CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Nona Commissione - Tirocinio e Formazione Professionale
Incontro di studio:
Novità nel diritto delle obbligazioni
Roma, 16 - 18 novembre 2009
II° GRUPPO DI LAVORO del 17 novembre 2009
“Il ritardo nel pagamento nelle transazioni commerciali e nelle altre
obbligazioni pecuniarie”
coordinatore
DOTT. ALESSANDRO FAROLFI
Giudice del Tribunale di Modena
1
PARTE I
I RITARDI DI PAGAMENTO NELLE TRANSAZIONI COMMERCIALI
SOMMARIO: 1. La Direttiva 2000/35/CE in tema di “lotta ai ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali” e la sua attuazione. –– 2. Aspetti definitori:
ritardi di pagamento e saggio di interesse “commerciale”. - 3. L’ambito di
applicazione: gli aspetti soggettivi. - 3bis. Segue: gli aspetti oggettivi. – 4.
La disciplina degli interessi: a) il saggio “commerciale”. - 5. Segue: b)
decorrenze convenzionali e legali. - 6. Possibili interferenze fra interesse
commerciale ed usura? - 7. Il risarcimento dei costi di recupero e gli accordi
“iniqui”
1. La Direttiva 2000/35/CE in tema di “lotta ai ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali” e la sua attuazione.
Il D. Lgs.vo 9 ottobre 2002, n. 231, costituisce ad un tempo attuazione della
delega inserita nell’art. 26 della Legge comunitaria 2001 (L. 1 marzo 2002, n. 39),
nonché adempimento del Legislatore nazionale agli obblighi imposti dalla
Direttiva Comunitaria 2000/35/CE sulla “lotta ai ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali”1.
1
Fra i primi scritti dedicati al D.Lgs.vo 231/2002 in tema di “transazioni commerciali” possono ricordarsi: SCOTTI,
Aspetti di diritto sostanziale del D.Lgs.vo 9 ottobre 2002, n. 231, “attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa
alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, in Giur. Merito, 2003, IV, p. 603 e ss.;
GENTILE, Commento al D.Lgs.vo 231/2002, in Guida al diritto, 2002, n. 43, p. 24 e ss.; CONTI, Il d.lgs. n.
231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali, in Corr. Giuridico,
2003, n. 1, p. 99 e ss.; DE MARZO, Ritardi di pagamento nei contratti tra imprese: l’attuazione della disciplina
comunitaria, in Contratti, 2002, p. 1155 e ss.; FRIGNANI-CAGNASSO, L’attuazione della direttiva sui ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, p.308 e ss.; MAFFEIS, Abuso di dipendenza
economica e grave iniquità dell’accordo sui termini di pagamento, ivi, p. 623 e ss. Hanno altresì affrontato la
tematica in commento: AA.VV., La disciplina dei ritardi di pagamento nella transazioni commerciali. Commento al
2
La disciplina in tal modo introdotta ha un rilevante impatto sul sistema delle
obbligazioni contrattuali ed in tema di mora debendi. Appare, inoltre, di doverosa
interpretazione alla luce dei contenuti e delle finalità della direttiva di cui
costituisce attuazione, in considerazione del carattere “dettagliato” e self executing
della stessa (rectius, delle più specifiche e stringenti disposizioni in essa
contenute), nonché in virtù del criterio generale di interpretazione della normativa
interna, nei casi dubbi, in accordo con i principi informatori della disciplina
comunitaria, tanto più nelle ipotesi in cui la prima costituisce adempimento
obbligatorio della seconda2.
Alla luce della circostanza che precede non è fuori luogo affrontare, sia pure
per sintesi, il dibattito che in sede comunitaria ha portato all’emersione del
problema dei tempi di pagamento dei corrispettivi nelle transazioni commerciali ed
alle conseguenti proposte di disciplina, da ultimo concretizzatesi nella emanazione
della citata direttiva 2000/35/CE3.
Fin dal 30 giugno 1993 il Comitato economico sociale, compulsato in sede
consultiva dalla Commissione Europea, aveva rilevato come lo squilibrio dei
d. lg. 9 ottobre 2002, n. 231, in NLGC, 2004, III, p. 461 e ss.; VALACCA, La nuova disciplina degli interessi di
mora, in Corr. Tributario, 2004, 11, p. 815 e ss.; VASCELLARI, Interessi di mora e usura, in Studium iuris, 2004,
2, p. 166 e ss.; ZACCARIA, Il coordinamento fra la recente disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali e la precedente disciplina in materia, ivi, 2004, 3, p. 305 e ss.; BASTIANON, Direttive comunitarie e
tutela del creditore in caso di ritardato pagamento delle transazioni commerciali, in Diritto dell’UE, 2003, 2-3, p.
395 e ss.; CARIGNELLA, La nuova frontiera del controllo giurisdizionale sull’abuso negoziale nel d.lg. 231/2002,
in Dir. Formazione, 2003, I, p. 7 e ss.; ID., I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Urb. Appalti,
2003, 2, p. 57 e ss.; CLARIZIA, Il decreto legislativo sui ritardati pagamenti e l’impatto sul sistema, in NGCC,
2003, 1, II, p. 57 e ss.; DE STEFANO, Le modifiche introdotte dal D. lg. 9 ottobre 2002, n. 231 al procedimento
monitorio. Relazione tenuta presso la Corte d’Appello di Salerno l’8 maggio 2003, in Rass. Loc. e cond., 2003, 2, p.
157 e ss.; LA SPINA, La nullità relativa degli accordi in tema di ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, in Rass. Dir. Civ., 2003, 1-2, p. 117 e ss.; PANDOLFINI, La nullità degli accordi “gravemente
iniqui” nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, 5, p. 501 e ss.; ID., Il nuovo tasso di interesse legale per i
ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Giur. It., 2003, 1.2, p. 2414 e ss.; RUSSO, La nuova
disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratto impresa, 2003, 1, p. 445 e ss.;
MARENGO, Attuazione della direttiva 35/2000 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, in Europa Diritto, 2002, 4, p. 73 e ss.; RICCIO, La mora non imputabile in materia di obbligazioni
pecuniarie, in Contratto impresa, 2002, 3, p. 1037 e ss.; FAUCEGLIA, Direttiva 2000/35/CE in materia di lotta
contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2001, 3, p. 311 e ss.
2
Vds. CASS. 16/95/2002, n. 7120, sull’ambito di applicazione dell’art. 2112 c.c., ove l’affermazione, a sua volta
derivata da C. Giustizia CE 24/09/1998, n. 111, secondo cui “il giudice nazionale ha l'obbligo di adottare, tra
diverse possibili letture di una norma interna, quella maggiormente aderente al diritto comunitario”.In senso
analogo, con riguardo al profilo dell’impossibilità di subordinare la validità del contratto di agenzia all’iscrizione
dell’agente di commercio in apposito albo, CASS., 17/04/2002, n. 5505, ove si richiama la decisione resa da C.
Giustizia CE 30/04/98 (Bellone c. Yokohama s.p.a.).
3
Sulla direttiva 2000/35/CE possono utilmente consultarsi: CONTI, La direttiva 2000/35/CE sui ritardati
pagamenti e la legge comunitaria 2001 di delega al Governo per la sua attuazione, in Corr. Giuridico, 2002, n. 6, p.
802 e ss.; DE MARZO, Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2002, p. 628 e ss.; ID., I
ritardi nei pagamenti degli appalti pubblici, in Urbanistica e appalti, 2002, p. 631 e ss.; MENGONI, La direttiva
2000/35/CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in Europa dir. Priv., 2001, p. 74 e ss.
3
rapporti di forza fra imprenditori potesse dare luogo a transazioni non eque ed
auspicato l’adozione, ex art. 155 Trattato UE, di una raccomandazione che, fatto
salvo il rispetto della libertà contrattuale, desse indicazioni sulla trasparenza delle
condizioni di pagamento, sui relativi termini, sulla superfluità di messa in mora e
sulla istituzione di procedure sommarie di recupero dei pagamenti dovuti4.
Dando seguito a detto invito la Commissione Europea adottava la
Raccomandazione 12 maggio 1995, riguardante i termini di pagamento nelle
transazioni commerciali, con la quale si invitavano gli Stati membri ad adottare i
provvedimenti più consoni al quadro giuridico proprio di ciascuno di essi in tema
di acquisti fra imprese o enti pubblici, con espressa esclusione di quelli effettuati
da semplici privati e specifica disciplina dei pagamenti nell’ambito degli appalti
pubblici5.
La limitata capacità persuasiva del ricordato strumento non vincolante e
l’obiettivo di pervenire ad una maggiore efficacia ed integrazione del mercato
unico, in vista della terza fase dell’unione economica e monetaria decorrente dal 1°
gennaio 1999, portava alla proposta di direttiva adottata dalla Commissione UE in
data 23 aprile 1998, nella quale si poneva in luce che la disomogeneità delle
discipline normative vigenti nei diversi Stati dell’Unione europea in tema di ritardi
di pagamento limita notevolmente le transazioni commerciali e si proponeva una
disciplina differenziata: di tipo suppletivo per le transazioni fra soggetti privati,
imponente il decorso automatico di interessi di mora in caso di mancanza di più
specifica pattuizione convenzionale; di tipo imperativo per la materia degli appalti
pubblici, giustificando tale ultima prospettiva con la posizione di particolare
debolezza che caratterizza le piccole e medie imprese nei rapporti con la P.A.,
spesso costrette ad accettare termini di pagamento estremamente lunghi per il
rischio di perdere il proprio unico o più importante cliente.
Il Consiglio, nell’adottare la Posizione Comune del 29 luglio 1999,
apportava alcune modifiche di rilievo alla proposta di testo normativo dianzi citata,
superando, in particolare, ogni distinzione di regime fra transazioni commerciali
concluse fra imprenditori ed appalti pubblici, ed introducendo un indifferenziato
regime normativo destinato tendenzialmente ad imporsi e prevalere su difformi
pattuizioni raggiunte fra le parti, private o pubbliche che siano6.
4
Pubblicata in GUCE, 13 settembre 1993, n. 249, p. 21 e ss.
In GUCE, 10 giugno 1995, n. 127, p. 19 e ss.
6
Vds. GUCE, 6 ottobre 1999, n. 1.
4
5
Muovendosi sulla direttrice da ultimo indicata ed ispirandosi ad una evidente
finalità repressiva degli abusi dell’autonomia contrattuale in danno dei creditori,
secondo logica non dissimile da quella a suo tempo adottata nel diverso settore dei
contratti conclusi con consumatori, si è infine pervenuti al varo definitivo della
direttiva 2000/35/CE, avvenuto il 29 giugno 20007.
Va a questo punto ricordato, sommariamente, come i “considerando” della
ricordata direttiva comunitaria diano particolare rilievo all’esigenza di porre
rimedio alla previsione di termini di pagamento eccessivi ed alla presenza di ritardi
comportanti onerosi costi amministrativi e finanziari per le imprese, con particolare
riguardo per quelle medio-piccole, disfunzioni del mercato, pericolo di insolvenza
e perdita di posti di lavoro. Tali obiettivi sono esplicitati e svolti da ulteriori
dichiarate esigenze, poste a base dell’intervento normativo sovranazionale, così
sinteticamente puntualizzabili: a) mancato verificarsi di apprezzabili interventi
successivi all’emanazione della raccomandazione 12/05/19995, n. 95/198, con cui
si invitavano gli Stati membri ad incentivare il rispetto dei termini contrattualmente
stabiliti; b) esigenza di prevenire distorsioni della concorrenza derivanti dalla
presenza di termini di pagamento variamente difformi nei vari Stati; c) adozione di
politiche di contrasto e dissuasione delle violazioni contrattuali, particolarmente
frequenti anche perché convenienti da un punto di vista finanziario per il debitore,
che attraverso il sistematico ritardo nell’adempimento può rinvenire una fonte
indiretta di finanziamento per l’impresa; d) introduzione di meccanismi di recupero
del credito rapidi ed efficaci; e) limitazione dell’intervento regolamentatore ai
pagamenti a titolo di corrispettivo per le transazioni commerciali, esclusi i contratti
dei consumatori e gli interessi dovuti ad altro titolo, ma inclusi i rapporti con le
pubbliche amministrazioni, adottando altresì un concetto di “imprenditore”
particolarmente ampio, comprensivo delle nozioni di “piccolo” imprenditore, di
”impresa familiare”, di “professionista” esercente attività liberale.
Al momento di dare attuazione al ricordato strumento normativo di origine
comunitaria, ancora un volta, l’approccio del Legislatore nazionale è stato quello di
procedere in modo “minimale”, evitando una novellazione del Codice civile che,
proprio per l’importanza dei temi toccati, avrebbe probabilmente richiesto un più
ampio coordinamento con le disposizioni codicistiche già vigenti (si pensi alle
disposizioni in tema di termine per l’ adempimento, di cui all’art. 1183 c.c., alla
7
In GUCE, 8 agosto 2000.
5
norma cardine sulla mora del debitore di cui all’art. 1219 c.c., alla disciplina degli
“interessi legali” ex art. 1284 c.c., alle disposizioni in tema di nullità ed a talune
norme regolanti il contratto di compravendita, quale l’art. 1499 c.c.).
Diversamente, cioè, dall’ottica adottata al momento di introdurre le
disposizioni di recepimento della Direttiva 93/13/CEE (sulle clausole abusive nei
contratti dei consumatori) o della più recente Direttiva 1999/44/CE (in tema di
garanzie nella vendita di beni di consumo), inserite quale corpo organico del testo
codicistico, rispettivamente, agli artt. 1469 bis e ss. e 1519 bis e ss. c.c., il
Legislatore italiano ha preferito una via attuativa meno impegnativa, limitata
all’introduzione, previa Legge delega, di un testo speciale in larga parte
riproduttivo di quello comunitario e destinato ad integrare l’ormai estremamente
lunga e varia normativa speciale extra codicistica in materia di diritto privato dei
consumi o dell’economia8.
Si è così giunti nuovamente ai dati di diritto positivo inizialmente ricordati:
l’art. 26 della Legge 1 marzo 2002, n. 39, meglio nota come Legge comunitaria
2001, ed il D. Lgs.vo 9 ottobre 2002, n. 231, i cui artt. 4, 5 e 6 (nonché talune
presupposte definizioni contenute nell’art. 2 dello stesso testo normativo)
costituiscono l’oggetto specifico della presente indagine.
2. Aspetti definitori: ritardi di pagamento e saggio di interesse
commerciale
8
Sia pure con approfondimento ben più limitato di quanto l’argomento imporrebbe, non può non ricordarsi come il
dibattito dottrinale da tempo abbia posto in evidenza il problema della modalità di attuazione degli obblighi
comunitari, discutendo dell’opportunità di continuare a procedere in modo frammentario con testi di recepimento,
volta a volta, della direttiva comunitaria singolarmente da introdurre nell’ordinamento interno, ovvero se i tempi non
siano oramai maturi per procedere ad una riforma del diritto delle obbligazioni, tale da ricondurre ad unità l’ormai
frammentaria e plurima normativa speciale che, pur operando ab externo rispetto al Codice civile, tuttavia risulta di
applicazione sempre più puntuale ad interi settori del commercio o dei consumi lasciando all’interprete il compito di
operare un coordinamento con i principi e gli istituti privatistici tradizionali. Sulla tematica in argomento può
utilmente consultarsi LUMINOSO, Appunti per l’attuazione della direttiva 1999/44/CE e per la revisione della
garanzia per vizi nella vendita, in Contratto impresa Europa, 2001, p. 83 e ss.; BIN, Per un dialogo con il futuro
legislatore dell’attuazione: ripensare l’intera disciplina della non conformità dei beni nella vendita alla luce della
direttiva comunitaria, ivi, 2000, p. 403 e ss. Sul tema dell’opzione fra armonizzazione od unificazione delle regole
vds. ALPA, L’armonizzazione del diritto comunitario dei mercati finanziari nella prospettiva della tutela del
consumatore, ivi, 2002, p. 573; nonché AA.VV., Brevi note a margine del “Piano d’azione” sul diritto contrattuale
europeo, ivi, 2003, p. 677 e ss. Analogo dibattito si è da tempo posto in Germania fra i fautori della c.d. kleine
Losung – recepimento di “basso profilo” in attesa di una riforma ed uniformazione sistematica a livello comunitario
– ed epigoni di una profonda riforma di recepimento e contestuale armonizzazione della parte generale e speciale del
diritto delle obbligazioni - c.d. groβe Losung. Quest’ultima via è stata infine seguita dal Legislatore tedesco,
introducendo la Legge di modernizzazione del diritto delle obbligazioni (c.d. Schuldrechtsmodernisierungsgesetz),
in vigore dal 1° gennaio 2002. Sul punto, utili informazioni ed indicazioni bibliografiche in TACCANI, La riforma
del diritto delle obbligazioni in Germania: la nuova disciplina in materia di inadempimento e di impossibilità, ivi,
2003, p. 379 e ss.
6
L’art. 2 comma 1 del D. Lgs.vo 231/2002, per quanto qui rileva, accanto ad
altre definizioni normative che concorrono a determinare l’ambito di applicazione
oggettiva e soggettiva della nuova disciplina sui pagamenti nelle transazioni
commerciali, contiene le nozioni di “ritardi di pagamento” e “saggio di interesse
applicato dalla Banca centrale europea alle sue principali operazioni di
rifinanziamento”.
Entrambe dette definizioni meritano in questa sede un cenno, rispettivamente
segnando il “ritardo” l’obiettivo di “lotta” perseguito dal legislatore comunitario ed
il presupposto per l’applicazione degli interessi “dissuasivi” stabiliti, ovvero
costituendo il predetto saggio la base di riferimento per la determinazione in
concreto, previo come si vedrà congruo aumento, dell’interesse “commerciale”
operante sull’importo oggetto di ritardato pagamento.
La lettera d) della ricordata disposizione normativa precisa che costituiscono
“ritardi di pagamento, l’inosservanza dei termini di pagamento contrattuali e
legali”.
Tale definizione sollecita alcune immediate riflessioni.
In primo luogo, i “ritardi” sembrano qui presi in considerazione nella loro
dimensione esclusivamente oggettiva. In altre parole, l’inosservanza dei termini
previsti per il pagamento viene in considerazione nel decreto in commento in modo
obiettivo ed appare costituire ritardo indipendentemente dalle motivazioni che
hanno determinato la violazione comportamentale.
Ciò è tanto più rilevante, e con ciò si accenna al secondo rilievo, se si
considera che il termine “pagamento” è qualcosa di ben più specifico del concetto
di “adempimento”: esso allude in via esclusiva a quella forma di adempimento
costituita dalla consegna di somme di denaro. Il ritardo preso in considerazione dal
decreto è, quindi, quello riguardante il soddisfacimento di obbligazioni pecuniarie.
Non può in questa sede sottacersi l’apparente contrasto che la definizione in
termini meramente oggettivi del ritardo palesa in rapporto al successivo art. 3
D.Lgs.vo 231/2002, che ha cura di precisare che “il creditore ha diritto alla
corresponsione degli interessi moratori, ai sensi degli articoli 4 e 5, salvo che il
debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato
dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
7
Detta norma, come il successivo art. 6 (ove si prevede il diritto del creditore
al risarcimento dei costi sostenuti per il recupero delle somme non
tempestivamente corrispostegli, salvo il risarcimento del maggior danno, “ove il
debitore non dimostri che il ritardo non sia a lui imputabile”), sembrano
introdurre, apparentemente, un temperamento soggettivo alla tradizionale visione
dell’inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie, ispirata al principio genus num
quam perit 9.
Tale dato letterale, peraltro, ad avviso di chi scrive è soltanto
apparentemente favorevole al debitore10. In primo luogo, interpretando
sistematicamente le disposizioni normative contenute nell’art. 3, 6 e 2 comma 1,
lett. d) del testo in commento, ne esce il fondato dubbio che l’ ”impossibilità” di
cui è eco all’art. 3 non equivalga a definitiva perdita della possibilità di adempiere
da parte del debitore. E’noto che l’art. 1256 c.c. disciplina l’impossibilità di
adempiere non imputabile al debitore quale fattispecie estintiva dell’obbligazione,
mentre l’art. 3 sembra unicamente riconnettere alla prova liberatoria ivi
contemplata un ostacolo a pretendere il pagamento degli interessi moratori
“aggravati” di cui agli artt. 4 e 5 del D.Lgs.vo 231/2002 senza alcuna incidenza
sulla debenza in sé del corrispettivo pecuniario. Se questo è vero, dare la prova
dell’impossibilità di adempiere significa, secondo quanto previsto dall’art. 3 ed
analogamente a quanto previsto dal successivo art. 6, offrire la dimostrazione che il
ritardo non è in alcun modo imputabile al debitore.
9
Non è questa la sede per approfondire lo storico ed avvincente dibattito fra fautori di una dimensione
esclusivamente “oggettivistica” dell’inadempimento e sostenitori dell’opposta tesi richiedente la “colpa” del
debitore tenuto alla solutio. Si rimanda, per tutti, ai seguenti Autori ed all’ampia bibliografia ivi richiamata:
GALGANO, Diritto civile e commerciale, II.1, Padova, 1996, p. 50 e ss.; GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano,
passim, p. 117 in part.; VISINTINI, Inadempimento e mora del debitore, in Il Codice civile. Commentario diretto
da Schlesingher, Milano 1987; BIANCA, Inadempimento delle obbligazioni, in Commentario del Codice civile
Scialoja Branca, a cura di Galgano, Bologna Roma 1979, passim.
10
Condivide tale rilievo SCOTTI, Aspetti di diritto sostanziale del D. LG. 9 ottobre 2002, n. 231, cit., ove a p. 614 si
rileva testualmente: “Per vero la disposizione non appare strettamente necessaria in quanto si limita a ribadire il
principio di cui agli artt. 1218, 1219 e 1224 c.c., tra l’altro con riferimento ad un’obbligazione di carattere
pecuniario, il cui carattere fungibile impone di ricorrere ad esemplificazioni accademiche o scolastiche per reperire
casi di impossibilità oggettiva della prestazione non imputabile al debitore (rapimento del debitore, catastrofe
ambiantale)”. A tale ipotesi deve aggiungersi il caso, pure esso marginale, in cui - avendo previsto le parti il
pagamento mediante ri.ba bonifico o domiciliazione bancaria – si verifichi nel giorno della scadenza del termine per
adempiere uno sciopero dell’intero settore bancario. Nel senso divisato anche ZACCARIA, Il coordinamento fra la
recente disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali e la precedente disciplina in materia, cit.,
p. 308, ove si riconnette all’art. 3 un significato riproduttivo di quello di cui all’art. 1218 c.c., nonché CONTI, Il
d.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali, cit., p. 107.
Contra, almeno apparentemente, RICCIO, La mora non imputabile in materia di obbligazioni pecuniarie, cit.,
passim.
8
In secondo luogo, le due norme appena citate nulla dicono circa il concetto
di impossibilità: se cioè la stessa debba intendersi in senso soggettivo – come
possibilità di porre in essere un tempestivo comportamento satisfattivo da parte di
quel particolare debitore – ovvero in senso obiettivo – quale impossibilità di
adempiere tempestivamente per tutti i debitori appartenenti a quella categoria di
imprenditori-operatori economici. Quest’ultimo pare il significato reale delle
disposizioni in esame, l’unico che risulta coerente con la definizione meramente
obiettiva di “ritardi di pagamento” contemplata dalla lett. d) dell’art. 2 del testo
normativo in commento e che appare coordinarsi con il sistema giuridico con il
quale detto significato normativo deve confrontarsi e convivere.
