giornale n.17 - SMS santa maria della scala

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giornale n.17 - SMS santa maria della scala
Il Giornale
di Santa Maria della Scala
Periodico
del Santa Maria della Scala
di Siena
Anno V numero 17
Aprile 2005
Direttore responsabile
Enrico Toti
Spedizione in A.P.-Art.2
comma 20/B L.662/96 - Siena
17
Il Santa Maria della Scala
e la contemporaneità
Luogo
di appagamento
estetico
e luogo dove
si riesce
ad esaltare
emotività
e pensiero...
Con il procedere del recupero e del restauro l’antico
ospedale del Santa Maria
della Scala disvela sempre
più la sua monumentalità
di fabbrica medievale che,
dall’XI al XV secolo, ha risposto alle esigenze di
espansione inglobando al
suo interno tratti di mura e
di strade cittadine dando
vita ad una città nella città.
Al tempo stesso, attraverso
la sua storia e le sue opere
d’arte frutto di una committenza illuminata, rimane
una testimonianza tangibile
dell’influenza avuta sulla
vita e sulla civiltà politica,
sociale ed economica della
Siena del periodo di massimo splendore.
Tutto questo non può fare
oggi del Santa Maria della
Scala solo un tempio della
medievità. Sarebbe una
contraddizione con la sua
storia.
Come ogni monumento architettonico che è rimasto
per più di un millennio a
contatto con la vicenda
umana ha avuto ripetutamente nel tempo, l’impatto,
il confronto, l’interazione
con la contemporaneità, che
oggi è stratificazione di stili
e di espressioni artistiche.
Lo ha avuto quando l’accoglienza dei pellegrini e il sostegno ai poveri e ai bambini abbandonati hanno fatto
convivere l’apertura ad altre civiltà e ad altre culture
con l’indigenza e le difficoltà di vita sul territorio.
Lo ha avuto quando –passando alla funzione di ospedale moderno per arrivare
fino a policlinico universitario del XX secolo- ha dovuto trovare soluzioni che
adeguassero gli ambienti all’evoluzione che scienza e
ricerca apportavano ai contenuti ed alle condizioni
dell’attività ospedaliera e
sanitaria.
Lo ha avuto per il fatto di
aver sempre messo al centro
del proprio operare la persona con i suoi bisogni materiali, con le sue sofferenze, con il suo bisogno di
spiritualità e quindi con la
sua diversità segnata dall’essere uomo o donna di
epoche diverse.
Oggi l’attuazione del progetto di recupero e di riuso
a fini culturali, mosso dalle
intuizioni di due grandi intellettuali senesi quali Bargagli Petrucci e Cesare
Brandi, non può che continuare in coerenza con questa storia e con i contenuti
del progetto sul quale tutta
la Città ha scommesso insieme all’Amministrazione
Comunale.
È stato naturale che, nel
momento del restauro del
complesso architettonico,
spazi monumentali medioevali fossero recuperati con
quanto di più avanzato,
raffinato e sofisticato ci può
essere offerto dalla contemporaneità nel campo dei
materiali e delle tecnologie,
dando vita, con la progettazione di Guido Canali, ad
ambienti carichi di fascino
ed emotività quali il Museo
Archeologico e Palazzo
Squarcialupi con la sua sede espositiva.
Questo avverrà sicuramente
anche con tutti quegli spazi
che saranno luogo della
memoria, della conservazione e della valorizzazione
delle collezioni e del patrimonio artistico, che accoglieranno il Museo della
Città e il Museo della Civiltà figurativa senese con i
capolavori della Pinacoteca.
Ma perché il Santa Maria
della Scala continui ad essere nel presente la sintesi
tra passato e futuro, ha bisogno di vita, ha bisogno di
essere luogo di relazione, di
incontro, di scambio tra
patrimonio materiale e persone e tra le persone stesse.
Deve essere luogo dell’appagamento estetico e luogo
nel quale la persona – bambina o adulta – riesce ad
esaltare emotività e pensiero.
La sua contemporaneità il
Santa Maria della Scala la
vive sicuramente tutte le
volte che fa incontrare un
artista ed il suo linguaggio
figurativo musicale, teatrale,
letterario ed anche grafico
e multimediale, con la sensibilità del visitatore, coinvolge quest’ultimo e lo aiuta
a conoscere e a percepire
l’espressione artistica, a
partire dall’antico fino al
presente.
Se questa diviene l’essenza
della missione del polo culturale ne divengono naturali
la proiezione europea ed internazionale e la proiezione
verso l’incontro tra arte e
scienza e tra pensieri, cultu-
re ed elaborazioni diverse.
La visita al monumento e
agli spazi museali coinciderà con la crescita culturale
ed interiore del visitatore
coinvolto, che apprezzerà
di poter trovare magari nel
tempo e negli stessi spazi
Duccio di Boninsegna o
Hugo Pratt senza vedere il
secondo come un tradimento
al luogo e alla sacralità di
un periodo storico-artistico.
Anna Carli
Rettore
Nella foto: il pozzo
e lo scalone di accesso
alle sale di Palazzo
Squarcialupi.
SIENA
Il Giornale di Santa Maria della Scala
pag. 2
Un appuntamento
per gli anni futuri
Riflessioni
di Lucia
Fornari
Schianchi,
nuovo
Soprintendente
ai Beni Artistici
e Storici
di Siena
e Grosseto
Il Giornale
di Santa Maria
della Scala
Periodico
del Santa Maria della Scala
di Siena
Anno Quinto
Numero 17
Aprile 2005
Direttore Responsabile
Enrico Toti
Autorizzazione del Tribunale
di Siena n. 693
del 17 marzo 2000
Segreteria di redazione
Nora Giordano
Hanno collaborato
a questo numero
Alessandro Bagnoli
Debora Barbagli
Anna Carli
Lucia Fornari Schianchi
Roberto Francavilla
Nora Giordano
Laura Ponticelli
David Rossi
Jolanda Semplici
Enrico Toti
Impostazione grafica
Rauch Design
Realizzazione lastre CTP
e Stampa
AL.SA.BA Grafiche, Siena
Istituzione Santa Maria
della Scala
Piazza Duomo 2, Siena
Tel 0577/224811 - 224835
Fax 0577/224829
[email protected]
www.santamaria.comune.siena.it
Arrivo a Siena come Soprintendente ai Beni Artistici e
Storici in sostituzione di un
collega come Bruno Santi,
gentile e stimato, affermato,
qui, da circa 13 anni, il 27
gennaio di quest’anno.
Conosco poche persone,
rincorro col pensiero i capolavori di questa terra che ho
amato da sempre, ma dalla
quale mi sento estranea.
