Anno 1 Numero 32 - 29.09.2008

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Anno 1 Numero 32 - 29.09.2008
Anno 1 Numero 32 - 29.09.2008
tutti gli altri, coi suoi tazebao per un’architettura
responsabile, ha fatto assaporare quel gusto retrò
da anni Sessanta, che in casa nostra sembra non
essere mai del tutto passato. Situato negli spazi
dell’Arsenale l’esposizione curata da Francesco
Garofalo sembrava il mercatino dell’usato
europeo, in cui facevano lividamente mostra di sé
modellini che altrove sono già storia. Paesaggi
plastici che per noi restano un traguardo ancora
quasi utopico e che appunto si mescolano con le
utopie assai più avanzate di Giappone, Germania,
Corea, Francia. Tutte, per assurdo, assai più
concrete delle nostre in quanto a raggiungibilità.
La scelta nipponica di chiudere il discorso con la
costruzione per dedicarsi all’ordine della natura,
infatti, non è, a ben vedere, una posizione
drastica, ma riflette un atteggiamento radicale
dell’architettura giapponese i cui morfemi,
tradizionalmente, coincidono con quelli delle
piante, delle rocce, della terra. E lo stesso può
dirsi per il padiglione tedesco, brillantemente
intitolato Updating Germany, e orientato ancora
ad una integrazione totale tra i processi
costruttivi e quelli naturali. Proposte e ipotesi che
non potrebbero sussistere se non dando per
scontato ciò che invece noi cerchiamo di
sottolineare come obiettivo necessario, o peggio,
come auspicio: un’architettura responsabile,
ecologicamente sostenibile, energicamente
autosufficiente, ad alta vivibilità.
Jurassic Park
Editoriale
di Gian Maria Tosatti
Il colpo d’occhio è immediato e impietoso
camminando per i padiglioni nazionali dell’XI
Biennale d’Architettura. Quello italiano differisce
da tutti gli altri. Riconversioni di ecomostri,
edilizia-bricolage per famiglie rom, “progetti” per
palazzi energeticamente autosufficienti, e
tutt’intorno i muri tappezzati di fogli di giornale
che raccontano un Paese in cui la vivibilità è
ancora conflitto. Il padiglione italiano è l’unico
dal piglio così smaccatamente politico. E visto
dall’interno, se fosse stato costruito chissà dove
come una mostra sull’abitare lo avremmo trovato
puntuale, attento, propositivo, in una parola,
contemporaneo. E invece no. E’ proprio il
contesto a rivelarne l’anacronismo, l’arretratezza,
non sua, ma del suo oggetto di studio, l’Italia. Il
nostro padiglione nazionale è l’unico che non ha
dato per scontato ciò che altrove è acquisito
ormai da decenni. Forse solo il Venezuela, tra
Un confronto impietoso, che tuttavia è destinato a
ripetersi agli Oscar tra qualche mese, dove tra i
molti film in concorso ci sarà il nostro Gomorra,
una storia vera ambientata in un quartiere vero di
Napoli, Scampia, buco nero nel corpo dello Stato.
E di questi buchi ce ne sono parecchi in Italia.
Buchi che assomigliano a quella Città involontaria
di cui scrive Anna Maria Ortese nella cronaca
letteraria di una sua visita al III e IV Granili, un
caseggiato popolare nella prima periferia
napoletana del dopoguerra. Il suo viaggio assume,
man mano che procede, i tratti di un altro più
famoso pellegrinaggio della nostra letteratura,
anch’esso metaforico, anch’esso reale con le sue
migliaia di riferimenti a nomi e fatti dell’Italia
prerinascimentale. Il viaggio della Ortese, a
differenza di quello dantesco, va dal basso verso
l’alto. Dai piani terreni e i primi piani, abitati da
esseri storti, pazzi, coi tratti zoomorfici, ai piani
più alti, dove arriva la luce del sole e quasi
s’ignora la disumanità delle calate, sembra
tuttavia trasmettersi la stessa epidemia, che
Dante identifica con la dannazione, ma che nel
1953, quando la Ortese pubblicò Il mare non
bagna Napoli (volume che contiene il racconto,
oggi riedito da Adelphi), non poteva che perdere
ogni riferimento religioso. E allora, il suo narrare
spoglia di metafore l’inferno suo e quello
dantesco definendo la dannazione col suo vero
nome: italianità. Una epidemia endemica che ha
come sintomi l’impermeabilità al progresso.
Nel 1953, quando Anna Maria Ortese scriveva il suo
libro, il III e IV Granili erano già una sorta di
grande rudere storico, un dinosauro quasi
scheletrito arenato contro il fianco del Vesuvio.