Ragionare diversamente, del resto, significherebbe ammettere che un
intervento normativo dichiaratamente ispirato a rimuovere inefficienze e
vischiosità del mercato determinate dalla presenza di tempi di pagamento
eccessivamente lunghi e diversificati fra diversi stati membri, predisponendo una
normativa tendenzialmente unificante e volta favorire il ceto creditorio degli
imprenditori –in senso lato, come si dirà – stabilendo quale principio cardine la
mora ex re, abbia al tempo stesso, in modo contrario alla propria ratio ispiratrice,
adottato una concezione soggettiva del ritardo nell’adempimento in grado di “dare
la stura” a mille motivi transitori e meramente soggettivi giustificanti ritardi nei
pagamenti. Evenienza che non pare si stata in alcun modo contemplata dai
“considerando” posti a fondamento ed incipit della direttiva 2000/35/CE.
Da questo punto di vista, la tematica dell’inadempimento nelle transazioni
commerciali non sembra introdurre particolari distonie rispetto alla disciplina
dell’inadempimento contrattuale tout court, ambito nel quale, almeno a partire
dalle note SS.UU. del 2001, si è affermata una concezione oggettivistica
dell’inadempimento (e quindi anche del ritardo) con onere probatorio
sostanzialmente gravante sul soggetto debitore, in ossequio alla norma generale di
cui all’art. 1218 c.c.
La stessa dottrina più avvertita aveva sottoposto a convincente revisione
critica la tradizionale interpretazione in termini di colpa presunta della
responsabilità da inadempimento contrattuale (rilevando come la stessa tralatizia
affermazione di una presunzione di colpa si accompagnasse alla richiesta per il
debitore, al fine di andare esente da responsabilità, di provare l’impossibilità non
imputabile, ovvero la non esigibilità dell’adempimento avuto riguardo alle
9
circostanze concrete ed al regime di profittabilità del negozio e, in ultima istanza,
l’insorgenza di un nesso causale autonomo). La giurisprudenza di legittimità, a
Sezioni Unite, ha così composto un precedente contrasto fra sezioni semplici,
parificando l’onere probatorio del creditore che agisca per il risarcimento del
danno da inadempimento con quello gravante sullo stesso soggetto che agisca per
ottenere l’adempimento. Se infatti si era precedentemente affermato che, nel primo
caso, dare la prova del fatto costitutivo significasse dimostrare, oltre alla fonte
negoziale del diritto ed al mancato soddisfacimento dello stesso anche lo specifico
inadempimento della controparte, il S.C., con la ricordata decisione a Sezioni Unite
6 aprile – 30 ottobre 2001, n. 13533 (in Guida al diritto, 2001, n. 45), ha affermato
che “il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il
risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo
diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare
l’inadempimento della controparte. Sarà il debitore convenuto a dover fornire la
prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento”. Trattasi
di presa di posizione autorevole, successivamente ribadita dal S.C., che fondandosi
sull’applicazione secondo principi di ragionevolezza dell’art. 1218 c.c., conferma
l’applicabilità di un onere probatorio ispirato al c.d. principio di “prossimità”,
spettando al debitore convenuto, una volta che il creditore abbia dimostrato il titolo
negoziale e l’esigibilità della prestazione richiesta, dimostrare il proprio
adempimento o altro fatto estintivo od impeditivo della prestazione richiesta
(onere, detto per inciso, destinato a traslare sul creditor nell’ipotesi che il debitore a
sua volta alleghi l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c.).
Con riferimento al tema della responsabilità della struttura sanitaria
(pubblica o privata che sia), premessane l’inquadramento nell’ambito della
responsabilità contrattuale o da “contatto sociale”, la recente sentenza Cass. S.U.
11 gennaio 2008, n. 577, infatti ha stabilito che “In tema di responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto
sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore, paziente
danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e
l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare
l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno
lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è
stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.
10
Riprendendo le fila del discorso in tema di transazioni commerciali, un terzo
rilievo sollecitato dalla definizione di ritardi di pagamento attiene alla natura dei
termini introdotti e disciplinati dall’articolato in commento. La prima dottrina che
si è occupata della direttiva comunitaria11 ha evidenziato come il testo di origine
sovranazionale non specificasse se i termini oggi previsti dall’art. 4 del decreto di
recepimento costituissero termini legali di pagamento o di scadenza
dell’obbligazione, ovvero introducessero una sorta di termine di grazia o dilatorio
negli produzione degli effetti della mora di un debito già scaduto. La prima tesi,
quantomeno alla luce del testo nazionale appare preferibile, posto che
maggiormente si coordina con un sistema gerarchico di termini di pagamento che
vede al primo posto quello previsto dalle parti e, in via sussidiaria, ipotesi legali di
dies ad quem ai fini del computo delle scadenze di giorni trenta o sessanta previste;
appare inoltre letteralmente corrispondente alla fattispecie di mora automatica
introdotta (se gli interessi sono dovuti in modo automatico decorsi, ove le parti non
abbiano previsto un termine, 30 giorni dalla data di ricevimento di una fattura o
richiesta “equivalente”, senza che occorra la “costituzione in mora”, significa che
prima di detto completamento del termine la mora non si è ancora prodotta e non
che la stessa già esiste ma gli effetti ne sono temporaneamente sospesi); è, infine,
l’unico significato coerente con l’ipotesi di accordo “sulla data del pagamento o
sulle conseguenze del ritardato pagamento” presa in esame dal successivo art. 7,
al fine di sancirne la nullità in caso di grave iniquità in danno del creditore.
Ne deriva, quale conseguenza di ordine sistematico, che l’art. 2 lett. d) e 4
della disciplina in tema di pagamenti dei corrispettivi pecuniari nella transazioni
commerciali opera, nell’ambito di propria applicazione, una esplicita deroga al
principio generale quod sine die debetur statim debetur, di cui all’art. 1183 c.c. In
altri termini, nella sfera di operatività della normativa de qua la mancata disciplina
pattizia del termine per il pagamento non abilita il creditore ad esigerlo
immediatamente, soccorrendo una serie di termini legali sussidiari volti a dare
certezza al rapporto e ad ancorare ad elementi estrinseci ben verificabili i gravosi
effetti della mora ex re introdotta.
Infine, l’art. 2 comma 1 lett. e) del D. Lgs.vo 231/2002 ha cura di definire il
“saggio di interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue principali
operazioni di rifinanziamento” come “il saggio di interesse applicato a simili
11
Cfr. MENGONI, La direttiva 2000/35/CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, cit., p. 75 e ss.
11
operazioni nei casi di appalto a saggio fisso. Nel caso in cui un’operazione di
rifinanziamento principale sia stata effettuata secondo una procedura di appalto a
saggio variabile, il saggio di interesse si riferisce al saggio di interesse marginale
che risulta da tale appalto. Esso riguarda anche le aggiudicazioni a saggio unico e
le aggiudicazioni a saggio variabile”.
In questa sede non può non rilevarsi la estrema cripticità del dato numerico
al quale risulta ancorato in modo fondamentale il saggio di interesse destinato ad
applicarsi alla vasta e ricorrente fattispecie dei ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali. Quello che va, inoltre, fin da ora evidenziato, con riserva
di approfondire più innanzi il discorso sul punto relativo alla misura dell’interesse
“commerciale”, è rappresentato da un errore di traduzione che affligge la lettera e)
in commento. In particolare, l’uso del termine “appalto” a saggio fisso o variabile
è frutto di una svista, derivante dall’imperfetta traduzione della parola inglese
tender, come è comprovato dal fatto che la versione francese della direttiva parla di
procedure d’appels d’offres à taux fixe…12. Peraltro, la Banca centrale europea ha
comunicato che a partire dall’operazione prevista dal Regolamento 28 giugno
2000, le operazioni di rifinanziamento principale da essa effettuate si svolgeranno
esclusivamente secondo le modalità delle procedure d’asta a tasso variabile.
Pertanto, ai fini del calcolo degli interessi moratori “commerciali” occorrerà far
riferimento al saggio marginale che risulta dalla procedura d’asta che si è svolta
per l’ultima operazione principale di rifinanziamento posta in essere prima
dell’inizio del semestre solare nel corso del quale è scaduto il termine entro cui il
debitore avrebbe dovuto pagare13.
3. L’ambito di applicazione: gli aspetti soggettivi.
Occorre a questo punto volgere uno sguardo ai presupposti soggettivi ed
oggettivi di detto intervento normativo.
12
Sul punto DE CRISTOFARO, Obbligazioni pecuniarie e contratti di impresa: i nuovi strumenti di “lotta” contro
i ritardi nel pagamento dei corrispettivi di beni e servizi, in Studium iuris, 2003, p. 9.
13
I concetti di “asta a tasso variabile” e “tasso di interesse marginale” sono esplicati nel Glossario allegato
all’Indirizzo BCE/2003/16. Vds. altresì FINESSI, Commento all’art. 5 del d.lgs.vo 231/2002, p. 550 e ss. in
AA.VV., La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit.
12
Come già si può evincere dalla definizione obiettiva di “transazione
commerciale” contenuta nell’art. 2 lett. a) del D.Lgs.vo 231/2002, resta al di fuori
dell’ambito di applicazione delle disposizioni in commento tutta la materia dei
contratti conclusi con i “consumatori”.
Le finalità “protettive” di tutela della medio-piccola impresa - spesso posta
su di un piano di disparità economica rispetto alla grande impresa, nel cui sistema
produttivo si inserisce in posizione parcellizzata e della quale rischia di subire
regolamenti negoziali unilateralmente fissati o ritardi nei pagamenti - non si sono
così spinte sino al punto da determinare l’ampliamento della sfera di operatività
della disciplina contenuta nel decreto in commento alle “transazioni” concluse da
un imprenditore (o “professionista” secondo altra terminologia pure adotta nel
nostro ordinamento: cfr. artt. 1469 bis e ss. c.c.) con uno o più “consumatori”.
Tale scelta non appare illogica ed, anzi, risulta coerente con l’interpretazione
della nozione di “consumatore” fin qui affermatasi in ambito nazionale e
comunitario14.
Sulla scorta di tale opzione esegetica, il Tribunale di Roma15 si è
recentemente trovato a decidere una controversia in tema di recupero di insoluti da
parte di società cessionarie di crediti derivanti da contratti di utenza telefonica, nei
confronti dei consumatori-debitori ceduti, ed il Giudice capitolino della cautela ha
espressamente escluso che il principio contenuto nell’art. 6 del presente D.Lgs.vo,
secondo cui il creditore ha diritto all’integrale “ risarcimento dei costi sostenuti per
il recupero delle somme non tempestivamente corrispostegli”, trovi applicazione
nei confronti del consumatore, anche se inadempiente, così respingendo un primo
tentativo di interpretazione “estensiva” della disciplina in commento.
Sotto altro profilo va pure ricordato come la Corte di Giustizia delle
Comunità Europee abbia chiarito che la nozione di “consumatore” impiegata dalla
direttiva 93/13 va interpretata come rivolta esclusivamente a tutelare le persone
fisiche16.
14
Va ricordata l’importante eccezione costituita dal legislatore tedesco, che nel dare attuazione alla direttiva
2000/35/CE al § 286, secondo comma BGB, in vigore dal 1° gennaio 2002, ha esteso il principio della mora ex re
anche ai contratti con i consumatori.
15
Sia consentito rinviarea TRIB. ROMA (ord.), 14/03/2003, in Giur. It, 2003, II, , con nota di FAROLFI, Tutela
inibitoria e collettiva del consumatore fra cessione del credito e riscossione abusiva dei terzi.
16
Cfr. Corte di Giustizia, 22 novembre 2001 in Foro it., 2001, IV, c. 501, con nota di PALMIERI; in Giur.it., 2002,
543, con nota di FIORIO e in Corriere giur., 2002, p. 445 e ss. con nota di CONTI. Utili riferimenti possono
rinvenirsi in RINALDI, Non è qualificabile come "consumatore" chi acquista beni per l'esercizio futuro di
un'attività di impresa (nota a sent. Corte giust. Ce 3 luglio 1997 n. 269), in Nuova Giur. Civ., 1998, I, p. 346;
13
In ambito interno, infine, l’art. 1469 bis comma 2° c.c. (oggi trasfuso con
modifiche nell’art. 3, comma 1, lett. a) cod. consumo), ove definisce il
consumatore come “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività
imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”, è stato investito di taluni
dubbi di costituzionalità nella parte in cui non si applica al professionista “debole”
o non prevede l’inclusione della piccola impresa e dell’impresa artigiana nella
nozione di consumatore così testualmente definita17.
Tali censure sono state respinte dalla decisione resa da Corte Cost., 22
novembre 2002, n. 46918, sulla scorta dei seguenti rilievi: a) non irragionevolezza
della scelta del legislatore nazionale in relazione alla circostanza che numerosi
paesi europei, nel dare attuazione alla direttiva in materie di clausole abusive,
hanno fatto riferimento alle sole persone fisiche che agiscono per scopi non
professionali19; b) la nozione normativa si basa sulla considerazione che il soggetto
che agisce per scopi estranei all’attività professionale è soggetto presumibilmente
privo della competenza a negoziare, mentre non così può dirsi per il piccolo
imprenditore o l’artigiano, che proprio per l’attività abitualmente svolta possiede
cognizioni idonee a contrattare su di un piano di parità; c) non accoglibilità della
doglianza secondo cui detta nozione costituirebbe un ostacolo al diritto di difesa,
che per il giudice remittente risiederebbe nell’impedire l’applicazione del foro
previsto dall’art. 1469 bis, comma 3, n. 19, assumendo come elemento rilevante,
all’opposto, la non intaccata garanzia offerta dalla precostituzione del “giudice
naturale” di cui all’art. 19 c.p.c.
Va, ancora, evidenziato che l’intervento normativo in parola adotta una
nozione soggettiva di imprenditore “atecnica”, particolarmente ampia e già
conosciuta in ambito comunitario (“…ogni soggetto esercente un'attivita'
NIZZO, La nozione di consumatore nell'ambito della Convenzione di Bruxelles (rif. a Corte giust. Ce 3 luglio 1997
n. 269, Benincasa), in Resp. Comunicazione Impresa, 1997, p. 841 e ss.
17
Una prima ordinanza contenente dubbi sulla costituzionalità del citato art. 1469 bis c.c. è stata giudicata dalla
Consulta non motivata in ordine alla rilevanza della questione di costituzionalità sul caso concreto ed è stata respinta
su tale pregiudiziale di rito: cfr. Giud. Pace L’Aquila, 3 novembre 1997, in Giust. Civ. 1998, I, p. 2341, con nota di
GATT. Sulla decisione resa dalla Corte costituzionale a seguito della citata ordinanza di rimessione, cfr. GIULIANI,
Il consumatore: un personaggio ancora in cerca d'autore? Due sistemi a confronto (rif. a C. cost. 30 giugno 1999 n.
282), in Resp. Comunicazione Impresa, 1999, p. 643 e ss. Più recentemente ha sollevato dubbi sulla compatibilità
con il dettato costituzionale TRIB. SANREMO, 5 luglio 2001, in Giur. Merito, 2002, p. 649, dubbi peraltro respinti
dalla sentenza di cui subito nel testo.
18
Pubblicata in Foro it., 2003, I, c. 332, con note di PALMIERI e PLAIA.
19
Per alcuni aspetti comparatistici, cfr. MICKLETZ, La nozione di consumatore nel par. 13 BGB, in Dir. Civ.,
2001, I, p. 623; PALAZZO, Tutela del consumatore e responsabilità civile del produttore e del distributore di
alimenti in Europa e negli Stati Uniti, in Europa dir. priv., 2001, p. 685 e ss.; CAPPUCCIO, Sulla nozione di
"consumatore" tra diritto comunitario e nazionale, in Nuovo Dir., 2000, p. 114 e ss.
14
economica organizzata o una libera professione”). Il recepimento di un concetto di
“imprenditore” sostanzialmente analogo a quello di “professionista” e comprensivo
delle pubbliche amministrazioni, a sua volta, finisce per presupporre un concetto di
“consumatore” residuale e di stretta interpretazione, sì da muoversi nel solco
interpretativo già delineato dalla citata sentenza della C. Costituzionale e rendere
vieppiù arduo immaginare l’accoglimento di dubbi di costituzionalità relativi alla
nozione di “consumatore” adottata in tema di “clausole vessatorie”.
Deve pertanto ritenersi, riprendendo il discorso relativo ai presupposti
soggettivi di applicazione del D.Lgs.vo 231/2002, che la disciplina in commento si
applichi ai contratti conclusi fra:
- imprenditori;
- tra un imprenditore ed una pubblica amministrazione;
- tra un professionista intellettuale ed un imprenditore;
- fra due professionisti (operanti nell’ambito della propria attività
professionale).
Resta il dubbio se la disciplina in parola trovi applicazione ai pagamenti
relativi a contratti conclusi fra pubbliche amministrazioni. Dubbio che sembra
trovare una risposta positiva allorchè le stesse agiscano iure privatorum ed il
contratto concluso integri oggettivamente la nozione di “transazione commerciale”
definita all’art. 2 cit.
La nozione di “pubblica amministrazione” rilevante al fine di ritenere
operativa la disciplina in parola è, del resto, accolta in termini particolarmente
estesi dall’art. 2 lett. b), ove si precisa che integrano detta qualifica soggettiva “le
amministrazioni dello Stato, le regioni, le provincie autonome di Trento e di
Bolzano, gli enti pubblici territoriali e le loro unioni, gli enti pubblici non
economici, ogni altro organismo dotato di personalità giuridica, istituito per
soddisfare specifiche finalità di interesse generale non aventi carattere industriale
o commerciale, la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dalle
regioni, dagli enti locali, da altri enti pubblici o organismi di diritto pubblico, o la
cui gestione è sottoposta al loro controllo o i cui organi d’amministrazione, di
direzione o di vigilanza sono costituiti, almeno per la metà, da componenti
designati dai medesimi soggetti pubblici”. Va fin d’ora evidenziato come
l’applicabilità della mora ex re introdotta dal D.Lgs.vo 231/2002 alle “transazioni”
poste in essere da pubbliche amministrazioni rappresenti il superamento di un
15
“privilegio” che vedeva la P.A. sottratta alla decorrenza di interessi corrispettivi
nelle obbligazioni pecuniarie. E’noto, infatti, che la prevalente giurisprudenza
ricollegava ai principi in tema di contabilità pubblica la deroga all’art. 1182
comma 3 c.c. e, attraverso l’individuazione del locus destinatae solutionis presso
gli uffici di tesoreria, perveniva alla disapplicazione dell’art. 1219 comma 2 n. 3
c.c. L’automaticità oggi imposta, come si vedrà, nel decorso di interessi al saggio
disciplinato dall’art. 5, rappresenta un indubbio incentivo al puntuale adempimento
da parte delle amministrazioni pubbliche debitrici ed a riforme organizzative in
grado di accelerare processi di maggior efficienza nel perseguimento di interessi
pubblici con strumenti privatistici.
Peraltro, le critiche a tale ricostruzione sono state espressamente respinte
dalla recente pronuncia del S.C., al quale ha affermato:
“la subordinazione dei pagamenti da parte dello Stato all'obbligo della
previa fatturazione (nella specie: per corrispettivi di opere in appalto pubblico) va
escluso anche alla luce della nuova disciplina di attuazione della direttiva
2000/35/CE del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali, contenuta nel D.Lgs. n. 231 del 2002, che ha dettato
una minuziosa disciplina della decorrenza degli interessi moratori stabilendone la
automatica decorrenza (senza la necessità della costituzione in mora del debitore)
alla scadenza del termine legale, variamente individuato, con riferimento ad una
pluralità di fatti, quali la data di ricevimento della fattura da parte del debitore, o
quella di ricevimento "di una richiesta equivalente di pagamento", o quella di altri
eventi (ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi o dell'accettazione o
della verifica ai fini della conformità delle merci o dei servizi rispetto alle
previsioni contrattuali), finanche quando "non è certa la data di ricevimento della
fattura o della richiesta equivalente di pagamento" (art. 4 D.Lgs. n. 231 del 2002)”
(Cass. civ., Sez. I, 29/07/2004, n.14465, in Mass. Giur. It., 2004 e Foro Amm.
CDS, 2004, 2490). Resta così riconfermata in questa materia l’applicabilità della
mora “automatica” alle P.A.
Indirettamente, tale conclusione appare avallata dalla seguente decisione:
“È illegittima l'esclusione dalla gara di una impresa la quale, pur avendo
accluso alla propria offerta - così come previsto dal bando, a pena di esclusione la dichiarazione di accettazione delle clausole previste dal bando stesso, con una
successiva nota inviata all'amministrazione appaltante abbia contestato alcune
16
delle clausole contenute nella "lex specialis" (con la nota in questione, nella
specie, la impresa aveva contestato una clausola perché asseritamente
contrastante con le prescrizioni dell'art. 7 del D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231,
puntualizzando che la sua offerta non era da "intendersi condizionata
dall'accettazione a priori di clausole nulle"); tale nota, infatti, costituisce
espressione della facoltà, legittimamente esercitabile da ogni impresa partecipante
ad una gara ad evidenza pubblica, di contestare la validità di clausole predisposte
unilateralmente dall'amministrazione” (Cons. Stato, Sez. V, 11/01/2006, n.43, in
Sanità Pubbl., 2006, 4, 79 , nota di AZZARITI). Ed ancora:
“È illegittima la clausola imposta dall'ente pubblico, a pena di esclusione,
che contiene la determinazione di un saggio di interessi, dovuti in caso di ritardo
nel pagamento, inferiore a quello legale (fissato in misura pari al «saggio di
interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca Centrale
Europea applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale
effettuata al primo giorno del calendario del semestre in questione, maggiorato di
sette punti percentuali»), perché foriera di una sperequazione tra le parti in sede
di esecuzione del rapporto” (Cons. Stato, Sez. V, 12/04/2005, n.1638, in Danno e
Resp., 2005, 8-9, 893, nota di MEDICI).
La nozione atecnica e “sostanziale” di imprenditore rende infine possibile
l’applicazione della normativa de qua anche ai contratti conclusi da enti
associativi, purchè nell’ambito dell’espletamento di un’attività economica (e
quindi con l’esclusione della materia attinente ai rapporti interni al rapporto
associativo).
3bis - Segue: gli aspetti oggettivi.
Dal punto di vista obiettivo le “parole chiave” in vista dell’applicazione del
saggio di interesse in commento sono rappresentate dai termini “transazione
commerciale” e “corrispettivo”.
L’art. 1 dell’articolato normativo in commento, nell’affermare che le
disposizioni dallo stesso introdotte “si applicano ad ogni pagamento effettuato a
titolo di corrispettivo in una transazione commerciale”, utilizza il termine
“transazione” secondo un’accezione estranea alla tradizione civilistica nazionale.
Tale termine, volutamente atecnico in relazione alla necessità di coordinarsi con le
17
molteplici tradizioni giuridiche dei paesi aderenti all’Unione europea, appare
infatti impiegato come sinonimo di “contratto”, posto che l’art. 1 lett. a) del
D.Lgs.vo 231/2002 ha cura di precisare, a sua volta, che sono transazioni
commerciali “i contratti comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e
pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la
consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo”.
Il riferimento alla “corrispettività” sembra peraltro implicare la necessaria
inerenza del “pagamento” ad un contratto di scambio e non associativo o con
comunione di scopo, mentre tale nozione, unitamente all’uso del termine
“pagamento”, rende quantomeno problematico ritenere soggetti all’applicazione
della mora ex re ed al tasso di interesse “dissuasivo” di cui all’art. 5 la materia
delle restituzioni, anche se ad oggetto pecuniario (ad es. successive allo
scioglimento del rapporto contrattuale o semplicemente dovute ad indebito).
