giornale n.17 - SMS santa maria della scala
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Il Giornale di Santa Maria della Scala Periodico del Santa Maria della Scala di Siena Anno V numero 17 Aprile 2005 Direttore responsabile Enrico Toti Spedizione in A.P.-Art.2 comma 20/B L.662/96 - Siena 17 Il Santa Maria della Scala e la contemporaneità Luogo di appagamento estetico e luogo dove si riesce ad esaltare emotività e pensiero... Con il procedere del recupero e del restauro l’antico ospedale del Santa Maria della Scala disvela sempre più la sua monumentalità di fabbrica medievale che, dall’XI al XV secolo, ha risposto alle esigenze di espansione inglobando al suo interno tratti di mura e di strade cittadine dando vita ad una città nella città. Al tempo stesso, attraverso la sua storia e le sue opere d’arte frutto di una committenza illuminata, rimane una testimonianza tangibile dell’influenza avuta sulla vita e sulla civiltà politica, sociale ed economica della Siena del periodo di massimo splendore. Tutto questo non può fare oggi del Santa Maria della Scala solo un tempio della medievità. Sarebbe una contraddizione con la sua storia. Come ogni monumento architettonico che è rimasto per più di un millennio a contatto con la vicenda umana ha avuto ripetutamente nel tempo, l’impatto, il confronto, l’interazione con la contemporaneità, che oggi è stratificazione di stili e di espressioni artistiche. Lo ha avuto quando l’accoglienza dei pellegrini e il sostegno ai poveri e ai bambini abbandonati hanno fatto convivere l’apertura ad altre civiltà e ad altre culture con l’indigenza e le difficoltà di vita sul territorio. Lo ha avuto quando –passando alla funzione di ospedale moderno per arrivare fino a policlinico universitario del XX secolo- ha dovuto trovare soluzioni che adeguassero gli ambienti all’evoluzione che scienza e ricerca apportavano ai contenuti ed alle condizioni dell’attività ospedaliera e sanitaria. Lo ha avuto per il fatto di aver sempre messo al centro del proprio operare la persona con i suoi bisogni materiali, con le sue sofferenze, con il suo bisogno di spiritualità e quindi con la sua diversità segnata dall’essere uomo o donna di epoche diverse. Oggi l’attuazione del progetto di recupero e di riuso a fini culturali, mosso dalle intuizioni di due grandi intellettuali senesi quali Bargagli Petrucci e Cesare Brandi, non può che continuare in coerenza con questa storia e con i contenuti del progetto sul quale tutta la Città ha scommesso insieme all’Amministrazione Comunale. È stato naturale che, nel momento del restauro del complesso architettonico, spazi monumentali medioevali fossero recuperati con quanto di più avanzato, raffinato e sofisticato ci può essere offerto dalla contemporaneità nel campo dei materiali e delle tecnologie, dando vita, con la progettazione di Guido Canali, ad ambienti carichi di fascino ed emotività quali il Museo Archeologico e Palazzo Squarcialupi con la sua sede espositiva. Questo avverrà sicuramente anche con tutti quegli spazi che saranno luogo della memoria, della conservazione e della valorizzazione delle collezioni e del patrimonio artistico, che accoglieranno il Museo della Città e il Museo della Civiltà figurativa senese con i capolavori della Pinacoteca. Ma perché il Santa Maria della Scala continui ad essere nel presente la sintesi tra passato e futuro, ha bisogno di vita, ha bisogno di essere luogo di relazione, di incontro, di scambio tra patrimonio materiale e persone e tra le persone stesse. Deve essere luogo dell’appagamento estetico e luogo nel quale la persona – bambina o adulta – riesce ad esaltare emotività e pensiero. La sua contemporaneità il Santa Maria della Scala la vive sicuramente tutte le volte che fa incontrare un artista ed il suo linguaggio figurativo musicale, teatrale, letterario ed anche grafico e multimediale, con la sensibilità del visitatore, coinvolge quest’ultimo e lo aiuta a conoscere e a percepire l’espressione artistica, a partire dall’antico fino al presente. Se questa diviene l’essenza della missione del polo culturale ne divengono naturali la proiezione europea ed internazionale e la proiezione verso l’incontro tra arte e scienza e tra pensieri, cultu- re ed elaborazioni diverse. La visita al monumento e agli spazi museali coinciderà con la crescita culturale ed interiore del visitatore coinvolto, che apprezzerà di poter trovare magari nel tempo e negli stessi spazi Duccio di Boninsegna o Hugo Pratt senza vedere il secondo come un tradimento al luogo e alla sacralità di un periodo storico-artistico. Anna Carli Rettore Nella foto: il pozzo e lo scalone di accesso alle sale di Palazzo Squarcialupi. SIENA Il Giornale di Santa Maria della Scala pag. 2 Un appuntamento per gli anni futuri Riflessioni di Lucia Fornari Schianchi, nuovo Soprintendente ai Beni Artistici e Storici di Siena e Grosseto Il Giornale di Santa Maria della Scala Periodico del Santa Maria della Scala di Siena Anno Quinto Numero 17 Aprile 2005 Direttore Responsabile Enrico Toti Autorizzazione del Tribunale di Siena n. 693 del 17 marzo 2000 Segreteria di redazione Nora Giordano Hanno collaborato a questo numero Alessandro Bagnoli Debora Barbagli Anna Carli Lucia Fornari Schianchi Roberto Francavilla Nora Giordano Laura Ponticelli David Rossi Jolanda Semplici Enrico Toti Impostazione grafica Rauch Design Realizzazione lastre CTP e Stampa AL.SA.BA Grafiche, Siena Istituzione Santa Maria della Scala Piazza Duomo 2, Siena Tel 0577/224811 - 224835 Fax 0577/224829 [email protected] www.santamaria.comune.siena.it Arrivo a Siena come Soprintendente ai Beni Artistici e Storici in sostituzione di un collega come Bruno Santi, gentile e stimato, affermato, qui, da circa 13 anni, il 27 gennaio di quest’anno. Conosco poche persone, rincorro col pensiero i capolavori di questa terra che ho amato da sempre, ma dalla quale mi sento estranea. Bellissima esperienza personale! È che non riesco a subire l’atteggiamento militaresco, l’imposizione senza preavviso, la mancanza minima di consultazione, l’atteggiamento perentorio di un Ministero che dovrebbe sapere che cosa è lo stile, senza avvilire o deprimere chi, sul territorio, dovrebbe farlo funzionare. Non