Bellissima esperienza personale! È che non riesco a subire l’atteggiamento militaresco, l’imposizione senza
preavviso, la mancanza minima di consultazione, l’atteggiamento perentorio di un
Ministero che dovrebbe sapere che cosa è lo stile, senza
avvilire o deprimere chi, sul
territorio, dovrebbe farlo
funzionare.
Non è un bel momento!
Fa freddo e Siena è silenziosa e cupa. Vorrei volarmene
a New York, anche per
dimenticare i miei progetti
interrotti bruscamente e
il mio analogo ufficio di
Parma, dove sono cresciuta
dalla gavetta e ne conosco
ogni più recondito palpito,
dove ho lavorato tanto per
farne il luogo più autorevole
per la conservazione e la
conoscenza di un patrimonio
da ducato.
Sono passati quasi tre mesi,
ho girato su e giù per le rampe strette e le scalinate scoscese di Siena, ho tracciato
qualche percorso territoriale
spingendomi giù fino a Massa
Marittima e Grosseto, Orbetello e Capalbio e su a Pienza,
Montepulciano, Colle Val
d’Elsa, Castelnuovo Berardenga, Seggiano: terre di
sentimenti e sedimenti
antichi, di paesaggi che
incastonano monumenti di
rara bellezza e mi chiedo:
quale potrà essere il mio ruolo
in questi luoghi, quali le attese di un territorio che ha radici profonde nella tradizione, quale l’intesa con città e
borghi orgogliosi e attivi?
E allora rifletto sul mondo
che viaggia a mille all’ora
(questa è la velocità di qualsiasi jet), alle attuali dinamiche umane, alle transumanze
dall’Africa, dalla Cina, dall’America latina, e mi fermo!
La luce è diversa: lì c’è un
fiume che si appanna con la
nebbia e si illumina di luci
terse alle prime brezze primaverili, qui la città murata
ti stringe il cuore, che si dilata quando esci dalle mura
e ormeggi lo sguardo fra i
miti paesaggi circostanti.
Credo e spero nella tenuta
emotiva della storia dell’arte, nella calda accoglienza
dei colleghi e dell’Ufficio
che, generosamente, mi
incoraggiano. La tristezza
permane anche perché non
so bene che cosa si voglia,
qui, da me e mi restano
oscure le motivazioni di
questo capovolgimento
improvviso, annunciatomi
senza possibilità di replica!
Nulla serve più di quello
che so (i Farnese, i Borbone,
gli Asburgo e Antelami,
Correggio e Parmigianino)
e poco so di quello che dovrà
essere il mio futuro armamentario base: Duccio, sì la
splendida mostra; Simone
Martini che trovo il più civile
dei pittori religiosi; Pietro e
Ambrogio Lorenzetti che
ci mostrano per primi gli effetti del buono e del cattivo
governo di cui ancora ricerchiamo l’essenza dopo secoli
e poi Vecchietta, Sassetta,
Beccafumi, Sodoma, Peruzzi,
e quell’infinita schiera di
maestri minori che formano
la costellazione artistica
senese dalla larga e qualificata bibliografia.
Ma c’è tanto altro che,
mi dico, sarà interessante
scoprire passo a passo.
Insomma, mi sento come un
oculista che, improvvisamente, dovrà fare il traumatologo o forse dovrò solo gestire,
dimenticando la formazione
di base, o intrecciare semplicemente il mio sapere con
quello altrui o solo applicare,
in un contesto diverso, quello
che, in fondo, ho già fatto
per trent’anni.
In queste terre è soprattutto
il pensiero che lavora, senza
corresponsione stretta con
l’azione. Sono luoghi da turisti, infatti, che vengono, a
frotte, per ammirare, contemplare, emozionarsi nella
lentezza, ma poi se ne tornano via, dove fluttua la vita,
dove si corre per produrre,
per mercificare, dove l’idea
deve nascere e crescere in
fretta. Si riaffacciano perentorie le considerazioni del
Nobel Daniel Kahneman:
sulla nostra esperienza reale
prevale il ricordo delle sensazioni provate, sull’experiencing self predominerà il
remembering self. Attendo,
infatti, di poter valutare il ricordo sull’esperienza diretta,
di poter fare la sintesi, fra
qualche anno, della successione dei momenti (se ne calcolano 20.000 in una giornata
lavorativa) che ho vissuto in
questo periodo, con i conseguenti umori.
Ripercorrerò, allora, le mie
solitarie camminate in Via
di Città, alle otto di sera, lo
sguardo perso e assente fra
le botteghe del centro, gli
ingressi a bassa motivazione
nei pochi monumenti aperti,
i primi approcci con le Contrade, la meditativa esplorazione della Pinacoteca Nazionale, i passi silenziosi sul
sublime pavimento della
Cattedrale, mentre il pensiero
correva dal passato al
presente, dalla vita altrui
(artisti compresi) alla mia.
La gioia arrivava quando
l’orizzonte si allargava sulla
campagna circostante quando
qualche contadino, solitario
come me, stava compiendo il
gesto antico della potatura,
del dissodamento e mi riportava alla verità delle cose,
alla cura del paesaggio fatta
di azioni tramandate sul
campo e poche parole.
Che cosa ne sarà di questi
dolci pendii e della loro
sublime vegetazione quando
scomparirà questa sapienza,
e resterà solo la parola come
è stato per l’artigianato vero
e non pseudoindustriale, volgare falsificazione di una
matrice altissima?
Che cosa ne sarà di questi
monumenti aggrediti da portatori sanissimi di esperienze
ultramoderne che amano
spesso esperire l’antico come
vezzo esibitorio?
Qualche volta nel ricordo affiorerà l’incubo consolatorio
e contraddittorio di una modernità assoluta come trasformazione ulteriore delle
calviniane città invisibili e
come valore in sé, esperienza
dell’hic et nunc, fragilità
definitiva della vita oltrechè
dell’arte. Questo sarà, a
ritroso, il risultato del mio
remembering self o altro
ancora nell’aver “subito” il
mio dovere, o, forse, gioirò
di un grande amore che fa
fatica a sbocciare, ma assumerà, per questo, un più
profondo valore soprattutto
se nutrito di reciprocità.
Avevo fissato, sbagliando,
un appuntamento diverso
per i miei anni futuri, senza
fare i conti con la realtà:
ma alla fine bisogna dirsi
“è solo lavoro”!
È che lo carichiamo di troppe
valenze. Se lo percepissimo
per quello che è: un compito
da svolgere senza eroismi,
una risposta onesta a delle
esigenze andrebbe molto
meglio nel momento dei
cambiamenti imprevisti.
Sì, molto meglio! E valutare
le coincidenze fortunate.
Per esempio il ritrovare qui
l’ingegno creativo dell’architetto Guido Canali, al quale
mi unisce l’esperienza irripetibile di aver realizzato il
restauro del Palazzo della
Pilotta a Parma e la rinascita
della sua Galleria Nazionale
a partire dagli anni Settanta.