Il necessario rapporto sinallagmatico fra il “pagamento” e la “consegna di
merci o la prestazione di servizi” (pur potendo tale relazione contrattuale risultare
in termini di semplice prevalenza e non di esclusività), anche a voler interpretare
estensivamente i termini “merci” e “servizi”, rende evidente come la disciplina
così introdotta non si applichi ad un buon numero di rapporti negoziali onerosi,
quali ad esempio fideiussione, rapporti di finanziamento anche se con prestazione
di garanzia reale, mutuo, locazione.
Sempre dal punto di vista obiettivo, il citato art. 1, al comma secondo,
specifica che la disciplina in commento non si applica:
a) ai debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore;
b) alle richieste di interessi inferiori a 5 euro;
c) ai pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno ivi compresi i
pagamenti effettuati a tale titolo da un assicuratore.
In relazione alla prima categoria di crediti è stata sostenuta la tesi20 che non
esclude l’applicazione della normativa de qua ai crediti “in seguito” divenuti
oggetto di procedura concorsuale (posto che l’espressione “procedure concorsuali
aperte” richiama l’attualità della procedura stessa), restando pertanto inoperante la
disciplina degli interessi di mora contenuta nel D.Lgs.vo 231/2002 soltanto dal
momento della dichiarazione di fallimento, secondo il regime ricavabile dall’art.
55 L.F. In senso contrario si pone la recente decisione del Tribunale di Pescara 10
20
SCOTTI, Aspetti di diritto sostanziale del D.Lgs.vo 9 ottobre 2002, n. 231, cit., p. 608.
18
febbraio 200921, secondo cui “la disposizione contenuta nell'art. 1 del d.lgs. n.
231/2002, il quale prevede la non applicazione della speciale normativa sulle
transazioni commerciali ai "debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a
carico del debitore" deve essere intesa, per quanto riguarda il tasso di interesse
applicabile, nel senso che l'esclusione riguarda gli interessi maturati fino alla
dichiarazione di fallimento; il tasso non potrà, quindi, essere determinato ai sensi
dell'art. 5 del d.lgs. citato, a meno che gli interessi in questione non siano stati
liquidati con provvedimento giudiziario passato in giudicato”.
In ordine alla seconda ipotesi di esclusione si è sollevato l’interrogativo se il
Legislatore abbia inteso introdurre una sorta di “franchigia” per cui i primi 5 Euro
di ogni pretesa di interessi – anche se complessivamente superiore - resterebbero
assoggettati alla disciplina ordinaria. In realtà, pur potendo creare alcune difficoltà
di ordine pratico la scelta di ancorare l’esclusione dal campo di applicazione del
D.Lgs.vo in parola all’entità (bagatellare) degli accessori, piuttosto che del
capitale, non sembra che il dubbio dianzi riferito possa essere accolto.
Ne deriva che ogni richiesta di interessi uguale o superiore a 5 Euro dovrà
assoggettarsi in toto alla disciplina in commento.
Può ritenersi che anche i crediti derivanti da penale vadano ricompresi nella
categoria dei crediti risarcitori, dianzi indicata sub c) come esclusi dall’ambito di
applicazione del presente decreto. Pur se la clausola penale, infatti, laddove
applicabile, dà luogo ad un credito di valuta, esteriormente assimilabile ad ogni
altra obbligazione pecuniaria, deve rilevarsi come la natura risarcitoria del credito
che ne deriva ne impedisca la soggezione alla mora ex re ed al tasso di interesse
“commerciale” così introdotti, non rappresentando la penale “un pagamento a
titolo di corrispettivo in una transazione commerciale” (art. 1 cit.), né involgendo
la stessa le finalità fatte proprie dalla direttiva 2000/35 e dalla Relazione
governativa di accompagnamento (e questo anche a non volere considerare che
l’applicazione di interessi particolarmente gravosi quali quelli disciplinati nel
D.lgs.vo 231/02 sui crediti “da penale” – eventualmente pattuita anche per il
semplice ritardo – potrebbe riproporre questioni relative all’usurarietà degli
interessi complessivamente percepiti dal creditore ed al superamento del c.d. "tasso
soglia" di cui alla L. 108/96 od involgere, se applicabile, problemi di nullità per
21
Consultabile integralmente sul sito www.ilcaso.it
19
“abuso di dipendenza economica” ex art. 9 L. 18/06/1998, in tema di
“subfornitura” o quantomeno di riconduzione ad equità ex art. 1384 c.c.).
Devono infine, pur se non espressamente indicati, ritenersi esclusi
dall’applicazione delle regole in tema di “transazioni commerciali” i pagamenti di
assegni ed altri titoli di credito, che già il tredicesimo “considerando” della
Direttiva 2000/35 ritiene estranei alla tematica de qua.
Pare peraltro non irragionevole ritenere, di fronte al silenzio mostrato sul
punto dal Legislatore, che qualora il creditore invece di svolgere l’azione ex
cartula, di natura astratta e discendente unicamente dall’emissione del titolo e dalla
qualità di prenditore dello stesso (od altro requisito previsto dalla particolare legge
di circolazione del titolo), eserciti l’azione causale, avvalendosi del titolo
medesimo unicamente quale promessa di pagamento per gli effetti di cui all’art.
1988 c.c., il credito sotteso, se di natura “commerciale”, ben possa assoggettarsi
alle disposizioni del D.Lgs.vo 231/200222.
Il tema dell’inclusione dell’appalto di opere nel concetto di “transazione
commerciale” si intreccia con quello dell’applicabilità delle disposizioni in
commento alla materia delle opere pubbliche.
La Relazione governativa precisa che il silenzio osservato in relazione alla
materia dei “lavori pubblici” si giustifica sia per l’esigenza di demandare ad un
apposito e successivo intervento l’omogeneizzazione della disciplina applicabile
nei due settori, sia volendosi recepire l’avviso espresso dall’Autorità Garante dei
lavori pubblici, in data 27/03/2002, n. 5.
I primi commentatori, pur ritenendo che il pagamento del corrispettivo di un
appalto pubblico (sia esso di servizi, d’opera o fornitura) non sia fattispecie
incompatibile con la definizione di “pagamento a titolo di corrispettivo” in
contratto che comporti “in via esclusiva o prevalente la consegna di merci o la
prestazione di servizi” (art. 1 e 2 del D.Lgs.vo in commento), sostengono
l’esclusione dal campo applicativo de quo della materia del pagamento di
corrispettivi in materia di appalto di opere pubbliche, pur sottolineando le difficoltà
di dar ragione della divergenza che così si determina rispetto all’ambito degli
appalti privati e paventando l’apertura di procedure di infrazione a carico del
nostro paese per violazione di obblighi comunitari23. Proprio le irragionevoli
22
In tal senso SCOTTI, Aspetti di diritto sostanziale del D. Lgs.vo 9 ottobre 2002, n. 231, cit., p.610.
Escludono l’applicazione delle norme in commento ai rapporti di appalto di opere pubbliche RUOZI, Un rischio
“pubblico” sui pagamenti tardivi, in Sole 24 ore, 7 agosto 2002, p. 15; SAPORITO, Sui pagamenti nuovi interessi
20
23
conseguenze determinate da un’interpretazione restrittiva del concetto di
“transazione commerciale”, come escludente dal suo ambito la tematica del
pagamento di corrispettivi per appalti di opere pubbliche, nonchè le esigenze di
interpretazione del dato letterale del diritto positivo “interno” alla luce di quello
comunitario, inducono chi scrive a ritenere che il “silenzio” mostrato dal
Legislatore sul punto non sia ostativo all’applicazione della nuova disciplina alla
materia pubblicistica degli appalti, pur se di opere.
L’esplicita opzione per un concetto ampio di “pubblica amministrazione”
fatto proprio dall’art. 2; il “considerando” n. 13 della direttiva 2000/35/CE volto ad
escludere dall’applicazione della divisata normativa in tema di ritardi di pagamenti
nelle transazioni commerciali soltanto i contratti con i consumatori ed i pagamenti
effettuati a titolo di risarcimento anche se provenienti da assicurazioni; l’ulteriore
“considerando” n. 22, ove si parla di imprese pubbliche e private ed imprese e
pubbliche autorità “tenendo conto del fatto che a queste ultime fa capo un volume
considerevole di pagamenti alle imprese”, il complesso dei lavori preparatori e
prodromici all’adozione della direttiva sui ritardi di pagamento dianzi ricordato al
par. 1, appaiono tutti elementi che concorrono, a fini interpretativi, a far ritenere
assoggettati alla normativa de qua anche i pagamenti di corrispettivi nell’intero
settore dei pubblici appalti. Resta, è evidente, un difetto di coordinamento che non
appare tuttavia insormontabile: l’art. 11 comma 2 fa “salve” le vigenti disposizioni
del codice civile e delle leggi speciali che contengano “una disciplina più
favorevole per il creditore”; affermare, quindi, l’operatività delle disposizioni
legislative in commento non significa sic et simpliciter ritenere l’abrogazione per
incompatibilità delle disposizioni speciali in tema di appalti per opere pubbliche,
dovendosi piuttosto procedere al loro raffronto ed applicazione in dipendenza di un
giudizio di maggior favore per il creditore adempiente24.
4.
La disciplina degli interessi: a) il saggio “commerciale”.
dal 7 novembre 2002, ivi, 25 ottobre 2002, p. 28. Favorevole CONTI, Il d.lgs. n. 231/2002, cit. Corriere giuridico,
2003, n. 1, p. 102 e ss., ove ampi riferimenti sui lavori comunitari precedenti l’adozione della direttiva 2000/35 CE;
favorevole, pur se in termini dubitativi, anche FRIGNANI-CAGNASSO, L’attuazione della direttiva sui ritardi di
pagamento, cit., Contratti. 2003, n. 3, p. 309 e 311.
24
L’art. 30 D.M. 19/04/2000, n. 145, di approvazione del capitolato generale d’appalto dei lavori pubblici, dispone
che gli interessi di mora sui pagamenti dovuti dalla P.A. appaltante sono dovuti qualora il ritardo superi i sessanta
giorni, mentre il tasso viene determinato con decreto ministeriale la cui misura è già comprensiva del c.d. “maggior
danno”.
21
Con formulazione tutt’altro che sintetica, il tasso di interesse “commerciale”
da corrispondere in caso di ritardato pagamento è stato quantificato nello spread di
7 punti percentuali in più rispetto ad una “base” variabile commisurata al “saggio
di interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale
europea applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale
effettuata il primo giorno di calendario nel semestre in questione”25.
Per “compensare” l’obiettiva difficoltà di rilevamento del tasso “composto”
così definito, il secondo comma dell’art. 6 ha previsto una forma di pubblicità
legale, da attuare attraverso notizia pubblicata a cura del Ministero dell’economia e
delle finanze sulla Gazzetta Ufficiale, nel quinto giorno lavorativo di ciascun
semestre solare.
Rinviando a quanto già si è osservato sulla definizione di “saggio di
interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue principali operazioni di
rifinanziamento”, contenuta nell’art. 2 lett. e (retro par. 2), va rilevato come anche
l’art. 5 in commento contenga un errore di traduzione derivato dal testo della
Direttiva che la tecnicità dei vocaboli in considerazione giustifica soltanto
parzialmente. Infatti, mentre i testi inglese e francese facevano riferimento alla più
recente operazione di rifinanziamento principale eseguita “prima” del primo giorno
di calendario del semestre in questione, la versione italiana della direttiva
2000/35/CE – ed oggi l’art. 5 in commento – ha soppresso l’avverbio before
presupponendo infondatamente che in un unico giorno, il primo di ciascun
semestre, vengano compiute più operazioni di rifinanziamento fra cui individuare
una “più recente”26. Più correttamente, quindi, di fatto si dovrà avere riguardo
all’ultima operazione di rifinanziamento principale posta in essere prima dell’inizio
del semestre nel corso del quale viene a scadenza il pagamento dell’obbligazione
pecuniaria su cui calcolare l’interesse in discorso.
25
Cfr. Indirizzo BCE 01/12/2003, in GUCE, 8 marzo 2004, ove si afferma che “le operazioni di rifinanziamento
principali sono operazioni temporanee di finanziamento con frequenza settimanale e scadenza di norma a una
settimana. Queste operazioni sono effettuate dalle banche centrali nazionali mediante aste standard. Le operazioni
di rifinanziamento principali hanno un ruolo centrale nel conseguimento degli obiettivi che l’Eurosistema intende
raggiungere attraverso le operazioni di mercato aperto e forniscono la maggior parte del rifinanziamento
necessario al settore finanziario”.
26
Cfr. Circolare Assonime 27 marzo 2003, n. 15, ove si evidenzia che mai la BCE compie in tal giorno più
operazioni di rifinanziamento; in argomento DE CRISTOFARO, Obbligazioni pecuniarie e contratti di impresa:
nuovi strumenti di lotta contro i ritardi nel pagamento dei corrispettivi di beni e servizi, cit., p. 9.
22
Ne risulta che ciascun anno è suddiviso in due semestri solari, dal 1° gennaio
al 30 giugno e dal 1° luglio al 31 dicembre, e che per ciascun semestre vi è un solo
saggio di interesse di riferimento.
Attualmente il tasso “commerciale” applicabile in forza del D. Lgs.vo
231/2002, sommando la parte “fissa” a quella “variabile” oggetto di rilevazione
semestrale, corrisponde al 9,5%, ultimamente disceso all’8%27. L’art. 4 comma 3
precisa, inoltre, che per i contratti “aventi ad oggetto la cessione di prodotti
alimentari deteriorabili” il saggio di interesse è maggiorato di ulteriori due punti
percentuali ed “è inderogabile”, così raggiungendosi il ragguardevole interesse
dell’11,5% sino al 30 giugno 2009 e del 10% nella seconda metà dell’anno
corrente.
La disciplina in commento, probabilmente al di là delle effettive intenzioni
perseguite, ripropone senza mezzi termini, sia pure con obiettivi diversi da quelli
della normazione ottocentesca e liberale, la distinzione fra obbligazioni “civili” ed
obbligazioni “commerciali” già conosciuta dal nostro ordinamento.
Pur risultando ultronea rispetto alle presenti considerazioni una puntuale
ricostruzione delle vicende relative alla disciplina della mora debendi, va ricordato
che l’art. 1831 comma 2 del Codice del 1865 prevedeva, che “l’interesse legale è
determinato nel quattro per cento in materia civile e nel cinque per cento in
materia commerciale”. L’unificazione dei codici portò all’introduzione di un unico
tasso legale fissato al 5%, poi innalzato al 10% sino a che, con L. 23/12/1996, n.
662, il tasso di cui all’art. 1284 c.c. fu riportato al 5% con decorrenza del 1°
gennaio 1997, demandando al Ministero del Tesoro la facoltà di procedere a nuova
rideterminazione di detta misura sulla base del rendimento annuo lordo dei titoli di
Stato e del tasso di inflazione verificatosi. Con il D.M. 1° dicembre 2003 il tasso
legale è stato da ultimo portato al 2,5%.
La discrasia fra il tasso “commerciale” quantificato con le modalità previste
dall’art. 5 del D.Lgs.vo 231/2002 ed il tasso “legale” di cui al citato art. 1284 c.c.
appare evidente, così come evidente è il favor legislativo per il creditore27
E' quanto risulta dal comunicato del Ministero dell'Economia e delle Finanze pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
n. 26 del 2 febbraio 2009, secondo cui “Ai sensi dell'art. 5, comma 2, del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231,
si comunica che per il periodo 1° gennaio-30 giugno 2009 il saggio d'interesse di cui al comma 1 dello stesso
articolo, al netto della maggiorazione ivi prevista, e' pari a 2,50 per cento”. A tale saggio va ovviamente aggiunto lo
spraed del 7%, giungendosi pertanto al 9,5 dianzi ricordato. Ad esso ha fatto seguito il Comunicato del Ministero
dell'Economia e delle Finanze pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 199 del 28 agosto 2009, che ha determinato il
saggio base nell’1%.
23
imprenditore. Le finalità perseguite in sede sovranazionale e dianzi sinteticamente
ricordate al par. 1 spiegano soltanto in parte una differenza, nei fatti, di circa 7
punti percentuali (quasi 9 per i contratti ad oggetto alimentare deteriorabile) ed
inducono se non ad una riflessione in ordine alla ragionevolezza costituzionale di
tale divergente trattamento, quantomeno, ad una più puntuale applicazione
generalizzata del risarcimento del “maggior danno” di cui alla disposizione
codicistica citata, al fine di attenuare, in via interpretativa, il minor grado di tutela
offerta dalla disciplina ordinaria.
Va ricordato, ancora, come l’evidente connessione applicativa e le medesime
finalità protettive del presente intervento legislativo rispetto a quanto già previsto
in materia di “subfornitura”, abbiano imposto l’adozione dell’art. 10, con il quale il
tasso già previsto dall’art. 3 della L. 18/06/1998, n. 192 (che era determinato in 5
punti percentuali aggiuntivi rispetto al T.U.S.), è stato uniformato a quello
disciplinato dall’art. 5 comma 1, dianzi richiamato. Per maggiori considerazioni si
rinvia al commento sub art. 10.
Resta da dire che il tasso “commerciale” disciplinato dall’art. 5 è derogabile
dalla diversa volontà delle parti, che possono pertanto prevedere una diversa
quantificazione del saggio di interesse moratorio, anche corrispondente, deve
ritenersi, a quello ordinario “legale”, qualora in concreto, bilanciando tale dato con
il termine di pagamento previsto ed avuto riguardo alla qualità delle parti, non ne
risulti una disciplina eccessivamente squilibrata (rectius gravemente iniqua) ex
latere debitoris.
Come si è avvertito, la misura del tasso viene invece fissata in modo
“inderogabile” per la categoria dei contratti relativi a prodotti alimentari
deteriorabili, mentre nello stesso ambito, eventuali deroghe in tema di decorrenza
degli interessi soggiaciono al doppio limite, ex art. 4 u.c., dell’uso della forma
scritta e del rispetto di accordi raggiunti a livello collettivo.
Non sembra invece richiesta, al di fuori di tale settore, l’uso della forma
scritta per derogare al regime della mora debendi introdotta dal D. Lgs.vo
231/2002 (salvo il caso che uno dei contraenti sia una P.A.), pattuizioni di tal
genere potendo ricostruirsi, ad esempio, da consolidate prassi contrattuali
specificamente seguite fra contraenti del cui pagamento si discuta.
L’art. 7 si preoccupa di limitare l’autonomia privata in materia disponendo
che “l’accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardato
24
pagamento – fra cui la stessa deroga al saggio di cui all’art. 5 cit., deve ritenersi – è
nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce
o dei servizi oggetto di contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti
commerciali tra i medesimi, nonché ogni altra circostanza, risulti gravemente
iniquo in danno del creditore”.
Anche a questo riguardo rinviando alle specifiche considerazioni annotate a
margine della citata disposizione normativa, non può non rilevarsi come ardua
appaia la definizione di “grave iniquità” richiesta dalla norma al fine di ritenere la
nullità dell’accordo. Utili parametri di riferimento posso peraltro rinvenirsi nel già
citato art. 9 L. 192/98 in tema di subfornitura, che nel sanzionare con la nullità il
patto con cui si realizza un “abuso di dipendenza economica” definisce tale
situazione quella “in cui un impresa sia in grado di determinare, nei rapporti
commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi”.
Pertinente può apparire anche il riferimento all’art. 1469 bis c.c., nella parte in cui
recependo il concetto di clausola abusiva di origine comunitaria la si definisce
come quella clausola che “malgrado la buona fede, determina(no) a carico del
consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal
contratto”. Oltre a rimarcare l’evidente favor creditoris che ispira la direttiva
comunitaria accolta dal legislatore con il decreto legislativo in commento, la norma
introduce poteri correttivi particolarmente incisivi e discrezionali in capo al
Giudice. Dopo aver stabilito, infatti, l’art. 7 comma 2, che deve considerarsi
particolarmente iniquo l’accordo che ha come obiettivo principale quello di
“procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore” come pure la
imposizione di “termini ingiustificatamente più lunghi” dei propri da parte
dell’appaltatore o subfornitore principale nei confronti dei rispettivi fornitori e
subfornitori, viene previsto che il giudice possa anche d’ufficio dichiarare la nullità
dell’accordo e “avuto riguardo all’interesse del creditore, alla corretta prassi
commerciale ed alle altre circostanze di cui al comma 1”, possa sostituire
l’accordo dichiarato nullo con i termini legali ovvero con la propria equità.
5. Segue: b) decorrenze convenzionali e legali.
25
L’art. 4 introduce una dettagliata disciplina volta ad individuare il dies a quo
dal quale computare gli elevati interessi di mora introdotti in materia
“commerciale”.
Appare utile introdurre le seguente schematizzazione riepilogativa:
a) criterio del tutto prevalente è rappresentato dalla volontà delle parti; così,
in via principale, viene previsto che gli interessi “decorrono
automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine
(concordato, n.d.R.) per il pagamento” (art. 4, comma 1, D.Lgs.vo
231/2002);
A tale indicazione prioritaria si affiancano alcuni criteri sussidiari che nella
pratica (si pensi in sede di emissione di decreto monitorio) appaiono destinati a
svolgere un ruolo tutt’altro che marginale. Così, qualora non sia previsto o non
risulti la pattuizione di un termine di pagamento, gli interessi decorreranno, pure in
via automatica e senza necessità di messa in mora:
b) se vi è “certezza” in ordine alla data di ricezione della fattura o richiesta
di pagamento avente “contenuto equivalente”, decorsi 30 giorni da tale
ricezione;
c) se “non è certa” la data di ricevimento della fattura o richiesta equivalente
di pagamento, o se la ricezione della fattura o dell’intimazione precede la
consegna dei beni o lo svolgimento dei servizi, decorsi 30 giorni dalla
data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi cui
il pagamento attiene;
d) se le parti o la legge prevedono un termine per la verifica di conformità
dei beni o servizi forniti, decorsi 30 giorni dalla data di accettazione o
accertamento delle conformità alle previsioni contrattuali, salvo che
successivamente a tale momento vi sia stata la ricezione “certa” di fattura
o richiesta di pagamento, nel qual caso vale la decorrenza sub b).
In materia di contratti relativi a prodotti alimentari deteriorabili è invece
prevista una decorrenza ad hoc, individuata dall’art. 4 comma 3 nell’inutile
decorso di sessanta giorni dalla consegna o dal ritiro dei prodotti forniti.
La corretta applicazione dei suddetti criteri sussidiari sollecita, altresì, la
risposta – che nell’ambito di queste note ed in assenza di contributi
giurisprudenziali editi non si pretende certamente esaustiva - ad alcuni quesiti
operativi che fin da ora appare possibile immaginare:
26
i.
ii.
iii.
come desumere la previsione concordata di un termine di pagamento?
cosa si intende per “data certa”?
cosa significa richiesta di pagamento “equivalente” all’invio di
fattura?
iv.
sussiste ugualmente l’automaticità del decorso degli interessi
“commerciali” in caso di invio di fattura di erroneo importo?
v.