è un bel momento! Fa freddo e Siena è silenziosa e cupa. Vorrei volarmene a New York, anche per dimenticare i miei progetti interrotti bruscamente e il mio analogo ufficio di Parma, dove sono cresciuta dalla gavetta e ne conosco ogni più recondito palpito, dove ho lavorato tanto per farne il luogo più autorevole per la conservazione e la conoscenza di un patrimonio da ducato. Sono passati quasi tre mesi, ho girato su e giù per le rampe strette e le scalinate scoscese di Siena, ho tracciato qualche percorso territoriale spingendomi giù fino a Massa Marittima e Grosseto, Orbetello e Capalbio e su a Pienza, Montepulciano, Colle Val d’Elsa, Castelnuovo Berardenga, Seggiano: terre di sentimenti e sedimenti antichi, di paesaggi che incastonano monumenti di rara bellezza e mi chiedo: quale potrà essere il mio ruolo in questi luoghi, quali le attese di un territorio che ha radici profonde nella tradizione, quale l’intesa con città e borghi orgogliosi e attivi? E allora rifletto sul mondo che viaggia a mille all’ora (questa è la velocità di qualsiasi jet), alle attuali dinamiche umane, alle transumanze dall’Africa, dalla Cina, dall’America latina, e mi fermo! La luce è diversa: lì c’è un fiume che si appanna con la nebbia e si illumina di luci terse alle prime brezze primaverili, qui la città murata ti stringe il cuore, che si dilata quando esci dalle mura e ormeggi lo sguardo fra i miti paesaggi circostanti. Credo e spero nella tenuta emotiva della storia dell’arte, nella calda accoglienza dei colleghi e dell’Ufficio che, generosamente, mi incoraggiano. La tristezza permane anche perché non so bene che cosa si voglia, qui, da me e mi restano oscure le motivazioni di questo capovolgimento improvviso, annunciatomi senza possibilità di replica! Nulla serve più di quello che so (i Farnese, i Borbone, gli Asburgo e Antelami, Correggio e Parmigianino) e poco so di quello che dovrà essere il mio futuro armamentario base: Duccio, sì la splendida mostra; Simone Martini che trovo il più civile dei pittori religiosi; Pietro e Ambrogio Lorenzetti che ci mostrano per primi gli effetti del buono e del cattivo governo di cui ancora ricerchiamo l’essenza dopo secoli e poi Vecchietta, Sassetta, Beccafumi, Sodoma, Peruzzi, e quell’infinita schiera di maestri minori che formano la costellazione artistica senese dalla larga e qualificata bibliografia. Ma c’è tanto altro che, mi dico, sarà interessante scoprire passo a passo. Insomma, mi sento come un oculista che, improvvisamente, dovrà fare il traumatologo o forse dovrò solo gestire, dimenticando la formazione di base, o intrecciare semplicemente il mio sapere con quello altrui o solo applicare, in un contesto diverso, quello che, in fondo, ho già fatto per trent’anni. In queste terre è soprattutto il pensiero che lavora, senza corresponsione stretta con l’azione. Sono luoghi da turisti, infatti, che vengono, a frotte, per ammirare, contemplare, emozionarsi nella lentezza, ma poi se ne tornano via, dove fluttua la vita, dove si corre per produrre, per mercificare, dove l’idea deve nascere e crescere in fretta. Si riaffacciano perentorie le considerazioni del Nobel Daniel Kahneman: sulla nostra esperienza reale prevale il ricordo delle sensazioni provate, sull’experiencing self predominerà il remembering self. Attendo, infatti, di poter valutare il ricordo sull’esperienza diretta, di poter fare la sintesi, fra qualche anno, della successione dei momenti (se ne calcolano 20.000 in una giornata lavorativa) che ho vissuto in questo periodo, con i conseguenti umori. Ripercorrerò, allora, le mie solitarie camminate in Via di Città, alle otto di sera, lo sguardo perso e assente fra le botteghe del centro, gli ingressi a bassa motivazione nei pochi monumenti aperti, i primi approcci con le Contrade, la meditativa esplorazione della Pinacoteca Nazionale, i passi silenziosi sul sublime pavimento della Cattedrale, mentre il pensiero correva dal passato al presente, dalla vita altrui (artisti compresi) alla mia. La gioia arrivava quando l’orizzonte si allargava sulla campagna circostante quando qualche contadino, solitario come me, stava compiendo il gesto antico della potatura, del dissodamento e mi riportava alla verità delle cose, alla cura del paesaggio fatta di azioni tramandate sul campo e poche parole. Che cosa ne sarà di questi dolci pendii e della loro sublime vegetazione quando scomparirà questa sapienza, e resterà solo la parola come è stato per l’artigianato vero e non pseudoindustriale, volgare falsificazione di una matrice altissima? Che cosa ne sarà di questi monumenti aggrediti da portatori sanissimi di esperienze ultramoderne che amano spesso esperire l’antico come vezzo esibitorio? Qualche volta nel ricordo affiorerà l’incubo consolatorio e contraddittorio di una modernità assoluta come trasformazione ulteriore delle calviniane città invisibili e come valore in sé, esperienza dell’hic et nunc, fragilità definitiva della vita oltrechè dell’arte. Questo sarà, a ritroso, il risultato del mio remembering self o altro ancora nell’aver “subito” il mio dovere, o, forse, gioirò di un grande amore che fa fatica a sbocciare, ma assumerà, per questo, un più profondo valore soprattutto se nutrito di reciprocità. Avevo fissato, sbagliando, un appuntamento diverso per i miei anni futuri, senza fare i conti con la realtà: ma alla fine bisogna dirsi “è solo lavoro”! È che lo carichiamo di troppe valenze. Se lo percepissimo per quello che è: un compito da svolgere senza eroismi, una risposta onesta a delle esigenze andrebbe molto meglio nel momento dei cambiamenti imprevisti. Sì, molto meglio! E valutare le coincidenze fortunate. Per esempio il ritrovare qui l’ingegno creativo dell’architetto Guido Canali, al quale mi unisce l’esperienza irripetibile di aver realizzato il restauro del Palazzo della Pilotta a Parma e la rinascita della sua Galleria Nazionale a partire dagli anni Settanta. Qui la sfida è ancora più complessa e il cantiere uno scrigno che i senesi cominciano ad apprezzare per le valenze artistiche originali e per quello che potrà diventare ad opera conclusa. Un congegno museale, un laboratorio politecnico che ammirano in molti, anche per le attività