L`intervento di Paolo Arvati
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L`intervento di Paolo Arvati
La centralità di Genova nella lotta dei marittimi alla fine degli anni Cinquanta di Paolo Arvati Un passaggio di fase I dati sulle ore di sciopero fotografano un passaggio di fase nella storia del conflitto sociale e politico a Genova. Nel 1954 le ore effettuate in provincia sono 4.972.867 e nel 1955 salgono a 6.561.753. Il 1954 è l’anno della crisi definitiva della San Giorgio: la lotta dura tre mesi, in un’atmosfera “da 25 aprile”, con la partecipazione di tutta Sestri. La conclusione è pesante: la vecchia San Giorgio viene “spacchettata” in cinque pezzi e di fatto scompare, mentre 1.300 lavoratori sono subito licenziati. Il 1955 è l’anno che vede il porto al centro dello scontro sociale e politico più acuto. L’obiettivo delle controparti è rompere la gestione monopolistica della forza lavoro portuale da parte delle Compagnie, reintroducendo criteri di “libera scelta”. L’offensiva viene portata sull’anello ritenuto più debole, il ramo industriale del porto, con il tentativo di sottrarre alla Compagnia del settore l’avviamento al lavoro, affidando i lavori più lunghi a bordo delle navi non più ai portuali, ma allo stesso personale delle officine meccaniche titolari delle commesse di riparazione. Lo sciopero che coinvolge sia i portuali, sia gli stessi metalmeccanici del settore (che lottano contro il proprio interesse immediato), dura 120 giorni e si conclude con un accordo che corregge parzialmente i criteri di libera scelta imposti all’inizio della vertenza. Delle 6.561.753 ore di sciopero dell’intera provincia di Genova, ben 4.537.033, quasi il 70%, vengono “spese” nei 120 giorni del porto. Due anni dopo, nel 1957, le ore di sciopero crollano a 1.395.645 e nel 1958 sono 2.382.570. Nel 1959, anno di rinnovi contrattuali delle categorie dell’industria e soprattutto anno della vertenza dei marittimi, le ore di sciopero in provincia di Genova balzano nuovamente a 5.811.080. Si tratta però di conflitti molto diversi da quelli delle grandi lotte di difesa della prima metà degli anni Cinquanta. Quelle grandi lotte erano riuscite a contenere, ma non ad impedire la prima drammatica fase di deindustrializzazione di Genova. Alla fine del 1946 le aziende IRI occupano a Genova oltre 50.000 dipendenti, di cui 30.000 negli stabilimenti Ansaldo, quasi 9.000 alla San Giorgio, quasi 10.000 in siderurgia tra Siac e Ilva. Il peso dell’industria pubblica nell’economia ligure è enorme: alla fine del 1951 l’occupazione in aziende pubbliche è stimata pari al 60,5% del totale dell’occupazione metalmeccanica. Nessuna regione italiana raggiunge all’epoca una tale percentuale. Alla fine del 1955, cioè alla conclusione del ciclo di lotte per la difesa dell’occupazione industriale, le aziende IRI in provincia di Genova contano circa 32.000 dipendenti, di cui 9.000 in siderurgia. In dieci anni, tra il 1946 e il 1955, vengono espulsi oltre 20.000 lavoratori. L’unica novità positiva sul piano occupazionale è rappresentata dallo stabilimento a ciclo integrale di Cornigliano, avviato nel 1953, che nel 1955 conta già 4.300 addetti, poi raddoppiati nei successivi cinque anni.1 1 Sulle lotte operaie a Genova negli anni Cinquanta: P.ARVATI e P.RUGAFIORI, Storia della camera del Lavoro di Genova: dalla Resistenza al luglio 1960, Roma 1981; Gli operai di Genova 1950 – 1970, in <<Classe>>, 1981, n.19; 1 Le trasformazioni di Genova Nel giro di un decennio, tra il 1951 e il 1961, mutano i caratteri dell’economia e della società genovese. In anni di grande sviluppo industriale del Nord, in provincia di Genova l’occupazione terziaria ormai supera quella industriale. L’incremento dei settori