Il ricorrente in sede monitoria deve invocare l’applicazione del tasso
“commerciale” o è sufficiente la richiesta dell’interesse “legale”?
vi.
se non vi è prova della ricezione della fattura o della richiesta
equivalente e manca la pattuizione di un termine di pagamento quale
disciplina degli interessi si applica?
i. Iniziando dal primo quesito, pare allo scrivente che la risposta debba
differenziarsi fra sede monitoria e giudizio a cognizione ordinaria. Nella prima fase
priva di contraddittorio dovrebbe ritenersi sufficiente la produzione di fattura
contenente l’indicazione della data del pagamento (così come nella pratica quasi
sempre avviene, vi è una casella del documento contabile in cui compare la scritta
“rimessa diretta”, oppure “Ri.ba” a 30, o 60 giorni o altro termine); ancora
potrebbe ritenersi idonea l’allegazione di ogni altro tipo comunicazione intercorsa
fra le parti in cui si indicavano i termini di pagamento da applicarsi al rapporto
commerciale. Nel giudizio di merito, invece, in caso di contestazione circa
l’avvenuta fissazione di termine per il pagamento, dovrà ritenersi che spetti al
creditore dimostrare l’avvenuta pattuizione del termine medesimo, in ossequio ai
principi in tema di distribuzione dell’onere probatorio accolti dalla prevalente
giurisprudenza di legittimità28.
ii. Per “data certa” di ricezione della fattura o dell’intimazione ad adempiere
non può accogliersi, a parere di chi scrive e secondo i primi commenti editi, un
significato analogo a quello previsto dall’art. 2704 c.c. In primo luogo poiché non
si tratta di rendere opponibile un documento a soggetti terzi, bensì di farlo valere
fra le parti del medesimo rapporto contrattuale. In secondo luogo, poiché le
esigenze di “certezza” cui la norma fa riferimento appaiono sufficientemente
28
CASS. S.U. 6 aprile – 30 ottobre 2001, n. 13533 (in Guida al diritto, 2001, n. 45), ha affermato che “il creditore,
sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte
negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare
l’inadempimento della controparte. Sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto,
costituito dall’avvenuto adempimento”.
27
integrate da strumenti quali la compilazione dell’avviso di ricevimento della
raccomandata di invio della fattura od intimazione o, in mancanza, da un altro
documento qualsiasi proveniente dal soggetto debitore in cui si dia conto – anche
se per contestarne la debenza – dell’avvenuto ricevimento della fattura o della
richiesta di pagamento. Più dubbia appare l’ipotesi dell’invio a mezzo fax, pur
potendo il rapporto di trasmissione accompagnato da un contegno di non
contestazione surrogare probatoriamente l’onere di parte.
iii. L’ “equivalenza” cui allude il citato art. 4 sembra richiedere che la
richiesta di pagamento debba contenere, al pari di quanto generalmente indicato
nella fattura, l’indicazione specifica delle merci o servizi cui la richiesta di
pagamento fa riferimento ed il loro prezzo, proprio perché la mora ex re introdotta
presuppone che il debitore sia stato messo in grado di comprendere esattamente a
quale contratto la richiesta di pagamento si riferisce e di quali beni o servizi il
pagamento preteso costituisce corrispettivo (la stessa previsione di una decorrenza
ancorata alla ricezione della merce o del servizio in caso di mancanza di data certa
della fattura o di invio anticipato di questa rende evidente come il legislatore abbia
inteso consentire al preteso debitore di verificare la corrispondenza dei beni o
servizi a quanto richiesto prima di qualsiasi operatività della mora automatica).
E’invece certamente da escludersi che la richiesta “equivalente” debba possedere i
crismi dell’atto di costituzione in mora di cui all’art. 1219 c.c.
iv. La risposta al quarto quesito non può che essere data in termini dubitativi.
Certo è che occorre distinguere il mero errore materiale di battitura dalla fattura
contabilizzante merci non ordinate o servizi ultronei rispetto a quelli richiesti
oppure, ancora, costi superiori a quelli pattuiti (è peraltro evidente che tale
divergente efficacia assumerà rilevanza soprattutto in sede di opposizione al
decreto ingiuntivo). Nel primo caso, deve ritenersi che il mero errore materiale non
impedisca il decorso degli interessi moratori. Nel secondo può invece ritenersi che
il contraente debitore - qualora la contestazione non riguardi l’intero importo
preteso ma sia limitato, ad esempio, ad una parte del prezzo o ad alcune delle merci
fornite - debba comunque tempestivamente effettuare il pagamento non contestato
pena la decorrenza degli interessi “commerciali” comunque prodotto dal
ricevimento della fattura o della merce (mentre il “capitale” corretto su cui
computare gli stessi dovrà essere oggetto di accertamento, secondo le ordinarie
28
regole della cognizione, nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto
ingiuntivo o nell’ambito di un preventivo giudizio di accertamento negativo).
v. Quanto al quinto quesito, se si ritiene che il D.Lgs.vo in commento abbia
riproposto, nei fatti, una distinzione fra obbligazioni “commerciali” ed
obbligazioni “civili” si deve concludere che il ricorrente in sede monitoria dovrà
richiedere espressamente l’applicazione del tasso di interesse commerciale od
impiegare altra formula che faccia indiscutibile riferimento al tasso di cui agli artt.
4 e 5 del D.Lgs.vo 231/2000, non essendo sufficiente il generico riferimento
all’interesse “legale”. D’altro canto, l’invocazione del solo “interesse legale”,
senza altre precisazioni idonee a far ritenere che il ricorrente abbia inteso
richiedere l’applicazione del tasso moratorio “aggravato” di cui al presente decreto
legislativo, potrebbe far ritenere non infondatamente ultra petita l’eventuale
applicazione officiosa del saggio commerciale in una materia che, quale quella
delle obbligazioni di valuta, resta fondamentalmente soggetto al principio della
domanda.
A questo riguardo si collega l’interrogativo della validità ed efficacia
dell’eventuale rinuncia “successiva” del creditore agli interessi “commerciali” in
commento. Ad avviso dello scrivente non vi sono particolari ostacoli tendenziali al
riguardo, posto che i limiti discendenti dall’art. 7 del decreto in commento
appaiono logicamente riguardare accordi anteriori l’insorgenza del debito e la
maturazione dei relativi interessi, mentre l’atto normativo comunitario certo non si
spinge a vietare o porre limiti all’istituto della remissione, totale o parziale29, che
presuppone un diritto già sorto e, quindi, la rinuncia totale o parziale posta in
essere in un momento successivo alla scadenza del pagamento e, quindi, ad
interessi già maturati.
vi. Infine, l’ultimo quesito pare implicare l’applicazione del regime ordinario
della mora debendi. L’invio della fattura o della richiesta di pagamento in assenza
di previsione convenzionale del termine di pagamento appare, in altri termini,
presupposto applicativo del più gravoso tasso commerciale e del regime di mora
29
In questo senso anche FINESSI, Commento sub art. 5, in AA.VV., ., La disciplina dei ritardi di pagamento nella
transazioni commerciali, cit., p. 554, nt. 21, ove non convince, peraltro, la distinzione introdotta fra remissione in sé
e transazione avente ad oggetto, in via totale o parziale, la rinuncia agli interessi già maturati, posto che il discrimine
fra applicazione dei limiti di cui all’art. 7 non pare potersi rinvenire nell’unilateralità o bilateralità dell’atto negoziale
abdicativo, quanto, piuttosto nella rinuncia preventiva ovvero successiva alla maturazione degli interessi de quibus.
Contra PANDOLFINI, Il nuovo tasso di interesse legale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali,
cit., p. 2420, che ritiene soggetto al vaglio della “grave iniquità” qualsiasi accordo, preventivo o successivo rispetto
alla scadenza del pagamento.
29
automatica introdotto dal D.Lgs.vo 231/2000. Depone in tal senso il dato letterale
di cui all’art. 4, secondo cui la mora si verifica automaticamente decorsi 30 giorni
dal ricevimento della merce soltanto in caso di mancanza di data certa nella
ricezione della fattura od intimazione di pagamento, non nel caso in cui detti atti
manchino tout court. Tale dato normativo è ulteriormente suffragato da un
elemento esegetico contenuto nella relazione governativa di accompagnamento,
ove si legge “presupposto essenziale per la decorrenza del termine legale è il
ricevimento di una fattura o di una richiesta di pagamento, non avendo, al
riguardo riproposto, la versione definitiva della direttiva, alcuna previsione in
ordine alla fattispecie dell’assenza della fattura, prevista, invece, nella proposta di
direttiva”.
6. Possibili interferenze fra interesse commerciale ed usura?
L’introduzione nell’ordinamento nazionale di un tasso di interesse che, sia
pure con il dichiarato scopo dissuasivo di incentivare il tempestivo pagamento del
corrispettivo di beni e servizi nelle transazioni commerciali, assume valori 4-5
volte superiori a quello ordinariamente previsto in tema di obbligazioni pecuniarie
dall’art. 1284 c.c., come integrato dal D.M. 1° dicembre 2003, ha indotto taluni
interpreti ad interrogarsi sulla compatibilità delle nuove disposizioni e quelle in
tema di usura, già previste dalla L. 7 marzo 1996, n. 10830.
L’interrogativo ha a parere dello scrivente un contenuto prettamente
accademico se limitato alla mera valutazione di compatibilità del c.d. tasso di
interesse commerciale, ex D.Lgs.vo 231/2002, quale legalmente previsto, con il
tasso usurario; ha invece un più rilevante rilievo applicativo in relazione alla
divisata derogabilità del tasso commerciale, ex art. 5 comma 1 D.Lgs.vo 231/2002,
nell’ipotesi di determinazione convenzionale di interessi moratori in misura
superiore a quella, già elevata, stabilita dallo stesso decreto.
Va premesso che la L. 7 marzo 1996, n. 108, ha modificato profondamente
l’art. 644 c.p. sul reato di usura ed inciso sull’art. 1815 c.c. Da un lato, quindi, il
fenomeno usurario non richiede più l’estremo soggettivo dell’approfittamento
dello stato di bisogno, ma è individuato in termini obiettivi nel comportamento di
30
Sullo specifico tema, consulta utilmente FINESSI, op. cit., p. 554 e ss.; VASCELLARI, Interessi di mora e usura,
cit., p. 166 e ss.; BERTI – GRAZZINI, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, Milano, 2003, p. 90
e ss., nonché le note bibliografiche ivi contenute.
30
chi “si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in
corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi od altri
vantaggi usurari”; dall’altro, l’art. 1815 comma 2 c.c. stabilisce che, nel contratto
di mutuo, “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono
dovuti interessi”. In entrambe le fattispecie la natura usuraria dell’interesse è
stabilita de iure con riferimento al superamento del “tasso medio risultante
dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzatta Ufficiale … relativamente alla
categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà”.
Nonostante in passato si sia dubitato della possibilità di qualificare come
usurari gli interessi moratori, tale conclusione appare oggi ineludibile.
L’assimilazione degli interessi moratori a quelli corrispettivi ai fini
dell’accertamento del superamento o meno della c.d. “soglia” usuraria dianzi
ricordata e stabilita dall’art. 2 comma 4 L. 108/96 è, infatti, acclarata nella
giurisprudenza del S.C31. Del resto, significativa conferma risulta dettata dallo
stesso legislatore che con il D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in L. 28
febbraio 2001, n. 2432, ha previsto che “ai fini dell’applicazione dell’articolo 644
del codice penale, e dell’articolo 1815 secondo comma del codice civile, si
intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel
momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo,
indipendentemente dal momento del loro pagamento”. Se tale disposizione, infatti,
ha limitato espressamente la possibilità di continuare a discutere dell’istituto della
c.d. usurarietà sopravvenuta, cui le accennate sentenze del S.C. avevano fornito
applicazione, dall’altro ha pure espressamente riconosciuto che ai fini della
valutazione del superamento del c.d. tasso “soglia” deve tenersi conto di ogni
tipologia di interesse, comunque chiamata o titolata, sia stata convenuta o
promessa, con giudizio statico-genetico retrodatato al momento della volizione
negoziale.
Proprio sulla scorta di tale riconoscimento normativo, peraltro, ancor più
recentemente il S.C. ha positivamente valutato la possibilità di ricomprendere nei
31
Cfr. Cass. 17 novembre 2000, n. 14899, in Guida al diritto, 2000, n. 44, p. 39 e ss.; decisione consultabile anche
in Resp. comunic. impresa, 2000, n. 3-4, con nota di FAROLFI; cfr. altresì Cass. 22/04/2000, n. 5286, in Contratti,
2000, p. 688 e ss., con nota di MANIACI, nonché TRIB. ROMA, 10/07/98, in Foro it. , 1999, I, c. 343, secondo cui
“la ratio legis implica che nel calcolo del tasso applicato siano ricompresi anche gli interessi moratori, onde evitare
il semplice aggiramento della norma tramite la previsione di termini di pagamento di improbabile rispetto, idonei a
rendere normale e legittima la corresponsione di interessi sostanzialmente usurari sotto forma di interessi
moratori”.
32
In G.U., 28 febbraio 2001, n. 49.
31
costi globali di un finanziamento, e quindi nella valutazione della usurarietà degli
interessi che indirettamente ne discendono nonché ai fini del divieto di anatocismo,
la previsione convenzionale di penali per l’inadempimento33.
Da ciò discende l’astratta applicabilità dei limiti previsti dalla L. 108/96 ad
ogni ipotesi di interesse moratorio anche se, in via alternativa o cumulativa,
pattuito attraverso al previsione di clausole penali.
Ciò posto, come si diceva, la compatibilità rispetto a tali limiti del tasso
previsto dal D.Lgs. 231/2002 (che raggiunge punte ancora più elevate
dell’ordinario saggio commerciale in ipotesi di contratto avente ad oggetto prodotti
alimentari deteriorabili o nei casi di subfornitura in cui, come si dirà più avanti, è
prevista in aggiunta alla corresponsione degli interessi di mora una penale pari al
5% della somma capitale impagata), appare ex ante assicurata dalla sua previsione
normativa, non potendo pertanto mai porsi un problema di sua usurarietà.
In primo luogo, infatti, sia l’art. 644 c.p. che l’art. 1815 comma 2 c.c., come
integrati ex art. 2 L. 108/96, appaiono tassativamente e non estensivamente
collegabili alla pattuizione o promessa di interessi della cui usurarietà si discute,
avendo quale substrato e presupposto di applicabilità la fonte convenzionale del
tasso di interesse da valutare. Nell’ipotesi del saggio previsto dall’art. 5 D. Lgs.vo
231/2002, all’opposto, il tasso, salve sue deroghe, appare legislativamente stabilito.
In secondo luogo, poi, la stessa fonte sovranazionale e la natura di normativa
di adeguamento ad obblighi comunitari assunti dal nostro ordinamento fa
dell’articolato in commento una fonte c.d. rinforzata, in quanto tale prevalente su
disposizioni interne eventualmente contrastanti od incompatibili, anche al fine di
assicurare quella soglia di tutela minima dei debitori nell’ambito delle transazioni
commerciali che giustifica altresì la reiezione di possibili remore al compimento di
operazioni transfrontaliere e la maggiore integrazione del mercato comunitario.
Ma il problema in commento non può dirsi per ciò stesso definitivamente
risolto.
Infatti, posta l’astratta compatibilità fra L. 108/96 e D. lgs.vo 231/2002 deve
subito aggiungersi che quest’ultimo prevede possibili deroghe delle parti al saggio
legale introdotto dall’art. 5.
33
Cfr. Cass. 13 dicembre 2002, n. 17813, in Contratti, 2003, p. 566, nella quale viene sancito che la disciplina
dell’anatocismo si applica anche al patto qualificato dal giudice di merito come clausola penale con cui le parti per il
caso di ritardo nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria, fissano la corresponsione di interessi composti
determinandone la misura.
32
Peraltro, eventuali deroghe convenzionali volte a diminuire il saggio
applicabile all’operazione concreta rispetto a quello di cui al citato art. 5 devono
considerarsi ex se non predicabili in termini di usurarietà, alla luce di quanto già
rilevato circa la finalità sovranazionale ispirante l’intervento normativo in
commento (e piuttosto sottoposte, se oltremodo peggiorative per il creditore, alla
valutazione di liceità stabilita dall’art. 7).
Quid iuris, tuttavia, nel caso di deroga convenzionale che innalzi il tasso
moratorio a livelli superiori a quello, già di per sé sensibilmente elevato, previsto
dall’art. 5 in esame?
Prima di rispondere a tale domanda, nella consapevolezza, peraltro,
dell’assenza di contributi giurisprudenziali editi, va ricordato come il D.M. 17
marzo 2004 di “rilevazione trimestrale dei tassi effettivi globali medi – periodo
aprile-giugno 2004” stabilisca espressamente, all’art. 3, che detta rilevazione è
stata compiuta senza ricomprendere gli “interessi di mora contrattualmente
previsti per i casi di ritardato pagamento”. Una tale circostanza potrebbe far
dubitare della stessa possibilità, obiettiva, di poter applicare i c.d. tassi soglia
oggetto di rilevazione trimestrale alle transazioni commerciali, tenuto altresì conto
che le operazioni classificate per categorie omogenee non prevedono tale categoria
contrattuale, così risolvendo alla radice il problema divisato.
Tale soluzione, tuttavia, appare per certi versi semplicistica.
Quanto al primo punto, deve rilevarsi che non è la distonia fra una fonte di
grado secondario e quella primaria ad impedire la valutazione in sede giudiziale, il
contrasto fra detto D.M. e la normativa di interpretazione autentica di cui alla L.
24/2001 (che prevede espressamente il vaglio degli interessi “promessi o
comunque convenuti, a qualunque titolo”) dovendosi risolvere in favore di
quest’ultima con la disapplicazione della norma regolamentare difforme.
Quanto alla seconda obiezione, anch’essa radicale, due utili spunti di
riflessione in contrario possono proporsi: a) da un lato la stessa ratio che ha spinto
la giurisprudenza pressochè prevalente a considerare la possibilità di prevedere
tassi moratori usurari si è basata sulla perspicua considerazione che la norma in
tema di usura sarebbe facilmente aggirata, se limitata nella sua applicazione ai soli
interessi corrispettivi, dalla previsione convenzionale di termini di pagamento di
improbabile rispetto, idonei a rendere normale e legittima la corresponsione di
interessi sostanzialmente usurari sotto forma di interessi moratori; b) dall’altro che
33
il nomen iuris utilizzato dalle parti non è di per sé vincolante e che, qualora la
disciplina convenzionale dei termini di pagamento e della misura degli interessi
pattuita dalle parti, sia pure quale apparente corrispettivo della prestazione di un
bene o servizio, risulti in realtà perseguire, altresì, scopo di finanziamento
dell’acquirente o fruitore del servizio, ben potrà arrivarsi ad una applicazione
analogica del tasso soglia rilevato per l’operazione omogenea più affine a quella in
concreto posta in essere dalle parti.
Entro i pur ristretti limiti che si sono indicati, un problema di possibile
determinazione convenzionale di tassi moratori usurari applicati ad un rapporto
apparentemente inquadrabile nelle “transazioni commerciali” di cui al D.Lgs.vo
231/2002 resta e va risolto in concreto, proponendosi l’applicazione dei criteri
direttivi sopra ricordati.
7. Il risarcimento dei costi di recupero e gli accordi “iniqui”
a) Risarcimento dei costi di recupero.
L'art. 6, comma 1, riconosce al creditore il diritto al risarcimento dei costi
sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrispostegli, «salva
la prova del maggior danno, ove il debitore non dimostri che il ritardo non sia a
lui imputabile» ivi comprese le spese legali, anche senza liquidazione da parte di
giudice.
Il comma 2 prevede che i costi possano essere determinati anche in base ad
elementi presuntivi, e tenuto conto delle tariffe forensi in materia stragiudiziale.
Tali costi debbono comunque risultare “trasparenti” e “proporzionali” all’importo
del credito.
La questione pratica di maggior rilievo concerne la possibilità di richiedere
con il decreto ingiuntivo i rimborso dei costi in commento, che secondo alcune
interpretazioni dovrebbe escludersi, partendo dal presupposto che la norma detta
criteri di liquidazione ma non innova in ordine alla natura del credito (risarcitoria e
quindi di valore) come tale non deducibile nell’ambito dell’ingiunzione, bensì in
un normale procedimento di cognizione (eventualmente sommario, ai sensi del
nuovissimo art. 702 bis e ss. c.p.c.).
34
b) La disciplina degli accordi iniqui.
Il decreto non impone un termine minimo per effettuare il pagamento, né un
tasso di interesse di base, lasciando libere le parti di effettuare le scelte più
opportune, limitando la disciplina alle situazioni sfornite di preventive pattuizioni.
Tuttavia _ anche in tema di imposizione di condizioni inique _ l'art. 7
stabilisce che «l'accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del
ritardato pagamento, è nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale,
alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei
contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi nonché ad ogni altra
circostanza, risulti gravemente iniquo in danno del creditore».
Inoltre, nel comma 2 è previsto che «si considera in parte gravemente iniquo
l'accordo che, senza essere giustificato da ragioni oggettive, abbia come obbiettivo
principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del
creditore, ovvero l'accordo con il quale l'appaltatore o il subfornitore principale
imponga ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento
ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini di pagamento ad esso concessi».
35
PARTE II
TRANSAZIONI COMMERCIALI E SUBOFORNITURA
SOMMARIO: 1. L’adeguamento del saggio di interesse previsto dalla legge 18
giugno 1998, n. 192. – 2. Residue distonie fra le due discipline protettive. 3. I rapporti fra la disciplina introdotta in tema di transazioni commerciali e
la regolamentazione della subfornitura.
1. L’adeguamento del saggio di interesse previsto dalla legge 18 giugno
1998, n. 192.
Con l’art. 10 del D.Lgs.vo 231/2002 il legislatore delegato, muovendosi nel
solco di quanto previsto dall’art. 26, lett. e) della legge comunitaria 2001, ha
provveduto ad adeguare il tasso di interesse dovuto dal debitore moroso al
subfornitore34.
34
L’art. 3 della legge n. 192/1998 è oggi così formulato: “1. Il contratto deve fissare i termini di pagamento della
subfornitura, decorrenti dal momento della consegna del bene o dal momento della comunicazione dell’avvenuta
esecuzione della prestazione, e deve precisare, altresì, gli eventuali sconti in caso di pagamento anticipato rispetto
alla consegna. 2. Il prezzo pattuito deve essere corrisposto in un termine che non può eccedere i sessanta giorni dal
momento della consegna del bene o della comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione, Tuttavia, può
essere fissato un diverso termine, non eccedente i novanta giorni, in accordi nazionali per settori e comparti
specifici, sottoscritti presso il Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato da tutti i soggetti
competenti per settore presenti nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro in rappresentanza dei
subfornitori e dei committenti. Può altresì essere fissato un diverso termine, in ogni caso non eccedente i novanta
giorni, in accordi riferiti al territorio di competenza della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura
presso la quale detti accordi sono sottoscritti dalle rappresentanze locali dei medesimi soggetti di cui al secondo
periodo. Gli accordi di cui al presente comma devono contenere anche apposite clausole per garantire e migliorare
i processi di innovazione tecnologica, di formazione professionale e di integrazione produttiva. 3. In caso di
mancato rispetto del termine di pagamento il committente deve al subfornitore, senza bisogno di costituzione in
mora, un interesse determinato in misura pari al saggio d'interesse del principale strumento di rifinanziamento
della Banca centrale europea applicato alla sua piu' recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il
primo giorno di calendario del semestre in questione, maggiorato di sette punti percentuali, salva la pattuizione tra
le parti di interessi moratori in misura superiore e salva la prova del danno ulteriore. Il saggio di riferimento in
vigore il primo giorno lavorativo della Banca centrale europea del semestre in questione si applica per i successivi
sei mesi. Ove il ritardo nel pagamento ecceda di trenta giorni il termine convenuto, il committente incorre, inoltre,
in una penale pari al 5 per cento dell'importo in relazione al quale non ha rispettato i termini. 4. In ogni caso la
mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti costituirà titolo per l’ottenimento di ingiunzione di
pagamento provvisoriamente esecutiva ai sensi degli articoli 633 e seguenti del codice di procedura civile. 5. Ove
vengano apportate, nel corso dell’esecuzione del rapporto, su richiesta del committente, significative modifiche e
36
Rimandando a quanto già osservato (sub artt. 4 e 5 del D.Lgs.vo 231/2002)
per quanto riguarda la determinazione del saggio commerciale e le sue principali
problematiche applicative, deve sin da ora rilevarsi come proprio la disciplina della
subfornitura, contenuta nell’accennata legge n. 192/1998, avesse costituito un
primo intervento normativo di protezione del creditore e, in particolare, della
media e piccola impresa che si trova a svolgere per conto di altra, solitamente in
posizione dominante o principale, “lavorazioni su prodotti semilavorati o su
materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire
all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere
utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di
un bene complesso in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e
tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente” (così
testualmente l’art. 1, comma 1, della L. n. 192/1998)35.