che vengono disegnate e realizzate con continuità e varietà. Ecco sul tema della varietà, che è il più intimo segno distintivo della nostra cultura artistica, dei molteplici linguaggi che l’hanno caratterizzata, potrei ritrovare una dinamica nuova per i miei pensieri qui e altrove. Lucia Fornari Schianchi SIENA Il Giornale di Santa Maria della Scala pag. 3 Nuove ricerche sul Pellegrinaio Un recente studio condotto da Elda Costa e Laura Ponticelli, studentesse dell’Università di Siena, è tornato ad analizzare, dal punto di vista iconografico, il ciclo decorativo del Pellegrinaio Una parte consistente di questo lavoro è stata pubblicata sulla rivista Iconographica, curata dal Dipartimento di Archeologia e Storia dell’Arte dell’Università di Siena. Le ricerche effettuate hanno portato all’acquisizione di nuovi elementi per la conoscenza degli affreschi del Pellegrinaio e alla formulazione di ipotesi che studi futuri potranno sviluppare ulteriormente. In particolare, la decorazione del soffitto, oggetto per la prima volta di un’analisi approfondita, ha fornito lo spunto per interessanti considerazioni. Realizzata tra il 1439 e il 1440 dal pittore bolognese Agostino di Marsiglio, la decorazione del soffitto consta di ben cinquantasei figure di santi e personaggi dell’Antico Testamento, distribuite nelle vele delle volte e nei sottarchi che segnano la divisione tra una volta e l’altra. L’indagine ha tentato di fare luce sulla questione della committenza e sul possibile criterio da essa adottato nella scelta dei personaggi da rappresentare. Di grande interesse si è rivelata a questo proposito la presenza nella quinta campata dello stemma di Carlo d’Agnolino Bartoli, vescovo di Siena al tempo della realizzazione degli affreschi ed ex-Rettore dello Spedale, particolare che ha permesso di ipotizzare un suo coinvolgimento nell’elaborazione del programma iconografico. L’analisi dei grandi e più celebri affreschi delle pareti laterali ha approfondito gli studi precedenti, tentando di cogliere il significato profondo di ogni scena. Si è evidenziato ad esempio come le raffigurazioni di momenti di vita ospedaliera collocate sulla parete destra della sala rispecchino puntualmente gli Statuti che regolavano le attività all’interno dello Spedale, tentando allo stesso tempo di individuare le diverse mansioni ospedaliere attraverso l’attenta osservazione dei costumi dei vari personaggi. Le novità più importanti cui ha condotto la ricerca riguardano probabilmente l’affresco con la Storia di Sorore, la prima delle quattro scene di carattere storico-istituzionale collocate sulla parete di sinistra e certamente una tra le più problematiche dal punto di vista interpretativo. Lo studio della leggenda del mitico fondatore dello Spedale ha consentito di formulare alcune ipotesi riguardo alla sua istituzionalizzazione come beato, che sembrerebbe essere avvenuta nell’arco di tempo che va dal 1441 al 1445. L’elemento di maggiore interesse è tuttavia il riconoscimento di due figure chiave dell’affresco, ovvero quella seduta su un seggio al centro della scena, di fronte a Sorore in ginocchio, e quella in piedi, all’estrema destra, rappresentata nell’atto di donare delle monete allo stesso Sorore. Entrambe le figure indossano una lunga veste piuttosto semplice di colore rosso scuro e un mantello grigio con uno strano cappuccio che conferisce alla testa una forma vagamente quadrata. Proprio questo particolare dell’abbigliamento ha permesso di risalire all’identità dei due personaggi: si è infatti notato che il cappuccio in questione è identico a quello che si osserva nelle effigi dei canonici del Duomo Francesco Tolomei e Viva del Viva riprodotte in due lapidi sepolcrali quattrocentesche conservate nella cattedrale di Siena. L’identificazione dei due personaggi come canonici del Duomo ha portato a riconsiderare il significato dell’affresco e a fornire una chiave di lettura assai diversa rispetto a quelle che erano state proposte in passato. La presenza di canonici in questo affresco, che apre la serie di scene in cui sono rappresentati gli eventi più importanti della storia dello Spedale, ha una sua precisa ragion d’essere. La nascita del Santa Maria della Scala era legata proprio ai canonici che, essendo tenuti ad impiegare parte consistente delle loro rendite in sussidio ai bisognosi, dettero origine al primo nucleo dello Spedale; a poco a poco molti laici vennero in loro aiuto e si sottomisero all’autorità del Rettore, dandosi il nome di fratres e facendo dono di tutti i loro beni. Col passare del tempo, nel corso del XII secolo, questi ultimi cominciarono a pretendere di gestire autonomamente l’istituzione, dando così inizio ad una lotta con i canonici terminata solo nel 1374 quando la Repubblica di Siena proclamò suo lo Spedale, arrogandosi il diritto di nominare i Rettori. Da quanto vediamo nell’affresco, sembra invece che si sia voluto raggiungere una sorta di compromesso, rappresentando l’affidamento pacifico dello Spedale da parte dei canonici a Sorore, quindi ai frati. La scala raffigurata al centro dell’affresco e indicata con un gesto della mano dallo stesso Sorore, simboleggia il tramite tra la Terra e il Cielo, è la via che porta al Paradiso; i bambini che salgono su di essa sono da interpretare come anime redente che stanno per essere accolte dalla Vergine. Poiché la via al Cielo si acquista grazie agli atti di carità, ecco che Sorore mostra al canonico la via stessa della salvezza, raggiungibile attraverso quelle opere di misericordia che costituivano la ragion d’essere dello Spedale. Laura Ponticelli SIENA Il Giornale di Santa Maria della Scala pag. 4 Santa Maria della Scala work in progress Dopo la conclusione del restauro dell’affresco di Sebastiano Conca nell’abside della chiesa della Santissima Annunziata, Alessandro Bagnoli, della Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico di Siena, responsabile scientifico del restauro, presenta la situazione di un altro dei tre cantieri del Santa Maria sui quali, grazie al finanziamento della Regione Toscana e della Fondazione Monte dei Paschi, da circa un anno, si sta alacremente lavorando: la Cappella del Manto. L’intervento sui dipinti murali