terziari è elevato (+42.266 unità, pari a + 39,1%), in particolare nei servizi pubblici (+ 56,2%), nel settore commerciale (+ 41,7), nei trasporti (+ 33,8) e nel credito (+ 32,9). Aumenta anche l’occupazione industriale (+ 14.320, pari a + 11,2%), ma solo grazie al raddoppio degli addetti del settore delle costruzioni (da oltre 15.000 ad oltre 30.000 unità), mentre l’occupazione manifatturiera resta ferma (circa 106.000 unità) con una marcata tendenza alla flessione. Il forte incremento dell’occupazione edile è legato allo sviluppo urbanistico senza precedenti della città e di tutta la provincia. Per rimanere alla città, tra il 1951 e il 1961 il patrimonio abitativo aumenta del 44,8% (da 160.865 a 232.924), tanto da assorbire gradualmente il grave problema della coabitazione che affligge Genova negli anni del dopoguerra e nei primi anni Cinquanta. Occorre inoltre ricordare le numerose opere pubbliche realizzate tra il 1951 e il 1965 che mutano il volto urbanistico di Genova: dall’ente fiera alla pedemontana tra S.Martino e Nervi, dalla sopraelevata all’aeroporto Cristoforo Colombo. Per quanto riguarda il Porto, dopo il blocco dei traffici legato alla guerra e al successivo periodo di ricostruzione, nel 1950 le merci movimentate raggiungono nuovamente il massimo pre-bellico degli otto milioni di tonnellate. Dieci anni dopo sono superati i venti milioni e nel 1963 i trenta milioni di tonnellate. L’aumento vertiginoso è però dovuto in gran parte allo sbarco di prodotti petroliferi che nel 1953 incidono per il 30,2%, mentre nel 1963 superano la metà del traffico complessivo (53,4). La crescita demografica della città – pure meno elevata di quella di Torino e di Milano – è tuttavia imponente. Tra il 1951 e il 1961 Genova aumenta di quasi 100.000 abitanti (da 688.447 a 784.194), per toccare il massimo storico di 848.121 nel 1965. L’incremento complessivo in quindici anni (+159.674) per quasi il 95% è attribuibile all’immigrazione. Tra il 1951 e il 1965 l’incremento migratorio netto supera infatti le 150.000 unità: il fenomeno nuovo è quello dell’immigrazione dal Sud attirata dallo sviluppo edilizio, siderurgico e terziario del capoluogo ligure. L’immigrazione netta dalle regioni meridionali e insulari sale dalle circa 2.900 unità medie annue nel periodo 1951 – 1957 alle 5.000 del periodo 1958 – 1960, alle quasi 11.000 dei primi anni Sessanta. Tra il 1958 e il 1963 arrivano a Genova 56.750 persone provenienti dal Sud. L’incidenza sul totale degli immigrati nel capoluogo ligure nello stesso periodo sfiora il 37%, con punte del 41,9 nel 1961 e del 45,6 nel 1963. Le forti correnti migratorie creano seri problemi sociali, il più urgente dei quali riguarda le abitazioni. Genova sino ai primi anni Sessanta pullula di bidonville. A.GIBELLI, I grandi costruttori: etica del lavoro, miti produttivistici e lotte operaie a Genova (1949 – 1951), in A.MICHELI, Ansaldo 1950, Torino 1981. 2 L’altro grave problema riguarda l’inserimento nel contesto produttivo e sociale cittadino.2 Gli anni del muro contro muro In questo quadro di intense trasformazioni della città il movimento operaio rimane a lungo imprigionato negli schemi dello scontro frontale delle grandi lotte dei primi anni Cinquanta, dall’occupazione di 82 giorni della San Giorgio nel 1950 a quella di 72 giorni degli stabilimenti Ansaldo sempre nel 1950, a quella di nove mesi dell’Ilva tra 1950 e 1951. Nel movimento operaio prevale la convinzione che il ridimensionamento industriale sia soprattutto attacco politico, tentativo di pregiudicare l’esistenza di una classe e quindi di un’intera comunità. Questa tesi si radica come diffuso senso comune nella cittadella operaia assediata, nei quartieri rossi del ponente cittadino. La