologici, ma si è cercato invece di capire come tale quadro concettuale, tradotto nella pratica, abbia per certi aspetti contribuito a costruire quanto diceva di voler spiegare e curare o correggere. Il modello teorico interazionista, di cui cercheremo in questo scritto di sviluppare alcune sue implicazioni, ha innescato un vero e proprio salto di paradigma e lo sviluppo di una nuova area di ricerca e di spiegazione del comportamento sociale, partendo, appunto, dallo studio degli aspetti normativi che caratterizzano l'interazione umana. Se si vuole infatti, comprendere pienamente il significato che sta alla base di un’azione deviante compiuta da un ragazzo e le sue difficoltà a “cambiare” bisogna tener conto di tutti quei processi che producono e stabilizzano la sua identità deviante, nel contesto delle azioni e delle situazioni che rendono molte volte immodificabili le sue scelte di vita. La “devianza”, in quanto costruzione sociale, non è un fatto in sé, una proprietà o una realtà ontologica che si insinua o permea la personalità del tossicomane o di ogni altro soggetto percepito come deviante. La devianza è l’ombra che ogni norma violata, e pubblicamente sanzionata, proietta su certi comportamenti piuttosto che su altri. È l’effetto di un processo sociale di attribuzione che, date certe condizioni, porta all’identificazione con un ruolo (per esempio quello di tossicodipendente), con tutto quello che ne consegue. Ogni diversità, socialmente stigmatizzata, può essere rivestita dalle immagini prototipiche e stereotipiche che le conferiscono, di fatto, una serie di tratti e di attese negative considerati per l’appunto devianti. Quindi deviante non è chi devia da una norma, in questi termini sarebbe una tautologia di scarso valore, ma chi incappa nelle norme che stigmatizzano una qualche sua trasgressione o diversità. Le norme contengono tutta una serie di processi di definizione, di linguaggio e di regole che di fatto costruiscono la percezione sociale del deviante, ovviamente a seconda dei contesti, della cultura, dei momenti storici e delle leggi (Milanese, 1998). 2. La concezione della devianza nella prospettiva interazionista E’ negli anni Sessanta che, negli Stati Uniti, nasce e si sviluppa un orientamento teorico che si occupa dello studio dei comportamenti devianti, ad opera di studiosi come Becker, Erikson, Lemert, Scheff, Goffman e Matza. Tale prospettiva, nota come Labeling Theory (“teoria dell’etichettamento”), si richiama alla corrente filosofica, psicologica e sociologica dell’Interazionismo simbolico ed è caratterizzata da un superamento dei tradizionali paradigmi del correzionalismo e patologismo (nella versione sia medico-psichiatrica che sociologica) e dall’importanza attribuita ai processi di reazione e controllo sociale per la comprensione e l’analisi dei fenomeni devianti. In contrapposizione alle teorie “strutturali”, interessate all’eziologia della devianza, i labeling theorists propongono una concezione che si focalizza sul “processo” del divenire devianti, in cui giocano un ruolo fondamentale i processi di attribuzione, di etichettamento e di stigmatizzazione che colpiscono la condotta deviante. Avvalendosi di nozioni quali quelle di reazione sociale, stigma, mortificazione del sé, devianza secondaria, questi studiosi hanno infatti dimostrato come siano proprio le agenzie e le istituzioni deputate a scopi assistenziali, riabilitativi e terapeutici a dar forma alla devianza, consolidandola in ruoli ed identità devianti. La condizione di devianza, infatti, resa “oggettiva” dai processi di definizione ed etichettamento operati dalle varie agenzie sociali1, finisce con l’acquisire un valore prescrittivo, inducendo l’individuo stigmatizzato a fare della sua diversità un ruolo stabile e ad assumerla quale componente centrale del proprio Sé. In questa prospettiva, i meccanismi di reazione e controllo sociale svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione e stabilizzazione dell’identità deviante, e devono quindi essere tenuti in debita considerazione se si vuole comprendere pienamente il fenomeno “devianza” e la tendenza alla recidiva comportamentale tipica degli individui etichettati come devianti (Milanese, 1998). In altre parole, la diversità diventa un dato socialmente significativo e viene tradotta (attribuita e prescritta) come carattere deviante. Questo, ovviamente, in relazione alle norme che regolano i contesti sociali e alle categorie cognitive da queste prodotte. Categorie che mentre definiscono la posizione sociale dell'individuo diverso, finiscono per prescrivergli identità e schemi d'azione coerenti con tale definizione. In tal modo il ruolo di deviante tende a costruirsi in funzione delle azioni che ci si aspetta da esso e questo entro certe regole che la definizione degli episodi determina. Ne consegue che le categorie di significazione, attraverso cui si dà senso agli episodi, come ai comportamenti ed alle persone, non sono mai atti puramente descrittivi, in quanto contengono degli a priori, cioè degli atti interpretativi socialmente organizzati e finalizzati. La condizione di individuo deviante, resa “oggettiva”, secondo atti linguistici o atti sociali, tipizzata attraverso categorie giuridiche, mediche o del senso comune, finisce con l'assumere un valore prescrittivo, che come già osservato, induce l'individuo stigmatizzato a fare della sua diversità un ruolo stabile e a rappresentare la propria condizione di deviante come l'immagine più rilevante del proprio Sé. Una meticolosa ricostruzione del significato che il deviante attribuisce alle proprie azioni, porta a comprendere i mutamenti nell'organizzazione dell’identità dopo che il contesto sociale gli ha applicato l'etichetta stigmatizzante. L'individuo deviante emerge, quindi, tramite un processo di significazione e definizione che non è una qualità intrinseca all'azione che compie. Ogni volta che un gruppo, un'istituzione, addita un atto come deviante, esso rafforza l'autorità della norma violata e ribadisce i significati in base ai quali l'individuo deve autopercepirsi e aderire a quelle regole che stabiliscono i mezzi e i valori della propria identità. Condizione, questa, che tende ad essere tanto più incisiva quando esistono situazioni culturali, economiche, istituzionali, il cui apparato normativo rigido favorisce da un lato l'infrazione delle regole, dall'altro la costruzione di aree separate ma complementari di espressione e trattamento della devianza. Il punto di vista interazionista non è interessato alle "cause soggettive" del disagio o del conflitto (non le nega, le mette tra parentesi), in quanto fa oggetto della sua ricerca scientifica quello spazio normativo e regolativo che scaturisce dall'incontro e dalle definizioni delle situazioni sociali. L'area di studio di tale orientamento gravita intorno, non ad un universo d'individui precostituiti, bensì ai processi di costruzione sociale della realtà e delle persone prodotti dall'interazione tra gli individui all'interno dei contesti umani (Salvini, 1980). 