di questa Cappella (realizzati da Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pèro, Santi e Beati senesi,1370 e da Domenico Beccafumi e Bartolomeo di David, grottesche, 1512) che preventivamente sembrava riservare poche novità e una scarsa possibilità di recupero (almeno per quanto riguarda le parti trecentesche), si sta invece rivelando molto promettente, non solo per la scoperta di nuove zone affrescate, ma anche per la riacquistata leggibilità delle superfici dipinte, che si presentavano tutte coperte da un denso strato di colorazione marrone, frutto di un trattamento finale di protezione - degradatosi nel tempo - che era stato applicato durante il restauro della fine dell’ Ottocento. Tali sostanze sono state accuratamente rimosse con appropriati impacchi estrattivi facendo tesoro degli eccellenti risultati che i restauratori Giuseppe e Massimo Gavazzi hanno ottenuto in casi analoghi precedentemente affrontati (per esempio la Maestà di Simone Martini di Palazzo Pubblico). Le stesure a fresco hanno infatti riacquistato i toni naturali e calcinati, che permettono di restituire senso compiuto a queste stesure, in particolare alle campiture grigio azzurre delle volte, sulle quali in origine era stesa l’azzurrite. Si sono altresì rese più evidenti le numerose abrasioni della pellicola pittorica causate dall’operazione di scopertura dagli strati di scialbo, che fu risolta sbrigativamente con poca perizia tecnica e mezzi meccanici non adatti. Fortunatamente tale intervento fu eseguito soltanto nella prima campata, mentre nella seconda, esperito qualche insoddisfacente tentativo, si lasciarono le replicate stesure di scialbo, che hanno coperto finora le superfici dipinte. Densità degli strati e loro parziale carbonatazione rendono l’asportazione particolarmente difficile, anche perché la pellicola pittorica sottostante risulta più debole e rischia il distacco. In questo caso si è verificato che l’abla- zione con il laser risulta il mezzo idoneo per ottenere il miglior risultato possibile. Per attuare tale operazione di natura così specialistica si è richiesta la collaborazione di Anna Brunetto, operatore che vanta una pluriennale esperienza nell’uso del laser per il restauro di beni di interesse storico artistico. Il risultato così soddisfacente ottenuto su dipinti murali ricoperti da scialbo è comunque operazione che non ha precedenti. La stessa operatrice si dice stupita e soddisfatta del risultato ottenuto, tanto che ha proposto di presentare questo caso pilota ad un convegno internazionale in Austria e di stabilire un rapporto di collaborazione con l’Università di Bari, che è interessata a testare i risultati del cantiere senese. L’uso del laser, che non era prevedibile in fase di progetto del restauro, si configura oggi come un’indispensabile, importantissima variante. Sulle tre pareti a destra, guardando le finestre, sono stati effettuati alcuni saggi esplorativi che hanno permesso di constatare come le pareti poste al di sotto degli archi costituiscono delle tamponature costruite in epoche diverse e per vari motivi. Hanno infatti rivelato la presenza di una decorazione a fresco del sottarco, che comprende i Quattro dottori della Chiesa, raffigurati fino a mezzo busto. Sulla parte sinistra, è invece riemerso un muro coperto da un intonaco a grassello di calce molto fine e ben lisciato, che fu eseguito evidentemente per restare a faccia vista. Sullo spigolo di sinistra subito all’interno della tamponatura è riapparso anche un elemento architettonico frammentario in stucco. È un frammento di pilastro dai caratteri stilistici gotici, come dimostrano la forma di uno stemma a scudetto e la decorazione fitomorfa del capitello. Nella parte alta risulta inoltre appoggiato sulla superficie dipinta; segno che si tratta di un manufatto successivo all’intervento di Cristoforo e Meo, col quale era stato fatto convivere. Aiuta a comprendere la natura del reperto la raffigurazione a fresco dipinta nel 1441 da Domenico di Bartolo nel Pellegrinaio, nella quale è raffigurato com’è ben noto - l’interno dell’Ospedale. Vi si riconosce con sicurezza la porta di fronte al Duomo e a sinistra l’angolo interno della chiesa, sul quale si apre l’arco di accesso alla Cappella del Manto. Oltre questo arco il pittore senese quattrocentista, dimostrandosi attento alla maniera fiamminga nella resa naturalistica di ambienti, cose e valori di queste, ha riprodotto un’edicola gotica con vimperga, che somiglia alla tipologia consolidata dei monumenti funebri trecenteschi. Su questo ritrovamento si stanno effettuando ulteriori accertamenti e ricerche, ma fin d’ora merita sottolineare l’eccezionalità del materiale usato. Si tratta di un manufatto povero che voleva, tuttavia, imitare il più ‘nobile’ e imperituro marmo. A tutt’oggi sono scarsissime le testimonianze sopravvissute di manufatti modellati con lo stucco nel corso del Trecento e del primo Quattrocento. Si ricordano soltanto le decorazioni fitomorfe del sottarco che contiene una Maestà a fresco, dipinta da Ambrogio Lorenzetti nella cappella Piccolomini in Sant’Agostino a Siena, e alcuni frammenti raffiguranti Alunni in ascolto dì una lezione, parti superstiti di un monumento funebre che stava nella chiesa o nel chiostro di San Domenico e ora si conservano su una parete delle scale di accesso alla chiesa inferiore. Approfondendo lo scavo della tamponatura, è risultato evidente che il muro coperto da intonaco ritrovato sulla parte sinistra dell’ arco costituisce la parte esterna di un corposo parallelepipedo contenente la scala a chiocciola, che consente di salire all’orologio posto sulla facciata dell’Ospedale. Sembra da prendere in considerazione la possibilità che questa scala sia stata eseguita al tempo dei rimaneggiamenti interni alla chiesa affidati a Francesco di Giorgio Martini, che risalgono agli anni Settanta del Quattrocento La costruzione in muratura dovette evidentemente sostituire la ‘scatola’ lignea che racchiudeva il meccanismo di un antico orologio. È appunto quest’ultimo manufatto ligneo che Domenico di Bartolo ha riprodotto nel citato affresco del Pellegrinaio. La situazione di questo arco appare, dunque, molto complessa e risulta quindi