resistenza operaia è rappresentata come battaglia di avanguardia, di valore e rilievo nazionali, contro i disegni di distruzione del patrimonio produttivo e quindi contro l’assenteismo e la subalternità dell’industria pubblica ai grandi monopoli privati. Il produttivismo del movimento operaio è tutt’altro che neutrale, al contrario è duramente antagonista. Antagonismo tanto più radicale quanto più è alta la convinzione che la posta in gioco non è solo la difesa del posto di lavoro, ma è soprattutto la difesa della propria identità individuale e collettiva. Un’identità inconciliabile con le linee di trasformazione di Genova in una “città di camerieri”. Negli anni della guerra fredda la rocciosa resistenza delle fabbriche e dei quartieri operai produce isolamento e arretramento del consenso politico. Il PCI passa dal 32,4% dei voti ottenuto nelle elezioni amministrative del 1951 al 27,5 delle politiche del 1953, al 24,9 delle amministrative del 1956, al 24,7 delle politiche del 1958. In valori assoluti il PCI scivola dai 138.081 voti del 1951 ai 124.603 del 1958, nonostante che nel periodo l’elettorato cresca di circa 50.000 unità. Non è certo un caso che nello stesso periodo la DC si consolidi tra il 33,5% e il 33,7, conquistando circa 27.000 voti, e il PSI avanzi dal 13,4% al 20,8 con circa 47.000 voti in più.3 Anche la CGIL subisce colpi durissimi. I 197.000 iscritti del 1946 si riducono ai 185.000 circa del 1950, ma nel 1952 tornano ad essere più di 200.000, assorbendo apparentemente gli effetti della scissione. In effetti le statistiche della Camera del Lavoro comprendono tra gli iscritti anche le adesioni dei disoccupati, per un certo numero di anni ancora organizzati dalla CGIL. Il 1952 è tuttavia l’ultimo anno di tenuta. Nel 1953 si contano 13.000 iscritti in meno, nel 1955 le adesioni sono poco più di 169.000, nel 1956 la frana: 121.167 iscritti, 80.000 in meno rispetto a quattro anni prima. Altri 33.000 iscritti in meno si contano nel 1959, in soli tre anni. La FIOM da 69.500 iscritti nel 1952 passa a 17.256 nel 1959. Non a caso la FILM è 2 Sulle trasformazioni economiche, sociali e demografiche di Genova negli anni Cinquanta e Sessanta: G.GIACCHERO, Genova e Liguria nell’età contemporanea, Genova 1980; Trent’anni di vita della Provincia di Genova (1951 – 1981), Milano 1984; M.E.TONIZZI, La storia e i numeri del Porto di Genova, in COMUNE di GENOVA, I numeri e la storia del Porto di Genova, Genova 2004; P.ARVATI, Mezzo secolo di censimenti in COMUNE di GENOVA, Novecento genovese: Genova attraverso i censimenti (1951- 2001), Genova 2007. 3 COMUNE di GENOVA, Il voto a Genova (1946 – 2001), Genova 2001. 3 l’unico sindacato di categoria a risalire la china. Dopo il tracollo della FILM di Giulietti che porta l’organizzazione dei marittimi dai 12.169 iscritti del 1953 ai 1.850 del 1957, la rimonta è forte proprio nel 1959: si registrano 5.213 iscritti che salgono ancora a 5.800 nel 1960. Nonostante questo gravissimo arretramento organizzativo, a Genova la forza e il prestigio della CGIL rimangono elevati perché nelle elezioni di commissione interna non si registrano tracolli simili a quelli di Torino. Secondo i dati della Camera del Lavoro, nelle consultazioni del 1955 in 139 aziende la CGIL complessivamente raccoglie il 74,5% dei voti operai e il 29,8 di quelli impiegatizi. Ciò nonostante la svolta del IV° Congresso del 1956 pesa molto, anche a Genova.4 La svolta del IV° Congresso Come è noto, il IV° Congresso della CGIL (27 febbraio – 4 marzo 1956) rappresenta lo sviluppo coerente della famosa “autocritica” di Giuseppe Di Vittorio dopo la sconfitta della FIOM nelle elezioni di commissione interna della Fiat del 1955. Il valore di quell’atto è ben