Qui la sfida è ancora più
complessa e il cantiere uno
scrigno che i senesi cominciano ad apprezzare per le valenze artistiche originali
e per quello che potrà
diventare ad opera conclusa.
Un congegno museale, un
laboratorio politecnico che
ammirano in molti, anche
per le attività che vengono
disegnate e realizzate con
continuità e varietà.
Ecco sul tema della varietà,
che è il più intimo segno
distintivo della nostra cultura
artistica, dei molteplici linguaggi che l’hanno caratterizzata, potrei ritrovare una
dinamica nuova per i miei
pensieri qui e altrove.
Lucia Fornari Schianchi
SIENA
Il Giornale di Santa Maria della Scala
pag. 3
Nuove ricerche sul Pellegrinaio
Un recente
studio condotto
da Elda Costa e
Laura Ponticelli,
studentesse
dell’Università
di Siena,
è tornato
ad analizzare,
dal punto di vista
iconografico,
il ciclo decorativo
del Pellegrinaio
Una parte consistente
di questo lavoro è stata
pubblicata sulla rivista
Iconographica, curata dal
Dipartimento di Archeologia
e Storia dell’Arte
dell’Università di Siena.
Le ricerche effettuate hanno
portato all’acquisizione
di nuovi elementi per la
conoscenza degli affreschi
del Pellegrinaio e alla
formulazione di ipotesi che
studi futuri potranno
sviluppare ulteriormente.
In particolare, la decorazione
del soffitto, oggetto per la
prima volta di un’analisi
approfondita, ha fornito lo
spunto per interessanti
considerazioni.
Realizzata tra il 1439 e il
1440 dal pittore bolognese
Agostino di Marsiglio, la decorazione del soffitto consta
di ben cinquantasei figure di
santi e personaggi dell’Antico
Testamento, distribuite nelle
vele delle volte e nei sottarchi
che segnano la divisione tra
una volta e l’altra. L’indagine
ha tentato di fare luce sulla
questione della committenza
e sul possibile criterio da essa
adottato nella scelta dei personaggi da rappresentare. Di
grande interesse si è rivelata
a questo proposito la presenza
nella quinta campata dello
stemma di Carlo d’Agnolino
Bartoli, vescovo di Siena al
tempo della realizzazione
degli affreschi ed ex-Rettore
dello Spedale, particolare che
ha permesso di ipotizzare un
suo coinvolgimento nell’elaborazione del programma
iconografico.
L’analisi dei grandi e più
celebri affreschi delle pareti
laterali ha approfondito gli
studi precedenti, tentando
di cogliere il significato
profondo di ogni scena.
Si è evidenziato ad esempio
come le raffigurazioni di
momenti di vita ospedaliera
collocate sulla parete destra
della sala rispecchino puntualmente gli Statuti che regolavano le attività all’interno dello Spedale, tentando
allo stesso tempo di individuare le diverse mansioni
ospedaliere attraverso l’attenta osservazione dei costumi dei vari personaggi.
Le novità più importanti cui
ha condotto la ricerca riguardano probabilmente l’affresco con la Storia di Sorore, la
prima delle quattro scene di
carattere storico-istituzionale
collocate sulla parete di sinistra e certamente una tra le
più problematiche dal punto
di vista interpretativo.
Lo studio della leggenda del
mitico fondatore dello Spedale ha consentito di formulare alcune ipotesi riguardo
alla sua istituzionalizzazione
come beato, che sembrerebbe
essere avvenuta nell’arco di
tempo che va dal 1441 al
1445. L’elemento di maggiore
interesse è tuttavia il riconoscimento di due figure chiave
dell’affresco, ovvero quella
seduta su un seggio al centro
della scena, di fronte a
Sorore in ginocchio, e quella
in piedi, all’estrema destra,
rappresentata nell’atto di
donare delle monete allo
stesso Sorore. Entrambe le
figure indossano una lunga
veste piuttosto semplice di
colore rosso scuro e un mantello grigio con uno strano
cappuccio che conferisce alla
testa una forma vagamente
quadrata. Proprio questo
particolare dell’abbigliamento
ha permesso di risalire all’identità dei due personaggi:
si è infatti notato che il cappuccio in questione è identico a quello che si osserva
nelle effigi dei canonici del
Duomo Francesco Tolomei e
Viva del Viva riprodotte in
due lapidi sepolcrali quattrocentesche conservate nella
cattedrale di Siena.
L’identificazione dei due personaggi come canonici del
Duomo ha portato a riconsiderare il significato dell’affresco e a fornire una chiave
di lettura assai diversa rispetto a quelle che erano state
proposte in passato.
La presenza di canonici in
questo affresco, che apre la
serie di scene in cui sono
rappresentati gli eventi più
importanti della storia dello
Spedale, ha una sua precisa
ragion d’essere. La nascita
del Santa Maria della Scala
era legata proprio ai canonici
che, essendo tenuti ad impiegare parte consistente delle
loro rendite in sussidio ai
bisognosi, dettero origine al
primo nucleo dello Spedale;
a poco a poco molti laici
vennero in loro aiuto e si
sottomisero all’autorità del
Rettore, dandosi il nome di
fratres e facendo dono di
tutti i loro beni. Col passare
del tempo, nel corso del XII
secolo, questi ultimi cominciarono a pretendere di gestire
autonomamente l’istituzione,
dando così inizio ad una lotta
con i canonici terminata solo
nel 1374 quando la Repubblica di Siena proclamò suo
lo Spedale, arrogandosi il
diritto di nominare i Rettori.
Da quanto vediamo nell’affresco, sembra invece che si
sia voluto raggiungere una
sorta di compromesso, rappresentando l’affidamento
pacifico dello Spedale da
parte dei canonici a Sorore,
quindi ai frati. La scala raffigurata al centro dell’affresco
e indicata con un gesto della
mano dallo stesso Sorore,
simboleggia il tramite tra la
Terra e il Cielo, è la via che
porta al Paradiso; i bambini
che salgono su di essa sono
da interpretare come anime
redente che stanno per essere
accolte dalla Vergine. Poiché
la via al Cielo si acquista
grazie agli atti di carità, ecco
che Sorore mostra al canonico
la via stessa della salvezza,
raggiungibile attraverso
quelle opere di misericordia
che costituivano la ragion
d’essere dello Spedale.
Laura Ponticelli
SIENA
Il Giornale di Santa Maria della Scala
pag. 4
Santa Maria della Scala
work in progress
Dopo la conclusione del
restauro dell’affresco di
Sebastiano Conca nell’abside
della chiesa della Santissima
Annunziata, Alessandro
Bagnoli, della Soprintendenza
per il Patrimonio Storico
Artistico di Siena, responsabile
scientifico del restauro,
presenta la situazione di un
altro dei tre cantieri del
Santa Maria sui quali, grazie
al finanziamento della
Regione Toscana e della
Fondazione Monte dei Paschi,
da circa un anno, si sta
alacremente lavorando:
la Cappella del Manto.