indispensabile procedere con rilievi grafici in modo da studiare il contesto e la lettura dell’apparecchiatura muraria. Occorre infatti verificare la possibilità di asportare la tamponatura sulla parte destra dell’arco e studiare il rapporto con la parete dell’adiacente atrio del Santa Maria, per il quale val la pena di salvaguardare l’attuale e assestata configurazione delle pareti. Si sottolinea inoltre la positiva esperienza del metodo della ricerca stratigrafica che ha dato buoni frutti. Infatti, invece di procedere con saggi distruttivi in profondità (a carotaggio), l’asportazione graduale del riempimento ha permesso di comprendere la natura e la funzione della parete recuperata e ha garantito la conservazione integrale dell’antico intonaco di ottima fattura, che riveste l’esterno della scala a chiocciola. Sulla scala a chiocciola interna si potrà eventualmente sviluppare un progetto a parte, il quale ha, comunque, stretta relazione con le ricerche e l’intervento attualmente in corso. Per le connessioni più evidenti, merita intanto ricordare alcune evidenze rivelate dai saggi: 1. l’intonaco che fascia il cilindro interno della chiocciola appare molto antico e sulla superficie sono presenti segni di sinopia, che formano decori che potrebbero risalire al Quattrocento. 2. sotto tale intonaco riaffiora l’affresco di Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, che evidentemente costituiva una fascia decorativa lungo la centina dell’ arco e una più vasta facciata, che è dipinta in verde e termina in alto con una cornice di finta architettura. Per quanto è ora possibile vedere, si tratta del frammento di una grande figura, purtroppo acefala, e di alcuni caseggiati, il cui aspetto consente confronti molto stretti con la pittura senese del primo Trecento. Può darsi che fosse la raffigurazione di una gigantesca figura di San Cristoforo, che di solito si trova dipinta, con chiaro intento apotropaico e di saluto, in prossimità delle porte, sia in contesti chiesastici sia in ambienti pubblici civili. Anche la seconda parete della Cappella del Manto presenta un tamponamento che ha oscurato la superficie dipinta del sottarco. Segno evidente che la decisione di tamponare la parete avvenne in epoca successiva a quella della prima campata. Proseguendo l’indagine, si potrà accertare se anche la seconda campata avesse un’apertura di collegamento con la chiesa oppure fosse murata. Una situazione diversa è quella che appare nella terza parete. La superficie sottostante l’arco a tutto sesto appariva completamente dipinta con un tono grigio scuro. Non si riusciva a SIENA Il Giornale di Santa Maria della Scala pag. 5 Echi di Pratt comprendere quale rapporto potesse avere con il gruppo scultoreo del Presepe di cui informano i documenti del 1513 (v. Domenico Beccafumi e il suo tempo, catalogo della mostra di Siena, Milano 1990, p. 681). Un saggio ha permesso di verificare che la parete è formata da una sottile barriera di mattoni, o meglio pianelle da pavimento oltre la quale è il vano di una nicchia ad arco, che appare vistosamente sfalsata rispetto alla centina dell’arco che sostiene la volta a crociera della cappella. Questo vano risulta completamente intonacato e scialbato. Sotto la scialbatura si recupera la pittura a fresco, che riproduce una finta struttura architettonica di color grigio. Questa stesura pittorica è in tutto coerente con l’intervento presente sulle volte, vale a dire con le campiture azzurre e le incorniciature a fregi fitomorfi e putti, per le quali il Beccafumi ricevette il pagamento nel gennaio del 1513 (v. i documenti in Domenico Beccafumi cit. p. 680). Essendo verosimile che questo spazio recuperato sia stato il vano nel quale era sistemato il Presepe di terracotta, si può sperare che sulla parete di fondo possa ancora celarsi sotto lo scialbo un paesaggio che faceva da fondale al gruppo scultoreo, come avveniva di norma per questo tipo di rappresentazioni con sculture e affreschi. Si pensi all’Adorazione dei pastori e all’Adorazione dei magi del Duomo di Volterra (sculture in terracotta dipinta di Luca e Andrea della Robbia; fondali a fresco di Benozzo Gozzoli). Si sta ora procedendo con un saggio, dal momento che non esiste una base architettonica all’interno della nicchia. Vi si trova bensì una struttura di traverse lignee e un incannicciato, che formano il soffitto della porta di collegamento fra l’attuale ingresso al Santa Maria della Scala e la Cappella del Manto. Auspicando la possibile apertura della nicchia tamponata, in modo da ripristinare una situazione architettonica e decorativa importante per la storia della cappella, si procederà, prima della descialbatura, ad una rilevazione grafica del contesto, non solo per documentare lo status quo, ma anche per permettere la progettazione di una soluzione sostenibile, che risolva il problema del rapporto fra nicchia stamponata con l’architrave della porta di accesso alla cappella. Alessandro Bagnoli Non ci sono i gruppi con la guida, mancano le gite organizzate dal circolo o dall’associazione culturale. Ma c’è lo stesso tanta gente che vuole ripercorrere il Periplo Immaginario di Hugo Pratt. Questo però non è un viaggio che si può fare in numerosa compagnia. Come Corto Maltese, il personaggio più famoso del disegnatore veneziano, gli appassionati seguaci di Pratt sono lupi solitari, viaggiatori malinconici che si lasciano trasportare dalle onde. Vere o della fantasia. Si muovono con casualità solo apparente perché, se non sembrano sapere dove stanno andando con esattezza, si aspettano di aver scoperto qualcosa di nuovo, di aver acquistato un ulteriore frammento di conoscenza, alla fine del percorso. Sono venuti da tutta Italia, molti anche dall’estero, per questa retrospettiva, la prima a dieci anni dalla morte dell’artista scomparso nel 1995. Sembrava quasi che aspettassero silenziosi, sparsi qua e là, l’occasione per uscire allo scoperto e rivendicare con fierezza la loro passione. C’è chi non ha mai perso una storia, ci sono gli amici ed i collaboratori di Hugo, i collezionisti ma anche ragazzi e ragazze, che ne hanno solo sentito parlare in giro che circolano incuriositi fra le ‘tappe’ sparse fra Venezia, l’Africa