evidenziato da Aris Accornero: “Questa autocritica qualifica il movimento operaio italiano in un periodo nel quale, altrove, il procedimento è piuttosto raro. L’autocritica…riconosce che non i lavoratori si sono allontanati dall’organizzazione operaia bensì questa si è staccata dalla realtà della loro condizione di fabbrica.”5 Un anno dopo lo stesso Di Vittorio nel corso della tragedia ungherese non esiterà a scegliere ancora una volta i lavoratori, schierandosi contro i carri armati. Lo sviluppo congressuale di quell’autocritica contiene una vera e propria “rivoluzione copernicana” che consiste, osserva ancora Accornero, nella “…contrattazione di tutti gli elementi del rapporto di lavoro”, innanzi tutto riportando il sindacato nei luoghi di lavoro. L’altra importante novità del IV° Congresso è la proposta dell’ “economia del lavoro”, una strategia di politica economica che abbandona i vecchi schemi catastrofistici, fa i conti con la ripresa dello sviluppo in Italia, tenta di saldare gli obiettivi per un diverso indirizzo economico con la battaglia fondamentale per migliori condizioni salariali e di lavoro. La proposta assegna un importante ruolo alternativo all’industria pubblica, strumento decisivo per una politica di sostegno della piccola e media impresa e per una politica di industrializzazione del Mezzogiorno. In questo quadro di rielaborazione strategica Genova, quasi naturalmente, si trova ad assumere un ruolo importante. Non è un caso che il Convegno dell’Istituto Gramsci su “I lavoratori e il progresso tecnico” 6 tenutosi nel luglio 1956, a pochi mesi dalla conclusione del IV° Congresso e con larga partecipazione di dirigenti sindacali, assegni una delle quattro relazioni introduttive 7 ad un genovese. La relazione di Mario Quochi, allora responsabile dell’Ufficio Economico della Camera 4 P.ARVATI e P.RUGAFIORI, Storia della Camera del Lavoro, cit. A.ACCORNERO, Per una nuova fase di studi sul movimento sindacale, in Problemi del movimento sindacale in Italia (1943 – 1973), Milano 1976. 6 I lavoratori e il progresso tecnico, Roma 1956. 7 Le altre tre relazioni vennero svolte da Silvio Leonardi, allora responsabile dell’Ufficio Economico della Camera del lavoro di Milano, Sergio Garavini della FIOM di Torino e Giuseppe Levrero, segretario della Camera del Lavoro di Napoli. 5 4 del Lavoro di Genova, propone una revisione critica dell’analisi delle tendenze del capitalismo italiano e della realtà di fabbrica. Applicata alla realtà genovese, la revisione supera la distorsione ideologica che, con l’attribuzione di una linea “malthusiana” al capitale privato, aveva impedito al movimento operaio di cogliere l’intreccio organico tra processi di smobilitazione di settori meccanici e di intere aziende di siderurgia tradizionale e processi di trasformazione e di modernizzazione (come la realizzazione dell’impianto a ciclo integrale di Cornigliano). Per quanto riguarda l’iniziativa, Genova diventa un importante laboratorio per la sperimentazione di rivendicazioni a livello di settore e di fabbrica. La sperimentazione è guidata da un nuovo gruppo dirigente camerale, la cui figura di maggiore spicco e responsabilità è proprio Renzo Ciardini che nei primi mesi del 1958 sarà chiamato a ricostruire la FILM a livello nazionale. Il sindacato genovese per altro, come si è ricordato, pur essendo fortemente indebolito, è ancora in piedi, come mostrano i risultati delle elezioni di commissione interna. Tra le iniziative più rilevanti è utile ricordare la vertenza dei siderurgici per la riduzione dell’orario di lavoro che nel maggio del 1957 porta all’effettuazione del primo sciopero unitario dei lavoratori del settore. A Genova lo sciopero registra buone percentuali di