1 Significare qualcosa mediante l’azione è come significare qualcosa mediante il linguaggio. D’altra parte il comportamento sociale va concepito come un insieme di processi costituiti da azioni mediate da significati. Ne deriva che i rapporti tra le persone non sono semplicemente forme d’interazione sociale, riscontrabili anche in altre specie viventi, ma anche forme d’interazione simbolica, in cui esiste una continua mediazione di significati che concorre a consentire le diverse forme d’interazione (Berger e Luckmann, 1966). La realtà sociale non è data, richiede sempre un consenso, un accordo; la mediazione continua di quadri di significato da parte di coloro che danno vita ad un’interazione. Altrettanto può essere detto per le diverse istituzioni, come ad esempio la scuola, che di tale realtà è pilastro: anch'esse esistono in virtù di un accordo sul significato simbolico delle loro strutture e norme e anch'esse necessitano da parte dei membri atti diretti o indiretti di convalida e di adesione alle rappresentazioni di realtà sociale che ne derivano. Berger e Luckmann (1966) sostengono che il mondo istituzionale richiede sempre una legittimazione, cioè delle pratiche e delle conoscenze attraverso cui possa essere giustificato ed oggettivato e le cui regole possano essere inscritte in un ordine extraumano, cioè naturale. Da ciò si può assumere che il carattere oggettivo della realtà sociale risiede negli atti, negli episodi ed eventi socialmente organizzati. In tale prospettiva appare chiaro che la conoscenza o il sapere quotidiano costruiti sul deviante, non possono che sedimentare categorie e concetti in qualche modo funzionali a tale compito pratico. Da ciò deriva il rapporto complementare tra le immagini della devianza e l'oggettività che di riflesso la realtà normativa ne trae. Questo perché le norme non hanno solo caratteristiche costrittive e repressive, ma principalmente costruttive e validanti la realtà in cui si deve sviluppare l'azione2 (Salvini, 1980). La certezza del deviante come di un oggetto naturalmente dato, ha esasperato, per esempio, la ricostruzione ipotetica delle cause a partire dagli effetti. Questi ultimi vengono arbitrariamente decretati come fatti empirici, perdendo di vista che essi sono ritagliati e resi significativi mediante giudizi di valore. Questo ha favorito le teorie sulla devianza indirizzate a ricercare i nessi esplicativi in altrettanti "fatti causali" da isolare, ora nella costituzione dell'individuo, ora nella sua psiche, ora nella sua biografia familiare. Fatti che molte volte vengono ad essere sostantivizzati, resi oggettivi, non tenendo conto del loro uso metaforico, ora convenzionale, ora di semplici aggettivazioni. Così, per esempio, si enfatizza, attribuendo loro un potere che implicitamente sottende una causa certa, termini come: "immaturità", "personalità psicopatica", ecc. Da qui il passaggio ad un realismo nominale per cui certi fatti acquistano una loro concreta obiettività causale in quanto identificati con la parola stessa, cioè con un atto linguistico di definizione. In tal modo i tratti "oggettivi" di un comportamento o della personalità, preliminarmente estratti dal loro contesto e riportati nel contesto di chi li valuta, assorbono le intenzioni normative di questo, di un ruolo predisposto, nascondendo dietro l'alibi della conoscenza oggettiva e neutrale, l'atto di reificazione che l'espediente linguistico ha escogitato. L'omosessualità, per esempio, può essere considerata un reato, una malattia, un sintomo psichiatrico, un qualcosa la cui oggettività viene rinforzata ove si riesca a definirla come una proprietà della persona, piuttosto che una espressione comportamentale. Quindi inserire l'omosessualità in una classe “malattia" consente di dare per scontato un agente causale e riflettere, conseguentemente, una oggettività che eclissa dalla parola l'implicito giudizio di valore. Un tale giudizio, tradotto in un dato di anormalità e di patologia, con il suo peso empirico, rientra in un più vasto processo di costruzione e conferma di quadri di significato e quindi di categorizzazione della realtà. L'ordine, uno dei possibili, dal momento che non ci può essere società senza un consenso intorno all'ordine che deriva dal senso comune, produce comunque un'organizzazione dello spazio simbolico riferito a regole, norme e leggi che implicano sempre una valutazione di normalità sociale o meno dei suoi attori. I comportamenti devianti, rientrando in tale ambito di giudizio, non possono essere considerati anomalie rispetto a leggi biologiche di adattamento e di funzionamento sociale dell'uomo. Se le considerassimo in tal modo, accetteremo quella metafisica positivista che confondeva e confonde tutt'ora, le norme prescrittive (sociali) con le norme costitutive (biologiche) dell'organismo. Due ordini di discorso, due piani di realtà, che non possono e non dovrebbero essere confusi. Se. la devianza è un'attribuzione di significato sociale alla diversità e questa molte volte il 2 Giddens (1976) rileva a tale proposito che la produzione della società da parte degli agenti si regge sulla produzione di senso negli atti comunicativi. Tale senso poggia sull’accordo normativo che il linguaggio anticipa precostituendo significati e regole per l’azione. riflesso della prima, se ne deduce che le norme sociali non possono essere ridotte a quelle biologiche3. Quindi ogni infrazione è per prima cosa una rottura di una regola sociale. Solo nel caso, peraltro limitato, di malattie neurologiche i due ordini regolativi sono soggetti ad intersecarsi. La confusione tra norme prescrittive e norme costitutive ha portato per esempio, ad attribuire una competenza diagnostica e peritale nel campo dei comportamenti devianti, alla psichiatria, alla medicina legale e all’antropologia criminale, nella loro veste di discipline bio-mediche. Errore grossolano da un punto di vista epistemologico, ove si consideri che l'atto deviante è sempre e prioristicamente un'infrazione a "norme prescrittive" (quindi storiche, dettate da certi interessi e culturalmente relative, ecc.): difatti, l'atto deviante, non deriva dalla natura anomala dell'individuo, ma è, in primo luogo, una valutazione di una condotta che a partire da questa, viene attribuita alla persona come sua caratteristica stabile (fisica, sociale e psicologica). L'impropria estensione del sapere dei tecnici delle discipline bio-mediche alle condotte devianti, ha finito per riflettersi sulla natura dell'oggetto. Come ha osservato giustamente Becker (1963), "giudicare se un atto sia o meno deviante dipende in parte dall'atto (cioè se infrange o meno qualche regola), e in parte dal trattamento che gli viene riservato dal pubblico. Ossia da chi, quando, dove esso venga valutato". In tal modo il deviante, se definito malato e i suoi atti designati come sintomi, consolida in maniera rassicurante lo spessore quotidiano della normalità che ha infranto. Difatti se il deviante è tale perché anormale rispetto ad un presunto ordine naturale ne consegue che la norma/moralità non appartiene ai decreti umani, ma a quelli della natura. Ciò consente di dedurre un processo di legittimazione della norma esistente, delegandone per questo l'interpretazione ad una disciplina biomedica. Ma questo ha anche qualche conseguenza sulla carriera del deviante, giustificando, il più delle volte, una presa riabilitativa o terapeutica, che sottraendo alla volontà dell'individuo la sua eventuale parte di responsabilità, meglio lo reintegra in un'autopercezione immodificabile di identità deviante4. I contenuti essenziali della teoria interazionista della devianza possono essere così sintetizzati: a) la devianza non è una proprietà intrinseca ai comportamenti, ma è una proprietà conferita a essi dalla percezione sociale e/o dalle definizioni normative; b) la devianza è una conseguenza dell'applicazione di etichette e sanzioni da parte di alcuni nei confronti del trasgressore vero o presunto; c) occorre abbandonare la prospettiva sincronica (una o più cause agiscono in un dato momento e fanno "precipitare" l'atto deviante) per assumere una prospettiva "sequenziale": l'individuo percorre un cammino fatto di piccoli passi, ognuno dei quali è condizione dello svilupparsi di una determinata nuova prospettiva che è premessa di nuovi comportamenti; d) le motivazioni devianti non preesistono al comportamento, ma è la messa in atto del comportamento e le reazioni che esso provoca che consentono il maturare delle motivazioni alla devianza; e) si può allora distinguere tra devianza primaria e devianza secondaria: la devianza primaria è diffusa, poligenetica, di dimensioni non conoscibili, poco interessante; la devianza secondaria, quella che si manifesta a seguito della reazione sociale che colpisce il soggetto, deve essere il principale oggetto di interesse per la sociologia; f) alla devianza secondaria si perviene attraverso un processo, in cui gioca un ruolo importante l'interazione con gli altri e con le istituzioni di controllo; 3 Quando si analizza il comportamento sociale delle persone basandosi sul modello delle scienze naturali, si effettua un errore categoriale. Errore analogo a quello relativo al tentativo di comprendere le regole di un gioco servendosi di assunzioni fondate sulle regole di un altro. 4 Nell’ottica interazionista l’uomo viene concettualizzati come un agente “attivo” e psicologicamente responsabile, guidato da intenzioni e da scopi, impegnato a dare un significato al suo agire e a progettare se stesso in relazione ad un contesto interpretativo (Fiora, Pedrabissi e Salvini, 1988). L’uomo quindi, non è più pensato in termini deterministici, come un oggetto puramente reattivo, “causato” da fattori interni o esterni che siano, quanto piuttosto come un soggetto capace di autoregolarsi e di creare attivamente e intenzionalmente la propria realtà e il proprio mondo, pur avendo un grado variabile di consapevolezza in tutto ciò (Salvini e Pirritano, 1984). g) il deviante sviluppa in questo senso un percorso esistenziale che può essere definito in termini di una "carriera" nel cui ambito si apprendono tecniche, regole di comportamento, giustificazioni e maturano convinzioni, motivazioni, interessi, giudizi; h) il percorso della carriera porta, a causa del processo di etichettamento e dell'effetto di "profezia che si autoavvera", all'acquisizione dell'identità deviante e alla perdita delle normali opportunità di vita e di relazione; i) le norme che sono alla base della qualificazione di determinati comportamenti come devianti, non rispecchiano affatto il sentire comune, non sono oggetto di un accordo universale, ma sono espressione di un conflitto politico tra gruppi e rispecchiano gli interessi del gruppo dotato di maggior potere; l) centrale è quindi lo studio della formazione delle norme ossia della formazione dei criteri in base ai quali si definiscono devianti gli atti; m) anche l'applicazione delle norme non corrisponde a criteri oggettivi, ma è espressione di scelte e di interessi delle agenzie preposte al controllo e al trattamento della devianza; n) il fatto che spesso si etichetti come deviante un innocente o che viceversa, e con maggiore frequenza, non si individui l'autore di un comportamento deviante, mette in crisi tutte le certezze sull'esistenza di caratteristiche peculiari che distinguono i devianti dagli altri individui e sui fattori solitamente ritenuti responsabili del loro agire; o) l'etichetta di outsiders viene applicata reciprocamente dai gruppi che si confrontano, anche se le differenze di potere producono effetti diversi, in quanto le definizioni ufficiali di ciò che è deviante sono strettamente correlate al grado di potere detenuto; p) un ruolo particolare giocano in questo processo di acquisizione di identità deviante le istituzioni totali e il loro potere inglobante che conduce i soggetti alla perdita dell'identità peculiare di cui sono portatori che viene sostituita dall'identità istituzionale. Vediamo ora più da vicino alcuni dei punti sopra sintetizzati. 3. Reazione sociale ed etichettamento La devianza è una proprietà conferita a determinati atti all'interno di un processo di "costruzione sociale": per questo la connotazione di deviante attribuita a un determinato comportamento è relativa, modificabile nel tempo, frutto della definizione normativa di volta in volta prevalente. E' questo l'assunto centrale della visione costruzionista del fenomeno devianza, vista non come entità naturale, ma come realtà socialmente costruita: di conseguenza l'applicazione della qualifica di deviante a comportamenti diversi è del tutto relativa e può mutare nel tempo, nello spazio, e in relazione ai soggetti che li mettono in atto, nonché alle circostanze in cui questo avviene. L'affermazione più conosciuta di Erikson (1966), secondo il quale la devianza non è una proprietà inerente un tipo particolare di comportamento, bensì una proprietà conferita a quel comportamento dalla gente che viene in contatto diretto o indiretto con essa, propone come riferimento il gruppo che condivide i valori culturali e che, nel definire la devianza, mantiene i confini della propria integrità culturale. Altri, in primo luogo Becker, uscendo dall'ottica consensuale che caratterizza l'impostazione di Erikson, parlano invece di proprietà conferita a determinati comportamenti da parte di soggetti chiaramente identificabili (gruppi, movimenti, istituzioni ecc. che assumono la veste di "imprenditori morali") i quali impongono alla collettività il loro punto di vista ottenendo la promulgazione di una determinata legge, operando per darle applicazione o più in generale facendo prevalere la loro visione delle cose e influenzando in tal modo l'opinione pubblica. Tutti comunque concordano nell'affermare che se la devianza non è una proprietà intrinseca, connaturata con certe forme di comportamento, ma viene ad esse attribuita da chi direttamente o indirettamente la constata, ne consegue che «la variabile critica nello studio della devianza [ ... ] è la società piuttosto che l'individuo che agisce» (Erikson, 1977, p. 220), dal momento che «il solo modo in cui un osservatore può dire se un dato tipo di comportamento è deviante o meno, è [ ... ] quello di apprendere qualcosa circa i valori culturali di coloro che vi reagiscono» (Erikson, 1966, p. 6). Le teorie interazioniste della reazione sociale presentano dunque come nucleo centrale la convinzione che nessun atto è intrinsecamente deviante, ma è l'etichetta di deviante a renderlo tale. L'espressione di Becker (1987, p. 22) che meglio sostanzia questa posizione è la seguente: «I gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro l'etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell'atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell'applicazione, da parte di altri, di norme e di sanzioni nei confronti di un "colpevole". Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale». E' evidente, in questo contesto, la relatività del concetto di devianza, data la sua dipendenza dalla definizione sociale: atti saranno definiti devianti o conformi in società o culture diverse, in epoche o momenti diversi nella stessa società, a seconda delle circostanze in cui sono compiuti o del soggetto che li compie ecc. Sempre Becker (ivi, pp. 24-25), a questo proposito, così si esprime: «La misura in cui un atto verrà considerato come deviante dipende anche da due altri importanti fattori: chi lo commette e chi si sente leso». E poco oltre: «Lo stesso comportamento può essere un'infrazione delle norme in un certo momento, e non in un altro; può essere un'infrazione se è commesso da una certa persona, ma non se commesso da un'altra; certe norme sono infrante con impunità, e altre no». La relatività della qualificazione di deviante applicata a una persona o a un comportamento può essere evidenziata guardando ai modi di reazione della gente e delle agenzie di controllo, ma affonda le sue radici nella diversa definizione normativa che di quel comportamento viene data in ogni società. Anche su questo punto è centrale il contributo di Becker, il quale, dopo aver preso in esame i processi di fissazione dell'identità all'interno di carriere devianti, si propone di esaminare «l'altra metà dell'equazione: le persone che elaborano e fanno applicare le norme alle quali gli outsiders non si conformano» (ivi, p. 97). L'origine delle leggi è individuata nell'esercizio del potere e nella azione dei gruppi per tutelare ed estendere i propri interessi. Il processo di individuazione dei comportamenti devianti è in questo senso un processo politico e si sostanzia nei due momenti della creazione delle norme e della loro applicazione da parte di agenzie che agiscono anch'esse sulla base di precisi interessi e di una strategia piuttosto articolata. L'interesse per il ruolo centrale della norma positiva, della legge che fissa i confini tra lecito e illecito, creando in questo senso la devianza, porta a considerare il rapporto esistente tra norme, valori e struttura degli interessi. Nel ricostruire la "storia naturale" delle norme (Becker, 1987, p. 102) si può facilmente scoprire che il frequente riferimento a valori condivisi spesso cela le vere ragioni che sottostanno alla promulgazione delle leggi. Esse infatti sono non di rado frutto dell'affermarsi in sede politica del potere di un determinato gruppo (gli "imprenditori morali") mosso da interessi precisi, che fanno riferimento ai valori come giustificazione, per così dire nobilitante, delle proprie particolari visioni del mondo e di ciò che è utile e giusto: «Una norma può essere creata semplicemente per servire l'interesse speciale di qualcuno, e successivamente può essere trovata una giustificazione in qualche valore generale» (ivi, p. 105). Nel quadro della prospettiva interazionista il riconoscimento dell'importanza della definizione normativa è sostanzialmente premessa per quelli che sono i principali oggetti di interesse: le modalità in cui si esprime la reazione sociale e istituzionale alla devianza e le conseguenze per gli individui etichettati. La reazione sociale al comportamento deviante si esprime a due livelli: quello informale, che si concretizza in processi di stigmatizzazione e marginalizzazione, e quello istituzionale, esperito dalle agenzie di controllo chiamate ad applicare le norme e dalle istituzioni (in primo luogo le istituzioni totali) incaricate del trattamento dei devianti. Al centro dell'attenzione di chi studia il tema della devianza non è più solamente il protagonista di comportamenti non conformi, bensì la relazione che si instaura tra protagonisti, altri attori sociali, istituzioni di controllo. La devianza è infatti «concepita come un processo attraverso il quale i membri di un gruppo, di una comunità o di una società: a) interpretano un comportamento come deviante; b) etichettano gli individui che si comportano in tal modo come devianti di un particolare tipo; c) riservano loro il trattamento considerato appropriato per tali casi di devianza» (Kitsuse, 1983, p. 150). Senso comune e reazione informale. Per gli interazionisti è dunque parte integrante dello studio della devianza l'attenzione alla maniera in cui, attraverso un'opera di interpretazione, gli attori sociali attribuiscono all'azione degli altri il significato di comportamento deviante, nonché il tipo di reazione che da ciò deriva, e di cui sono protagonisti, in primo luogo, le persone che circondano colui che lo adotta. Si tratta di reazioni che sono espressione, in molti casi, del senso comune e si manifestano in contesti non ufficiali, ma che hanno conseguenze non di rado più rilevanti di quelle che discendono dall'applicazione di sanzioni da parte delle agenzie istituzionali. Il modo in cui si concretizza la reazione sociale è spesso identificabile con la nozione di "stigmatizzazione", «un processo che conduce a contrassegnare pubblicamente delle persone come moralmente inferiori, mediante etichette negative, marchi, bollature, o informazioni pubblicamente diffuse» (Lemert, 1981, p. 91). L'applicazione di uno stigma, inteso in senso generale, significa l'evidenziazione di una determinata caratteristica (fisica o comportamentale) del soggetto, il quale assume agli occhi degli altri una diversa connotazione. Ne discende una modificazione dei giudizi e degli atteggiamenti nei confronti di chi ne è portatore: «Un individuo che potrebbe facilmente essere accolto in un ordinario rapporto sociale possiede una caratteristica su cui si focalizza l'attenzione di coloro che lo conoscono alienandoli da lui, spezzando il carattere positivo che gli altri suoi attributi potevano avere» (Goffman, 1970, p. 20). In seguito a questa modificazione dei giudizi l'individuo perde il rispetto e la considerazione che le altre sue caratteristiche («le coordinate intatte della sua identità») gli avrebbero fatto accordare e che lui avrebbe ritenuto di dover ricevere. Le conseguenti reazioni dello stigmatizzato possono essere di diverso tipo, ma tendenzialmente sono caratterizzate dalla esigenza di adattarsi a una situazione di esclusione identificandosi con coloro che condividono lo stesso stigma. Nel gruppo di coloro che condividono lo stesso stigma, il soggetto compie un insieme di esperienze, una sorta di percorso di socializzazione, una carriera morale, in cui acquisisce ed elabora una serie di competenze, di abilità, di motivazioni, di conferme, che gli consentono di sviluppare vere e proprie strategie di adattamento alla situazione. Berger e Berger (1977, p. 386), commentando il contributo di Goffman, precisano che la stigmatizzazione di un certo comportamento è strettamente correlata al potere delle persone che elaborano la definizione di quel comportamento come deviante di imporre tale definizione su altri: «La stigmatizzazione è un processo che un gruppo di gente impone ad un altro gruppo. La definizione resterà loro più o meno attaccata" a seconda del potere di chi definisce». Nel caso dell'applicazione di uno stigma in seguito a comportamenti ritenuti devianti è molto rilevante (Lemert, 1981) il senso di ingiustizia provato a volte da chi ne è oggetto, soprattutto se percepisce incoerenza tra stigma e sanzioni, da un lato, e caratteristiche delle azioni compiute, dall'altro, o ancora tra stigma e sanzioni applicate in momenti o luoghi diversi per lo stesso fatto. Tale senso di ingiustizia, può essere considerato fattore precipitante per alcune devianze secondarie. La reazione da parte delle agenzie di controllo e il loro contributo alla "creazione" della devianza. All'attenzione per le reazioni di tipo informale che si collocano nel contesto del senso comune, si affianca quella per i processi di etichettamento da parte delle istanze ufficiali che operano avendo come riferimento le definizioni formali, espresse nelle scelte normative. I rapporti tra i diversi livelli sono complessi: «Non solo il pensiero giuridico si presenta, per quanto concerne le categorie con le quali esso opera, come strettamente legato al senso comune, ma [...] tra i processi di definizione formale e i processi di definizione e di reazione informale non è data veramente soluzione di continuità. Infatti, per un verso, le definizioni informali preparano talvolta le definizioni formali [...] e, per altro verso, i