L’intervento sui dipinti murali di questa Cappella (realizzati da Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pèro, Santi
e Beati senesi,1370 e da
Domenico Beccafumi e Bartolomeo di David, grottesche,
1512) che preventivamente
sembrava riservare poche
novità e una scarsa possibilità di recupero (almeno per
quanto riguarda le parti
trecentesche), si sta invece
rivelando molto promettente,
non solo per la scoperta di
nuove zone affrescate, ma
anche per la riacquistata leggibilità delle superfici dipinte, che si presentavano tutte
coperte da un denso strato di
colorazione marrone, frutto
di un trattamento finale di
protezione - degradatosi nel
tempo - che era stato applicato durante il restauro della
fine dell’ Ottocento. Tali sostanze sono state accuratamente rimosse con appropriati impacchi estrattivi facendo tesoro degli eccellenti
risultati che i restauratori
Giuseppe e Massimo Gavazzi
hanno ottenuto in casi analoghi precedentemente affrontati (per esempio la Maestà
di Simone Martini di Palazzo
Pubblico). Le stesure a fresco
hanno infatti riacquistato i
toni naturali e calcinati, che
permettono di restituire senso
compiuto a queste stesure,
in particolare alle campiture
grigio azzurre delle volte, sulle quali in origine era stesa
l’azzurrite. Si sono altresì
rese più evidenti le numerose
abrasioni della pellicola pittorica causate dall’operazione
di scopertura dagli strati di
scialbo, che fu risolta sbrigativamente con poca perizia
tecnica e mezzi meccanici
non adatti. Fortunatamente
tale intervento fu eseguito
soltanto nella prima campata,
mentre nella seconda, esperito qualche insoddisfacente
tentativo, si lasciarono le
replicate stesure di scialbo,
che hanno coperto finora le
superfici dipinte.
Densità degli strati e loro
parziale carbonatazione rendono l’asportazione particolarmente difficile, anche
perché la pellicola pittorica
sottostante risulta più debole
e rischia il distacco. In questo
caso si è verificato che l’abla-
zione con il laser risulta il
mezzo idoneo per ottenere
il miglior risultato possibile.
Per attuare tale operazione
di natura così specialistica si
è richiesta la collaborazione
di Anna Brunetto, operatore
che vanta una pluriennale
esperienza nell’uso del laser
per il restauro di beni di interesse storico artistico.
Il risultato così soddisfacente
ottenuto su dipinti murali ricoperti da scialbo è comunque operazione che non ha
precedenti. La stessa operatrice si dice stupita e soddisfatta del risultato ottenuto,
tanto che ha proposto di presentare questo caso pilota ad
un convegno internazionale
in Austria e di stabilire un
rapporto di collaborazione
con l’Università di Bari, che è
interessata a testare i risultati
del cantiere senese.
L’uso del laser, che non era
prevedibile in fase di progetto
del restauro, si configura
oggi come un’indispensabile,
importantissima variante.
Sulle tre pareti a destra,
guardando le finestre, sono
stati effettuati alcuni saggi
esplorativi che hanno permesso di constatare come le
pareti poste al di sotto degli
archi costituiscono delle tamponature costruite in epoche
diverse e per vari motivi.
Hanno infatti rivelato la
presenza di una decorazione
a fresco del sottarco, che
comprende i Quattro dottori
della Chiesa, raffigurati fino
a mezzo busto.
Sulla parte sinistra, è invece
riemerso un muro coperto
da un intonaco a grassello di
calce molto fine e ben lisciato,
che fu eseguito evidentemente
per restare a faccia vista.
Sullo spigolo di sinistra subito
all’interno della tamponatura
è riapparso anche un elemento architettonico frammentario in stucco. È un frammento
di pilastro dai caratteri stilistici gotici, come dimostrano
la forma di uno stemma a
scudetto e la decorazione
fitomorfa del capitello. Nella
parte alta risulta inoltre
appoggiato sulla superficie
dipinta; segno che si tratta
di un manufatto successivo
all’intervento di Cristoforo e
Meo, col quale era stato fatto
convivere. Aiuta a comprendere la natura del reperto
la raffigurazione a fresco dipinta nel 1441 da Domenico
di Bartolo nel Pellegrinaio,
nella quale è raffigurato com’è ben noto - l’interno
dell’Ospedale. Vi si riconosce
con sicurezza la porta di
fronte al Duomo e a sinistra
l’angolo interno della chiesa,
sul quale si apre l’arco di accesso alla Cappella del Manto.
Oltre questo arco il pittore
senese quattrocentista, dimostrandosi attento alla maniera fiamminga nella resa naturalistica di ambienti, cose e
valori di queste, ha riprodotto un’edicola gotica con vimperga, che somiglia alla tipologia consolidata dei monumenti funebri trecenteschi.
Su questo ritrovamento si
stanno effettuando ulteriori
accertamenti e ricerche, ma
fin d’ora merita sottolineare
l’eccezionalità del materiale
usato. Si tratta di un manufatto povero che voleva, tuttavia, imitare il più ‘nobile’ e
imperituro marmo. A tutt’oggi sono scarsissime le testimonianze sopravvissute di
manufatti modellati con lo
stucco nel corso del Trecento
e del primo Quattrocento.
Si ricordano soltanto le decorazioni fitomorfe del sottarco
che contiene una Maestà a
fresco, dipinta da Ambrogio
Lorenzetti nella cappella
Piccolomini in Sant’Agostino
a Siena, e alcuni frammenti
raffiguranti Alunni in ascolto
dì una lezione, parti superstiti
di un monumento funebre
che stava nella chiesa o nel
chiostro di San Domenico
e ora si conservano su una
parete delle scale di accesso
alla chiesa inferiore.
Approfondendo lo scavo della
tamponatura, è risultato evidente che il muro coperto da
intonaco ritrovato sulla parte
sinistra dell’ arco costituisce
la parte esterna di un corposo parallelepipedo contenente la scala a chiocciola, che
consente di salire all’orologio
posto sulla facciata dell’Ospedale. Sembra da prendere in
considerazione la possibilità
che questa scala sia stata
eseguita al tempo dei rimaneggiamenti interni alla chiesa
affidati a Francesco di Giorgio Martini, che risalgono
agli anni Settanta del Quattrocento La costruzione in
muratura dovette evidentemente sostituire la ‘scatola’
lignea che racchiudeva il
meccanismo di un antico
orologio. È appunto quest’ultimo manufatto ligneo che
Domenico di Bartolo ha riprodotto nel citato affresco del
Pellegrinaio.