ed i mari del sud. All’inizio qualcuno si è chiesto perché Siena, perché il Santa Maria della Scala e quel palazzo Squarcialupi inaugu- rato niente meno che per Duccio, il padre di tutti i pittori senesi. La risposta è che l’arte è una sola,cambiano le forme, i contesti, le epoche, il valore delle opere e non si deve solo parlare di se stessi ma anche dialogare con il resto del mondo. A qualche decina di metri da Pratt, un grande disegnatore italiano, c’è Paul Davis con i suoi ritratti hollywoodiani ed i colori sfacciati di una americano cresciuto sotto il bombardamento della pop art. Dall’altro lato della piazza il Duomo di Siena, poco più in là, nel museo dell’Opera, Duccio è sempre disponibile con la sua opera più ammirata: la Maestà. Non manca niente, anche la dimora dell’ultimo dei Chigi Saracini, sede dell’Accademia, è straordinariamente aperta al pubblico con i suoi tesori: Sassetta, Beccafumi, Salvator Rosa. Lanciata nell’orbita dei “costruttori di eventi”, la città resta in scia degli esempi migliori in Italia ed in Europa integrando l’offerta tradizionale dei musei e del patrimonio artistico esistente con iniziative che la mettono in contatto con esperienze diverse e luoghi lontani. L’idea funziona, i visitatori arrivano e gli effetti benefici sul tessuto locale già si vedono. È una scelta che sta pagando anche dal punto di vista della ricaduta positiva sull’immagine della città che conquista spazi importanti sui media nazionali ed inter- nazionali. L’accoglienza della mostra dedicata ad Hugo Pratt è stata davvero trionfale, anche superiore alle aspettative ed all’investimento nella promozione: oltre 400 fra articoli sulla carta stampata, servizi radio e tv, presenze su internet in un mese. E non è finita qui. È una visibilità che avrà i suoi effetti ben oltre la fine di agosto, quando “Periplo Immaginario” chiuderà i battenti e che, forse, ha definitivamente risposto a chi crede che si debba solo guardare il passato. Certo, è giusto proporre la Siena dei suoi momenti migliori, che deve essere valorizzata e preservata. Ma non è il caso di rinunciare alle potenzialità di un centro che anche oggi ha tutte le carte in regola per continuare a produrre cultura. David Rossi SIENA Il Giornale di Santa Maria della Scala Gli spazi e lo strumentario dell’ospedale I letti uno a fianco all’altro e, sopra lo zoccolo dipinto a finti riquadri, gli affreschi di Taddeo di Bartolo: se c’è un’immagine che meglio di qualsiasi testimonianza raffigura la secolare realtà ospedaliera senese, è questa. La sala è il Pellegrinaio, il reparto è l’ortopedia, più precisamente la ‘degenza donne’. Lo scatto, realizzato negli anni Venti del secolo scorso, è stato esposto insieme a immagini, strumenti sanitari e arredi nella mostra L’antico ospedale di Santa Maria della Scala: gli spazi, lo strumentario che si è tenuta presso il centro didattico del nuovo policlinico dal 14 al 19 marzo. L’evento - prima tappa di un percorso culturale che si svilupperà nei prossimi mesi con iniziative riguardanti l’arte, la storia della sanità e il rapporto quotidiano dei dipendenti con quella che, per secoli, è stata una delle più importanti istituzioni della città - è stato organizzato con il prezioso contributo di Enrico Toti, Conservatore del Complesso museale di Santa Maria della Scala e di Francesca Vannozzi, Presidente del Centro universitario per la valorizzazione e la tutela del patrimonio storico scientifico. Ma la circostanza che aggiunge alla mostra un alto valore simbolico è stata la partecipazione e la collaborazione appassionata di molti dipendenti. Un’esposizione necessaria perché, se è vera l’osservazione che a Siena si volge anche troppo spesso lo sguardo indietro, non si può negare che il sempre più rapido passare del tempo e la maggiore mobilità delle persone rischiano di far scomparire ricordi e tradizioni che, fino a pochi decenni fa, erano parte viva della memoria storica e quotidiana dei senesi. L’attaccamento e la fiducia per il secolare ospedale rappresentavano e dunque continuano a rappresentare due elementi costitutivi dell’identità cittadina. Le immagini vanno osservate con attenzione e, sotto certi aspetti, decrittate. Infatti, le sale operatorie, gli ambulatori, le camere, le corsie sono linde e pulite; i letti, le sedie e gli arredi sono sistemati con grande rigore. La precisione e la pulizia che regna negli ambienti fanno supporre che si tratti di fotografie destinate a pubblicazioni scientifiche o comunque scattate per tramandare la memoria. Anche gli infermieri, le suore, i medici al tavolo operatorio, nelle corsie o in gruppi fissano quasi sempre seriamente l’obiettivo. Hanno capelli e abiti sistemati, sguardi solenni. Si avverte ordine e disciplina. Urge quindi una domanda: quanta verità c’è nell’immagine fotografica? Cosa potrebbe nascondersi dietro quel rigore e quella solennità? Credere ad un’età dell’oro è forse ingenuo. Fallace illudersi che cupezze, tensioni, nervosismi non appartenessero a quel mondo lavorativo. Ottimistico supporre che le sale fossero sempre così ordinate e pulite. Sfrondato il campo dalle operazione nostalgia è però possibile fare alcune puntualizzazioni. Fino a qualche decennio fa vivere e lavorare erano concetti che si intrecciavano assai più di oggi. Gli orari di lavoro erano più lunghi, i congedi concessi con grandissima parsimonia, le regole severe e le festività ridotte alla domenica o al giorno di riposo settimanale per i medici e gli infermieri. Ciononostante, lavorare al Santa Maria della Scala era motivo di fierezza. L’istituzione aveva una storia gloriosa, le retribuzioni erano buone anche per gli operai e gli infermieri e le alternative di lavoro erano limitate. Nei primi decenni del Novecento, Siena, l’Italia, erano uscite da una penuria secolare - c’era poco, ma quel poco era comunque qualcosa più di prima. Nella realtà quotidiana, le vorticose accelerazioni imposte dalla modernità giungevano a Siena attenuate. La discontinuità con il tempo passato si coglieva, ma non suscitava quel disorientamento che, invece, permea la vita contemporanea. Lavorare al Santa Maria, insomma, era un piccolo privilegio che meritava di essere santificato con la