risultati concreti delle definizioni formali non sono dovute solamente all'azione delle istanze ufficiali che essi provocano» (Baratta, 1982, pp. 96-97). Anche nel campo della reazione istituzionale è plausibile ritenere che «la disposizione dei membri delle agenzie di controllo sociale a convalidare un'etichetta di devianza varierà in base alla loro valutazione del grado di violazione della fiducia attribuita al deviante potenziale». Tuttavia va sottolineato che il processo di etichettamento è «una questione politica ed ideologica, dato che i membri delle agenzie di controllo rispondono più a domande politiche che a casi di devianza socialmente verificati» (Denzin, 1983, pp. 244-245). Molto importante è allora, come insegna Becker (1987), lo studio delle motivazioni e dei comportamenti di coloro che sono chiamati ad applicare le norme. Se si analizza il modo in cui chi applica le norme si muove, appare infatti evidente che ci troviamo in presenza di una questione complessa, non lineare, soprattutto non esente dalle influenze del sistema di interessi prevalenti. Perché una norma venga applicata, punendo il soggetto che l'ha infranta, occorre infatti che qualcuno prenda l'iniziativa, in modo che l'infrazione venga posta all'attenzione della collettività. Il prendere l'iniziativa è strettamente correlato al vantaggio che si ritiene di poter ricavare e più in generale a un complesso di fattori non riconducibili né solamente ai valori difesi dalla norma, né all’oggettiva gravità del comportamento trasgressivo. Le istituzioni, infatti, agiscono di solito selezionando tra i molteplici compiti loro affidati dalla legge quelli che maggiormente consentono di valorizzare la propria funzione, gestendo attraverso un'opera costante di manipolazione dell'informazione la contraddizione tra il bisogno di affermare i propri successi e l'esigenza di ribadire la propria indispensabilità a fronte della sempre crescente gravità dei problemi. Parlare di ricerca di vantaggi da parte delle istituzioni di controllo significa far riferimento a un complesso di esigenze ed esiti attesi, non solo di tipo materiale. Ad esempio, con A. K. Cohen (1969, p. 189), si può ricordare che alla base delle differenti forme di reazione alla deviazione c'è anche il bisogno di comunicare o di provare agli altri qualche cosa: «Come la deviazione può esprimere o sostenere un ruolo, così lo possono fare anche le reazioni alla deviazione. L’azione in qualsiasi ruolo, all'interno o all'esterno della struttura manifesta di controllo, contiene dei messaggi riguardanti chi occupa il ruolo e la sua adeguatezza al ruolo». L'insieme delle osservazioni svolte a proposito delle modalità di azione delle agenzie di controllo porta alla provocatoria conclusione che il controllo sociale "induce" alla devianza o la "crea". Si tratta di affermazioni che possono avere diverse interpretazioni, da quella che enfatìzza il ruolo dell'etichettamento formale nella definizione dell'identità deviante (la repressione del comportamento deviante induce il trasgressore a continuare a comportarsi nel modo in cui è stato definito e a ripetere atti non conformi), fino alla più ristretta e concreta (nell'operato quotidiano della polizia è frequente l'attività di provocazione, la sollecitazione a commettere reati attraverso agenti infiltrati o l'affermazione della propria autorità in modi che producono reazioni qualificabili come comportamenti devianti). (Berzano e Prina, 1995) 4. Devianza primaria e devianza secondaria Le definizioni applicate agli individui contribuiscono a costruire o a modificare la loro identità. L'acquisizione dell'identità deviante avviene all'interno di un processo nel quale si può distinguere devianza primaria e devianza secondaria. Il punto da cui si può partire è che l'espressione «la devianza è una realtà socialmente costruita» non deve far pensare a una mera rappresentazione, poiché da questa "costruzione" discendono conseguenze reali. Parafrasando la famosa affermazione di W I. Thomas secondo cui «se la gente definisce una situazione come reale, essa avrà delle conseguenze reali», si può affermare: «Se una società definisce un certo tipo di condotta come deviante, allora coloro che la assumono dovranno sopportare le conseguenze di essere considerati devianti che a loro piaccia o meno» (Berger e Berger, 1977, p. 370). Una delle più rilevanti conseguenze messe in luce dagli autori qui esaminati è quella della formazione dell'identità deviante. Questa è forse la principale delle direzioni di analisi coltivata dagli studiosi americani che sono stati collocati sotto l'etichetta di labellists, proprio in virtù delle radici di tale approccio nelle riflessioni dell'interazionismo simbolico e nel contributo di G.H. Mead sui processi che presiedono alla definizione del Sé nella relazione con gli altri significativi. L’attribuzione dell'etichetta di deviante a determinati comportamenti e a chi li pone in essere contribuisce cioè in maniera significativa a ridefinire l'identità personale e pubblica del soggetto, da un lato restituendogli un’immagine caratterizzata dai tratti di negatività che sono simbolicamente associati alla qualifica di deviante e, dall'altro, rendendo quantomeno più problematico il suo rapporto con il contesto delle relazioni e delle opportunità "normali". Il carattere processuale dell'acquisizione di un'identità deviante è stato posto al centro dell'attenzione della prospettiva interazionista della reazione sociale, nell'opera di Lemert e in quella dì Becker. Al primo è dovuta la distinzione fondamentale tra devianza primaria e devianza secondaria, al secondo la descrizione dettagliata (e dall'interno) delle carriere devianti. Per devianza primaria si intende l'allontanamento più o meno temporaneo, più o meno importante agli occhi di chi lo attua, da valori o norme sociali e/o giuridiche, attraverso un comportamento che ha «implicazioni soltanto marginali per la struttura psichica dell'individuo; essa non dà luogo ad una riorganizzazione simbolica a livello degli atteggiamenti nei riguardi del sé e dei ruoli sociali» (Lemert, 1981, p. 65). La devianza secondaria «consiste, invece, nel comportamento deviante o nei ruoli sociali basati su di esso, che diviene mezzo di difesa, di attacco o di adattamento nei confronti dei problemi, manifesti o non manifesti, creati dalla reazione della società alla deviazione primaria. In realtà le "cause" originarie della deviazione perdono di importanza e divengono centrali le reazioni di disapprovazione, degradazione e isolamento messe in atto dalla società» (ivi, pp. 65-66). Molto rilevanti, nel passaggio dalla devianza primaria a quella secondaria, sono gli effetti del controllo e della reazione sociale (ivi, p. 65): Vi è un aspetto processuale della deviazione che non possiamo non riconoscere, dal momento che, a seguito di una ripetuta, costante deviazione o discriminazione negativa, qualcosa cambia nella "pelle" del deviante. E' un qualcosa che si viene a produrre nella psiche o nel sistema nervoso come conseguenza delle sanzioni sociali, delle cerimonie di degradazione, degli interventi "terapeutici" o "riabilitativi". La percezione, da parte dell'individuo, dei valori e dei mezzi, e la stima dei relativi costi si modificano in modo tale che i simboli che hanno la funzione di condizionare le scelte della maggior parte delle persone finiscono per non sollecitare quasi più in lui determinate risposte, o anche per produrre risposte contrarie rispetto a quelle auspicate dagli altri. Aggiunge Lemert (ivi, pp. 65-6): Si presume che la deviazione