Muovendosi nella medesima ottica, ma con obiettivi per certi versi più
generali quanto ad ambito di applicazione e, dall’altro, più limitati quanto a
strumenti inderogabili di protezione, il D.Lgs.vo 231/2002 ha apprestato, come già
visto, una tutela minimale del creditore al fine di scongiurare ritardi nei pagamenti
nelle transazioni commerciali e, mediatamente, allo scopo di incentivare lo
sviluppo di rapporti commerciali transfrontalieri l’implementazione del mercato
comunitario.
Appare utile evidenziare i maggiori punti di residuale divergenza fra le due
accennate discipline.
2. Residue distonie fra le due discipline protettive.
varianti che comportino comunque incrementi di costi, il subfornitore avrà diritto ad un adeguamento del prezzo
anche se non esplicitamente previsto dal contratto”.
35
Sul tema della subfornitura, seppur non oggetto precipuo di indagine, vds.: BERTI, Subcontratto, subfornitura e
decentramento produttivo tra imprese, Milano, 2000; FRANCESCHELLI, La subfornitura, un nuovo contratto
commerciale, in AA.VV., La subfornitura, a cura di FRANCESCHELLI, Milano, 1999; RUFFOLO, Il contratto di
subfornitura nelle attività produttive. Le nuove regole della L. 18 giugno 1998, n. 192, in Resp. comunicazione
impresa, 1998, III, p. 403 e ss.; AA.VV., La subfornitura. Commento alla L. 18 giugno 1998, n. 192, a cura di
ALPA e CLARIZIA, Milano, 1999; ALVISI, Subfornitura e autonomia collettiva, Padova, 2000; AA.VV., Legge 18
giugno 1998, n. 192, Disciplina della subfornitura nelle attività produttive, a cura di LIPARI, in NLCC, 2000, fasc.
1-2; BERTI – GRAZZINI, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, Milano, 2003; GIOIA, La
subfornitura nelle attività produttive. Commento alla L. 18 giugno 1998, n. 192, in Corr. Giur., 1998, n. 8, p. 882 e
ss.; BORTOLOTTI, I contratti di subfornitura, Padova, 1999. MARIANI, Note in tema di subfornitura nelle attività
produttive, in Nuova Giur. Civ., 2000, II, p. 109 e ss.; PALMIERI, La minorità tecnologica quale presupposto
essenziale per l'applicazione degli strumenti di protezione previsti dalla legge sulla subfornitura, in Foro It., 2000,
I, c. 626 e ss.
37
Riservando di approfondire nel paragrafo seguente il tema dei rapporti fra le
due ricordate discipline di protezione dell’imprenditore, appare evidente come
l’uniformazione del tasso di interesse moratorio applicabile nei rapporti di
subfornitura a quello previsto per le transazioni commerciali (non relative a
prodotti alimentari deteriorabili) non sia stata completa quanto agli effetti derivanti
dal ritardo nel pagamento del corrispettivo ed al computo del ritardo medesimo.
i. In primo luogo diversa è l’operatività della decorrenza degli interessi nelle
due fattispecie. Mentre, infatti, per le transazioni commerciali l’art. 4 comma 2 del
D. Lgs.vo 231/2002 prevede una disciplina del dies a quo supplettiva del termine
di pagamento rispetto a quella convenzionale prevista dalle parti (quest’ultima con
il limite di cui agli artt. 7 e 4 u.c. dello stesso decreto), la decorrenza degli interessi
moratori nell’ambito della subfornitura appare dettata in modo tendenzialmente
inderogabile.
L’art. 3 comma 1 della L. 192/1998 stabilisce, in primo luogo, che il
contratto di subfornitura deve fissare i termini di pagamento a decorrere “dal
momento della consegna del bene o dal momento della comunicazione
dell’avvenuta esecuzione della prestazione”.
La dottrina prevalente ritiene che il concetto di “consegna” sia sussunto dal
Legislatore nazionale in termini tecnico-giuridici e, pertanto, nel caso di cose
mobili da trasportare detto momento vada individuato nella rimessione delle merci
o prodotti al vettore, salvo diverso accordo delle parti (argomenta dall’art. 1510
c.c.)36.
La presenza degli oneri formali previsti per la stipula del negozio fonte del
rapporto di subfornitura di cui all’art. 2 della L. 192/1998 non consente, ad avviso
dello scrivente, di ipotizzare il perfezionamento del contratto nelle forme di cui
all’art. 1327 c.c., ossia nel luogo ed al momento dell’inizio dell’esecuzione della
prestazione37. Tuttavia, l’individuazione di un dies a quo in tema di pagamento del
prezzo collegato alla comunicazione di eseguita prestazione sembra costituire una
36
BERTI-GRAZZINI, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, cit., p. 87 (ivi ulteriori riferimenti
bibliografici).
37
Va altresì ricordato che la giurisprudenza prevalente ritiene che detta disposizione codicistica costituisca un
eccezionale temperamento alla modalità di conclusione del contratto attraverso la cognizione dell’accettazione della
proposta, ex art. 1326 c.c., non suscettibile, pertanto, di applicazione al di fuori delle categorie negoziali censite
dallo stesso art. 1327 c.c. Secondo Cass., 22/04/2002, n.5874, “Le ipotesi nelle quali il contratto deve ritenersi
concluso nel tempo e nel luogo in cui ne ha avuto inizio l'esecuzione sono solo quelle tassativamente indicate dal
comma 1 dell'art. 1327 c.c. (richiesta del proponente, natura dell'affare e usi commerciali), che impongano
l'esecuzione della prestazione senza una preventiva risposta” (in Arch. Civ., 2003, 192).
38
scelta che tiene conto della possibile conclusione del contratto attraverso la
medesima comunicazione. Pare ipotizzabile, conseguentemente, che la
comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione, se fatta in forma scritta,
anche se mediante telefax od altra forma telematica, qualora non preceduta da altra
accettazione scritta, valga ad un tempo a determinare il perfezionamento del
contratto e la decorrenza del termine di pagamento (ed in tal senso la previsione di
salvezza di cui all’art. 2 comma 2 L. 192/1998 non sembra spostare il problema del
“quando” e del “dove” l’accordo negoziale possa dirsi perfezionato, posto che la
norma di per sé garantisce soltanto al subfornitore che abbia iniziato l’esecuzione
di fronte ad un ordine scritto di non vedersi eccepita la nullità formale del
contratto, dovendo tuttavia provvedere alla consegna della merce od a comunicare
l’avvenuta esecuzione della prestazione, posto che le norme in considerazione non
paiono introdurre una deroga a quanto previsto dall’art. 1328 c.c.).
Quanto alla termine di pagamento, l’art. 3 della L. 192/1998 obbliga le parti
a disciplinarlo in modo da non eccedere i sessanta giorni decorrenti dai momenti
indicati (consegna o comunicazione di eseguita prestazione), salve le limitate
deroghe previste dal comma 2 della stessa disposizione, comunque non eccedenti
la previsione di un termine di novanta giorni.
La disposizione pare formulata, a differenza di quanto previsto in tema di
transazioni commerciali, in modo stringente ed imperativo, derivandone
logicamente l’invalidità di eventuali clausole convenzionali di deroga o più
favorevoli alla parte committente. Qualora le parti non provvedano a fissare un
termine di pagamento o lo indichino attraverso la previsione di un termine più
lungo di quello di legge, la conseguenza maggiormente condivisibile pare quella
della nullità parziale della clausola difforme e, comunque, dell’integrazionesostituzione con il termine legale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1339 e
1419 comma 2 c.c.
La finalità protezionistica della legge in tema di subfornitura, infatti, non
può estendersi sino al punto di ritenere che dalla nullità che precede discenda
l’invalidazione dell’intero contratto, considerato che ciò non appare certo la forma
di tutela più adeguata al subfornitore che, magari avendo già eseguito la propria
prestazione, ha un sicuro interesse a percepire il prezzo pattuito, semplicemente
39
volendo contare su tempi certi per l’adempimento e non eccessivamente dilatati
rispetto alle previsioni della L. 192/199838.
ii. Ancora, con riguardo alle conseguenze dell’inadempimento
dell’obbligazione pecuniaria di pagamento del prezzo, soltanto nel rapporto di
subfornitura è stabilito, dall'art. 3 comma terzo, ultimo periodo, L. 192/1998, che
“ove il ritardo nel pagamento ecceda di trenta giorni il termine convenuto, il
committente incorre, inoltre, in una penale pari al 5% dell’importo in relazione al
quale non ha rispettato il termine”.
L’ulteriore aumento di cinque punti percentuali di un saggio di interesse
moratorio già elevato e fortemente dissuasivo ripropone le problematiche già
ricordate (retro, par. 6) quanto a rapporto fra saggio di interesse commerciale ed
usura. Deve peraltro ritenersi che la penale in questione non possa essere
“capitalizzata” al fine di farne discendere l’ulteriore applicazione di interessi
commerciali. Semplificando: posto uguale a 100 l’importo oggetto di ritardo, il
debitore dovrà, salvo il risarcimento del maggior danno: 100 + l’interesse
commerciale + il 5% di 100. L’importo della penale potrà a sua volta,
eventualmente, produrre interessi, ma al saggio legale e dal momento della
costituzione in mora, posto che la sola corresponsione degli interessi appare
prevista in modo automatico come si evince dalla diversità letterale contenuta
nell’art. 3 comma 3 della L. 192/1998: “il committente deve al subfornitore, senza
bisogno di costituzione in mora, un interesse…”, laddove è previsto unicamente
che “il committente incorre inoltre in una penale…”, segnalando la distonia
verbale una evidente distonia di effetti giuridici.
iii. Interessanti divergenze sussistono nel campo della tutela giudiziaria del
subfornitore rispetto al comune creditore-imprenditore di cui al D.Lgs.vo
231/2002. Anche in questo caso, pur non essendo questa la sedes materiae in cui
trattare l’argomento, non possono non svolgersi alcune considerazioni, volte altresì
38
Vds. altresì CIGLIOLA, Le clausole if and when nel contratto di subappalto, in Contr. Impresa, 1996, II, p. 543 e
ss.; VIGNALI, La clausola if and when tra appalto e subfornitura, in AA.VV., Subfornitura, a cura di
FRANCESCHELLI, cit., p. 165 e ss. Con l’espressione clausola “if and when” si allude a quelle pattuizioni in cui
un contraente intermedio – tipicamente l’appaltatore posto fra committente principale e subappaltatori – si
garantisce per l’ipotesi di inadempimento del proprio contraente a monte prevedendo che egli dovrà il prezzo al
subcontraente solo se (if) e quando (when) il committente a sua volta lo avrà pagato (normalmente mediante
approvazione di SAL intermedi). Come rilevato nel testo, ove tale operazione dia luogo nei rapporti fra contraente
intermedio e subcontraenti ad un rapporto di subfornitura tale tipologia di clausole negoziali deve reputarsi invalida
ex art. 3 L. 192/1998 ed il contraente-committente intermedio dovrà cautelarsi attraverso altre forme di garanzia
quali, ad es, performance bond o attraverso la previsione di clausole penali o la pattuizione di caparre
(eventualmente con plurime restituzioni parziali man mano che procede positivamente l’esecuzione del contratto).
40
a rendere evidente la ricaduta pratica della questione relativa ai rapporti fra le due
discipline analizzate.
Pur accogliendo l’invito della direttiva 2000/35/CE ad adottare “meccanismi
di recupero dei crediti rapidi ed efficaci”, idonei a consentire la formazione di un
titolo esecutivo “entro 90 giorni” dalla presentazione del ricorso o domanda
giudiziale da parte del creditore, il legislatore delegato ha inteso preservare
l’impianto codicistico preesistente e muoversi nell’ambito degli strumenti
processuali già previsti in via ordinaria, novellando talune disposizione relative al
procedimento per ingiunzione, piuttosto che elaborare ulteriori procedimenti ad
hoc.
Se, quindi, la parte sostanziale del d. Lgs.vo 231/2002 appare di limitata
applicazione in virtù dei presupposti soggettivi ed oggettivi dianzi richiamati, sul
piano processuale le modifiche introdotte appaiono di ordine generale.
L’art. 9 dispone, in primo luogo, l’abrogazione espressa dell’ultimo comma
dell’art. 633 c.p.c., ove era contenuto l’ormai anacronistico divieto di emissione di
decreto ingiuntivo nel caso in cui la sua notifica dovesse essere compiuta
all’estero, introducendo dei termini per proporre opposizione, ex art. 641 c.p.c.,
differenziati a seconda che l’ingiunto risieda in uno Stato dell’Unione europea –
nel qual caso il termine è di 50 giorni, riducibili a non meno di 20 – oppure risieda
in altri Stati – in tal caso il termine non dovrà essere minore di 30 giorni e non
superiore a 120.
La stessa disposizione, ancora, introduce il termine (ordinatorio) di 30 giorni
per l’emissione del decreto ingiuntivo, da computarsi dal momento del deposito del
ricorso. Detto termine, peraltro, dovrebbe ritenersi ragionevolmente interrotto dalla
richiesta di integrazione della documentazione di cui all’art. 640 comma 1 c.p.c.39.
La maggiore innovazione riguarda, comunque, la previsione espressa di
concessione della provvisoria esecuzione “parziale” del decreto ingiuntivo opposto
che, in precedenza, la prevalente giurisprudenza aveva ritenuto inammissibile ed al
quale, non senza contrasti, un condivisibile orientamento aveva cercato di
sopperire applicando al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo i
provvedimenti anticipatori di cui agli artt. 186 bis e ter c.p.c.
39
Contrario a ritenere che la richiesta di integrazione della documentazione, ex art. 640 c.p.c., determini
l’interruzione dei 30 giorni previsti per l’emissione del provvedimento appare CONTI, Il d.lgs. n. 231/2002, cit., p.
119.
41
L’art. 9 ultimo comma dell’articolato normativo in commento, con la tecnica
della “novellazione”, aggiunge alla fine del primo comma dell’art. 648 c.p.c. il
seguente periodo: “il giudice concede l’esecuzione provvisoria parziale del decreto
ingiuntivo opposto limitatamente alle somme non contestate, salvo che
l’opposizione sia proposta per vizi procedurali”.
Tale disposizione evoca immediatamente l’importanza applicativa
dell’espressione “non contestazione” ivi impiegata. Sul punto, infatti, potrebbe,
anche per l’indubbia affinità lessicale, invocarsi il formante giurisprudenziale
relativo agli artt. 423 e 186 bis c.p.c., ciò importando che anche una contestazione
non suffragata da alcun elemento di prova possa, in chiave di delibazione
sommaria relativa alla concessione della provvisoria esecutività parziale del
decreto opposto, impedire l’emissione del provvedimento.
Dall’altro, ben potrebbe darsi maggior rilievo all’inclusione sistematica
dell’esecuzione parziale nell’ambito dell’art. 648 c.p.c. sì da ritenere,
coordinandosi complessivamente la parte “preesistente” di tale disposizione con
l’inciso finale introdotto, che anche la “contestazione” in grado di paralizzare la
concessione della provvisoria esecutività parziale debba essere suffragata da
“prova scritta o di pronta soluzione”40. Il tema tocca, peraltro, la più generale
questione della doverosità del provvedimento ex art. 648 c.p.c. in presenza dei
presupposti ivi menzionati o dell’immanente presenza di valutazioni di
discrezionalità da parte del Giudice dell’opposizione, su cui, peraltro, appare
ultroneo soffermarsi, non mancandosi tuttavia di sottolineare, dal punto di vista
letterale, come l’art. 648 prima parte c.p.c. utilizzi l’espressione verbale “può
concedere”, mentre la parte finale novellata impiega l’indicativo presente
“concede”.
Nella prima applicazione edita dell’istituto così introdotto, il Tribunale di
Palermo, con ordinanza 10/12/200241, ha ritenuto di collegare la “non
contestazione” cui fa riferimento l’innovazione normativa ai comuni principi
desumibili dall’art. 648 comma 1 in tema di concessione della provvisoria
esecuzione del decreto opposto, giungendo ad affermare: “la provvisoria
esecuzione parziale del decreto ingiuntivo opposto per somme non contestate deve
essere concessa, in assenza di vizi procedurali, nei limiti in cui la contestazione
40
In questo senso CONTI, Il d.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle
transazioni commerciali, in Corr. Giuridico, 2003, n. 1, p. 119, nota 34.
41
Pubblicata in Giur. Merito, 2003, I, p. 427.
42
dell’opponente non sia fondata su prova scritta o di pronta soluzione, dovendosi
funzionalmente collegare la seconda proposizione dell’art. 648 co. 1 c.p.c. alla
prima proposizione della stessa disposizione”42.
Appare, del resto conforme alle finalità perseguite dal Legislatore nazionale,
ispirandosi ad obiettivi fatti propri in sede comunitaria, ritenere che non qualsiasi
tipo di opposizione comunque proposta impedisca al creditore di ottenere un titolo
esecutivo, sì che la concessione della provvisoria esecuzione parziale per somme
non contestate debba coordinarsi con i generali principi cui è condizionata la
concessione della provvisoria esecuzione totale del provvedimento monitorio
opposto. In altri termini, il bilanciamento degli opposti interessi ex ante
disciplinato, condizionante il rigetto della provvisoria esecuzione ex art. 648
comma 1 c.p.c. alle ipotesi di opposizione non fondata su prova scritta o di pronta
soluzione non può non valere, nell’ambito di un’intepretazione coordinante le
diverse parti dell’innovato comma 1 dell’art. 648 c.p.c., in assenza di vizi
procedurali, anche alla fattispecie della concessione della provvisoria esecuzione
“parziale”.
La “non contestazione” così interpretata rappresenta, pertanto, un quid novi
rispetto all’istituto dell’art. 186 bis c.p.c. anche per coloro che già ritenevano detto
strumento non incompatibile con la preesistenza di provvedimento monitorio, tale
da consentire un’interpretazione non svilente la portata dell’intervento normativo
verificatosi e non meramente ripetitiva dell’accennato art. 186 bis c.p.c.
Quanto all’inciso “salvo che l’opposizione non sia proposta per vizi
procedurali”, pare invece di poter affermare con sicurezza che non sia sufficiente
una qualsiasi deduzione o contestazione in rito dell’opponente (quale il richiamo
ad un’eccezione di incompetenza territoriale palesemente destituita di fondamento)
per “bloccare” ex ante l’operatività dell’istituto introdotto.
42
Tale decisione afferma altresì che la modifica all’art. 648 c.p.c. ha natura processuale e valenza generale,
potendosi così applicare anche ai procedimenti giudiziali in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs.vo
231/2002. Nello stesso senso: “Poiché la previsione contenuta nell'art. 11, primo comma del D.Lgs. n. 231 del 2002,
si riferisce alle sole disposizioni di diritto sostanziale introdotte dal decreto, il particolare richiamo ai contratti,
contenuto nel summenzionato art. 11, va riferito alla limitata applicazione del decreto alle transazioni commerciali
di cui all'art. 1; tale limitazione è rivolta agli aspetti di diritto sostanziale e non anche a quelli processuali contenuti
nell'art. 9, atteso che essi hanno modificato disposizioni di contenuto generale del codice di procedura civile, non
concernenti le sole transazioni commerciali. Diversamente opinando si perverrebbe a ritenere erroneamente che la
prima parte dell'art. 648 c.p.c. ha contenuto generale e che la seconda parte, introdotta dall'art. 9 citato, sarebbe
applicabile unicamente all'ipotesi di decreti ingiuntivi fondati su contratti” (Trib. Legnano, 18/08/2003, Banche dati
Platinum, UTET).
43
Riprendendo le considerazioni sulle distonie presenti fra disciplina delle
transazioni commerciali e subfornitura si impone una notazione: il legislatore
delegato non ha spinto la portata del proprio intervento sino al punto da
generalizzare in materia l’istituto dell’emissione di decreto ingiuntivo già esecutivo
ex lege, come invece previsto in materia di subfornitura. Resta pertanto
un’evidente differenza di trattamento nel momento del recupero giudiziale del
credito, in quanto soltanto il subfornitore potrà ottenere, ex art. 3 comma 4 L.
192/1998, una ingiunzione immediatamente seppur provvisoriamente esecutiva,
mentre il comune creditore “commerciale” dovrà allegare e documentare
l’esistenza dei generali presupposti di cui all’art. 642 c.p.c., salvo fruire (ma questo
deve ritenersi da parte di qualunque ricorrente alla luce della portata generale della
modifica dell’art. 648 c.p.c.) di una maggior facilità ad ottenere un titolo esecutivo
– anche se per parte del prezzo inadempiuto – in caso di opposizione basata su
contestazioni non documentali o dilatorie.
iv. L’evidente trattamento processuale di maggior favore per il subfornitore
si accompagna al fatto che soltanto nei rapporti che lo riguardano l’art. 10 della L.
192/98 introduce un meccanismo di conciliazione obbligatoria presso la Camera di
Commercio, industria, artigianato ed agricoltura nel cui territorio ha sede il
subfornitore, seguito da un eventuale arbitrato rituale su richiesta di entrambi i
contraenti. Può in questa sede soltanto accennarsi al fatto che, a parere dello
scrivente, il suddetto tentativo obbligatorio di conciliazione è strutturalmente e
funzionalmente incompatibile con il procedimento monitorio, non potendo
pretendersi l’attivazione di una sede conciliativa in contradditorio quando la stessa
risulti prodromica ad un procedimento che vede una prima fase inaudita altera
parte e che contempla ragioni di speditezza volte all’ottenimento di una condanna
speciale con funzione prevalentemente esecutiva43. Analoga considerazione deve
fondatamente ritenersi valida pure nel caso di ricorso cautelare, considerando le
finalità di cautela volte ad assicurare la fruttuosità della futura decisione di merito,
come pure la natura sommaria ed urgente della cognizione, unitamente alla
43
Sul punto BERTI-GRAZZINI, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, cit., p. 218 e ss. Sia pure
con riferimento al provvedimento monitorio in materia di lavoro, alla luce del disposto dell’art. 412 bis c.p.c., una
forte conferma della validità dell’opzione ermeneutica prescelta pare conseguire da Corte cost. (Ord.), 06/02/2001,
n.29, in Giur. It., 2001, nota di FONTANA, secondo cui “E' manifestamente infondata, con riferimento agli art. 3,
24 comma 1 e 76 cost., la q.l.c. dell'art. 412 bis c.p.c., nella parte in cui non imporrebbe il tentativo obbligatorio di
conciliazione, nelle controversie di lavoro, anche nel procedimento d'ingiunzione, in quanto tale questione è già
stata ritenuta infondata - per erroneità del presupposto interpretativo - con la sent. n. 276 del 2000”; la decisione
richiamata nella massima è a sua volta consultabile in Giur. It., 2001, p. 438, con nota di VENTURA.
44
legislativamente prevista possibilità di emanazione del provvedimento inaudita
altera parte (cfr. art. 669 sexies c.p.c.), rendendo funzionalmente e strutturalmente
incompatibili il previo esperimento del tentativo di conciliazione rispetto
all’attivazione di procedimento cautelare44.