Nel 2008, quando Matteo Garrone filma il suo
Gomorra, le “Vele” di Scampia (costruite
vent’anni dopo il racconto della Ortese e divenute
a loro volta una città involontaria) ci appaiono,
attraverso la pellicola, come un ulteriore
scheletro giurassico, invaso da una vita quasi
batterica che ne ammanta le ossa. Nello stesso
momento, oggi, mentre scriviamo o leggiamo,
intorno alle nostre città, intorno a Roma (ne
abbiamo parlato in più occasioni), si stanno
costruendo altri grandi ruderi dell’edilizia
popolare a capitale privato, in cui confluiranno
decine di migliaia di italiani, affetti da
quell’epidemia di primitività e che pagheranno un
mutuo vitalizio per poter andare a fondare una
nuova città involontaria, distintamente scollegata
dal progresso e assai meno prossima al concetto di
contemporaneo che non a quello pasoliniano di
Nuova Preistoria. Un panorama che a ben vedere
non differisce troppo da ciò che l’Italia è da
sempre, ossia il più grande deposito di rovine
della civiltà, un enorme parco a tema
archeologico, i cui abitanti non possono far altro
che replicare ciò che da sempre hanno abitato,
vissuto, attraversato: carcasse di luoghi di cui non
abbiamo mai conosciuto la grazia vitale e che
abbiamo sempre percepito come scheletri, non
troppo dissimili a quelli dei dinosauri che
continuiamo a costruire, i cosiddetti ecomostri,
quelli che Kinkaleri, assieme all’intera comunità
reggiana di Felina, si divertì a far esplodere
qualche anno fa in una irriverente
“tombola” (www.kinkaleri.it/bingo.htm) o quelli
che, proprio nel padiglione italiano della Biennale,
lo studio Albori di Milano (www.albori.it) prova
oggi ad “addomesticare” trasformandoli in
ulteriori utopie abitative sostenibili.
Il progetto dello spazio vitale
La IX Biennale di Architettura di Venezia sfonda il
concetto di «building»
di Romolo Ottaviani - Spacexperience | Stalker
Il 14 settembre ha aperto al pubblico l’XI Biennale
di Architettura di Venezia, il direttore della
mostra Aaron Betsky, l’ha intitolata Out there.
Architecture beyond building in linea con la sua
pubblicazione con Erik Adigard del 2000
Architecture must burn.
Dunque, Là fuori, l’Architettura oltre l’Edificio, è
la parola d’ordine, l’ingaggio con cui sono stati
chiamati un foltissimo numero di professionisti e
studi ad esprimersi su un concetto di “progetto”
che non si esaurisce nella sola competenza
tecnica, ma che la trascenda per indagare lo
spazio vitale dell’uomo.
Uno spazio che è quello “là fuori”, quello
dell’inquinamento ambientale, della crisi
energetica, della sovrappopolazione, quello della
società multiculturale.
Sono le relazioni sociali, politiche ed economiche
a fare di questo spazio un “territorio”.
Lo spazio è perenne, il territorio invece è in
continua trasformazione e attende un progettista
che è un intellettuale, attivatore di processi, che
vede il progetto stesso come una processualità.
La mostra propone evidentemente una riflessione
epistemologica sul ruolo dell’architetto nella
società, che in questi anni ha osservato
l’intrecciarsi di arte, territorio e contesto sociale,
di spazio pubblico, di questioni bioclimatiche ed
energetiche in una rappresentazione complessa
del paesaggio e dell’esperienza che ospita.
La curatela vuole proporre un progettista capace
di dialogare con i più disparati ambiti della ricerca
scientifica al fine di esplorare queste circostanze
innovative, quali la nuova realtà cibernetica e
biotecnologica, come strumenti che consentono di
affrontare la ri-definizione della relazione tra
dimensioni dell’architettura e dimensione di vita
dell’uomo e i nuovi valori simbolici che ne
scaturiscono.
Infatti, la mostra ha evidenziato la riemersione di
diverse tendenze trasformative: dalla ricerca
linguistica biomorfa e inorganica, all’architettura
domestica modellata sull’abitante, alla ricerca di
benessere attraverso un’architettura
biocompatibile.
D’altra parte, gli avanzamenti tecnico-scientifici
postmoderni, consentiti dall’affermarsi nella
scienza del paradigma della complessità e del
digitale, in campo tecnologico contribuiscono, in
questa prospettiva, a modificare il rapporto tra
fenomeni tipici e mutanti, tra strutture lineari e
caotiche della conoscenza disciplinare.