La situazione di questo arco
appare, dunque, molto complessa e risulta quindi indispensabile procedere con rilievi grafici in modo da studiare il contesto e la lettura
dell’apparecchiatura muraria.
Occorre infatti verificare la
possibilità di asportare la
tamponatura sulla parte destra dell’arco e studiare il
rapporto con la parete dell’adiacente atrio del Santa Maria, per il quale val la pena
di salvaguardare l’attuale e
assestata configurazione delle
pareti. Si sottolinea inoltre la
positiva esperienza del metodo della ricerca stratigrafica
che ha dato buoni frutti. Infatti, invece di procedere con
saggi distruttivi in profondità
(a carotaggio), l’asportazione
graduale del riempimento ha
permesso di comprendere la
natura e la funzione della parete recuperata e ha garantito
la conservazione integrale
dell’antico intonaco di ottima
fattura, che riveste l’esterno
della scala a chiocciola.
Sulla scala a chiocciola interna si potrà eventualmente
sviluppare un progetto a
parte, il quale ha, comunque,
stretta relazione con le ricerche e l’intervento attualmente in corso. Per le connessioni
più evidenti, merita intanto
ricordare alcune evidenze
rivelate dai saggi:
1. l’intonaco che fascia il
cilindro interno della chiocciola appare molto antico e
sulla superficie sono presenti
segni di sinopia, che formano
decori che potrebbero risalire
al Quattrocento.
2. sotto tale intonaco riaffiora
l’affresco di Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, che evidentemente costituiva una fascia decorativa lungo la centina dell’ arco e una più vasta
facciata, che è dipinta in verde e termina in alto con una
cornice di finta architettura.
Per quanto è ora possibile
vedere, si tratta del frammento di una grande figura,
purtroppo acefala, e di alcuni
caseggiati, il cui aspetto consente confronti molto stretti
con la pittura senese del primo Trecento. Può darsi che
fosse la raffigurazione di una
gigantesca figura di San Cristoforo, che di solito si trova
dipinta, con chiaro intento
apotropaico e di saluto, in
prossimità delle porte, sia
in contesti chiesastici sia in
ambienti pubblici civili.
Anche la seconda parete
della Cappella del Manto
presenta un tamponamento
che ha oscurato la superficie
dipinta del sottarco. Segno
evidente che la decisione di
tamponare la parete avvenne
in epoca successiva a quella
della prima campata. Proseguendo l’indagine, si potrà
accertare se anche la seconda
campata avesse un’apertura
di collegamento con la chiesa
oppure fosse murata.
Una situazione diversa è
quella che appare nella terza
parete. La superficie sottostante l’arco a tutto sesto
appariva completamente
dipinta con un tono grigio
scuro. Non si riusciva a
SIENA
Il Giornale di Santa Maria della Scala
pag. 5
Echi di Pratt
comprendere quale rapporto
potesse avere con il gruppo
scultoreo del Presepe di cui
informano i documenti del
1513 (v. Domenico Beccafumi
e il suo tempo, catalogo della
mostra di Siena, Milano
1990, p. 681).
Un saggio ha permesso di
verificare che la parete è formata da una sottile barriera
di mattoni, o meglio pianelle
da pavimento oltre la quale
è il vano di una nicchia ad
arco, che appare vistosamente
sfalsata rispetto alla centina
dell’arco che sostiene la volta
a crociera della cappella.
Questo vano risulta completamente intonacato e scialbato.
Sotto la scialbatura si recupera la pittura a fresco, che
riproduce una finta struttura
architettonica di color grigio.
Questa stesura pittorica è
in tutto coerente con l’intervento presente sulle volte,
vale a dire con le campiture
azzurre e le incorniciature a
fregi fitomorfi e putti, per le
quali il Beccafumi ricevette
il pagamento nel gennaio
del 1513 (v. i documenti in
Domenico Beccafumi cit. p.
680). Essendo verosimile che
questo spazio recuperato sia
stato il vano nel quale era
sistemato il Presepe di terracotta, si può sperare che
sulla parete di fondo possa
ancora celarsi sotto lo scialbo
un paesaggio che faceva da
fondale al gruppo scultoreo,
come avveniva di norma per
questo tipo di rappresentazioni con sculture e affreschi.
Si pensi all’Adorazione dei
pastori e all’Adorazione dei
magi del Duomo di Volterra
(sculture in terracotta dipinta
di Luca e Andrea della Robbia; fondali a fresco di Benozzo Gozzoli). Si sta ora
procedendo con un saggio,
dal momento che non esiste
una base architettonica
all’interno della nicchia. Vi si
trova bensì una struttura di
traverse lignee e un incannicciato, che formano il soffitto
della porta di collegamento
fra l’attuale ingresso al Santa
Maria della Scala e la Cappella del Manto.
Auspicando la possibile apertura della nicchia tamponata, in modo da ripristinare
una situazione architettonica
e decorativa importante per
la storia della cappella, si
procederà, prima della descialbatura, ad una rilevazione grafica del contesto, non
solo per documentare lo status
quo, ma anche per permettere
la progettazione di una soluzione sostenibile, che risolva
il problema del rapporto
fra nicchia stamponata con
l’architrave della porta di
accesso alla cappella.
Alessandro Bagnoli
Non ci sono i gruppi con la
guida, mancano le gite organizzate dal circolo o dall’associazione culturale. Ma c’è
lo stesso tanta gente che
vuole ripercorrere il Periplo
Immaginario di Hugo Pratt.
Questo però non è un viaggio che si può fare in numerosa compagnia. Come Corto Maltese, il personaggio
più famoso del disegnatore
veneziano, gli appassionati
seguaci di Pratt sono lupi
solitari, viaggiatori malinconici che si lasciano trasportare dalle onde. Vere o della
fantasia. Si muovono con
casualità solo apparente perché, se non sembrano sapere
dove stanno andando con
esattezza, si aspettano di
aver scoperto qualcosa di
nuovo, di aver acquistato
un ulteriore frammento di
conoscenza, alla fine del
percorso.
Sono venuti da tutta Italia,
molti anche dall’estero, per
questa retrospettiva, la prima
a dieci anni dalla morte dell’artista scomparso nel 1995.
Sembrava quasi che aspettassero silenziosi, sparsi qua
e là, l’occasione per uscire allo scoperto e rivendicare con
fierezza la loro passione. C’è
chi non ha mai perso una
storia, ci sono gli amici ed i
collaboratori di Hugo, i collezionisti ma anche ragazzi e
ragazze, che ne hanno solo
sentito parlare in giro che
circolano incuriositi fra le
‘tappe’ sparse fra Venezia,
l’Africa ed i mari del sud.