primaria intervenga all'interno di un'ampia varietà di contesti sociali, culturali e psicologici, e che tutt'al più abbia delle implicazioni soltanto marginali per la struttura psichica dell'individuo; essa non dà luogo ad una riorganizzazione simbolica a livello degli atteggiamenti nei riguardi del sé e dei ruoli sociali. La deviazione secondaria consiste invece nel comportamento deviante o nei ruoli sociali basati su di esso, che diviene mezzo di difesa, di attacco o di adattamento nei confronti dei problemi, manifesti o non manifesti, creati dalla reazione della società alla deviazione primaria. In realtà le "cause" originarie della deviazione perdono di importanza e divengono centrali le reazioni di disapprovazione, degradazione e isolamento messe in atto dalla società. (Berzano e Prina, 1995) 5. La carriera di deviante In tema di carriere il contributo più significativo è certamente quello di Becker (1987). Il punto di partenza della sua analisi consiste nell'assunzione di un modello di interpretazione della devianza di tipo "sequenziale", che tiene cioè conto del fatto che i modelli di comportamento si sviluppano secondo una sequenza, e nel contestuale rifiuto del modello "sincronico", quello che vede i vari fattori ritenuti causali agire contemporaneamente e far "precipitare" improvvisamente il comportamento non conforme. L'analisi di Becker si rivela preziosa soprattutto per la capacità di descrizione dall'interno della carriera deviante, frutto di una metodologia fondata sull'osservazione partecipante e sulle interviste non strutturate ai protagonisti, attenta ai processi di progressiva acquisizione di una identità deviante, di lenta assimilazione delle motivazioni del gruppo con cui il soggetto si identifica, di apprendimento delle tecniche proprie di quel determinato comportamento, ma anche delle ragioni per cui lo si può ritenere giustificabile. L'affermazione circa lo sviluppo di motivazioni devianti nel corso del processo di apprendimento «non sono le motivazioni devianti che conducono al comportamento deviante, ma, al contrario, è il comportamento deviante che produce, nel corso del tempo, la motivazione deviante» (ivi, p. 43), ribalta completamente le posizioni classiche circa il rapporto tra motivazioni e comportamenti, secondo le quali questi ultimi sono sempre conseguenza delle prime: qui l'ordine logico si inverte, nel senso che è solo agendo, sperimentando le situazioni, confrontandosi con le reazioni sociali e istituzionali che si fissano negli individui le motivazioni alla messa in atto del comportamento deviante. L'intuizione, di indubbio valore euristico, va tuttavia correlata al significato del termine "motivazione": se con esso indichiamo l'elaborazione cosciente dei significati dell'azione la posizione di Becker è indubbiamente fondata, se invece lo interpretiamo nel senso di causa in qualche misura cogente, esterna all'individuo anche solo in termini di assenza di possibilità di scelte alternative, allora il discorso diventa necessariamente più articolato e rimanda al rapporto tra soggettività e condizionamenti oggettivi su cui si svilupperà, come vedremo, il discorso della criminologia radicale e critica. Altri elementi rilevanti dell'analisi delle carriere devianti proposta da Becker (ivi, pp. 33) possono essere cosi ricordati: a) posta la sostanziale "normalità" del provare l'impulso a compiere atti non conformi, occorre concentrarsi sui motivi per cui una parte di persone decide di metterli in atto, mentre la maggioranza riesce a controllarsi; b) la spiegazione è da ricercarsi nel fatto che alcuni riescono a evitare l'impatto dei commitments convenzionali, ossia del coinvolgimento nelle regole e negli stili di vita conformisti, o «evitando di invischiarsi in alleanze con la società convenzionale» o adottando quelle che Matza ha chiamato "tecniche di neutralizzazione" del concomitante impulso a conformarsi; c) il processo di lento abbandono dei commitments convenzionali è legato da un lato all'interesse (ossia al modo considerato più conveniente di raggiungere determinati obiettivi), dall'altro alle opportunità che si aprono o si chiudono nell'interazione del soggetto con l'ambiente; d) «uno dei meccanismi che dall'esperienza casuale porta ad un modello più consolidato di attività deviante sta nello sviluppo di motivi ed interessi devianti [ ... ]. Prima di praticare l'attività su una base più o meno regolare, la persona non ha idea dei piaceri che da essa derivano; li viene a conoscere nel corso dell'interazione con devianti con più esperienza. Impara a prendere coscienza di nuovi tipi di esperienze e a pensarle come piacevoli [ ... ]. In breve, l'individuo impara a prendere parte ad una sottocultura organizzata attorno ad una determinata attività deviante»; e) la costruzione di un modello stabile di comportamento deviante è fortemente influenzato dal fatto di essere scoperto ed etichettato pubblicamente come deviante, fatto che determina un drastico cambiamento dell'identità pubblica dell'individuo il quale si trova collocato nel contesto delle relazioni sociali con un nuovo status: posto che nello stesso individuo è sempre evidente la compresenza di una pluralità di status di rilevanza diversa, che nell'interazione possono subire processi di esaltazione e di messa in ombra (lo status principale può diventare accessorio, mentre emerge un tratto secondario), si osserva che l'etichettamento come deviante determina la messa tra parentesi delle caratteristiche riconducibili allo status principale (ad esempio legate al fatto di essere studente o professionista) e una enfatizzazione di quelle, spesso secondarie, riferibili al comportamento deviante in quel momento ancora occasionale (ladro, consumatore di droghe ecc.); f) «trattare una persona deviante per un aspetto come se lo fosse per tutti gli altri produce una profezia che si autodetermina», provocando la ristrutturazione dell'identità del soggetto nel senso che tenderà a conformarsi all'immagine che ne ha la gente, anche per effetto dell'impossibilità di continuare a operare le scelte congruenti con lo status principale che possedeva in precedenza; g) ciò potrà determinare l'esclusione dalla partecipazione a gruppi convenzionali e la contestuale crescita del legame con coloro che condividono l'esperienza di stigmatizzazione; h) anche le misure poste in essere per il trattamento dei devianti contribuiscono a sviluppare consuetudini illegittime, nella misura in cui esso «nega loro i mezzi ordinari per proseguire con le consuetudini della vita quotidiana come le altre persone»; i) il passo finale della carriera consiste nell'entrare a far parte di un gruppo organizzato di devianti: ciò consentirà al soggetto di acquisire le razionalizzazioni e le giustificazioni (ideologiche e/o psicologiche) elaborate all'interno del gruppo e di affinare le tecniche per proseguire nell'attività deviante con il minimo di disagio ed evitando il più possibile le conseguenze spiacevoli derivanti dal lavoro delle agenzie di controllo. (Berzano e Prina, 1995) 6. Identità deviante e ruoli specialistici Un contributo fondamentale alla costruzione e stabilizzazione dell’identità deviante è dato dalle figure professionali deputate alla riabilitazione, cura, o trattamento dei devianti (medici, psicologi, assistenti sociali, ecc.). Come evidenziano De Leo e Salvini (1978), infatti, la designazione di un atto come deviante nasce in riferimento anche ad un ruolo specialistico: «l’operatore sociale proietta, in anticipo, sul destinatario del servizio, l’elemento ideologico contenuto nel suo ruolo