L’architetto proposto da questa Biennale è
immerso nella realtà che ci circonda, indaga e
sperimenta in prima persona nuovi stili di vita,
dando particolare importanza ai gesti che
abiteranno lo spazio, progettando in funzione di
essi, giocando nella plurisensorialità, trasgredendo
aspettative culturali e meccaniche ritualità.
invitati, che di Experimental Architecture si sono
vestiti per questa occasione pur non avendo
dedicato una carriera alla ricerca.
Cosa che invece hanno fatto autori eccellenti,
quali tra gli altri: Philippe Rahm, impegnato nel
dare nuova figurazione allo spazio abitabile rifondandolo sui nudi principi fisici dello spazio
concreto e lo Estudio Teddy Cruz, da anni
impegnato nell’osservare, promuovere e
progettare una condizione di vita possibile nei
difficili territori del confine tra gli Stati Uniti ed il
Messico a Tijuana.
D’altra parte, l’abuso del termine sperimentale
induce nel visitatore il desiderio di definirne una
mappa, dei confini, una geografia; di conoscere gli
attori di questi esperimenti: committenti e
destinatari, perché non esiste una sperimentalità
fuori da una rappresentazione politica.
Le due città
“Contro l’architettura” di Franco La Cecla, un
pamphlet sull’attrito tra antropologia e arte di
costruire
di Attilio Scarpellini
«Essere moderni vuol dire diventare l’alleato dei
propri affossatori»
(Milan Kundera)
«Essere contemporanei significherebbe oggi
prendere sul serio la catastrofe imminente (…)»
(Franco La Cecla)
L’ambiziosa aspettativa messa in scena da Betsky
nell’attuale edizione della Biennale non ha però
prodotto, a mio avviso, i risultati sperati.
Forse, proprio il voler incentrare tutto il percorso
espositivo sul termine “sperimentale” ha prodotto
un’omogeneità di difficile lettura, rafforzata
dall’atteggiamento mimetico assunto da molti
Contro l’architettura di Franco La Cecla non è un
libro per turisti, ma si muove in continuazione, si
scrive nelle pause tra due viaggi che si
intersecano: uno è una sortita nell’identico della
città globale, ieri squadrata dalla geometria della
“dura modernità”, oggi uniformata dal segno di
un’architettura-spettacolo, preferibilmente
bidimensionale, che ovunque impone la sua griffe,
nel tentativo di vincere un’estenuante lotta con lo
spazio e con la storia; l’altro è un excursus nella
diversità delle città singolari – San Francisco,
Tirana, San Pietroburgo, l’amatissima Barcellona –
che dalla smaterializzazione del brand ripiomba
felicemente nello spazio vissuto e vitale della
strada, nella pratica sociale e irriducibilmente
affettiva della città. In diverse città o nella
stessa, come a New York dove lo sguardo si
sdoppia: dalla metropoli antisociale plasmata
senza posa dagli “archistar” che la considerano un
prodotto, mentre Manhattan si avvia a diventare
“una piattaforma costellata di monumenti
architettonici da consumare come l’intero sistema
d i s h o p p i n g a c u i N e w Yo r k s e m b r a
pericolosamente avvicinarsi”, svoltata una via, si
scivola in quella “vecchia di
stratificazioni” (ottocentesca, neo-egizia, decò,
liberty) che continua a premere, a lottare, dal
basso dei marciapiede, per riportare la vertigine
del grattacielo nell’orizzonte della strada, per non
svanire nella vibrazione di un’immagine che si
vende bene – al turismo globale gratificato dalla
sua modernità – ma non può essere abitata. Così
due città, una flesh and stone, votata alla
materia, alla prossimità, alla resistenza umana –
l’altra lanciata sulla china dell’evanescenza
dell’economia virtuale – si inseguono ma, come
Achille e la Tartaruga, sembrano destinate a non
raggiungersi. Quando la seconda, carica di soldi e
di potere, cala sulla prima, la svuota, la umilia, la
isola, come accade col progetto di allargamento
della Columbia University (potentissimo ateneo in
prevalenza bianco) che, nato all’insegna della
riqualificazione urbana, tracima su Harlem
(storico quartiere nero ed ispanico) cancellando
vecchie botteghe ed espellendo migliaia di
residenti.