All’inizio qualcuno si è chiesto
perché Siena, perché il Santa
Maria della Scala e quel palazzo Squarcialupi inaugu-
rato niente meno che per
Duccio, il padre di tutti i
pittori senesi. La risposta
è che l’arte è una sola,cambiano le forme, i contesti, le
epoche, il valore delle opere
e non si deve solo parlare di
se stessi ma anche dialogare
con il resto del mondo.
A qualche decina di metri
da Pratt, un grande disegnatore italiano, c’è Paul Davis
con i suoi ritratti hollywoodiani ed i colori sfacciati
di una americano cresciuto
sotto il bombardamento
della pop art. Dall’altro lato
della piazza il Duomo di
Siena, poco più in là, nel
museo dell’Opera, Duccio
è sempre disponibile con la
sua opera più ammirata:
la Maestà.
Non manca niente, anche la
dimora dell’ultimo dei Chigi
Saracini, sede dell’Accademia, è straordinariamente
aperta al pubblico con i suoi
tesori: Sassetta, Beccafumi,
Salvator Rosa.
Lanciata nell’orbita dei “costruttori di eventi”, la città
resta in scia degli esempi migliori in Italia ed in Europa
integrando l’offerta tradizionale dei musei e del patrimonio artistico esistente con iniziative che la mettono in contatto con esperienze diverse e
luoghi lontani. L’idea funziona, i visitatori arrivano e gli
effetti benefici sul tessuto locale già si vedono.
È una scelta che sta pagando anche dal punto di vista
della ricaduta positiva sull’immagine della città che
conquista spazi importanti
sui media nazionali ed inter-
nazionali. L’accoglienza della mostra dedicata ad Hugo
Pratt è stata davvero trionfale, anche superiore alle
aspettative ed all’investimento nella promozione:
oltre 400 fra articoli sulla
carta stampata, servizi radio
e tv, presenze su internet in
un mese. E non è finita qui.
È una visibilità che avrà i
suoi effetti ben oltre la fine
di agosto, quando “Periplo
Immaginario” chiuderà i
battenti e che, forse, ha
definitivamente risposto a
chi crede che si debba solo
guardare il passato. Certo,
è giusto proporre la Siena
dei suoi momenti migliori,
che deve essere valorizzata e
preservata. Ma non è il caso
di rinunciare alle potenzialità di un centro che anche
oggi ha tutte le carte in regola per continuare a produrre cultura.
David Rossi
SIENA
Il Giornale di Santa Maria della Scala
Gli spazi
e lo strumentario
dell’ospedale
I letti uno a fianco all’altro e, sopra lo zoccolo dipinto a
finti riquadri, gli affreschi di Taddeo di Bartolo: se c’è
un’immagine che meglio di qualsiasi testimonianza raffigura la secolare realtà ospedaliera senese, è questa. La sala è il Pellegrinaio, il reparto è l’ortopedia, più precisamente la ‘degenza donne’. Lo scatto, realizzato negli anni
Venti del secolo scorso, è stato esposto insieme a immagini, strumenti sanitari e arredi nella mostra L’antico ospedale di Santa Maria della Scala: gli spazi, lo strumentario
che si è tenuta presso il centro didattico del nuovo policlinico dal 14 al 19 marzo.
L’evento - prima tappa di un percorso culturale che si svilupperà nei prossimi mesi con iniziative riguardanti l’arte,
la storia della sanità e il rapporto quotidiano dei dipendenti con quella che, per secoli, è stata una delle più importanti istituzioni della città - è stato organizzato con il
prezioso contributo di Enrico Toti, Conservatore del Complesso museale di Santa Maria della Scala e di Francesca
Vannozzi, Presidente del Centro universitario per la valorizzazione e la tutela del patrimonio storico scientifico. Ma
la circostanza che aggiunge alla mostra un alto valore simbolico è stata la partecipazione e la collaborazione appassionata di molti dipendenti.
Un’esposizione necessaria perché, se è vera l’osservazione
che a Siena si volge anche troppo spesso lo sguardo indietro, non si può negare che il sempre più rapido passare del
tempo e la maggiore mobilità delle persone rischiano di far
scomparire ricordi e tradizioni che, fino a pochi decenni fa,
erano parte viva della memoria storica e quotidiana dei senesi. L’attaccamento e la fiducia per il secolare ospedale
rappresentavano e dunque continuano a rappresentare due
elementi costitutivi dell’identità cittadina.
Le immagini vanno osservate con attenzione e, sotto certi
aspetti, decrittate. Infatti, le sale operatorie, gli ambulatori,
le camere, le corsie sono linde e pulite; i letti, le sedie e gli
arredi sono sistemati con grande rigore. La precisione e la
pulizia che regna negli ambienti fanno supporre che si tratti di fotografie destinate a pubblicazioni scientifiche o comunque scattate per tramandare la memoria. Anche gli infermieri, le suore, i medici al tavolo operatorio, nelle corsie
o in gruppi fissano quasi sempre seriamente l’obiettivo.
Hanno capelli e abiti sistemati, sguardi solenni. Si avverte
ordine e disciplina. Urge quindi una domanda: quanta verità c’è nell’immagine fotografica? Cosa potrebbe nascondersi dietro quel rigore e quella solennità? Credere ad un’età
dell’oro è forse ingenuo. Fallace illudersi che cupezze, tensioni, nervosismi non appartenessero a quel mondo lavorativo. Ottimistico supporre che le sale fossero sempre così ordinate e pulite. Sfrondato il campo dalle operazione nostalgia è però possibile fare alcune puntualizzazioni.
Fino a qualche decennio fa vivere e lavorare erano concetti
che si intrecciavano assai più di oggi. Gli orari di lavoro erano più lunghi, i congedi concessi con grandissima parsimonia,
le regole severe e le festività ridotte alla domenica o al giorno
di riposo settimanale per i medici e gli infermieri. Ciononostante, lavorare al Santa Maria della Scala era motivo di fierezza. L’istituzione aveva una storia gloriosa, le retribuzioni
erano buone anche per gli operai e gli infermieri e le alternative di lavoro erano limitate. Nei primi decenni del Novecento, Siena, l’Italia, erano uscite da una penuria secolare - c’era
poco, ma quel poco era comunque qualcosa più di prima. Nella realtà quotidiana, le vorticose accelerazioni imposte dalla
modernità giungevano a Siena attenuate. La discontinuità
con il tempo passato si coglieva, ma non suscitava quel disorientamento che, invece, permea la vita contemporanea. Lavorare al Santa Maria, insomma, era un piccolo privilegio che
meritava di essere santificato con la dedizione e l’attenzione.
Una realtà quindi complessa e sfaccettata, fatta di luci e di
ombre. Di etica del lavoro e di ristrettezze quotidiane. Tramandare la memoria di questo vissuto non è vano. Ci si guarda allo specchio e si scopre il volto – il nostro volto – cinquant’anni prima.