adesione, ad eccezione dello stabilimento di Cornigliano che viene esentato dall’agitazione perché la direzione aziendale decide di aprire subito le trattative per evitare un pericoloso precedente di conflittualità interna. Nell’autunno del 1957 viene impostata dalla FIOM la vertenza per il premio di produzione nei diversi stabilimenti del gruppo Ansaldo, in considerazione dei forti incrementi di produttività registrati negli ultimi anni. La vertenza e le lotte si trascinano per mesi sino alla primavera del 1958, finendo così per saldarsi con l’ennesima emergenza occupazionale che si apre nell’estate dello stesso anno e che riguarda due storici stabilimenti genovesi, l’Ansaldo Fossati e l’Ansaldo San Giorgio. Nell’ottobre del 1958 l’IRI formalizza la chiusura del Fossati e un pesante ridimensionamento dell’Ansaldo San Giorgio. A quel punto lo scenario sindacale genovese è nuovamente dominato dall’obiettivo principale della difesa dell’occupazione. Si arriva così alla primavera del 1959. Le giornate di giugno e luglio 1959 La nuova emergenza occupazionale determina una generale levata di scudi, di cui si rende protagonista anche l’Amministrazione Comunale guidata dalla DC, nella persona del Sindaco Vittorio Pertusio. Le forti pressioni su Roma portano ad una novità che negli anni successivi s’imporrà come vero e proprio modello di relazioni centro – periferia. Il modello è quello dei “pacchetti compensativi”, inaugurato dall’allora Ministro delle Partecipazioni Statali Ferrari Aggradi che nel maggio del 1959, nel corso di un incontro con le autorità locali, annuncia una serie di misure per rilanciare l’economia cittadina. Nel confermare la liquidazione del Fossati e il licenziamento di 500 lavoratori dell’Ansaldo San Giorgio, il Ministro assume impegni per un “pacchetto” di opere pubbliche, dal bacino galleggiante per le industrie di riparazione navale, alla costruzione di un oleodotto, al raddoppio della 5 camionale per Serravalle, al completamento della Genova – Savona. Sono inoltre preannunciati ammodernamenti del Cantiere di Sestri e potenziamenti del centro siderurgico di Cornigliano, con la costruzione di un terzo altoforno. Il “pacchetto” di Ferrari Aggradi taglia le gambe al movimento unitario sviluppatosi intorno alla difesa del Fossati e dell’Ansaldo San Giorgio. Le istituzioni locali, evidentemente soddisfatte, si ritirano in buon ordine, mentre al sindacato non rimane altro che proclamare per il 20 maggio uno sciopero generale dei metalmeccanici che ha le caratteristiche della testimonianza di un’ultima e impotente protesta. Venti giorni dopo, l’8 di giugno, inizia la lotta dei marittimi.8 Da subito Genova è epicentro: nei primi giorni dello sciopero vengono bloccate la Federico C., ammiraglia dell’armamento privato, l’Augustus, il Roma e il Campidano. La polizia interviene il 12 giugno, occupando con la forza la Federico C. e le altre navi. I marittimi “sgomberati” inscenano una manifestazione davanti alla Società Italia e alla Società Costa. Il 15 giugno viene bloccata anche la Cristoforo Colombo, ammiraglia dell’armamento pubblico. Il 19 giugno la Celere interviene sui marittimi della Federico C. Il 30 giugno e il 1° luglio si verificano nuovi scontri, dopo quelli durissimi del 29 a Torre del Greco. E’ a questo punto che la vertenza dei marittimi entra in una fase diversa che vede il coinvolgimento delle principali categorie di lavoratori e alla fine di tutta la città. Il 2 luglio la FILP decide l’entrata in lotta dei portuali al fianco dei marittimi. L’8 luglio FIOM, FIM e UILM, in base alle decisioni nazionali di categoria, decidono di effettuare uno sciopero di cinque giorni, dal 10 al 14 luglio, per il rinnovo del contratto di lavoro. Contemporaneamente