Simili e diverse come persone, le città, dice La
Cecla, “sognano altre città” e per restituire loro
un senso bisogna sapersi smarrire nella trama
romanzesca in cui le loro differenze si guardano e
di pietra in pietra si richiamano, vedere “Venezia
che sogna Istanbul che sogna Mosca”: la forza (la
serena forza critica) di Contro l’architettura
deriva dalla sua capacità di far discendere la
critica dal romanzo (il primo autore citato, non a
caso, è il Pamhuk di Altri colori) e il romanzo dal
passo trasognato del flaneur. In un senso, questo
libro di un centinaio di pagine che si presenta
come un pamphlet è quanto di più simile a
Immagini di Città di Walter Benjamin sia stato
finora prodotto in Italia. Nell’altro, è una
disanima spietata della sconnessione attuale tra la
pratica dell’architettura e la realtà dell’abitare
così come le ultime riflessioni di Virilio, di
Baudrillard, di Nancy lo sono
sull’autoreferenzialità dell’arte. Con la differenza
che il potere che i Rem Koolhaas, i Frank Gehry, i
Massimiliano Fuksas (e la meno star di tutti i
progettisti, il più geometra di tutti gli architetti)
esercitano sulle nostre vite è
incommensurabilmente maggiore di quello
esercitato dai Cattelan o dai Pistoletto. Perché
come dice Robert Byron – il Virgilio di La Cecla –
«gli edifici sono sempre con noi. La democrazia è
un fatto urbano, l’architettura è la sua arte».
Dipende, insomma, da come si sceglie di leggere
Contro l’architettura: dal punto di vista del
sogno, o da quello dell’incubo. Anche se per lo più
si tratta, modernisticamente, di sogni che
sconfinano nell’incubo: apparentemente
divagante, l’allure dell’autore di Perdersi, lascia
trasparire a ogni stazione l’architettura di un
pensiero che sull’architrave dell’abitare, inteso
non come consumo privato ma come bisogno di
cittadinanza, misura i fallimenti utopici
dell’ingegneria sociale anni ’60 e i trionfi effimeri
del postmodernismo, la bruttura dell’ideologia e il
cinismo dell’estetizzazione, la ville radieuse di Le
Corbusier e la rarefazione mercantile di una
progettazione convertita all’advertising e alla
moda. Inferno solido, di vere fiamme: le banlieues
parigine che, esplodendo nel 2006, rivelano (come
la casa kafkiana che, per essere vista, deve
bruciare nella notte) la profondità di un orrore
sociale legato a doppio filo alla loro discriminante
bruttezza di utopie funzionali a un pensiero che
pianifica l’aggregazione sociale ma finisce col
costruire la segregazione urbana.
Inferno soffice: l’architettura che sposando la
bidimensionalità, il design, il cinema, perde la sua
“concretezza volumetrica” (la sua responsabilità),
rende l’anima allo spettacolo delle merci
(gaudioso, come già lo immaginava Debord) e
volta le spalle alla città e alla sua (in)vivibilità. Un
movimento che, per inciso, riproduce lo stesso
stacco che dall’economia reale porta a quella
virtuale, lasciandosi dietro le spalle il famigerato
“valore d’uso” (tranne a non ritrovarselo davanti,
sotto forma di maceria, di rifiuto, di nuda vita
nell’avanzare di quella periferia globale che dalle
bidonville dell’Asia e dell’Africa stringe d’assedio
il mondo). Ora che nei buchi neri del capitale
finanziario la volatilità del valore di scambio vola
a rovescio, cioè precipita, sarebbe interessante
sapere da La Cecla quale destino si prepara a
quelli che Gabriella Lo Ricco e Silvana Micheli
hanno battezzato archistar. Nella controluce delle
sue città-narrazioni, concrete e brulicanti, quasi
sempre riversate sulla strada, mai del tutto
afferrabili dall’ occhio vitreo del formalismo
architettonico – dotate di una forza che più che
storica sembra immemoriale – si staglia
puntualmente l’ombra dell’anticittà
corrispondente. C’è quella come New York che
nella sua accumulazione di potenza distrugge o
chiama la distruzione (esemplari le due pagine
che ruotano attorno all’afasia simbolica della
ricostruzione di Ground Zero). Ma c’è anche quella
come Palermo, che nella propria mediatizzazione
tenta di far scomparire per incanto la propria
miseria. «Milano e Palermo e Napoli sono modelli
forse ancor più avanzati di Bangalore, perché
rappresentano il dissolvimento della città come
entità fisica e la sua sostituzione (in presenza
agonizzante della città) con un suo simulacro
vendibile. E’ l’Italia come luogo di un capitalismo
dell’immagine che della rivoluzione informatica
ha preso non il potenziale di connessione con il
resto del mondo ma la riduzione brutale della
realtà a un surrogato mediatico». I telefonini
come indici berlusconiani della modernità italiana
non sono lontani, ma anche la politica degli eventi
– purché grandi – sub specie riformista: solo la
realtà del territorio è lontana da questo sguardo
deviato che transustanzia le macerie della vita in
capitale simbolico e fa risorgere città nel balenio
di una parola – purché dettata da un pubblicitario
di grido: “Palermo è cool”.
No, Contro
l’architettura non è un libro per turisti. E’ un libro
per flaneurs e per rivoluzionari. Un libro per chi
ha voglia di tornare, fisicamente, in strada.