La considerazione che l’espletamento del tentativo di conciliazione di cui
all’art. 10 L. 18 giugno 1992, n. 198 sia compatibile funzionalmente e
strutturalmente soltanto per quei giudizi destinati ab initio ad essere introdotti nel
contraddittorio e destinati a svolgersi a cognizione piena, potrebbe portare a
ritenere che anche la fase di opposizione a decreto ingiuntivo resti affrancata dalla
necessità di esperire tale modalità conciliativa a quel punto ben difficilmente
compatibile con la presenza di un titolo immediatamente esecutivo.
v. Se nell’ambito del D.Lgs.vo 231/2002 l’art. 7 prevede espressamente la
nullità dell’accordo sulla data del pagamento o sui termini di esso che “risulti
gravemente iniquo in danno del creditore”, nel solo testo di cui alla L. 192/1998,
in tema di subfornitura, la sanzione di “nullità” viene inflitta per tutte quelle
clausole che, genericamente e non soltanto con riferimento alla disciplina dei
termini di pagamento, rappresentino un “abuso di dipendenza economica” da parte
di una o più imprese in danno di una impresa cliente o fornitrice (art. 9 L.
192/1998 cit.).
Pur essendo stata proposta una tesi volta a dare della ricordata disposizione
una valenza generale, esorbitante dai ristretti confini della subfornitura, come del
resto sembrerebbe suggerito dalla possibilità che l’imprenditore illegittimamente
“abusato” sia alternativamente un’impresa cliente oltre che fornitrice, la prevalente
giurisprudenza che sino a questo momento si è occupato della norma, ne ha sancito
una interpretazione restrittiva e limitante45.
44
In questo senso, sia pure con riguardo al meccanismo di conciliazione ed all’invio di diffide stragiudiziali di cui
all’art. 3 L. 30 luglio 1998, n. 281, cfr. TRIB. ROMA, Trib. Roma, 14 marzo 2003, in Giur. it., 2004, II, 315, con
nota di FAROLFI, Tutela inibitoria e collettiva del consumatore fra cessione del credito e riscossione abusiva dei
terzi. Contra deve ricordarsi TRIB. ROMA, 20/05/2002, in Foro It., 2002, I, 3208, nota critica di PALMIERI. Il
Giudice della cautela capitolino ha in quel caso affermato che “ Posto che il contratto avente per oggetto la
gestione, per conto di una società petrolifera, del servizio di assegnazione dei buoni carburante è assoggettato alla
disciplina sulla subfornitura, va dichiarato inammissibile, in mancanza del preventivo esperimento del tentativo
obbligatorio di conciliazione, il ricorso con cui il fornitore del servizio, addebitando alla società petrolifera di aver
abusato della condizione di dipendenza economica, chiedeva che fosse ordinata in via d'urgenza la prosecuzione del
rapporto contrattuale definitivamente cessato, dopo una lunga serie di rinnovi, alla scadenza pattuita”. In quel caso,
peraltro, ulteriori e concorrenti motivi di inammissibilità della domanda cautelare di protrazione ope iudicis di un
rapporto contrattuale ben potevano giustificare il comunque disposto rigetto dell’istanza.
45
Cfr. MAFFEIS, Abuso di dipendenza economica e grave iniquità dell’accordo sui termini di pagamento, in
Contratti, 2003, 6, p. 623 e ss. Paradigmatica di questa visione “restrittiva” resta TRIB. BARI, 02/07/2002, Foro It.,
2002, I, 3208, nota di PALMIERI, secondo cui: “Posto che il divieto dell'abuso di dipendenza economica si applica
45
Ora, se la ratio di detta interpretazione restrittiva si vuole – come sembra nei
primi interventi giurisprudenziali – ricondurre ad una ritenuta natura eccezionale
della norma, realizzante un sorta di altrimenti non consentita intromissione nella
libera esplicazione dell’autonomia privata, è evidente che l’introduzione della
disciplina contenuta nel D.Lgs.vo 231/2002 non è un elemento ermeneutico
indifferente. Detta disciplina, infatti, estende a tutti i rapporti commerciali fra
imprese (ivi compresi i liberi professionisti) e la pubblica amministrazione una
regola generale di nullità della clausola che costituisca abuso dell’autonomia
contrattuale in danno del creditore46.
E’vero che in detta ipotesi la sanzione invalidante è oggettivamente limitata
al tema della disciplina pattizia della data del pagamento e delle conseguenze del
suo ritardo. Ma questo è l’oggetto, del resto, dello stesso intero provvedimento
normativo di origine comunitaria, chiaramente ispirato ad un favor creditoris
fondato sui principi della mora automatica e sul riequilibrio di disposizioni
contrattuali che costituiscano un abuso o si rivelino gravemente iniqui per il
creditore della prestazione monetaria.
Se quanto precede è esatto, è difficile non ritenere che quello che le prime
decisioni sull’art. 9 della L. 192/1998 hanno ritenuto una fattispecie di ingerenza
nell'’autonomia privata delle parti di natura eccezionale non sia oggi, piuttosto, un
intervento che si colloca coerentemente in un sistema sempre più ampio e diffuso
di regole di origine comunitaria volte a ristabilire l’equilibrio contrattuale nelle
ipotesi in cui la posizione preminente di una delle parti su quella creditrice del
corrispettivo monetario si sia comunque tradotta in clausole eccessivamente
squilibratrici dei diritti e degli obblighi nascenti dal contratto.
L’eterointegrazione della regolamentazione degli interessi privati diviene,
allora, regola e non eccezione, in tutti i casi in cui l’autonomia privata delle parti
soltanto ai contratti di subfornitura e che lo stesso, derogando al principio di libertà contrattuale, conferisce al
giudice poteri di natura eccezionale, va revocato il provvedimento con cui era stato costituito in via cautelare un
rapporto obbligatorio tra un rivenditore al dettaglio ed un produttore di capi di abbigliamento, il quale non aveva
accettato la proposta contrattuale proveniente dal primo (nella specie, l'ordinanza revocata, sul presupposto che il
rifiuto di vendere i capi di vestiario commissionati integrasse gli estremi dell'abuso di dipendenza economica, aveva
ordinato al fornitore di consegnare immediatamente la merce richiesta, alle condizioni previste nel modulo,
predisposto dal fornitore stesso e sottoscritto dal cliente, contenente la proposta di acquisto)”.
46
Così si esprimeva del resto, più correttamente, il considerando n. 19 della Direttiva 2000/35/CE, affermando che
“la presente direttiva dovrebbe proibire l’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore”; talun Autori hanno
per questo lamentato l’imperfetta traduzione, se non il vero e proprio fraintendimento, contenuto nella locuzione
“gravemente iniquo” impiegata dall’art. 7 del D.Lgs.vo in tema di lotta ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni
commerciali.
46
sia caratterizzata da asimmetria informativa e dominanza economico-negoziale di
una delle parti, quella tenuta alla prestazione monetaria, così facendo ritenere i
tempi ormai maturi per giungere ad un’applicazione, diretta od analogica, della
nullità negoziale prevista dall’art. 9 L. 192/1998 anche oltre i confini della
subfornitura.
3. I rapporti fra la disciplina introdotta in tema di transazioni
commerciali e la regolamentazione della subfornitura.
Le osservazioni che precedono evidenziano l’attualità e la rilevanza pratica
dell’interrogativo circa gli ambiti di concorrente od alternativa applicazione della
disciplina in tema di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali e
subfornitura47.
Come si è visto inizialmente, il Legislatore ha preferito limitarsi ad
uniformare il tasso di interesse moratorio già previsto in materia di subfornitura,
precedentemente ancorato al T.U.S. maggiorato di cinque punti percentuali, al
saggio commerciale introdotto dall’art. 5 del D. Lgs.vo 231/2002. Restano, invece,
non irrilevanti divergenze su taluni aspetti sostanziali e di tutela processuale, come
dianzi accennato.
Come coordinare le due discipline protettive?
E’ a dirsi, in primo luogo, che la nozione di transazione commerciale accolta
dalla normativa di attuazione della Direttiva 2000/35/CE, ricomprendente tutti i
“contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche
amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di
merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo”, appare tale da
abbracciare nel proprio alveo definitorio pure il contratto (rectius i contratti) di
subfornitura.
A sua volta, l’art. 1 comma 1 del citato D. Lgs.vo 231/2002 precisa che lo
stesso si applica ad “ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una
transazione commerciale”.
47
In argomento, BERTI – GRAZZINI, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, cit., p. 93 e ss.;
ZACCARIA, Il coordinamento fra la recente disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali e la
precedente disciplina in materia, in Studium iuris, 2004, 3, p. 305 e ss.
47
Risulta abbastanza evidente, allora, che il concetto di transazione
commerciale rappresenta, nella sostanza, un genus nel cui alveo, quale species,
possono collocarsi i rapporti di subfornitura, pure essi caratterizzati da una
prestazione di facere o comunque di consegna di merci o prodotti verso un
prezzo48.
Il rapporto di specialità del contratto di subfornitura (terminologia che si
adotta per semplicità e senza voler per ciò stesso aderire alla tesi che la L. 192/98
abbia creato un nuovo tipo negoziale) rispetto alla nozione di transazione
commerciale di cui al decreto in tema di ritardi di pagamento è, peraltro,
caratterizzato dalla presenza di una relazione di “minorità tecnologica” o di
dipendenza “tecnico-progettuale” fra committente e subfornitore49.
Ciò significa che, poiché in prima battuta i rapporti fra D.Lgs.vo 231/2002 e
L. 192/1998 appaiono quelli che assegnano al secondo l’aspetto di “insieme” più
circoscritto ma interamente ricompreso nel campo di applicazione della disciplina
dei pagamenti di “transazioni commerciali” (posto che il rapporto di subfornitura
appare pienamente integrare i presupposti soggettivi ed oggettivi di applicazione
della recente novella, differenziandosene unicamente per la presenza di alcuni
elementi specializzanti, quali il “rapporto di minorità tecnologica” esistente fra
committente e subfornitore, come ricordato), resta evidente che soltanto ove il
rapporto appaia riconducibile alla subfornitura in senso stretto il creditore, ad
esempio, fruirà della più incisiva tutela giurisdizionale connessa alla possibilità di
ottenere provvedimento ingiuntivo immediatamente esecutivo, ex art. 3 comma 4
L. 192/98.
48
Ciò che appare scopertamente rivelato dal disposto dell’art. 7 comma 2 dello stesso D.Lgs.vo 231/2002, in cui la
grave iniquità è, fra l’altro, collegata alla situazione in cui “l’appaltatore o il subfornitore principale imponga ai
propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini di pagamento
ad esso concessi”.
49
Secondo TRIB. UDINE, 27/04/2001, in Foro It., 2001, I, 2677, “Nel rapporto contrattuale avente ad oggetto la
fornitura di alcune migliaia di metri lineari di "mobiletti sotto finestra", da realizzare sulla base dei disegni
esecutivi predisposti dal committente e da inserire nella catena produttiva di quest'ultimo, va ravvisata una
posizione di "dipendenza tecnologica"; tale rapporto, pertanto, è riconducibile all'ambito di applicazione della
disciplina sulla subfornitura”; in precedenza TRIB. TORINO, 19/11/1999, in Foro It., 2000, I, 624, con note di
PALMIERI e GRANIERI: “Posto che per aversi subfornitura industriale ai sensi della nuova disciplina deve
ricorrere una situazione di dipendenza progettual - tecnologica del subfornitore nei confronti del committente, va
sospesa la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo emesso nel presupposto che il credito sorga da un rapporto
rientrante tra quelli regolati dalla nuova disciplina (nella specie, il subfornitore aveva realizzato, senza direttive
specifiche del committente, un "instradatore di chiamata"); nello stesso senso anche TRIB. TARANTO,
28/09/1999, ibidem.
48
Ma il problema del concorso di discipline non può unicamente risolversi in
base al principio di specialità, posto che l’art. 11 comma 2 del D.Lgs.vo 231/2002
ha cura di precisare che “sono fatte salve le vigenti disposizioni del codice civile e
delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore”,
con ciò segnalando normativamente come l’obiettivo dell’intervento legislativo in
tema di lotta ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali sia quello di
fornire una tutela “minimale” all’imprenditore - in senso lato - avente diritto alla
prestazione pecuniaria, per alcuni versi più incisiva rispetto alle disposizioni
previgenti e per altri unicamente supplettiva rispetto agli accordi negoziali delle
parti.
Deve in definitiva ritenersi che, ferma l’invocabilità delle disposizioni e delle
tutele di cui alla L. 192/98 per i soli rapporti contrattuali che, in senso stretto,
possano definirsi di “subfornitura”, in ossequio al principio di specialità,
l’interprete dovrà ulteriormente interrogarsi se, nel caso concreto, ove siano
astrattamente invocabili anche le disposizioni del D.Lgs.vo 231/2002, queste
ultime non comportino in realtà un innalzamento del livello di tutela per il
creditore e, in tal caso, disapplicare la corrispondente disposizione “speciale” della
L. 192/98 per far luogo alla disciplina “più generale” contenuta nel citato decreto
di attuazione della Direttiva 35/2000/CE.
Il problema del confronto non solo statico, bensì dinamico-valutativo, onde
pervenire all’applicazione della normativa in concreto più favorevole al creditore,
pare costituire il portato del citato art. 11 comma 2, anche al di fuori dei rapporti di
subfornitura in senso stretto, ma semplicemente rientranti nella definizione di
“transazione commerciale”, secondo un’ottica che, del resto, sembra propria dei
maggiori interventi normativi di protezione del “consumatore” di origine
comunitaria (si pensi all’art. 1519 bis c.c. quale introdotto in sede di attuazione
della Direttiva 1999/44/CE in tema di vendita di beni di consumo, oppure dall’art.
15 del D.P.R. 225/88 di attuazione della Direttiva 1984/450/CE sulla responsabilità
del produttore).
La vera novità è allora costituita dalla particolare categoria dei soggetti
tutelati, non più persone fisiche consumatori che agiscono al di fuori dello
svolgimento di un’attività imprenditoriale o professionale, bensì imprenditori e
professionisti che operano attraverso reciproche relazioni commerciali ovvero nei
confronti della pubblica amministrazione contraente.
49
NORME DI RIFERIMENTO: D.Lgs.vo 9 ottobre 2002, n. 231
Art. 4.
Decorrenza degli interessi moratori
1. Gli interessi decorrono, automaticamente, dal giorno successivo alla scadenza del
termine per il pagamento.
2. Salvo il disposto dei commi 3 e 4, se il termine per il pagamento non e' stabilito nel
contratto, gli interessi decorrono, automaticamente, senza che sia necessaria la costituzione in
mora, alla scadenza del seguente termine legale:
a) trenta giorni dalla data di ricevimento della fattura da parte del debitore o di una
richiesta di pagamento di contenuto equivalente;
b) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei
servizi, quando non e' certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di
pagamento;
c) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi,
quando la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento e'
anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi;
d) trenta giorni dalla data dell'accettazione o della verifica eventualmente previste dalla
legge o dal contratto ai fini dell'accertamento della conformita' della merce o dei servizi alle
previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di
pagamento in epoca non successiva a tale data.
3. Per i contratti aventi ad oggetto la cessione di prodotti alimentari deteriorabili, il
pagamento del corrispettivo deve essere effettuato entro il termine legale di sessanta giorni dalla
consegna o dal ritiro dei prodotti medesimi e gli interessi decorrono automaticamente dal giorno
successivo alla scadenza del termine. In questi casi il saggio degli interessi di cui all'articolo 5,
comma 1, e' maggiorato di ulteriori due punti percentuali ed e' inderogabile.
4. Le parti, nella propria liberta' contrattuale, possono stabilire un termine superiore
rispetto a quello legale di cui al comma 3 a condizione che le diverse pattuizioni siano stabilite
per iscritto e rispettino i limiti concordati nell'ambito di accordi sottoscritti, presso il Ministero
50
delle attivita' produttive, dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale
della produzione, della trasformazione e della distribuzione per categorie di prodotti deteriorabili
specifici.
Art. 5.
Saggio degli interessi
1. Salvo diverso accordo tra le parti, il saggio degli interessi, ai fini del presente decreto,
e' determinato in misura pari al saggio d'interesse del principale strumento di rifinanziamento
della Banca centrale europea applicato alla sua piu' recente operazione di rifinanziamento
principale effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione, maggiorato di sette
punti percentuali. Il saggio di riferimento in vigore il primo giorno lavorativo della Banca
centrale europea del semestre in questione si applica per i successivi sei mesi.
2. Il Ministero dell'economia e delle finanze da' notizia del saggio di cui al comma 1, al
netto della maggiorazione ivi prevista, curandone la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre solare.
Art. 6.
Risarcimento dei costi di recupero
1. Il creditore ha diritto al risarcimento dei costi sostenuti per il recupero delle somme
non tempestivamente corrispostegli, salva la prova del maggior danno, ove il debitore non
dimostri che il ritardo non sia a lui imputabile.
2. I costi, comunque rispondenti a principi di trasparenza e di proporzionalita', possono
essere determinati anche in base ad elementi presuntivi e tenuto conto delle tariffe forensi in
materia stragiudiziale.
Art. 7.
Nullita'
51
1. L'accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardato pagamento, e'
nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi
oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi,
nonche' ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo in danno del creditore.
2. Si considera, in particolare, gravemente iniquo l'accordo che, senza essere giustificato
da ragioni oggettive, abbia come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidita'
aggiuntiva a spese del creditore, ovvero l'accordo con il quale l'appaltatore o il subfornitore
principale imponga ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente
piu' lunghi rispetto ai termini di pagamento ad esso concessi.
3. Il giudice, anche d'ufficio, dichiara la nullita' dell'accordo e, avuto riguardo
all'interesse del creditore, alla corretta prassi commerciale ed alle altre circostanze di cui al
comma 1, applica i termini legali ovvero riconduce ad equita' il contenuto dell'accordo
medesimo.
Art. 10.
Modifiche alla legge 18 giugno 1998, n. 192
1. All'articolo 3, della legge 18 giugno 1998, n. 192, il comma 3 e' cosi' sostituito: "In
caso di mancato rispetto del termine di pagamento il committente deve al subfornitore, senza
bisogno di costituzione in mora, un interesse determinato in misura pari al saggio d'interesse del
principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua piu'
recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno di calendario del
semestre in questione, maggiorato di sette punti percentuali, salva la pattuizione tra le parti di
interessi moratori in misura superiore e salva la prova del danno ulteriore. Il saggio di
riferimento in vigore il primo giorno lavorativo della Banca centrale europea del semestre in
questione si applica per i successivi sei mesi. Ove il ritardo nel pagamento ecceda di trenta giorni
il termine convenuto, il committente incorre, inoltre, in una penale pari al 5 per cento
dell'importo in relazione al quale non ha rispettato i termini.".
52
PARTE III
IL RITARDO NEL PAGAMENTO DELLE OBBLIGAZIONI
PECUNIARIE
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, 16 luglio
2008, n. 19499 (pres. Carbone, rel. Amatucci)
Svolgimento del processo
1. Varie società editrici si opposero, con atti distinti, a diversi decreti ingiuntivi emessi nei loro
confronti dal pretore di Roma su istanza dell'Inpgi-Istituto Nazionale di Previdenza dei
Giornalisti Italiani "Giovanni Amendola" per il pagamento di somme dovute per omesso
versamento di contributi assicurativi e relative sanzioni civili relativamente a periodi compresi
tra il 1980 ed il 1986. Dedussero che, a seguito della fiscalizzazione di cui all'art. 1 della legge n.
782/1980, le somme non erano dovute e, in subordine, che l’Inps - Istituto Nazionale per la
Previdenza Sociale, che chiamarono in giudizio unitamente al ministero del tesoro, era tenuto a
restituire quanto percepito in eccesso.Con sentenza 15496 del 1996 il pretore respinse le
opposizioni e condannò l'Inps a tenere indenni le società opponenti di quanto avrebbero dovuto
pagare all'Inpgi in base ai decreti ingiuntivi.Decidendo con sentenza n. 14271 del 2003 sugli
appelli proposti ed in parziale accoglimento dell'appello incidentale condizionato proposto dalla
R.C.S. Editori s.p.a. (anche quale incorporante di R.C.S. Editoriale Quotidiani s.p.a.), la sezione
lavoro del tribunale di Roma ha, per quanto in questa sede interessa, condannato l'Inps alla
restituzione dei contributi indebitamenti versati dalla predetta società per l'ammontare di €
110.982,29, "oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT dei prezzi
al consumo, dalla data di notificazione all'Inps dei ricorsi in opposizione ai decreti di ingiunzione
fino al soddisfo".Ha ritenuto il tribunale che, secondo quanto affermato da Cass. n. 6420/2001, ai
fini del risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224, comma 2, cod.
civ., la semplice qualità di imprenditore del creditore rileva come elemento presuntivo idoneo a
far ritenere che la somma, se restituita tempestivamente, sarebbe stata reinvestita nell'attività
produttiva, con conseguente neutralizzazione degli effetti della svalutazione monetaria.2.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'Inps, affidandosi ad un unico motivo,
col quale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1224 e 2697 cod. civ. e vizio di
motivazione per essere stato il maggior danno da svalutazione monetaria riconosciuto in
contrasto col principio enunciato da Cass. nn. 9910/03 e 14970/02; principio secondo il quale, a
tale fine, il creditore non può limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore, essendo
invece tenuto, in base al generale principio dell'onere della prova, a fornire indicazioni in ordine
53
al danno subito per effetto dell'indisponibilità del denaro determinata dall'inadempimento (quale,
ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), giacché
altrimenti si darebbe luogo ad un meccanismo di automatica rivalutazione dei crediti, analogo a
quello previsto per i lavoratori subordinati dall'art. 429 cod. proc. civ..Ha resistito con
controricorso la RCS Quotidiani s.p.a. (nuova denominazione della RCS Editori s.p.a.), che ha
depositato anche memoria illustrativa.3. L'esame del ricorso è stato rimesso dal primo presidente
a queste sezioni unite a seguito di ordinanza interlocutoria della sezione lavoro n. 2990 del
19.12.2006, depositata il 12.2.2007, per il ravvisato contrasto di giurisprudenza in ordine alla
sufficienza della qualità di imprenditore del creditore ai fini della presumibilità di impieghi
antinflattivi della somma non tempestivamente versata dal debitore.Con la predetta ordinanza la
sezione lavoro, premesso che il caso di specie concerne sicuramente un credito pecuniario
ordinario, rileva che si sono formati diversi orientamenti giurisprudenziali, sostanzialmente
riducibili a due, sull'applicazione dei principi enunciati dalla innovativa sentenza delle sezioni
unite n. 3776/1979 in ordine alla prova che, nelle obbligazioni pecuniarie, il creditore
appartenente alla categoria degli imprenditori deve offrire perché possa essergli riconosciuto il
maggior danno da svalutazione monetaria, rispetto a quello già coperto dagli interessi legali:secondo un primo orientamento, è sufficiente dedurre la qualità di imprenditore per ritenere
provato, per effetto di presunzione collegata alla qualità professionale, il maggior danno in
questione (vengono citate: Cass., s.u. n. 2318/83, sez. I n. 1403/98, sez. I n. 5732/99, sez. II n.