Jolanda Semplici
pag. 6
Mecenatismo e archeologia:
la collezione Salotti
Santa Maria
della Scala
7 maggio
28 agosto
2004
Dopo la prestigiosa collezione Bernardi donata al museo
nel 2001, costituita da circa
trenta maioliche arcaiche
medievali riconducibili a
botteghe senesi del XII-XVI
secolo, il Santa Maria della
Scala si arricchisce di un’altra importante collezione di
materiali archeologici.
Si tratta di un lotto di reperti
in gran parte etruschi che,
per volontà di Caterina e
Antonio Salotti e della Soprintendenza Archeologica
della Toscana, entreranno
a far parte delle collezioni
del museo archeologico.
I materiali, circa settanta
reperti, offrono la possibilità
di una concreta integrazione
alle già ricche collezioni del
Santa Maria. Alcuni lotti di
materiali infatti sembrano
potere essere ricondotti a
produzioni dell’Etruria meridionale dove importanti città
quali Vulci, Veio, Caere, Tarquinia si trovarono inserite
precocemente nel tessuto dei
rapporti internazionali con la
Grecia e con l’Oriente, rivestendo contemporaneamente
un ruolo primario nel territorio, da un punto di vista politico, religioso e culturale.
La collezione è costituita da
materiali ceramici e oggetti
in bronzo che coprono un
arco cronologico piuttosto
ampio, dall’VIII secolo a.C.
all’età romana.
Tra i manufatti per lo più
riconducibili all’Etruria
meridionale è un nucleo di
buccheri: si tratta di forme
vascolari evidentemente legate al mondo del banchetto,
trattandosi di vasi per bere e
per attingere (calici, kantharoi, coppette, un’oinochoe a
bocca trilobata).
Ad essi si affiancano alcuni
pezzi di ceramica etruscocorinzia, produzione etrusca
che imitava il vasellame
corinzio che arrivava in
Etruria in Italia tra VIII e
VII secolo a.C.: tra questi
anche dei contenitori per olii
profumati (alabastra), oltre
a pezzi presumibilmente di
importazione o realizzati da
artigiani immigrati, che
documentano il continuo
rapporto di scambi che caratterizzava l’Etruria e il resto del bacino del Mediterraneo. Tra questi si segnala una
splendida pisside a decorazione geometrica con quadriga
di cavallini sul coperchio.
La collezione presenta inoltre
materiali in bronzo: armille,
fibule decorate con motivi incisi, spirali, pendenti di collana, tutti oggetti abitualmente
deposti in corredi funerari
del VIII-VII secolo a.C.
L’esposizione tiene conto dell’arco cronologico e delle probabili aree di fabbricazione
dei materiali ed è corredata
da una pubblicazione in cui,
ad una introduzione di carattere generale, farà seguito
una trattazione per schede
dei singoli oggetti esposti.
La mostra è realizzata in
collaborazione tra Santa
Maria della Scala, Comune
di Siena e Soprintendenza
Archeologica della Toscana.
SIENA
Il Giornale di Santa Maria della Scala
pag. 7
Passa da Siena la via del caffè!
Nell’ambito dell’accordo
stipulato tra il Santa
Maria della Scala,
l’Università degli Studi
di Siena e L’Azienda
Regionale per il Diritto
allo Studio, tra le varie
iniziative in programma,
nel mese di marzo
è stato organizzato, in
collaborazione con l’ufficio
produzione culturale
dell’Università, un
originale pomeriggio
dedicato al caffè.
Il Professor
Roberto Francavilla,
docente di Letteratura
portoghese e brasiliana,
ha proposto un suggestivo
percorso storico –
antropologico, che ha
visto il caffè protagonista
non solo in quanto
bevanda ma soprattutto
come fenomeno culturale.
Nel corso dell’incontro,
l’attore Francesco
Pennacchia, accompagnato
dalle canzoni e dalla
divertente mimica del
gruppo “Loungerie”,
ha letto alcuni brani
tratti da testi letterari
ispirati dal caffè, durante
la proiezione di scene di
film e immagini di caffè
storici e comunque legate
alla degustazione di questa
bevanda e a ciò che essa
ha rappresentato e suscitato
nell’immaginario collettivo.
Nel Pellegrinaio delle donne
di Palazzo Squarcialupi è
stata inoltre allestita una
vera e propria “sala caffè”,
dove sono state presentate
miscele particolarissime,
successivamente degustate
dai numerosi studenti
presenti. Di seguito
si riporta una sintesi
dell’interessante intervento
del Professor Francavilla.
Il caffè, da secoli, è presente
nel nostro quotidiano, nella
nostra cultura. Bevanda
trasversale, né di destra
né di sinistra, aristocratica,
proletaria, bohemien, piccolo borghese come una frase
così frequente nel nostro
lessico, sorta di rituale del
comportamento sociale:
Venga a prendere un caffè
da noi.
Se dovessimo percorrere un
cammino fino alle origini,
ci imbatteremmo subito nel
fertile incrocio di Storia e
leggenda: un pastore delle
Mille e una notte, le cui capre si mantengono “vivaci”
la notte se mangiano certe
bacche, ne prova gli effetti
su di sé e corre a informare
i monaci di un convento.
Un monaco si prepara un
infuso con quelle bacche per
poter pregare anche la notte.
O ancora: Maometto un
giorno si sente male e Allah,
gli manda una pozione scura
come la qawa, la Sacra
Pietra Nera della Mecca.
Maometto la beve, si rianima di colpo e riparte verso
grandi imprese! Anche la
storia dell’etimo contiene
corrispondenze fra realtà e
fantasia: il termine qahwa
indica infatti, nella poetica
araba, ciò che “rapisce e
incita al volo”. Ma è la parola turca kahwé a viaggiare
sulle navi, con i marinai e i
commercianti: caffè a Venezia, coffee a Londra, kopi in
Indonesia, kehi in Giappone.
Quanto all’origine storica, è
ormai certo che la culla di
questa varietà della famiglia
delle rubiacee fu il Corno
d’Africa e che gli arabi protessero gelosamente il loro
monopolio (il principale
imbarco del caffè fu per
molto tempo il porto yemenita di Moka), violato soltanto nel 1616, quando
un mercante olandese sottrasse la preziosa pianta e la
esportò in Asia e alle Antille.
Nel 1727 un ufficiale portoghese riuscì a ottenere
una pianta dalla moglie del
governatore della Guyana
Francese: servirà per avviare
la coltura in Brasile, che
continua ancora oggi ad
essere il maggior produttore
mondiale e che deve alla
mano d’opera degli schiavi
gran parte della sua fortuna.
La schiavitù si estingue in
Brasile nel 1888 (ultimo
paese ad abolirla) ma forme
di schiavitù legate alla monocoltura del caffè sopravvivono tristemente nella
modernità. Nell’Oriente
Islamico il caffè, o “vino
d’Arabia” è già una bevanda
famosa nel Quattrocento. Il
successo è tale da provocare
le prime restrizioni, poiché
ormai divenuto pretesto di
incontro, distraendo gli uomini dalle funzioni religiose.