In libreria: Franco La Cecla, Contro
l’architettura, Bollati Boringhieri, Milano 2008,
pp. 117, 12 euro
La frattura delle quiete
“Manifesto. Progetto Urlo”, a Prato i dieci
manifesti silenziosi di Kinkaleri
di Mariateresa Surianello
E’ uno dei gruppi italiani meno classificabili
all’interno della griglia ministeriale dei generi e
per questa sua indomita trasversalità Kinkaleri
incarna una delle espressioni e delle esperienze
più interessanti e provocantorie della scena
contemporanea. Per gli stessi motivi, proprio per
questa sua urgenza creativa multidisciplinare, la
formazione toscana, nata nel 1995, agisce
spessissimo in spazi non teatrali, addirittura en
plain air, e in molti casi in gallerie e musei e in
altrettante occasioni in luoghi pubblici,
inserendosi nei tessuti ospitanti, siano essi
strutture architettoniche pre-esistenti o effimere,
costruite ad hoc per il tempo dell’intervento.
Determinante nelle azioni di Kinkaleri è il ruolo
giocato dallo spettatore, non riconducibile a un
semplice suo coinvolgimento mentale, ma spinto
fino a renderlo fisicamente protagonista della
performance. E’ questo il caso del nuovo
intervento, programmato dal 29 settembre (fino al
13 ottobre), Manifesto. Progetto Urlo,
un’istallazione che utilizza un mezzo
particolarmente abusato nell’industria
dell’advertising, il cartellone pubblicitario,
appunto, come recita il titolo.
Location plurima sarà Prato, città in cui dal 2001 è
basato questo “raggruppamento di formati e
mezzi in bilico nel tentativo”, con un suo spazio
operativo nell’ex area industriale Campolmi. In
questa sua città opulenta che smorza i conflitti
del nostro presente con un’operosità silenziosa,
Kinkaleri accende piccoli fuochi sparsi, cercando
di interrompere l’automatismo del flusso
quotidiano. In alcuni punti del tessuto urbano
considerati “nevralgici”, Kinkaleri andrà ad
affiggere dei grossi manifesti, di tre metri per sei,
raffiguranti delle persone che urlano. Dieci zone
della città trasformate in luoghi di
rappresentazione di altrettante immagini mute, in
cui l’artificio dell’atto di urlare è mostrato
attraverso la presenza in campo del microfono.
Quasi una sintesi, come un’asciugatura operata
dalla memoria è questa serie di manifesti urlanti,
che arriva dopo tre tappe in cui il sonoro è stato
protagonista assoluto. Il progetto è partito
nell’estate del 2004 a Nyon sul lago di Ginevra
(per coincidenza, il 2004 è anche l’anno dell’Urlo
di Pippo Debono), qui Kinkaleri, previa
registrazione, è andata diffondendo con
altoparlanti le urla di consenzienti persone del
luogo e creando così il panico nella tranquilla
località montana. Additati come provocatori i
Kinkaleri furono insultati dalla popolazione che si
è vista interrompere quella sua ostentata
tranquillità. Le cose sono andate meglio l’anno
dopo a Roma, con l’istallazione davanti
all’Auditorium di una casetta inzeppata di casse
altoparlanti che sprigionavano urla strazianti.
Intervenne però la polizia ad anticiparne la
conclusione. L’urlo evidentemente è qualcosa di
inascoltabile e vedremo se a Prato si dimostrerà
anche qualcosa di inguardabile. Se si pensa a
L’urlo di Munch come capostipite, il suo comparire
sulla scena pittorica di fine ‘800 certo non lasciò
gli spettatori indifferenti.
Atto che scaturisce dal profondo e che presuppone
uno sforzo nell’emissione, consigliato alla stregua
del pianto, l’urlo potrebbe avere una funzione
liberatoria. Sia esso di gioia, di rabbia, di dolore o
di angoscia è meglio comunque tenerlo nascosto,
non è manifestazione da compiere in pubblico e
quando ciò avviene gli spiazzamenti sono
assicurati. Però Kinkaleri ha sperimentato anche
un altro tipo di rapporto che si crea con l’atto di
urlare: davanti a 12mila persone presenti a San
Siro per Circular Domus (organizzata nell’ambito
della Fiera del mobile di Milano). Col titolo
Stadium il gruppo ha dato vita per due ore a
un’azione che prevedeva che solo alcune persone
prestabilite raggiungessero il centro campo dove
era piazzato un microfono e da lì lanciassero il
proprio urlo. L’esito fu una imprevedibile ressa
per guadagnare quel microfono e urlarci dentro.