409/00, sez. II n. 1770/01, sez. lav. n. 6420/01, sez. lav. n. 10304/02, sez. lav. n. 2113/03, sez. III
n. 58/04, sez. III n. 13829/04, sez. III n. 14767/04, sez. III n. 20807/04, sez. I n. 4885/06, sez. II
n. 5860/06);- secondo un diverso orientamento, invece, il pur legittimo ricorso al notorio ed a
presunzioni non può prescindere dall'assolvimento, da parte del creditore, ancorché appartenente
ad una categoria soggettiva come quella degli imprenditori, di un onere quantomeno di
allegazione, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto delle sue qualità personali e
dell'attività in concreto esercitata, il particolare danno lamentato possa essersi verosimilmente
prodotto (vengono indicate come espressive di tale indirizzo: Cass., sez. un. n. 2564/84, sez. un.
n. 2368/86, sez. II n. 5678/99, sez. lav. n. 1036/02, sez. lav. n. 14970/02, sez. I n. 10860/03, sez.
lav. n. 12634/04, sez. I, n. 2613/06, sez. lav. n. 6153/06).Fondamento del secondo degli indirizzi
indicati - afferma ancora la sezione lavoro - è, in sintesi, che gli automatismi risarcitori, al di là
degli interessi di mora, sono previsti dal diritto positivo nella sussistenza non solo dell'elemento
soggettivo (qualità del creditore) ma anche oggettivo (qualità del credito): spunti di sostegno a
tale ricostruzione sarebbero rinvenibili nelle argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale con
la sentenza n. 459 del 2000 e nelle disposizioni del d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, recante
"attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella
transazioni commerciali".
Motivi della decisione
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1. È opportuno verificare preliminarmente se la decisione ed il testo normativo appena citati
offrano effettivamente sostegno alla seconda delle ricostruzioni prospettate.1.1. Con sentenza 2
novembre 2000, n. 450 la Corte costituzionale, chiamata a sindacare la regola della non
cumulabilità di rivalutazione ed interessi, già prevista per i crediti di lavoro dall'art. 429 cod.
proc. civ. secondo l'interpretazione ampiamente consolidata di tale disposizione, ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724,
limitatamente alle parole "e privati", nella parte in cui in buona sostanza riconosce(va) al
lavoratore solo la maggior somma tra l'ammontare degli interessi e quello della rivalutazione
monetaria; ciò sulla scorta del rilievo che ai crediti di lavoro, in considerazione della loro natura,
deve riconoscersi un'effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti, sicché
non è giustificabile che essa sia collocata "all'interno della disciplina generale di cui all'art. 1224
cod. civ. sulla responsabilità contrattuale da inadempimento" (così la motivazione, sub 7.1.).È
dunque ben vero che la Consulta ha avuto riguardo alla particolarità del credito (retribuzione) ed
alla sua funzione di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa,
ma ciò in ragione della ravvisata necessità di una tutela speciale, normativamente assicurata dal
cumulo di rivalutazione ed interessi (benché non possa dirsi costituzionalizzato - ha avvertito il
Giudice delle leggi - il meccanismo previsto dall'art. 429, comma 3, cod. civ.).Ha, infatti,
dichiaratamente ritenuto che il riconoscimento della maggior somma tra rivalutazione ed
interessi, secondo quanto appunto previsto dalla norma dichiarata incostituzionale, si risolvesse
nel collocare il trattamento dei crediti di lavoro all'interno della disciplina generale dell'art. 1224
c.c. Ha dunque offerto spunti per un'interpretazione di tale disposizione in senso se mai opposto
a quello prospettato dalla sezione lavoro, posto che per i crediti di valuta si pone non già un
problema di cumulo di rivalutazione ed interessi, ma solo di possibile riconoscibilità del maggior
danno da svalutazione indipendentemente da specifiche allegazioni probatorie: dunque, in
definitiva, sotto il profilo aritmetico, della maggior somma tra interessi legali e svalutazione
monetaria.
1.2. Il d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla
lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali"), richiamato senza ulteriori
specificazioni, agli artt. 1 e 2 prevede, con talune esclusioni, che le relative disposizioni si
applichino ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale
(contratti tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano, in via
esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un
prezzo); stabilisce che "il creditore ha diritto alla corresponsione di interessi moratori, ai sensi
degli artt. 4 e 5, salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato
determinato da causa a lui non imputabile" (art. 3); correla il saggio degli interessi a quello del
principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato in un certo giorno
e maggiorato di sette punti (art. 5); dispone che il creditore ha diritto al risarcimento dei costi di
55
recupero del credito, "salva la prova del maggior danno, ove il debitore non dimostri che il
ritardo non sia a lui imputabile" (art. 6).Non è dato rinvenire automatismi risarcitori, quanto
piuttosto la determinazione di un tasso degli interessi moratori collegato all'effettivo costo del
denaro, o a questo addirittura superiore; è anzi previsto che il debitore possa sottrarsi al
pagamento degli interessi se dimostra che il ritardo deriva da impossibilità non imputabile
(mentre tale possibilità è esclusa quanto agli interessi legali dovuti dal giorno della mora ex art.
1224, comma 1, cod. civ.) ed è espressamente contemplata la prova del maggior danno, purché il
debitore non dimostri la non imputabilità del ritardo.Si tratta in ogni caso di una disciplina
particolare che, se non altro per l'elevatezza del tasso, non sembra offrire spunti per l'adozione di
un'interpretazione dell'art. 1224, comma 2, cod. civ. sfavorevole al creditore imprenditore.
2. Conviene allora, in vista della soluzione del problema del quale queste sezioni unite sono
investite, ripercorrere la storia dell'evoluzione della giurisprudenza in ordine alla prova del danno
da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie.Con la fondamentale sentenza n.
3776/79 (pres. Novelli, est. Scanzano, seguita dalla conforme n. 5572/79) le sezioni unite
predicarono la liberalizzazione più ampia possibile nel rispetto dei principi tradizionali un anno
prima affermati da Cass., n. 4463/77; principi intanto disattesi da Cass., n. 5670/78, la quale
aveva sostanzialmente ritenuto - secondo i commenti fortemente critici della dottrina prevalente che, insorta la mora debendi, le obbligazioni di valuta dovessero essere trattate come quelle di
valore, sicché la somma originariamente dovuta "andava necessariamente rivalutata alla stregua
di indici pubblicizzati di sicura attendibilità".Fu dunque ribadito che nei debiti originariamente
pecuniari, per i quali vale il principio nominalistico, la svalutazione monetaria verificatasi
durante la mora non giustifica alcun risarcimento automatico che possa essere attuato con la
rivalutazione della somma dovuta. Ma si affermò anche che non ha bisogno di essere provato il
fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in
forme remunerative; che risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura
dei valori ma è strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene
adoperata a questo scopo; che il prudente apprezzamento del giudice in ordine alle presumibili
modalità di impiego può essere formato eventualmente anche con valutazioni equitative, ai sensi
dell'art. 1226 cod. civ.; che, infine, l'orientamento tradizionale andava rimeditato anche "perché
non dà adeguato rilievo a presunzioni di ordine oggettivo", che furono ricollegate
all'appartenenza del creditore ad una delle categorie creditorie di cui appresso.Le sezioni unite si
pronunciarono nuovamente negli anni successivi con le sentenze nn. 2318/83, 2564/84 e 2368/86
(pres. Tamburrino, est. Cantillo), l'ultima delle quali dette spazio ai cosiddetti "criteri
personalizzati di normalità", riaffermando che nelle obbligazioni pecuniarie il danno da
svalutazione non si identifica col fenomeno inflattivo e che incombe pertanto al creditore
dimostrare che il pagamento tempestivo lo avrebbe messo in condizione di evitare o limitare gli
effetti economici depauperatori che l'inflazione produce per tutti i possessori di denaro; ma
chiarendo anche che tanto il creditore può fare avvalendosi di presunzioni e dati economici
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acquisiti dalla comune esperienza e riferiti a categorie economiche socialmente significative
("imprenditore", risparmiatore abituale", "creditore occasionale", "modesto consumatore" "o
altre enucleabili in relazione a più particolari modalità di impiego del denaro").Con specifico
riguardo alla categoria del creditore esercente attività imprenditoriale si affermò che possono
essere fatte valere presunzioni di due tipi: a) quelle connesse con il normale impiego del denaro
nel ciclo produttivo, per cui l'esistenza e l'ammontare approssimativo del danno possono essere
desunti dal risultato medio dell'attività in un certo periodo, come suggerito dalle sentenze del
1979; b) quelle connesse al costo del denaro, precisamente allo scarto fra interesse legale e tasso
di mercato dell'interesse praticato dalle banche alla migliore clientela per il credito a breve
termine (prime rate), con la precisazione che tale criterio ha carattere primario, perché attiene al
danno emergente, è altresì ancorato ad un parametro certo di facile rilevazione e, soprattutto, è
l'unico possibile per un'azienda che non produca utile, ma sia in pareggio o in perdita, non
essendovi allora un guadagno cui commisurare la presumibile entità della somma mancata (così
la motivazione, sub 9).Conclusero le Sezioni unite che, pertanto, l'altro criterio risulta applicabile
solo quando l'imprenditore espressamente deduca il mancato guadagno; ed affermarono "che
l'onere probatorio, pur non potendosi attestare alla qualità professionale, si atteggia diversamente
per ciascuno dei due criteri ritenuti più appropriati per questa figura: in relazione al criterio del
maggior costo del denaro, il creditore deve dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere,
secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito; in relazione al criterio
del mancato guadagno, invece, è tenuto a fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività
del denaro investito nell'impresa, sicché la prova - basata in gran parte su vicende proprie della
singola impresa - spesso presenta maggiore complessità" (sub. 13, lettera b, della motivazione).
Non affermarono, dunque, che l'imprenditore era tenuto a provare di aver fatto ricorso al
finanziamento delle banche durante la mora, ma si riferirono genericamente alla dimostrazione di
"condizioni atte a presumere".Criteri specifici furono fissati anche per il "risparmiatore abituale",
per il "creditore occasionale" e per il "modesto consumatore":- si disse che al primo faceva
carico l'onere di allegare e dimostrare la qualità degli investimenti abitualmente effettuati, sicché
la presunzione operava in riferimento all'uguale destinazione che egli avrebbe dato alla somma
non pagata ed all'ammontare del relativo reddito (interessi di titoli di Stato, rendimento di azioni,
etc.);- si ritenne che, per il secondo, era consentito presumere l'impiego mediante deposito presso
istituti di credito, con conseguente commisurazione del danno alla remunerazione media dei
depositi nel periodo di mora;- si affermò per il terzo che, essendo presumibile che egli avrebbe
destinato la somma alla immediata soddisfazione dei propri bisogni familiari e personali, così
realizzando la moneta al suo valore attuale e conseguentemente sottraendosi agli effetti
depauperativi della svalutazione, era del tutto appropriato il riferimento agli indici Istat per la
determinazione forfettaria del (maggior) danno.Ancora al criterio personalizzato di normalità le
sezioni unite si riferirono con sentenza n. 5299/89, con la quale fu ribadita la possibilità di una
presunzione generalizzata di spesa immediata da parte del semplice consumatore e della
57
determinabilità del danno da ritardato pagamento in riferimento agli indici Istat delle variazioni
dei prezzi al consumo, "così semplificandosi al massimo l'assolvimento dell'onere della prova ...
ed ancorando, al tempo stesso, la liquidazione del danno a parametri oggettivi e di agevole
liquidazione".Può dunque dirsi che, nella seconda metà degli anni ’80, il regime probatorio
relativo al maggior danno da svalutazione monetaria per il ritardato pagamento dei debiti
pecuniari (ex art. 1224, comma 2, cod. civ.) risultò governato dalle seguenti regole:a) il creditore
imprenditore era gravato da un particolare onere probatorio solo in caso di richiesta di un
maggior danno corrispondente ai risultati utili della sua impresa (lucro cessante), mentre poteva
avvalersi di una presunzione di tipo, quasi oggettivo, fondata su criteri personalizzati di
normalità, in ordine al maggior danno ancorato allo scarto tra il tasso degli interessi legali ed il
prime rate (danno emergente), essendo comunque tenuto a dimostrare di trovarsi in condizioni
atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito;b) il
semplice consumatore poteva pretendere un maggior danno corrispondente alle differenze tra
indici Istat e tasso legale di interesse, nel periodo della mora, indipendentemente da ogni
specifica prova di impiego;c) per il creditore occasionale si aveva senz'altro riguardo al tasso
medio sui depositi bancari;d) il risparmiatore abituale era invece tenuto a provare come
normalmente investiva il denaro ed a quale tasso.Senonché - osservò criticamente la dottrina soltanto l'imprenditore ed il consumatore (e quest'ultimo solo in ragione del censo o della
modesta entità della somma dovutagli) erano, se pur non senza gravi difficoltà, astrattamente
suscettibili di essere inseriti in una categoria determinata, mentre apparivano difficilmente
etichettabili i creditori occasionali ed i risparmiatori abituali. Soprattutto perché il creditore
sovente non è in grado egli stesso di stabilire, ex post, cosa avrebbe davvero fatto del denaro che
gli era dovuto ma che non aveva tempestivamente avuto, in quanto il problema dell'impiego si
sarebbe posto, in relazione alle contingenze ed alle propensioni del momento, solo se e quando lo
avesse davvero ricevuto; sicché si dava in tal modo la stura ad una serie di complicazioni
processuali destinate ad offrire risultati di scarsissima attendibilità, data l'ovvia propensione del
creditore ad evitare un inquadramento sfavorevole o nel quale la prova si presentasse complessa
e, per converso, quello del debitore a prospettare l'inserimento del creditore in una categoria nella
quale il maggior danno fosse più difficile da provare o di entità meno gravosa per il
convenuto.Negli anni successivi la prevalente giurisprudenza si attestò comunque sulla posizione
secondo la quale, in caso di ritardato pagamento di un debito pecuniario ad un imprenditore
commerciale, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione
monetaria non si rende necessario che egli fornisca la prova concreta di un danno causalmente
ricollegabile all'indisponibilità dell'importo, ben potendosi dedurre in tale situazione, in base
all'id quod plerumque accidit, che in caso di tempestivo adempimento la somma dovuta sarebbe
stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti della svalutazione (cfr., ex plurimis,
Cass., nn. 600/86, 742/86, 809/86, 6483/87, 4666/90, 1403/98 e 5732/99 della I sezione civile;
nn. 35/85, 1492/87, 2161/87, 12343/97 e 4184/98 della II sezione, n. 6231/86 della III sezione,
58
nn. 1244/88, 3014/89 e 12381/91 della Sezione lavoro).Una giurisprudenza minoritaria ritenne,
per contro, che il pur legittimo ricorso al notorio ed alle presunzioni da parte del giudice non può
prescindere dall'assolvimento da parte del creditore, quantunque imprenditore commerciale, di
un onere quantomeno di allegazione che consenta al giudice di merito di verificare se il
particolare danno allegato (anche da svalutazione) possa essersi verosimilmente prodotto (così
Cass., nn 1212/86, 2368/86, 2690/87, 4344/93, 5517/97, 5678/99).Più numerose le sentenze che
hanno affrontato il tema negli anni 2000, ancora una volta prevalentemente risolto nel senso che
è sufficiente che non sia controversa la qualità di imprenditore del creditore perché possa essere
riconosciuto il richiesto maggior danno da svalutazione monetaria (tra le altre, Cass., nn.
15059/00, 2816/06, 4885/06 e 19927/07 della I sezione; nn. 409/00, 1770/01, 13133/03 e
5860/06 della II sezione; nn. 317/02, 14909/02, 58/04, 20807/04, 13829/04, 5008/05 e 22986/05
della III sezione; nn. 14089/00, 6420/01, 10304/02 e 2113/03 della sezione lavoro; hanno per
contro ritenuto che occorrano allegazioni specifiche, pur nell'ambito della categoria di
appartenenza, tra le altre, Cass., sez. I, n. 4919/03; sez. II, n. 6327/00; nonché le sentenze della
sezione lavoro nn. 14970/02, 9910/03, 12634/04, 2613/06, 6153/06; oltre a Cass. Sez. un., n.
16871/07, della quale si dirà specificamente più avanti).Emblematiche dei due contrapposti
indirizzi, per le argomentazioni addotte, sono le sentenze n. 14089/2000 da un lato, e 14970/02 e
12634/04
dall'altro,
tutte
della
Sezione
lavoro.
2.1. La prima, pronunciata in fattispecie pressoché identica a quella ora in scrutinio, s'è fatta
puntuale carico dell'argomento secondo il quale il ricorso a categorie tipiche finirebbe anch'esso
col determinare un automatismo di rivalutazione del credito contrario al principio nominalistico e
farebbe venir meno la distinzione tra obbligazioni di valuta ed obbligazioni di valore.Ha tuttavia
rilevato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza
delle variazioni del potere di acquisto della moneta; che, infatti, mentre nei debiti di valore la
considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa
della prestazione, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni e
pone problemi di esclusiva natura probatoria; che ritenere notoria l'entità del fenomeno inflattivo
e probabilisticamente rilevante la destinazione del danaro allo scambio non significa affatto
derogare al principio nominalistico, ma solo adottare un criterio di valutazione che tiene conto
degli interessi delle parti ed è conforme alla comune esperienza ed al comune sentire.Ha dunque
ricordato che, in base a tali principi, alcune decisioni di questa Corte avevano conseguentemente
affermato che il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria è per qualsiasi creditore,
per la parte che non sia già coperta dagli interessi legali, non inferiore alla misura dell'inflazione
della moneta, che ne costituisce l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso,
maggiore valore per il singolo creditore in relazione al comprovato uso che della somma oggetto
dell'obbligazione intendeva fare. Pertanto, salvo questa prova diversa, il danno da svalutazione
può essere determinato sulla base degli indici ufficiali dell'inflazione in relazione al costo della
vita (sono citate Cass. nn. 123/83, 651/84, 3356/85). Ed ha concluso che, in effetti, "non è dubbio
59
che la mancata disponibilità del danaro da parte del creditore costituisce obiettivamente un danno
e non ha bisogno di alcuna prova di carattere soggettivo, salva la possibilità da parte del debitore
di provare il concorso del fatto colposo del creditore, ai sensi dell'art. 1227 del codice civile. Di
conseguenza, il creditore che intenda ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale deve solo
allegare gli indici ufficiali dell'Istat. Il creditore, invece, che ritenga che la mancata disponibilità
del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli interessi legali e alla
svalutazione ufficiale, dovrà provare il maggiore danno: dovrà provare, ad esempio, di aver
dovuto rinunciare a investimenti particolarmente vantaggiosi o di essere dovuto ricorrere a
prestiti particolarmente onerosi".2.2. Opposte le conclusioni di Cass. 14970/02, pronunciata
anch'essa in fattispecie di domanda di restituzione di contributi indebitamente versati all'Inps.
Con tale sentenza la stessa Sezione lavoro, dichiaratasi a sua volta pienamente consapevole
dell'orientamento appena illustrato, ha tuttavia ritenuto (richiamando Cass., nn. 11870/92,
5517/97, 5678/99, 9965/01):a) che collegare alla sola qualità di imprenditore la presunzione di
un impiego antinflattivo del denaro e, dunque, di un maggior danno da svalutazione monetaria
durante la mora, finirebbe per stravolgere il criterio fondamentale dell'onere della prova di cui
all'art. 2697 cod. civ., risolvendosi in un'ingiustificata soluzione di favore per il creditore il quale,
per beneficiare del risarcimento, dovrebbe solo provare di appartenere ad una determinata
categoria economica;b) che una tale conseguenza avrebbe ben poca giustificazione anche sotto il
profilo sistematico, comportando l'introduzione di un meccanismo di automatica rivalutazione
analogo a quello di cui all'art. 429 cod. proc. civ. senza alcun fondamento normativo e, anzi, nel
contesto di un'opposta tendenza legislativa, in cui il divieto di cumulo rappresenta la regola ed in
cui una sostanziale valorizzazione dei crediti pecuniari, anche contrattuali, in relazione a
particolari caratteristiche del creditore, necessiterebbe ancor più di un'esplicita previsione
normativa.Le conclusioni della citata sentenza 14970/02 sono state condivise dalla successiva
12634/04 che, ancora una volta relativa al danno da ritardo nella restituzione di somme
indebitamente versate all'Inps, contrapponendosi a Cass. 14089/00, ha ribadito che il maggior
danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie non può essere riconosciuto
indipendentemente dall'osservanza di uno specifico onere di allegazione e prova da parte del
creditore (quantunque imprenditore) per due sostanziali ordini di ragioni:c) perché si deve
escludere che la svalutazione costituisca danno di per sé, stante l'operatività del principio
nominalistico (art. 1277 c.c.) derogato specificamente dal legislatore soltanto per particolari
crediti pecuniari, come i crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429, comma terzo, c.p.c.;d) perché
osta alla identificazione del danno mora-torio nella diminuzione di valore della moneta il rilievo
che "il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura
totalmente astratto; tale danno, quindi, può derivare esclusivamente dall'impiego che il creditore
avrebbe fatto della somma se ne avesse conseguito la disponibilità tempestivamente (es.
autofinanziamento e reimpiego nella produzione, acquisto di valori mobiliari, interessi bancari,
ecc.), cosicché deve ritenersi indispensabile (non potendo il giudice determinare autonomamente
60
il tipo di impiego) che siano forniti elementi che consentano al giudice di ritenere, anche in via
presuntiva,
alcune
forme
di
impiego
più
verosimili
di
altre".