dedizione e l’attenzione. Una realtà quindi complessa e sfaccettata, fatta di luci e di ombre. Di etica del lavoro e di ristrettezze quotidiane. Tramandare la memoria di questo vissuto non è vano. Ci si guarda allo specchio e si scopre il volto – il nostro volto – cinquant’anni prima. Jolanda Semplici pag. 6 Mecenatismo e archeologia: la collezione Salotti Santa Maria della Scala 7 maggio 28 agosto 2004 Dopo la prestigiosa collezione Bernardi donata al museo nel 2001, costituita da circa trenta maioliche arcaiche medievali riconducibili a botteghe senesi del XII-XVI secolo, il Santa Maria della Scala si arricchisce di un’altra importante collezione di materiali archeologici. Si tratta di un lotto di reperti in gran parte etruschi che, per volontà di Caterina e Antonio Salotti e della Soprintendenza Archeologica della Toscana, entreranno a far parte delle collezioni del museo archeologico. I materiali, circa settanta reperti, offrono la possibilità di una concreta integrazione alle già ricche collezioni del Santa Maria. Alcuni lotti di materiali infatti sembrano potere essere ricondotti a produzioni dell’Etruria meridionale dove importanti città quali Vulci, Veio, Caere, Tarquinia si trovarono inserite precocemente nel tessuto dei rapporti internazionali con la Grecia e con l’Oriente, rivestendo contemporaneamente un ruolo primario nel territorio, da un punto di vista politico, religioso e culturale. La collezione è costituita da materiali ceramici e oggetti in bronzo che coprono un arco cronologico piuttosto ampio, dall’VIII secolo a.C. all’età romana. Tra i manufatti per lo più riconducibili all’Etruria meridionale è un nucleo di buccheri: si tratta di forme vascolari evidentemente legate al mondo del banchetto, trattandosi di vasi per bere e per attingere (calici, kantharoi, coppette, un’oinochoe a bocca trilobata). Ad essi si affiancano alcuni pezzi di ceramica etruscocorinzia, produzione etrusca che imitava il vasellame corinzio che arrivava in Etruria in Italia tra VIII e VII secolo a.C.: tra questi anche dei contenitori per olii profumati (alabastra), oltre a pezzi presumibilmente di importazione o realizzati da artigiani immigrati, che documentano il continuo rapporto di scambi che caratterizzava l’Etruria e il resto del bacino del Mediterraneo. Tra questi si segnala una splendida pisside a decorazione geometrica con quadriga di cavallini sul coperchio. La collezione presenta inoltre materiali in bronzo: armille, fibule decorate con motivi incisi, spirali, pendenti di collana, tutti oggetti abitualmente deposti in corredi funerari del VIII-VII secolo a.C. L’esposizione tiene conto dell’arco cronologico e delle probabili aree di fabbricazione dei materiali ed è corredata da una pubblicazione in cui, ad una introduzione di carattere generale, farà seguito una trattazione per schede dei singoli oggetti esposti. La mostra è realizzata in collaborazione tra Santa Maria della Scala, Comune di Siena e Soprintendenza Archeologica della Toscana. SIENA Il Giornale di Santa Maria della Scala pag. 7 Passa da Siena la via del caffè! Nell’ambito dell’accordo stipulato tra il Santa Maria della Scala, l’Università degli Studi di Siena e L’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio, tra le varie iniziative in programma, nel mese di marzo è stato organizzato, in collaborazione con l’ufficio produzione culturale dell’Università, un originale pomeriggio dedicato al caffè. Il Professor Roberto Francavilla, docente di Letteratura portoghese e brasiliana, ha proposto un suggestivo percorso storico – antropologico, che ha visto il caffè protagonista non solo in quanto bevanda ma soprattutto come fenomeno culturale. Nel corso dell’incontro, l’attore Francesco Pennacchia, accompagnato dalle canzoni e dalla divertente mimica del gruppo “Loungerie”, ha letto alcuni brani tratti da testi letterari ispirati dal caffè, durante la proiezione di scene di film e immagini di caffè storici e comunque legate alla degustazione di questa bevanda e a ciò che essa ha rappresentato e suscitato nell’immaginario collettivo. Nel Pellegrinaio delle donne di Palazzo Squarcialupi è stata inoltre allestita una vera e propria “sala caffè”, dove sono state presentate miscele particolarissime, successivamente degustate dai numerosi studenti presenti. Di seguito si riporta una sintesi dell’interessante intervento del Professor Francavilla. Il caffè, da secoli, è presente nel nostro quotidiano, nella nostra cultura. Bevanda trasversale, né di destra né di sinistra, aristocratica, proletaria, bohemien, piccolo borghese come una frase così frequente nel nostro lessico, sorta di rituale del comportamento sociale: Venga a prendere un caffè da noi. Se dovessimo percorrere un cammino fino alle origini, ci imbatteremmo subito nel fertile incrocio di Storia e leggenda: un pastore delle Mille e una notte, le cui capre si mantengono “vivaci” la notte se mangiano certe bacche, ne prova gli effetti su di sé e corre a informare i monaci di un convento. Un monaco si prepara un infuso con quelle bacche per poter pregare anche la notte. O ancora: Maometto un giorno si sente male e Allah, gli manda una pozione scura come la qawa, la Sacra Pietra Nera della Mecca. Maometto la beve, si rianima di colpo e riparte verso grandi imprese! Anche la storia dell’etimo contiene corrispondenze fra realtà e fantasia: il termine qahwa indica infatti, nella poetica araba, ciò che “rapisce e incita al volo”. Ma è la parola turca kahwé a viaggiare sulle navi, con i marinai e i commercianti: caffè a Venezia, coffee a Londra, kopi in Indonesia, kehi in Giappone. Quanto all’origine storica, è ormai certo che la culla di questa varietà della famiglia delle rubiacee fu il Corno d’Africa e che gli arabi protessero gelosamente il loro monopolio (il principale imbarco del caffè fu per molto tempo il porto yemenita di Moka), violato soltanto nel 1616, quando un mercante olandese sottrasse la preziosa pianta e la esportò in Asia e alle Antille. Nel 1727 un ufficiale portoghese riuscì a ottenere una pianta dalla moglie del governatore della Guyana Francese: servirà per avviare la coltura in Brasile, che continua ancora oggi ad essere il maggior produttore mondiale