Centinaia di persone sovraeccitate cercarono di
entrare in campo mettendo a rischio il
compimento della performance. Bisogno
liberatorio o smanie di protagonismo – meglio la
seconda - certo non è l’Urlo (Howl) di ribellione e
di denuncia lanciato da Allen Ginsberg.
Manifesto. Progetto Urlo si svolge nell’ambito di
Territoria #3, l’articolata iniziativa dedicata
all’arte contemporanea, avviata il 12 settembre
dalla Provincia di Prato, in collaborazione con la
Regione Toscana. Con il sottotitolo “Lo spazio del
contemporaneo”, Territoria #3 si snoda attraverso
tre sezioni (spazio pubblico, spazio di
contaminazione, spazio di formazione) e in diversi
comuni pratesi. Tra tutti gli appuntamenti, il
pacchetto formazione che andrà avanti per sei
mesi con progetti site specific si presenta oggi
come una risposta alle intenzioni del governo di
liquidare l’arte contemporanea come qualcosa di
incomprensibile e quindi inutile.
Lo spazio dell’arte, tra “site specific” e casellari
ministeriali
Una riflessione a partire dal “Bestiario Festival” di
Roma
di Graziano Graziani
L’ex Mattatoio di Testaccio, a Roma, è un luogo
potentemente suggestivo, a metà tra il passato e
la modernità. Una struttura enorme, in parte
recuperata e in parte in abbandono, che ospita
contemporaneamente musei, università,
magazzini, stalle e centri sociali (fino a qualche
tempo fa anche un campo rom). Realtà che
abitano con formule diversissime i suoi grandi
moduli in muratura, punteggiati di colonne e
strutture di metallo, binari aerei e ganci,
strumenti per lo smistamento delle bestie da
macellare e per avviare le carcasse già tagliate.
Strumenti che appartengono a un passato che
ancora osserva, con lo sguardo severo del toro di
pietra che campeggia sull’ingresso del campo
boario, questo quartiere di Roma che anch’esso si
dibatte, come un’anguilla impazzita, tra un’anima
autenticamente popolare che ha sempre meno
ossigeno e la progressiva “gentrification”
dell’area, ad opera di locali e professionisti alla
moda (architetti, attori, giornalisti su tutti) che
stanno pian piano subentrando nel quartiere.
È qui che, dal 23 al 26 settembre, si è svolta la
prima edizione di Bestiario, manifestazione ideata
e diretta da Keramik Papier. Un festival che già
dal nome, di eco cortazariana, dichiara in modo
esplicito di non voler utilizzare lo spazio del
Mattatoio come cornice per una manifestazione,
ma di volerlo abitare, permeare, farsene invadere
e influenzare a sua volta; in una parola, farlo
vivere. E così il catalogo di “bestie rare e
fantastiche” – così venivano definiti i bestiari
medievali, altra immagine potentemente sospesa
tra antico e moderno – prende vita in questo
ultimo scorcio di un settembre insolitamente
freddo, invitando le “bestie” del teatro
contemporaneo ad abitare a loro volta lo spazio.
La formula del festival, infatti, è un collage di
interventi site specific, con una forte componente
legata al suono: sono diversi gli interventi in
forma concerto, e a fine spettacoli un dj set
chiude le serate.
E difatti, calpestando i sampietrini dei viali del
Mattatoio, spostandosi da un’entrata all’altra del
padiglione occupato dal festival, si aveva quasi
l’impressione di curiosare tra le tende di un circo,
in cerca di meraviglie. Con questo spirito si
materializzava lo sfondo dorato dei Dewey Dell,
da cui si staccava un’ombra danzante, sospesa tra
forme e suoni violentemente contemporanei e
un’atmosfera da corte di antichi faraoni. O si
veniva avvinti dalla tromba d’aria luminosa di
Cosmesi, fatta di palloncini azzurri. O ancora si
restava a guardare le evoluzioni luminose della
performance del gruppo russo Portablepalace.
Molti dei lavori non sono stati pensati per il
festival, ma adattati comunque allo spazio. In
alcuni casi con risultati sorprendenti, come per il
lavoro di Gruppo Nanou, Sulla conoscenza
irrazionale dell’oggetto, uno spettacolo compiuto
che, distribuito nella vasta profondità del
padiglione, si snodava lungo più piani di visione,
ravvicinata, media, lontana, ridisegnando parte
della coreografia per adattarla all’ambiente,
pieno di colonne, che sono divenute parte
integrante della geografia compiuta dai passi
zoomorfi dei due performer.