e nelle sue conoscenze e quindi gli interessi e le competenze della sua professione. Esiste quindi un rapporto simmetrico tra il ruolo dell’operatore sociale e la costruzione del fatto e la tipologia dell’atto deviante.» (p.109). Il deviante, dal canto suo, non deve mettere in discussione i valori delle istituzioni e il ruolo professionale dei tecnici destinati ad occuparsi di lui, accettando di far propria la concezione di sé e la visione della realtà che questi gli rimandano. Se questo non avviene, «il rifiuto della ideologia istituzionale o la violazione di queste regole possono essere utilizzati a riprova del giudizio burocratico che il deviante non si è “ravveduto”, oppure che è “ancora malato” » (Lemert, 1972, p.97 tr.it.). È proprio nell’interazione con tali figure professionali e all’interno dei contesti istituzionali di rieducazione, cura o trattamento che il soggetto perviene ad una stabilizzazione della propria identità deviante, portando a termine un processo che spesso ha un carattere di irreversibilità. Analogamente Prina (1982) rileva come anche nel caso della tossicodipendenza gli stessi servizi socio-sanitari, con la loro presa in carico, contribuiscano ad attuare un riconoscimento di status del tossicomane, sancendo una condizione a volte ancora incerta e facilitando così un rafforzamento della sua identità deviante. Il tossicodipendente, facendo proprie le attribuzioni degli operatori socio-sanitari con cui interagisce e da cui dipende per l’assistenza e la cura, impara a definirsi come un “malato”, una “vittima della società”, un individuo incapace di autodeterminarsi in quanto causato da eventi di varia natura (sociali, psicologici, familiari..).5 5 «Il tossicodipendente costituisce un caso emblematico di deviante in quanto esposto a tutti i processi simbolici, relazionali e affiliativi, sia sul versante del gruppo di riferimento che su quello della reazione sociale. Sotto questo aspetto la condizione giovanile tende ad esporlo, in misura maggiore di altri devianti, ai processi di emarginazione e a quelli correzionali, quindi a situazioni di estrema permeabilità psicologica per ciò che riguarda la costruzione della sua identità.» (Passi, Salvini, 1982, p.54). L’intervento correzionale-terapeutico ha quindi il risultato “paradossale” (Passi, Salvini, 1982) di risocializzare l’individuo in base alle proprie esigenze funzionali, rendendolo totalmente dipendente per l’autorappresentazione dalle categorie di definizione e valutazione normativo-istituzionali. In questo modo, sottraendo alla volontà del soggetto la sua eventuale parte di responsabilità, l’intervento riabilitativo o terapeutico lo relega in un’autopercezione immodificabile di identità deviante. (Milanese, 1998). 7. Identità deviante e rischi di recidiva Il processo di stigmatizzazione, ufficializzando la condizione di deviante come parte rilevante dell’identità personale ha due effetti principali: a) rendere “oggettivo” l’esito di un giudizio morale; b) confermare e accrescere l’importanza del ruolo trasgressivo nella vita dell’individuo e agli occhi degli altri, inducendolo ad una identificazione stabile con tale ruolo (De Leo, Salvini, 1978). Infatti: «chi entra in una posizione trova già, virtualmente, un sé: egli non deve far altro che aderire alle pressioni che subirà e troverà un io bell’è fatto per lui.» (Goffman, 1961, p.6 tr.it.). La stigmatizzazione, quindi, agisce in modo da far condividere al deviante il suo stereotipo6 come parte integrante e predominante della sua identità personale (Salvini, 1980), soprattutto nel caso di un adolescente. Infatti, più la persona si trova in una condizione di “inferiorità”, maggiori sono le possibilità che la sua assenza di potere venga usata dagli altri a proprio vantaggio. Un ragazzo stigmatizzato per un suo comportamento deviante, deve confrontarsi con il ruolo che gli è stato assegnato, rinforzando così la sua definizione negativa. L’essere etichettato come deviante produce inoltre: 1. una degradazione di status: l’individuo sarà etichettato come “violento”, “drogato”, “malato di mente”, “pedofilo” e trattato di conseguenza; 2. la possibilità di venire riconosciuto come quel tipo di persona; 3. l’acquisizione di specifiche conoscenze, competenze ed abilità potenzialmente trasgressive ed eventualmente criminose; 4. l’acquisizione di una particolare “visione del mondo”, con un conseguente mutamento nella gerarchia dei valori (Lemert, 1972), e l’eventuale affiliazione ad una “sottocultura deviante” (Becker, 1963). L’isolamento e l’autosegregazione caratteristica di tali gruppi, inoltre, contribuisce ad intensificare ulteriormente lo status deviante dei membri che ne fanno parte; 5. l’accettazione da parte del deviante del suo stereotipo come parte integrante della sua identità. Il “successo” di questa risocializzazione è agevolato dal “vuoto cognitivo” (Goffman, 1963) in cui il deviante, soprattutto se bambino o adolescente, viene a trovarsi riguardo al valore sociale della propria azione e presenza. Il deviante viene indotto così ad agire in modo non convenzionale essendo venute meno le attese di una sua condotta normale; 6. la costruzione di modalità stereotipiche di percezione da parte dei soggetti che interagiscono con il deviante, i quali orienteranno i loro atteggiamenti e comportamenti in modo da ottenere una conferma di tale identità; 7. lo sperimentare i vantaggi secondari della propria identità negativa, sia in termini di solidarietà da parte degli altri devianti che di assistenza e protezione da parte di alcuni settori della società. Assegnando al deviante uno status ed un ruolo permanenti, infatti, si conferisce loro anche il diritto ad essere aiutati ed assistiti. 6 La costruzione di uno stereotipo deviante (il drogato, l’omosessuale, il ladro, ecc.) nasce elevando a significato simbolico certi tratti comportamentali (stigmi), facendoli divenire parte integrante di un ruolo e attributi stabili della personalità e delle sue rappresentazioni pubbliche (De Leo, Salvini, 1978). Se l’accedere ad uno status deviante implica in un primo momento il rifiuto e la riprovazione sociale, così come penalizzazioni e restrizioni della propria libertà, ciò successivamente permette di divenire oggetto di interesse, attenzioni caritatevoli, comprensione e di ricevere anche aiuti materiali. Come nota Lemert: «una descrizione del trattamento del deviante nella società moderna in termini di totale esclusione ed emarginazione non è esatta, dato che spesso egli è in modo alterno oggetto di punizione e di soccorso, di assistenza e di rifiuto» (1972, p.289 tr.it.). Questo appare particolarmente vero nel caso di alcuni tipi di devianza, quali la tossicodipendenza e l’alcolismo, relativamente alle quali vige una ideologia della “doppia morale” (Lemert, 1972) in cui, al ripudio morale e sociale, si affianca tutta una serie di interventi terapeutici finalizzati alla riabilitazione e al reinserimento sociale del drogato e dell’alcolista. Nei confronti di questi devianti gli aspetti più significativi della reazione sociale sembrano essere proprio l’ambivalenza, la duplicità e la discontinuità. Bisogna inoltre considerare come le identità stigmatizzate possano rappresentare una soluzione ai problemi della vita dei devianti, garantendo loro una coerente autorappresentazione e il conseguimento di determinate ricompense e soddisfazioni. Come rileva Lemert, «se una stigmatizzazione efficace comporta delle penalizzazioni e riduce le possibilità di accesso ai mezzi convenzionali per procurarsi le soddisfazioni della vita, può d’altro canto fornire dei nuovi mezzi in vista di certi fini che si cerca di conseguire» (1972, p.104 tr.it.). Il deviante, quindi, può utilizzare il proprio ruolo negativo in maniera strategica ed intenzionale. Se si vuole comprendere a pieno il problema della recidività comportamentale dei devianti bisogna quindi tener conto di tutti quei processi che facilitano l’insorgere e lo stabilizzarsi di un sé deviante e di come il soggetto abbia organizzato tutta la propria identità e la propria vita intorno a delle attività devianti.7 Infatti, «una volta che la devianza sia diventata un modo abituale di vita, il problema per la persona diviene quello dei costi che comporterebbe un cambiamento, piuttosto che quello dello status più elevato che sarebbe acquisito mediante la riabilitazione o il ravvedimento.» (Lemert, 1972, p.119 tr.it.). Tali costi vanno valutati soprattutto ed essenzialmente in termini di “identità”, ovvero del rischio di perdere i riferimenti culturali, autobiografici e cognitivi che danno stabilità e coerenza alla rappresentazione di sé. (Milanese, 1998). 