L’Arabia Felix, anticipando
una querelle che animerà
la scienza, il pensiero e la
società occidentale, dibatte
a lungo sui benefici e sui
malefici del caffè. Scuole
di pensiero si incrociano e
si danno battaglia. Ma alla
fine il caffè piace, come
piacciono i luoghi dove si
sorseggia, siano essi le arcate di un palazzo arabo
o persiano o la tenda nel
caravanserraglio di una
tribù di nomadi: spazi di
discussione politica, luoghi
intimi e raccolti dove si
narrano storie, si recitano
e si compongono poemi.
Nel Seicento i cardinali italiani denunciano la “bevanda oscura dell’Islam che
proviene dal diavolo”. Una
guerra di civiltà? Certamente una guerra fra culture in cui si segnalano, tuttavia, illuminanti eccezioni; è
il caso di Papa Clemente
VIII, il quale dichiara:
“l’aroma del caffè è troppo
gradevole per essere opera
del maligno, e sarebbe un
peccato che i musulmani ne
avessero l’esclusiva”.
La generale avversione da
parte della cultura ufficiale
e delle istituzioni prosegue
nel ‘700, ma anche qui
risaltano importanti voci
fuori dal coro, come l’esempio musicale rappresentato
dalla Cantata del Caffè
composta da Bach. Tendenza opposta, invece, nel secolo seguente. Ne è vivida
testimonianza l’elogio del
caffè scritto nel 1838 da
Honoré de Balzac e pubblicato nel suo Trattato degli
eccitanti moderni.
Il caffè, lo sappiamo bene,
non è soltanto una bevanda. È anche un luogo di
incontro, di nascita e scambio di idee, e al contempo
uno spazio della meditazione e della solitudine, dove
l’individuo protegge la propria anonimità. Per questo
sono sempre i caffè il rifugio
dei solitari, degli amanti,
degli artisti. Un luogo che
ha prodotto un lessico specifico: le chiacchiere da
caffè, la politica da caffè,
la rivoluzione al caffè, addirittura il futuro letto nei
fondi del caffè, secondo quel
rituale apotropaico che prende il nome di caffeomanzia.
Il luogo per eccezione è il
caffè letterario. La sua storia è assai lunga: dalla prima caffetteria aperta a
Istanbul, a metà del 500,
attraverso la veneziana
“Bottega del Caffè” celebrata dal Goldoni, fino a
Internet, con cui non solo
nasce uno spazio nuovo,
l’internet caffè, ovvero un
bar tradizionale a cui è stata
aggiunta una serie di postazioni dotate di accesso
alla rete, ma si sviluppa un
rivoluzionario concetto di
territorio, questa volta virtuale, che ha ripreso i riti e
le passioni del vecchio caffè:
un ritrovo in cui scambiarsi
le idee, leggere racconti e
poesie, discutere, confrontarsi. Ecco il caffè on line.
L’indirizzo del sito equivale
a quello topografico. La
città e le sue strade sono gli
spazi infiniti della rete, basta sapere dove dirigersi.
A cavallo fra il XIX e il XX
secolo si situa però l’epoca
di maggior successo del
caffè come luogo di intrattenimento, ma anche forum
sociale e politico, laboratorio di arte e letteratura.
Nella Parigi della belle epoque nasce il café chantant
immortalato dalla pittura
impressionista e ribattezzato
in Italia “caffè concerto”.
A Trieste il “Caffè degli
Specchi”, fondato nel 1839
e poi frequentato da Kafka,
Joyce e Svevo; il “Café Flore” ancora a Parigi, dove
con Sartre e Simone de
Bouvoir nacque l’Esistenzialismo; il “Café A Brasileira” di Lisbona, dove
Fernando Pessoa creò le
avanguardie portoghesi; e
ancora “Le Giubbe Rosse a
Firenze”, luogo elettrico,
avanguardista, punto di ritrovo del Futurismo prima
e degli scrittori riuniti attorno alla rivista “Solaria” (fra
cui Vittorini, Montale, Comisso) poi. Il caffè e le
avanguardie, un legame
storico: il movimento dadaista nasce a Zurigo nel 1919.
Dove? In un caffè, che si
chiama “Le petit grillon”.
Lo frequentano Cocteau,
Bréton, Tristan Tzara, Picabia, Max Jacob. Spostiamoci da Zurigo e torniamo a
Parigi. All’epoca felice della
Montmartre bohemienne, i
giovani cubisti come Picasso
e Braque frequentavano un
caffè cabaret che si chiamava “Le Zut”, in una viuzza
sinistra e sconosciuta. E
quando questo straordinario
movimento artistico e umano
(che non era fatto solo di
grandi pittori ma dal mondo che a essi ruotava attorno) scende la collina di
Montmartre, attraversa il
fiume e si sposta sulla Rive
Gauche, a Montparnasse,
l’ombelico della nuova generazione è ancora una volta
un caffè: si chiama “La Rotonde”, e il suo ambiente
cosmopolita accoglie esiliati
e nomadi della cultura di
mezzo mondo, dagli studenti africani della Negritude a
Henry Miller, da Hemingway
a Lenin e Trotszky (quest’ultimo vi passa ore e ore
impegnato in interminabili
partite a scacchi). Quando
Charlie Chaplin arriva per
la prima volta a Parigi e gli
chiedono cosa voglia visitare, risponde: “per prima cosa il caffè La Rotonde!”.
Il caffè possiede di fatto
qualcosa di futurista, perlomeno in una delle sue più
note varianti, l’Espresso.
Il nome si lega al mito del
viaggio, del treno, al senso
di velocità, all’immediatezza
con cui la bevanda si prepara grazie a quelle macchine
a pressione che dai primi
del Novecento sono (o erano) un vanto della nostra
industria nazionale. E se già
nel 1895 a Parigi Cezanne
dingeva una Donna con
caffettiera è nei manifesti
art deco, dove venivano
pubblicizzate macchine del
caffè monumentali, sormontate da aquile, vittorie
alate, smalti, motivi floreali, che si ritrova la vertigine
del moderno. Il legame con
l’arte, il design industriale
e la comunicazione si fa via
via più concreto.
Basti pensare alla matita di
Giò Ponti, che, ispirandosi
alle carrozzerie delle automobili americane, allunga
la forma aerodinamica delle
nuove macchine da bar, o
al modello di caffettiera
Alessi 9090, che entra nella
collezione permanente
del MOMA, il Museum of
Modern Art di New York.
La storia del caffè, dunque,
oltre che dei luoghi e delle
parole, è anche storia degli
oggetti.
Roberto Francavilla