Fortezza di MK, lavoro di grande impatto che
gioca con i codici della boxe, trapiantato dalle
vasche di cemento di Isola del Liri (dove ha
debuttato) alle pareti di marmo del mattatoio,
cambiava nettamente di segno senza perdere la
sua bellezza: se lì l’immaginazione si perdeva
lungo immagini di palestre abusive nelle periferie
parigine, qui il movimento sincopato dei corpi
sembrava riempirsi delle eco della Roma delle
palestre popolari di pugilato, e delle storie di
atleti legati al quartiere di provenienza, come i
fratelli Proietti di Testaccio, Alvaro Nuvoloni di
Garbatella, o lo sfortunato Lazzaro Anticoli, detto
Bucefalo, uno dei 75 ebrei trucidati nelle fosse
ardeatine, che durante il fascismo non poté
vincere il titolo nazionale a causa delle leggi
razziali.
Meno legati specificatamente allo spazio, ma
impreziositi dall’ambientazione non
convenzionale, le Tensioni di Giano e il corpo
sottile e quasi disperso nell’ampiezza del
padiglione della Donna mancina di Manuela
Giovagnetti, come anche il concerto di Julia Kent
e Barbara de Dominicis o il video sonorizzato di
Zimmerfrei. Mentre il live sonoro dei
Pathosformel, che riprende la parte musicale del
loro ultimo lavoro La più piccola distanza,
eseguito nella penombra e sullo sfondo di un
marmo slavato dalle luci di computer e strumenti,
recuperava la dimensione onirica dello spettacolo.
Freddo e novità della manifestazione non sono un
buon motivo per starsene a casa, e così la
presenza del pubblico sancisce la riuscita di
Bestiario, che per essere alla sua prima edizione
trova un riscontro prezioso. Ci si può chiedere –
come si è sentito fare tra il pubblico in attesa di
entrare nelle sale – se tra la crisi dei festival
storici e il progressivo prosciugamento delle
risorse destinate alla cultura annunciato dalle
amministrazioni di destra nazionale e locale, dare
vita a un nuovo festival sia la risposta più adatta
alla progressiva erosione di spazi per il teatro
contemporaneo. Una critica che allo stesso tempo
centra una crisi reale e un falso problema. Le
manifestazioni culturali sono strette in una morsa
contraddittoria: intercettano denaro solo quando
assumono la forma dell’“evento”, ma sono anche
uno dei canali principali tramite cui circolano
risorse. Un ripensamento è certamente necessario
(e questa estate è stato tentato da Altre Velocità
e molti altri nell’ambito della crisi di
Santarcangelo), ma il successo di pubblico di
manifestazioni come Bella Ciao o Short Theatre –
successo che si verifica contestualmente alla
progressiva erosione di risorse e spazi a
disposizione di questi festival – testimonia che la
sensibilità politica (variabile fondamentale di
questo meccanismo) non solo non va nella
direzione di garantire una stabilità di lavoro che
permetta di sperimentare formule e soluzioni, ma
si sta sempre più scollando dalla sensibilità dei
cittadini e degli artisti.
Nel suo libro Dancing in the street Barbara
Ehrenreich ci ricorda che, storicamente, le
persone si radunano soprattutto per vivere
l’esperienza dell’estasi collettiva, della felicità
che sola si prova stando in gruppo. Questa
dinamica, così vera e centrale per un’arte come il
teatro, si annulla nelle formule dei teatri
d’abbonamento. La presenza di Bestiario al
Mattatoio, come quella di Short Theatre al teatro
India o di Bella Ciao alle Officine Marconi, ci dice
allora che esiste un modo diverso di vivere quegli
spazi e, contestualmente, di far vivere il teatro.
Un modo per tradurre il consumo di eventi
culturali in pratiche di vivere urbano, e per
trasformare i teatri (e non solo) da luoghi dove ci
si reca per consumare un’offerta culturale per poi
fuggire via, in spazi vissuti orizzontalmente tanto
dagli artisti quanto dal pubblico. In una parola, in
luoghi abitati – luoghi, cioè, che respirano la
presenza di chi li vive e che a loro volta
influenzano quelle esistenze.
Questo ripensamento dei luoghi e delle formule di
partecipazione all’evento artistico costituiscono
un tassello importante verso un’idea di città che è
lontana anni luce da quella che vede lo spazio
urbano esclusivamente come luogo del transito dei
flussi del lavoro e del consumo, una città che
guarda con sospetto chi la vive al di là di questi
flussi vertiginosi, la cui unica preoccupazione è
arginare le inevitabili fuoriuscite con la
sorveglianza elettronica e poliziesca, o con
ordinanze dal sapore medievale come quella
antibivacco.