3. Allo stato, dunque, le principali tesi in materia sono tre:1) quella secondo la quale nei debiti di
valuta, quale che sia la categoria cui appartiene il creditore, il maggior danno da svalutazione
monetaria rispetto a quello che non sia già assorbito dagli interessi legali moratori, va
riconosciuto in via generalizzata e presunta, fermo l'onere del creditore che assuma di aver subito
un danno ancora maggiore di provare che avrebbe fatto un uso del denaro tale da garantirgli un
rendimento superiore al tasso di inflazione (lucro cessante), ovvero che a causa
dell'inadempimento ha dovuto procurarsi denaro a tassi più onerosi (danno emergente); e salva la
facoltà del debitore di offrire comunque la prova contraria;2) quella secondo la quale il maggior
danno da svalutazione va correlato alla sola categoria creditoria cui il creditore appartiene in
relazione alla più probabile forma di impiego del denaro;3) quella secondo la quale
l'appartenenza ad una categoria creditoria non è comunque sufficiente a giustificare il
riconoscimento del maggior danno correlabile alle forme di impiego tipiche della categoria nella
quale il creditore è iscrivibile (soprattutto se imprenditore), essendo egli comunque gravato da
uno specifico onere quantomeno di allegazione in ordine al verosimile impiego che avrebbe fatto
della somma dovutagli, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto di dette qualità
personali e professionali, il danno denunziato possa essersi effettivamente prodotto (in difetto di
quella allegazione, alcune sentenze affermano che non possono riconoscersi che gli interessi
legali, come la citata n. 12634/04; altre, che tale tipo di conseguenza va tratto solo per il danno
eccedente il tasso di svalutazione, come Cass., sez. lavoro, n. 6153/06).Va osservato che nessuna
delle tre è in tutto conforme ai principi enunciati da queste Sezioni unite nel 1986, il cui
trasparente scopo fu quello di semplificare, mediante il ricorso a presunzioni di tipo
generalizzato in relazione alla categoria di appartenenza del creditore, le modalità della prova del
maggior danno da svalutazione. Si trattò di una soluzione intermedia tra quella che richiedeva la
rigorosa e quasi sempre impossibile prova dell'avvenuta predisposizione di un impiego
alternativo del denaro non tempestivamente pagato e quella di chi invece riteneva che, in caso di
mora, il maggior danno da svalutazione è in via generale presunto in misura pari al tasso di
inflazione in relazione alle caratteristiche proprie del denaro, destinato per sua natura ad essere
speso o investito in impieghi tali da mettere chi lo possegga al riparo, quantomeno, dalla
svalutazione.La terza tesi, che formalmente ne segue gli enunciati letterali, finisce infatti col non
assecondarne lo spirito, segnatamente nella sua più rigorosa versione; la seconda è a questo
conforme, ma ne disattende le prescrizioni testuali in relazione al creditore imprenditore; la
prima è quella che maggiormente se ne discosta, ma è anche quella che, a parere del collegio,
tiene in maggior conto i non appaganti risultati applicativi della soluzione dell'inquadramento dei
creditori in categorie, cui collegare in via presuntiva il tipo di impiego che del denaro avrebbero
fatto se fosse stato loro tempestivamente dato e, dunque, l'entità del maggior danno durante la
mora del debitore.A parte, invero, la categoria dell'imprenditore (per la quale pure, come s'è
61
rilevato, non vengono adottate soluzioni univoche), l'inquadramento del creditore in una
qualsiasi delle altre, o in quelle ulteriori che le sezioni unite del 1986 pure prospettarono
potessero essere in seguito configurate e che non sono state invece mai elaborate, si è rivelata di
assai problematica praticabilità, non sussistendo parametri di riferimento sufficientemente
univoci per definire i caratteri propri di ogni categoria.E la stessa categoria degli imprenditori per la quale, invece, i parametri per una qualificazione palesemente sussistono - non vale, a ben
vedere, ad offrire criteri di maggiore attendibilità delle possibili inferenze induttive, posto che a
quello che pretendesse come maggior danno la differenza tra il tasso legale d'interesse ed il
prime rate (peraltro non più rilevato a partire dal 2004 e, secondo le sezioni unite del 1986,
ottenibile quasi sulla base della sola appartenenza alla relativa categoria) poterebbe obiettarsi che
già alla data di insorgenza della mora la redditività marginale media dei propri investimenti era
inferiore al tasso praticato dalle banche alla migliore clientela nei prestiti a breve termine;
ovvero, se superiore, che male il creditore aveva fatto a non ricorrere al credito bancario (con
conseguente applicazione dell'art. 1227, comma 2, cod. civ.), ovvero che non era comunque
prevedibile dal debitore che non lo facesse (con conseguente irrisarcibilità del danno
differenziale ex art. 1225 cod. civ.).I bisogni ed i desideri che il denaro vale a soddisfare sono
d'altronde troppi e troppo intimamente connessi anche al modo d'essere di ognuno, nonché agli
eventi di cui ciascuno è nella vita protagonista, spettatore o vittima, perché l'uno o l'altro
creditore sia suscettibile di essere tout court qualificato -come consumatore, o risparmiatore, o
creditore occasionale, essendo vero invece che ognuno è o può essere l'una o l'altra cosa, o l'altra
ancora, o tutte insieme in relazione a ciascuna frazione dell'importo ed a seconda delle
contingenze economiche generali e personali del momento, dell'entità del credito, dei propri
progetti e così via.Per altro verso, le prorompenti esigenze di semplificazione dell'istruzione
probatoria impongono, a distanza di circa un quarto di secolo, soluzioni più snelle, anche alla
luce dei dati costituiti dall'incessante aumento del contenzioso civile, dall'allungamento dei tempi
medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua ragionevole durata, proclamato
dall'art. 111, comma 2, Cost. (nel testo introdotto con legge costituzionale n. 2 del 1999). Si
verte, del resto, in situazioni che recano in se stesse il germe dell'inevitabile approssimazione
della statuizione giudiziale, come avvertivano le stesse Sezioni unite del 1986; nelle quali,
dunque, l'equazione "categoria creditoria = presunta, oggettivamente personalizzata modalità di
impiego del denaro" presenta incognite non inferiori, in prima battuta, a quelle proprie
dell'equazione "creditore = maggior danno da svalutazione corrispondente all'incremento dei
prezzi al consumo, ovvero alla redditività delle più comuni forme di impiego alternative alla
spesa".4. Non sussistono d'altro canto i paventati pericoli che i debiti di valuta ricevano in tal
modo una disciplina identica a quella propria dei debiti di valore, con sostanziale pretermissione
del principio nominalistico di cui all'art. 1277 cod. civ.; o che le conseguenze
dell'inadempimento finiscano per divenire, per qualsiasi credito di denaro, identiche a quelle
"speciali" che l'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. contempla per i crediti di lavoro; ovvero che
62
sia sostanzialmente disapplicato il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ..
4.1. Sul primo punto va infatti osservato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto
incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere d'acquisto della moneta. Solo che,
mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di
determinazione quantitativa della prestazione in quanto il denaro vale solo a misurare e ad
esprimere un valore necessariamente attuale, nei debiti di valuta essa può invece rilevare
esclusivamente sub specie damni. La circostanza che una somma di denaro, come quantità di
pezzi monetari dedotta in obbligazione, conservi integra la propria idoneità solutoria quale che
sia l'alterazione nel tempo del suo valore in termini di potere d'acquisto (non altro è il 'significato
e non altra la conseguenza del nominalismo monetario), non esclude che la diminuzione del suo
valore durante il periodo di mora debendi si risolva in un danno tutte le volte che il creditore agli
effetti della svalutazione si sarebbe sottratto, spendendo o investendo il denaro non
tempestivamente versatogli in impieghi con remuneratività superiore al tasso di inflazione.
Facendone, cioè, l'uso connaturale alla sua intima essenza, volta che se il denaro è l'unico bene
intrinsecamente insuscettibile di offrire qualunque utilitas diretta è anche il solo che consente,
mediante lo scambio, di procurare immediatamente quelle ricavabili da qualsiasi altro bene (è
questa la giustificazione economica del rendimento del denaro dato a mutuo), sicché è del tutto
contraria ai dati di comune esperienza l'ipotesi della mera conservazione improduttiva da parte
del creditore di un bene ontologicamente destinato allo scambio o all'investimento. Se ne mostrò
d'altronde consapevole lo stesso legislatore del 1942 all'atto della redazione del codice civile; al
punto n. 592 (in fine) della relazione al re del ministro guardasigilli si legge infatti testualmente:
"L'alterazione del valore della moneta dovuta può verificarsi durante la mora del debitore. Il caso
non è previsto espressamente, perché esso si risolve in un danno, che è risarcibile secondo gli
artt. 1218 e 1224, 2° comma".Neppure è possibile che si creino confusioni di sorta sul piano
processuale, posto che nei debiti di valore (tipica l'obbligazione di risarcimento del danno) la
rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto d'ufficio alla liquidazione in
valori monetari attuali; mentre nei debiti di valuta vanno chiesti sia gli interessi moratori sia il
maggior danno (anche da svalutazione, secondo l'impreciso ma corrente lessico giudiziario; e
tuttavia, più esattamente, da intervenuta impossibilità, per fatto del debitore, che il creditore si
sottraesse agli effetti della svalutazione) , risultando altrimenti inficiata da vizio di ultrapetizione
la sentenza che riconoscesse gli uni o l'altro.4.2. Quanto alla temuta possibilità che i crediti
pecuniari ordinari e quelli di lavoro finiscano con l'essere trattati allo stesso modo, s'è già
rilevato che per i crediti di cui all'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. interessi e svalutazione si
cumulano, mentre nei debiti di valuta il maggior danno (anche da svalutazione) è dovuto, ex art.
1224, comma 2, cod. civ., solo per la parte che non sia già coperta dagli interessi moratori.4.3.
Quanto alla pretesa disapplicazione dell'art. . 2697 cod. civ. che deriverebbe dal ritenere presunta
(ma, rectius, normale), una modalità di impiego del denaro tale da consentire al creditore di
sottrarsi agli effetti della svalutazione, è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel
63
rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico e
pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé
concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi fatto
ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle
posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo
talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato
non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà
dell'esperienza positiva.Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà dell'esperienza positiva che il
denaro sia speso in relazione alla sua primaria destinazione allo scambio, ovvero impiegato in
rassicuranti forme remunerative tali da garantire un rendimento superiore al tasso di inflazione,
qual è quello dei titoli di stato, costantemente eccedente l'incremento dei prezzi al consumo per
le famiglie di operai ed impiegati rilevati dall'Istat.4.4. Quanto, infine, all'argomento- (addotto da
Cass. Sez. lav. n. 12634/04) che "il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi
impieghi, è metro di misura totalmente astratto", deve rilevarsi che l'osservazione si attaglia ai
debiti di valore, nei quali il denaro viene appunto in considerazione come strumento di misura di
un valore (mensura), ma non è conferente in ordine ai debiti di valuta, nei quali il denaro è
dedotto in obbligazione come ammontare di pezzi monetari (mensuratum). Sicché, come la
variazione del valore di una cosa si misura comparando fra loro le diverse quantità di moneta
necessarie per scambiarla in tempi diversi con denaro, così la variazione del "valore" del denaro
si misura comparando tra loro le diverse quantità di pezzi monetari necessari, in tempi diversi,
per procurarsi la medesima cosa o le medesime cose. Cose e pezzi monetari dovuti e non dati, il
cui valore sia mutato durante la mora, possono o meno aver prodotto un danno da diminuzione di
valore a seconda dell'impiego che ne avrebbe fatto il creditore: "possono" (non "devono"),
giacché se la loro destinazione era la mera conservazione, il danno da diminuzione di valore
durante la mora sarà in ogni caso insussistente; ma se la destinazione era lo scambio o
l'investimento, il danno andrà commisurato alla diminuzione di valore, o al costo affrontato dal
creditore per procurarsi quel che gli era dovuto (cose o denaro), o ancora alle conseguenze
economiche
negative
subite
per
non
esserci
riuscito.
5. Tanto precisato in linea di principio, va qui detto che le vicende che connotarono gli anni '70 e
'80, durante i quali il tasso di svalutazione monetaria fu pressoché costantemente superiore a
quello degli interessi legali, talora in misura assai rilevante, con una differenza che toccò i 16.1
punti percentuali nel 1980, indussero il legislatore a modificare l'art. 1284, comma 1, cod. civ.,
dapprima elevando il tasso degli interessi legali dal 5 al 10% in ragione di anno (art. 1, 1.
26.11.1990, n. 353), e poi riportandolo al 5% ma stabilendo che esso può essere annualmente
modificato dal Ministro del tesoro "sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di
Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato
nell'anno" (art. 2, comma 185, 1. 23.12.1996, n. 662).Da allora, fatta eccezione per una
pressoché insignificante differenza nell'anno 2000 (e per quella preannunciata come verosimile
64
nell'anno 2008 in corso, per "il quale il tasso di inflazione pare collocarsi intorno al 3,6% su base
annua in relazione al momento di redazione della presente sentenza), il tasso di interesse è stato
costantemente superiore al tasso ufficiale di aumento dei prezzi al consumo, sicché la
svalutazione è risultata normalmente assorbita per intero dagli interessi legali, con conseguente
perdita di rilevanza del problema relativo al risarcimento del maggior danno da svalutazione
monetaria; problema che, in relazione alle periodiche determinazioni del Ministro del tesoro, non
dovrebbe essere ulteriormente configurabile, se non in casi assolutamente marginali ed in misure
scarsamente significative, correlabili all'intervallo di tempo tra l'ipotetico aumento dell'indice
medio dei prezzi al consumo ed il successivo adeguamento per l'anno successivo.Resta il fatto
che il tasso di rendimento lordo delle più comuni forme d'investimento è apprezzabilmente più
elevato del tasso degli interessi legali: dal 1991 al 2008 i valori relativi al rendimento medio
annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi ed i valori del tasso legale
d'interesse sono stati, infatti, di anno in anno, rispettivamente i seguenti: 13,779 e 10 (1991);
12,876 e 10 (1992); 13,555 e 10 (1993); 8,815 e 10 (1994); 11,949 e 10 (1995); 10,043 e 10
(1996); 6,757 e 5 (1997); 5,212 e 5 (1998); 3,556 e 2,5 (1999); 5,187 e 2,5 (2000); 4,928 e 3,5
(2001); 4,512 e 3 (2002); 3,672 e 3 (2003); 3,631 e 2,5 (2004); 3,244 e 2,5 (2005); 3,332 e 2,5
(2006); 4,167 e 2,5 (2007); 4,22 e 3,8 (fino a giugno del 2008). Fatta dunque eccezione per
l'anno 1994, nel quale il rendimento dei titoli di Stato fu inferiore al tasso legale, va allora
constatato che la più comune e prudente forma di investimento del denaro ha una redditività
superiore al tasso dell'interesse legale, con la conseguenza che, per il debitore di un'obbligazione
pecuniaria, in linea di massima continua a poter essere economicamente conveniente non
adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di
ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al
creditore quando adempirà la propria obbligazione.Il che è esattamente il contrario
dell'intenzione del legislatore (la cui considerazione è imposta dal criterio ermeneutico di cui
all'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale), certamente non determinatosi alle modifiche
normative di cui s'è detto sopra al fine di creare un incentivo economico all'inadempimento, ma a
tanto indotto dall'ovvia considerazione che l'ordinato svolgimento dei rapporti economici fra i
consociati costituisce un beneficio per la collettività per una serie di ragioni la cui intuitività
esime da una specifica enumerazione.L'effetto di disincentivazione dell'inadempimento (e, di
riflesso, la positiva ricaduta sulla diminuzione del contenzioso civile e sulla semplificazione del
processo) è appunto collegato ad una soluzione che renda il debitore consapevole del fatto che la
promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si risolverebbe, comunque, nel
riconoscimento a suo favore di un maggior importo corrispondente quantomeno all'utile
economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione,
medio tempore, del denaro che doveva dare e che non ha dato. Ed è qui appena il caso di
ricordare come, senza eccezione alcuna, tutte le istituzioni del Paese da tempo annoverino la
inappagante funzionalità della giustizia civile (la quale dipende soprattutto dai lunghi tempi di
65
definizione, a sua volta correlati alla variabile niente affatto indipendente del numero delle cause
promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico inferiore a quello possibile, segnatamente
sotto il profilo dell'abbassamento della propensione agli investimenti.Tutto insomma concorre
all'adozione di un'interpretazione che si risolva nel riconoscere al creditore di somme di denaro
non corrisposte dal debitore in mora un maggior danno - ex art. 1224, comma 2, cod. civ. corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di
Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello
degli interessi legali (se inferiore).E tanto del tutto in linea con la ratio legis del novellato art.
1284, comma 1, cod. civ., il quale prevede un meccanismo che sconta l'inevitabile riferibilità al
futuro dell'eventuale intervento adeguatore del Ministro del tesoro ("con decreto da pubblicarsi
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica non oltre il 15 dicembre dell'anno precedente a quello
cui il saggio si riferisce", ex art. 1284, comma 1, cod. civ.), le cui conseguenze vanno tuttavia, in
linea di principio, sopportate non già dal creditore insoddisfatto, ma dal debitore che versi anche
in quella situazione di qualificato ritardo nell'adempimento qual è la mora (ex art. 1219 cod.
civ.): quanto si va osservando è infatti estraneo agli interessi corrispettivi di cui all'art. 1282 c.c.
ed a quelli compensativi di cui all'art. 1499 c.c., per i quali non è configurabile un danno da
ritardo fino alla data di insorgenza della mora debendi.Tale conclusione risulta, poi,
definitivamente corroborata dalla lettera dell'art. 1284, comma 1, cod. civ., nel testo novellato nel
1996, laddove espressamente vincola il Ministro del tesoro a determinare il saggio d'interesse
"sulla base" del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali e "tenuto conto" del
tasso d'inflazione registrato nell'anno: la differenza tra le due espressioni è invero significativa
del primario rilievo che il legislatore ha conferito al parametro di riferimento costituito dal
rendimento dei titoli di Stato ai fini dell'apprezzamento della normale redditività del denaro.Le
considerazioni fin qui svolte comportano il superamento della suddivisione dei creditori in
categorie, a ciascuna delle quali si attagli la presunzione di una personalizzata modalità di
impiego del denaro, restando invece l'ambito della possibile personalizzazione affidato, esso
solo, alla prova. Sarà così consentito al debitore di provare - pur con le difficoltà connesse alla
raffigurabilità di un ipotetico ed economicamente inefficiente comportamento altrui - che dal
proprio ritardo nell'adempimento il creditore non ha subito un danno, o che lo ha subito in misura
inferiore al saggio degli interessi legali, sicché nulla gli è dovuto, in aggiunta a quelli, per
maggior danno (perché, ad esempio, dedito al deposito del denaro in conto corrente, la cui
remuneratività è notoriamente assai bassa, ovvero perché i suoi investimenti nel periodo si sono
risolti in una perdita, etc.); così come sarà consentito al creditore di provare che il danno da
ritardo è stato invece maggiore del rendimento netto dei titoli di Stato (perché costretto a
ricorrere al credito bancario, o per mancati investimenti remunerativi, o per altre particolari
vicende). Ma ciò non in quanto il creditore appartenga ad una categoria; il che si risolverebbe tra
l'altro - quantomeno in epoche connotate, come quella attuale, da un aumento dei prezzi al
consumo normalmente inferiore al saggio degli interessi legali - nel paradossalmente deteriore
66
trattamento dei meno abbienti, quale il modesto o mero o semplice consumatore. Non dunque per
questo, ma perché il risarcimento va sempre tendenzialmente adeguato al danno effettivamente
subito, nei limiti in cui tale risultato sia perseguibile; limiti di cui il legislatore s'è fatto del resto
consapevole carico dettando la disposizione di cui all'art. 1226 cod. civ., ormai costantemente
interpretata nel senso che alla valutazione equitativa nella liquidazione del danno è possibile
ricorrere non solo quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, ma
anche quando quella prova si presenti, per l'una o per l'altra parte, particolarmente complessa o
costosa, anche in riferimento al livello degli interessi dedotti in giudizio, oppure quando sia
destinata ad offrire risultati di assai scarsa attendibilità.Anche il creditore imprenditore, al pari di
ogni altro creditore ed indipendentemente da qualsivoglia allegazione, avrà dunque titolo a
pretendere il maggior danno nei limiti sopra indicati, salva la prova contraria, da offrirsi dal
debitore, che esso è inferiore o inesistente. Ove invece lamenti un danno superiore a quei livelli e
ne domandi il risarcimento, dovrà offrirne la prova, come ogni altro creditore.A tal fine sarà in
linea di massima sufficiente la produzione di documentazione dalla quale si evinca che, durante
la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo
oggi attestantesi, a quanto consta, sull'Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre
forme di approvvigionamento di liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che,
in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia effettivamente presumibile
che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell'inadempimento, ovvero che
l'adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla parziale
estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe altrimenti il possibile
ricorso strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell'entità del danno nel successivo
giudizio di adempimento e risarcimento).Se invece sia domandato un risarcimento del danno
correlato all'utilità marginale netta dell'impresa durante la mora, perché il maggior danno possa
essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore imprenditore produca il bilancio
contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee scritture contabili; e
sempre che, in relazione all'importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico
dell'attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata
impiegata
nell'impresa
con
il
medesimo
risultato
utile.
6. È il caso di chiarire che le diverse enunciazioni effettuate da queste sezioni unite con la
menzionata sentenza n. 16871 del 2007 concernevano una fattispecie nella quale il creditore
aveva solo domandato la "rivalutazione monetaria e gli interessi", ma non aveva neppure
sostenuto di aver subito un maggior danno da svalutazione monetaria, sicché la domanda relativa
a tale danno era stata ritenuta inammissibile in relazione alla norma di riferimento, d'ufficio
individuata in quella di cui all'art. 1224, comma 2, cod. civ.. In tale occasione, inoltre, le sezioni
unite, anche perché investite del ricorso solo in ragione della prospettata questione di
giurisdizione, si sono limitate a fare applicazione dei principi già precedentemente enunciati con
la più volte citata sentenza n. 2368/86, ma non hanno affrontato il tema ex professo, com'è
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invece avvenuto in quest'occasione.E deve anche fugarsi l'eventuale preoccupazione che le
conclusioni raggiunte si risolvano in un trattamento dei crediti ordinari più favorevole di quello
"speciale" riservato ai crediti di lavoro dall'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. : il cumulo di
rivalutazione ed interessi da effettuarsi per tali crediti è, invero, costantemente superiore al tasso
del rendimento medio (anche lordo) dei titoli di Stato di durata non superiore all'anno.7. Possono
conclusivamente enunciarsi i seguenti principi di diritto:" - nelle obbligazioni pecuniarie, in
difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224,
comma 2, cod. civ. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali
che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque
creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a
tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a
decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei
titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato
per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 cod. civ.;- è fatta salva la possibilità del
debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura
inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della
somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata;- il creditore che domandi a titolo di
maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno
effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e
completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il
ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri
investimenti;- in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in
relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso,
che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza
dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o
parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe
stata impiegata utilmente nell'impresa ".8. In applicazione degli enunciati principi il ricorso va
respinto. Negli anni per i quali si era protratta la mora, infatti, il rendimento dei titoli di Stato è
stato complessivamente superiore al tasso della svalutazione monetaria che il giudice del merito
ha riconosciuto al creditore indipendentemente da una prova specifica in ordine all'impiego del
denaro.Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità, in
quanto il ricorso sarebbe stato suscettibile di essere accolto in base ad almeno uno degli
orientamenti di cui al contrasto ora difformemente composto.
PQM
La Corte di cassazione, a sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese.
68
TABELLA RELATIVA ALL’ANDAMENTO DEGLI INTERESSI
NELLE TRANSAZIONI COMMERCIALI
08.08.2002
01.01.2003
01.07.2003
01.01.2004
01.07.2004
01.01.2005
01.07.2005
01.01.2006
01.07.2006
01.01.2007
01.07.2007
01.01.2008
01.07.2008
01.01.2009
01.07.2009
-
31.12.2002 tasso del 10,35% - G.U.R.I. n. 33 del 10.02.2003
30.06.2003 tasso del 9.85 % - G.U.R.I. n. 33 del 10.02.2003
31.12.2003 tasso del 9,10 % - G.U.R.I. n. 160 del 12.07.2003
30.06.2004 tasso del 9,02 % - G.U.R.I. n. 11 del 15.01.2004
31.12.2004 tasso del 9,01 % - G.U.R.I. n. 159 dello 09.07.2004
30.06.2005 tasso del 9,09 % - G.U.R.I. n. 5 dello 08.01.2005
31.12.2005 tasso del 9.05 % - G.U.R.I. n. 175 del 29.07.2005
30.06.2006 tasso del 9,25 % - G.U.R.I. n. 10 del 13.01.2006
31.12.2006 tasso del 9,83 % - G.U.R.I. n. 158 del 10.07.2006
30.06.2007 tasso del 10,58% - G.U.R.I. n. 29 dello 05.02.2007
31.12.2007 tasso del 11,07% - G.U.R.I. n. 175 del 30.07.2007
30.06.2008 tasso del 11,20% - G.U.R.I. n. 35 dell’11.02.2008
31.12.2008 tasso del 11,10% - G.U.R.I. n. 169 del 21.07.2008
30.06.2009 tasso del 9,50% - G.U.R.I. n. 26 dello 02.02.2009
31.12.2009 tasso del 8,00% - G.U.R.I. n. 199 dello 28.08.2009
TABELLA RELATIVA ALL’ANDAMENTO DEL TASSO
DI INTERESSE LEGALE (ART. 1284 C.C.)
INTERESSI LEGALI
(art. 1284 codice civile e successive modificazioni)
dal
al
Interesse legale
21.04.1942
15.12.1990
5,0%
16.12.1990
31.12.1996
10,0%
Legge 26 novembre 1990, n. 353
01.01.1997
31.12.1998
5,0%
Legge 23 dicembre 1996, n. 662
01.01.1999
31.12.2000
2,5%
D.M. 10 dicembre 1998
01.01.2001
31.12.2001
3,5%
D.M. 11 dicembre 2000
01.01.2002
31.12.2003
3,0%
D.M. 11 dicembre 2001
01.01.2004
31.12.2007
2,5%
D.M. 1 dicembre 2003
3,0%
D.M. 12 dicembre 2007
01.01.2008
69
disposizione normativa
70