la FILP proclama per gli stessi giorni lo sciopero dei lavoratori portuali del ramo industriale. Si delinea così in tutta la sua compattezza lo schieramento che sarà protagonista a Genova di uno dei momenti di più intensa e aspra lotta del dopoguerra. Il sindacato decide di mettere in campo il massimo di forza organizzata con un duplice obiettivo: incrinare l’intransigenza delle controparti in tema di rinnovi contrattuali, ma anche lanciare un forte segnale politico a livello nazionale contro i rischi di svolta autoritaria legati agli indirizzi e alle difficoltà del Governo Segni. La prima giornata, il 10 luglio, è forse la più dura: i diversi cortei operai vengono ripetutamente caricati, prima in Via S.Lorenzo, poi in Via Balbi. Gli scontri si susseguono sino al primo pomeriggio, perché la resistenza dei lavoratori è sempre meno passiva. L’11 luglio entrano in sciopero anche i siderurgici, con la solita eccezione dello Sci, ove ancora una volta FIM e UILM si accontentano di un accordo aziendale separato. La seconda manifestazione è conclusa da un comizio di Fernando Santi. Il 13 luglio la Camera del Lavoro proclama per il giorno successivo lo sciopero generale di tutte le categorie: “Genova solidale sostiene incondizionatamente la lotta dei marittimi, affiancando nello stesso tempo quella dei metallurgici, affinché si possa addivenire ad una rapida e soddisfacente soluzione delle due vertenze”. Lo sciopero generale del 14 luglio ha una buona riuscita, con punte di partecipazione tra l’80 e il 100%. Un grande corteo, mentre si reca in Prefettura, è duramente caricato: 8 Sulla vertenza dei marittimi: Fermi al primo approdo! Roma 1960; G.BRUSCHI, la sfida dei marittimi ai padroni del vapore, Genova 2006. 6 un dirigente sindacale, Marino Mora, viene aggredito e bastonato, tre operai dell’Ansaldo Meccanico sono arrestati. Otto giorni dopo lo sciopero generale di Genova, il 22 luglio, si raggiunge l’accordo che conclude la vertenza nazionale dei marittimi. Luglio 1959, una prova generale E’ evidente il ruolo decisivo delle giornate di Genova – e in particolare dello sciopero generale del 14 luglio – per la conclusione della vertenza dei marittimi. Ma c’è di più. Alla luce degli eventi successivi, l’intera vicenda dell’estate 1959 appare come una “prova generale” del giugno – luglio 1960. Buona parte dei protagonisti del 30 giugno 1960 sono già in campo un anno prima, come un anno prima è già presente una forte volontà di riscatto, dopo un decennio di sconfitte. Da questo punto di vista la rivolta antifascista del 30 giugno appare caratterizzata da una peculiare “doppiezza”. Da un lato infatti la paternità del 30 giugno deve essere ricercata nelle lotte sociali e politiche degli anni Cinquanta, con in più l’apporto determinante del movimento partigiano e il richiamo ideale e organizzativo alla lotta di Liberazione. Dall’altro sono in gran parte nuovi i protagonisti. Secondo le fonti del tempo e le testimonianze dirette, almeno metà delle centomila persone affluite in piazza il 30 giugno 1960 sono giovani tra i 17 e i 25 anni, i ragazzi dalle “magliette a strisce”. Dei cinquanta arrestati durante gli scontri - pur sempre un campione indicativo – la metà ha meno di 25 anni e l’età media complessiva è di 28 anni. Un altro dato interessante tratto dall’elenco dei cinquanta arrestati è che solo una piccola minoranza è costituita da operai metalmeccanici e portuali. La maggioranza è di manovali, piccoli artigiani, commessi e disoccupati, quasi a dimostrare la dimensione sociale molto più ampia della partecipazione e il ruolo decisivo assunto dalla mobilitazione dei giovani, specie quelli colpiti dalla progressiva contrazione delle opportunità occupazionali