Il sottosuolo dell’anima
Marco Pontecorvo racconta con “Parada” il
riscatto di chi vive sotto terra
di Gian Maria Tosatti
A New York ci sono la Uptown e la Downtown. A
Bucarest anche. La differenza sta solo nel fatto
che in occidente il sopra e il sotto sono intesi in
senso orizzontale (rispetto all’orientamento
dell’isola di Manhattan), mentre al di là di una
“cortina di ferro” che non è ancora veramente
caduta, il concetto è da intendersi in senso
verticale. Di sopra c’è la rete stradale e di sotto
quella fognaria, dove vivono migliaia di bambini
abbandonati dai genitori dopo essere fruttati i
pochi soldi del “bonus bebè” ai tempi di
Ceausescu. Ci sono arrivati fuggendo da luoghi
ancora peggiori, da orfanotrofi di
concentramento, da famiglie violente.
Questo spaccato – o meglio questa “sezione”
terrestre - è lo sfondo su cui si disegna il racconto
cinematografico di Marco Pontecorvo, Parada, che
sembra tracciato con un pastello a cera su un
pezzo di cartone trovato nella spazzatura - come
la scritta nella locandina -, che sembra una favola
e invece non lo è. La storia è vera e narra il
viaggio di un giovane clown franco-algerino,
Miloud, arrivato in Romania, all’inizio dello scorso
decennio, per amore della libertà e rimastoci più
del previsto per provare a costruire una
delicatissima scala tra le due città. Su di essa, uno
dopo l’altro i bambini di strada si
arrampicheranno fino ad uscire definitivamente da
quel limbo crudele e geloso che è il sottosuolo
della città e dell’anima al contempo.
Ed, infatti, il rapporto tra libertà e condanna sta
tutta in una metafora topografica. Come in
Underground di Kusturica, anche qui chi sta sotto
terra è ostaggio dell’incubo di qualcun altro, di
qualcuno che si muove alla luce del sole
colpevolmente consapevole delle proprie
responsabilità. Sono gli uomini che pagano pochi
spiccioli per abusare delle ragazzine, sono i
genitori irresponsabili, sono i poliziotti che
esercitano il loro potere contro i diritti umani, i
criminali che guadagnano sulla pelle degli orfani,
ma sono anche tutti quelli che passano senza farsi
domande davanti a panorami desolanti di disagio
come quello reale che campeggerà sui titoli di
coda. Tra gli abitanti della superficie c’è anche
però chi, come Miloud, cercherà di fare qualcosa
di concreto che va al di là della pietà. Il suo è un
dialogo basato sull’insegnamento di una pratica
che si fa senso e rapisce i giovani protagonisti fino
a fargli invertire rotta, fino a fargli desiderare una
vita possibile attraverso l’arte del circo. Da qui
viene Parada, nato prima come uno spettacolo con
protagonisti quegli stessi bambini di cui si seguono
i travagli nel film, e divenuto poi una fondazione
estremamente attiva nel recupero del disagio
infantile (www.parada.it).
In questa pellicola, dunque, c’è in gioco molto di
più di una storia da raccontare. La scelta che fa
Pontecorvo è assai più sofisticata di quanto possa
sembrare ad un primo sguardo. Il ragionamento
parte non tanto dalla vicenda di Miloud, ma da ciò
che quella storia rappresenta da un punto di vista
linguistico. Le sue caratteristiche sono, infatti,
quelle della fabula che, come parente più
prossima del mito, si pone come meta-racconto e
va a sovrapporsi alle traiettorie quotidiane di ogni
singolo spettatore, assolutizzandosi.
Perché tale effetto emerga con chiarezza lo
sfondo frastagliato della Bucarest dei boskettari
(così sono chiamati i bambini di strada) è ideale
per prendere una certa distanza dalla realtà
mimetica di casa nostra e poter osservare uno
spazio del racconto in cui siano netti i contrasti, e
spigolose le sfaccettature.
Parada è un film pieno di significato e di forza
ideale, destinato a deflagrare con maggiore
violenza in un momento come questo, in cui il
tema della tolleranza torna ad essere motivo
d’inquietudine per molti. Tuttavia prima di tutto
questo film è un’ottima opera cinematografica.
Ben raccontata, ben girata e ben recitata (specie
nella versione in lingua originale). Quel che ha da
dire pretende di dirlo solo attraverso il linguaggio
dell’arte. Senza didascalie, facendo politica
proprio come accadeva nei teatri dell’antica
Grecia. Ed è per questo che lo spettatore sente
quel senso di commozione a cui, se non riesce a
dare un nome è solo per desuetudine. La parola
esatta per definirla in modo aristotelico sarebbe
catarsi ed è la conseguenza di quel grado di
bellezza che, per dirla con Dostoevskij, può
salvare il mondo.
la differenza
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in redazione
Graziano Graziani, Attilio Scarpellini,
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