8. Considerazioni conclusive Il processo del divenire devianti, così come analizzato nei paragrafi precedenti, non è comunque ineluttabile, poiché lascia adito a variazioni nella risposta degli individui. Nel processo che porta alla costruzione di una identità deviante e alla sua stabilizzazione, infatti, appare centrale il ruolo svolto dal soggetto quale attivo produttore e negoziatore di significati. Da questo punto di vista, non tutti coloro che vengono individuati ed etichettati come devianti si indirizzano verso uno stato di devianza consolidata, poiché possono decidere di non voler intraprendere la strada deviante e tornare indietro (Becker, 1963; Lemert, 1972). L’etichetta, quindi, non produce di per sé la devianza e il deviante: è l’individuo che, confrontandosi con i pregiudizi, gli stigmi e il bando nel corso della sua esperienza, costruisce attivamente le proprie azioni e sceglie quale strada intraprendere. La soggettività umana, infatti, implica sempre una progettualità aperta a continue revisioni. Perfino quando è ormai rassegnato alla attribuzione di uno status degradato, il 7 Lemert, ad esempio, descrive così la situazione del tossicodipendente: «col passare del tempo, [il tossicodipendente] ha fatto penetrare le droghe in tutti o quasi i risvolti della propria vita [...] Dopo essere andato avanti così per anni, attraverso innumerevoli situazioni sociali, la assunzione di droghe, la loro simbologia e gli stati emotivi ad esse concomitanti sono divenuti per lui [...] una ‘seconda natura’. Ciò vuol dire che le droghe sono diventate, mediante legami complessi e intersecantisi, quasi una tutt’uno con le sue reazioni fisiologiche, psicologiche e sociali, che nell’insieme costituiscono un sé supplementare. Allo stesso modo è possibile discernere un sé alcolista, [...] un sé falsario..» (1972, p.126 tr.it., corsivo aggiunto). deviante può cercare di neutralizzarne o di mitigarne l’impatto mediante il controllo dell’informazione e la diminuzione della visibilità della devianza (Goffman, 1963). Di fronte ai processi di stigmatizzazione e svalutazione sociale, il fatto che il soggetto passi da una condizione transitoria di devianza ad una devianza organizzata dipende da vari fattori, tra i quali appare centrale la motivazione a svolgere ruoli devianti e ad approfittare delle possibilità offerte da uno status degradato (Lemert, 1972). Percepirsi e definirsi come deviante può infatti permettere di ottenere gratificazioni particolari e di attenuare in parte gli effetti della stigmatizzazione. L’individuo, quindi, media e dà vita all’intero processo del divenire devianti, anche e soprattutto quando si trova a confrontarsi con i pregiudizi, gli stereotipi e le diverse forme di attribuzione di identità o di categorizzazione. Come ben espresso da Matza: «il processo del divenire devianti ha poco senso, umanamente, se non si comprende l’attività filosofica interiore del soggetto man mano che questi attribuisce significato agli eventi e alle cose che lo circondano» (1969, p.273 tr.it.). Dal punto di vista del soggetto, nel momento in cui si confronta con le varie manifestazioni della reazione sociale, il problema principale è se il proprio atto deviante debba essere considerato una “indicazione” corretta di ciò che egli è, se cioè egli sia sostanzialmente un drogato, un criminale, un malato di mente, ecc.. La questione dell’identità, quindi, si pone per il soggetto nei termini del rapporto tra il fare e l’essere. Se il soggetto decide che tale atto va considerato una indicazione di ciò che è, dà inizio ad un processo di riconsiderazione del sé che lo porta a costruire il significato stesso della propria identità deviante, collaborando così attivamente alla crescita e allo sviluppo di tale identità (Matza, 1969). In questo processo, quindi, la stigmatizzazione e l’esclusione operata dai vari gruppi sociali, grossolana o ragionevole che sia, da sole non sono sufficienti a consolidare un’identità deviante che ha ancora il carattere di provvisorietà. «Per comprendere come un’identità provvisoria possa stabilizzarsi, dobbiamo considerare la possibilità che il soggetto renda se stesso oggetto, diventando testimone chiave contro se stesso» (Matza, 1969, p.259 tr.it.) Il soggetto cioè, riesaminando la propria identità provvisoria alla luce dell’esperienza successiva, può trarre dalla ricorsività del suo comportamento la conferma della propria identità deviante, determinando una sua stabilizzazione. L’individuo, quindi, crea il significato dell’identità deviante con la sua stessa attività anche se questo è strettamente collegato ai processi di etichettamento e significazione operati dalle agenzie di controllo sociale. Se l’attività deviante non viene stigmatizzata, infatti, è improbabile che il soggetto vi attribuisca grande importanza e collabori a costruire il significato della propria identità deviante. (Milanese, 1998). A scuola quindi, tenendo presente che la diversità, la devianza del ragazzo non è solo una proprietà dell’azione da lui compiuta o della sua personalità, ma è anche una conseguenza del fatto che l’insegnante applica delle regole di valutazione dettategli dal criterio di normalità/anormalità che il suo personale consenso all’istituzione gli impone, per cercare di non innescare i meccanismi di etichettamento con tutte le conseguenze che sono state analizzate, l’insegnante deve pensare al comportamento al ragazzo non nei termini di “com’è”, ma di che “cosa fa” intenzionalmente, evitando di identificarlo con il suo comportamento scorretto. Il problema va quindi valutato tenendo conto: a) della ricostruzione del significato e delle forme di tipizzazione in base alle quali l'insegnante attribuisce una connotazione di devianza o di malattia alla personalità del ragazzo e alle sue azioni; b) della ricostruzione dell'intero episodio deviante alla luce dei significati che il ragazzo ha voluto attribuirgli; c) di rilevare lo scarto tra i due modi di "significare", tra i due sistemi di valore: quello del ragazzo e quello dell’insegnante; d) di individuare i mutamenti che possono avvenire nell'identità del ragazzo in seguito all'immagine negativa di sé che gli è rimandata. Bibliografia Baratta G. (1984), Forma giuridica e contenuto sociale: considerazioni in tema di labeling approach, in Dei delitti e delle pene, 2. Becker H.S. (1963), Outsiders, The Free Press, New York; (tr. it. Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987). Becker H.S. 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