della città. Esiste quindi, incontestabilmente, un filo rosso che lega la vertenza dei marittimi e la partecipazione di tutta la città a questa lotta alle giornate di giugno – luglio 1960. Per il movimento operaio – non solo quello genovese – le due estati di lotta rappresentano un vero e proprio spartiacque tra un decennio di ripiegamento e di declino e la progressiva ripresa sindacale e politica degli anni Sessanta e Settanta. Sempre alla luce degli avvenimenti successivi, la vicenda dei marittimi appare esemplare per tre aspetti. Per la prima volta a Genova i protagonisti sociali di una grande lotta – che funziona da “detonatore” e da traino per un movimento più ampio – non appartengono alle figure sociali egemoni di riferimento per il movimento operaio organizzato, da un lato gli operai professionali delle grandi fabbriche metalmeccaniche, dall’altro i portuali. A Genova questa lezione non verrà sempre tenuta presente nei decenni successivi. Il secondo aspetto è che si apre una nuova e lunga stagione di ripresa sindacale dopo una radicale revisione strategica, a partire dall’autocritica di Giuseppe Di Vittorio nel 1955. Si tratta di un percorso esemplare di fuoriuscita “a sinistra” da una grave crisi politica del movimento operaio di dimensioni nazionali e internazionali, dopo i fatti di Ungheria. Anche in questo caso, 7 purtroppo, quella straordinaria lezione in tempi più recenti non è stata tenuta molto in considerazione, specie dalle organizzazioni politiche della sinistra. Il terzo aspetto riguarda i contenuti più profondi della vertenza dei marittimi. Una lotta così lunga e così impari, con una partecipazione così straordinaria e una tenuta così eroica nei porti di mezzo mondo, non sarebbe stata possibile se gli obiettivi fossero stati solo quelli salariali di un normale rinnovo contrattuale. Gli obiettivi veri riguardavano qualcosa di più decisivo. Riguardavano la libertà e la dignità di uomini e di lavoratori, la ribellione al sopruso, la volontà e la speranza di un riscatto. Questo, in fondo, è l’elemento principale di una “continuità” che lega questa grande lotta a quelle che la precedettero e a quelle che la seguirono: la libertà, sia che essa venga cercata e affermata con i tratti classisti dell’operaio professionale che occupa la fabbrica e dimostra di potere e di sapere produrre anche senza il padrone e le sue burocrazie. Sia che essa venga cercata e affermata dal mozzo che a bordo non può più accettare di rimanere una pedina in balia del suo comandante. Per questo terzo aspetto esemplare, diversamente dai primi due, è possibile e necessario essere ottimisti nel ribadire la stringente e tutt’altro che retorica attualità, pur in condizioni storiche profondamente mutate. L’ultima osservazione, poco più di uno spunto di riflessione, riguarda ancora Genova. Nell’estate del 1959 e, ancor più, nell’estate del 1960 la città si trova al centro della storia italiana, al crocevia di due fasi storiche. Non è la prima volta. Era già successo sessant’anni prima con i cinque giorni al porto del dicembre 1900, il primo sciopero generale che cambiò l’Italia, che costrinse alle dimissioni il presidente del consiglio Saracco, alla guida di una maggioranza reazionaria e che aprì così una diversa stagione politica dominata dalla figura di Giovanni Giolitti. Succede di nuovo sessant’anni dopo e il 30 giugno 1960 conferma il ruolo nazionale della città medaglia d’oro della Resistenza. Il 30 giugno chiude la stagione centrista e avvia una nuova stagione dell’evoluzione politica e civile del Paese. Ancora una volta la molla decisiva è la libertà. Ancora una volta i protagonisti principali sono i lavoratori e le loro organizzazioni, a partire dalla Camera del Lavoro. 8