e che deve alla mano d’opera degli schiavi gran parte della sua fortuna. La schiavitù si estingue in Brasile nel 1888 (ultimo paese ad abolirla) ma forme di schiavitù legate alla monocoltura del caffè sopravvivono tristemente nella modernità. Nell’Oriente Islamico il caffè, o “vino d’Arabia” è già una bevanda famosa nel Quattrocento. Il successo è tale da provocare le prime restrizioni, poiché ormai divenuto pretesto di incontro, distraendo gli uomini dalle funzioni religiose. L’Arabia Felix, anticipando una querelle che animerà la scienza, il pensiero e la società occidentale, dibatte a lungo sui benefici e sui malefici del caffè. Scuole di pensiero si incrociano e si danno battaglia. Ma alla fine il caffè piace, come piacciono i luoghi dove si sorseggia, siano essi le arcate di un palazzo arabo o persiano o la tenda nel caravanserraglio di una tribù di nomadi: spazi di discussione politica, luoghi intimi e raccolti dove si narrano storie, si recitano e si compongono poemi. Nel Seicento i cardinali italiani denunciano la “bevanda oscura dell’Islam che proviene dal diavolo”. Una guerra di civiltà? Certamente una guerra fra culture in cui si segnalano, tuttavia, illuminanti eccezioni; è il caso di Papa Clemente VIII, il quale dichiara: “l’aroma del caffè è troppo gradevole per essere opera del maligno, e sarebbe un peccato che i musulmani ne avessero l’esclusiva”. La generale avversione da parte della cultura ufficiale e delle istituzioni prosegue nel ‘700, ma anche qui risaltano importanti voci fuori dal coro, come l’esempio musicale rappresentato dalla Cantata del Caffè composta da Bach. Tendenza opposta, invece, nel secolo seguente. Ne è vivida testimonianza l’elogio del caffè scritto nel 1838 da Honoré de Balzac e pubblicato nel suo Trattato degli eccitanti moderni. Il caffè, lo sappiamo bene, non è soltanto una bevanda. È anche un luogo di incontro, di nascita e scambio di idee, e al contempo uno spazio della meditazione e della solitudine, dove l’individuo protegge la propria anonimità. Per questo sono sempre i caffè il rifugio dei solitari, degli amanti, degli artisti. Un luogo che ha prodotto un lessico specifico: le chiacchiere da caffè, la politica da caffè, la rivoluzione al caffè, addirittura il futuro letto nei fondi del caffè, secondo quel rituale apotropaico che prende il nome di caffeomanzia. Il luogo per eccezione è il caffè letterario. La sua storia è assai lunga: dalla prima caffetteria aperta a Istanbul, a metà del 500, attraverso la veneziana “Bottega del Caffè” celebrata dal Goldoni, fino a Internet, con cui non solo nasce uno spazio nuovo, l’internet caffè, ovvero un bar tradizionale a cui è stata aggiunta una serie di postazioni dotate di accesso alla rete, ma si sviluppa un rivoluzionario concetto di territorio, questa volta virtuale, che ha ripreso i riti e le passioni del vecchio caffè: un ritrovo in cui scambiarsi le idee, leggere racconti e poesie, discutere, confrontarsi. Ecco il caffè on line. L’indirizzo del sito equivale a quello topografico. La città e le sue strade sono gli spazi infiniti della rete, basta sapere dove dirigersi. A cavallo fra il XIX e il XX secolo si situa però l’epoca di maggior successo del caffè come luogo di intrattenimento, ma anche forum sociale e politico, laboratorio di arte e letteratura. Nella Parigi della belle epoque nasce il café chantant immortalato dalla pittura impressionista e ribattezzato in Italia “caffè concerto”. A Trieste il “Caffè degli Specchi”, fondato nel 1839 e poi frequentato da Kafka, Joyce e Svevo; il “Café Flore” ancora a Parigi, dove con Sartre e Simone de Bouvoir nacque l’Esistenzialismo; il “Café A Brasileira” di Lisbona, dove Fernando Pessoa creò le avanguardie portoghesi; e ancora “Le Giubbe Rosse a Firenze”, luogo elettrico, avanguardista, punto di ritrovo del Futurismo prima e degli scrittori riuniti attorno alla rivista “Solaria” (fra cui Vittorini, Montale, Comisso) poi. Il caffè e le avanguardie, un legame storico: il movimento dadaista nasce a Zurigo nel 1919. Dove? In un caffè, che si chiama “Le petit grillon”. Lo frequentano Cocteau, Bréton, Tristan Tzara, Picabia, Max Jacob. Spostiamoci da Zurigo e torniamo a Parigi. All’epoca felice della Montmartre bohemienne, i giovani cubisti come Picasso e Braque frequentavano un caffè cabaret che si chiamava “Le Zut”, in una viuzza sinistra e sconosciuta. E quando questo straordinario movimento artistico e umano (che non era fatto solo di grandi pittori ma dal mondo che a essi ruotava attorno) scende la collina di Montmartre, attraversa il fiume e si sposta sulla Rive Gauche, a Montparnasse, l’ombelico della nuova generazione è ancora una volta un caffè: si chiama “La Rotonde”, e il suo ambiente cosmopolita accoglie esiliati e nomadi della cultura di mezzo mondo, dagli studenti africani della Negritude a Henry Miller, da Hemingway a Lenin e Trotszky (quest’ultimo vi passa ore e ore impegnato in interminabili partite a scacchi). Quando Charlie Chaplin arriva per la prima volta a Parigi e gli chiedono cosa voglia visitare, risponde: “per prima cosa il caffè La Rotonde!”. Il caffè possiede di fatto qualcosa di futurista, perlomeno in una delle sue più note varianti, l’Espresso. Il nome si lega al mito del viaggio, del treno, al senso di velocità, all’immediatezza con cui la bevanda si prepara grazie a quelle macchine a pressione che dai primi del Novecento sono (o erano) un vanto della nostra industria nazionale. E se già nel 1895 a Parigi Cezanne dingeva una Donna con caffettiera è nei manifesti art deco, dove venivano pubblicizzate macchine del caffè monumentali, sormontate da aquile, vittorie alate, smalti, motivi floreali, che si ritrova la vertigine del moderno. Il legame con l’arte, il design industriale e la comunicazione si fa via via più concreto. Basti pensare alla matita di Giò Ponti, che, ispirandosi alle carrozzerie delle automobili americane, allunga la forma aerodinamica delle nuove macchine da bar, o al modello di caffettiera Alessi 9090, che entra nella collezione permanente del MOMA, il Museum of Modern Art di New York. La storia del caffè, dunque, oltre che dei luoghi e delle parole, è anche storia degli oggetti. Roberto Francavilla