Anno 1 Numero 32 - 29.09.2008
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Anno 1 Numero 32 - 29.09.2008
Anno 1 Numero 32 - 29.09.2008 tutti gli altri, coi suoi tazebao per un’architettura responsabile, ha fatto assaporare quel gusto retrò da anni Sessanta, che in casa nostra sembra non essere mai del tutto passato. Situato negli spazi dell’Arsenale l’esposizione curata da Francesco Garofalo sembrava il mercatino dell’usato europeo, in cui facevano lividamente mostra di sé modellini che altrove sono già storia. Paesaggi plastici che per noi restano un traguardo ancora quasi utopico e che appunto si mescolano con le utopie assai più avanzate di Giappone, Germania, Corea, Francia. Tutte, per assurdo, assai più concrete delle nostre in quanto a raggiungibilità. La scelta nipponica di chiudere il discorso con la costruzione per dedicarsi all’ordine della natura, infatti, non è, a ben vedere, una posizione drastica, ma riflette un atteggiamento radicale dell’architettura giapponese i cui morfemi, tradizionalmente, coincidono con quelli delle piante, delle rocce, della terra. E lo stesso può dirsi per il padiglione tedesco, brillantemente intitolato Updating Germany, e orientato ancora ad una integrazione totale tra i processi costruttivi e quelli naturali. Proposte e ipotesi che non potrebbero sussistere se non dando per scontato ciò che invece noi cerchiamo di sottolineare come obiettivo necessario, o peggio, come auspicio: un’architettura responsabile, ecologicamente sostenibile, energicamente autosufficiente, ad alta vivibilità. Jurassic Park Editoriale di Gian Maria Tosatti Il colpo d’occhio è immediato e impietoso camminando per i padiglioni nazionali dell’XI Biennale d’Architettura. Quello italiano differisce da tutti gli altri. Riconversioni di ecomostri, edilizia-bricolage per famiglie rom, “progetti” per palazzi energeticamente autosufficienti, e tutt’intorno i muri tappezzati di fogli di giornale che raccontano un Paese in cui la vivibilità è ancora conflitto. Il padiglione italiano è l’unico dal piglio così smaccatamente politico. E visto dall’interno, se fosse stato costruito chissà dove come una mostra sull’abitare lo avremmo trovato puntuale, attento, propositivo, in una parola, contemporaneo. E invece no. E’ proprio il contesto a rivelarne l’anacronismo, l’arretratezza, non sua, ma del suo oggetto di studio, l’Italia. Il nostro padiglione nazionale è l’unico che non ha dato per scontato ciò che altrove è acquisito ormai da decenni. Forse solo il Venezuela, tra Un confronto impietoso, che tuttavia è destinato a ripetersi agli Oscar tra qualche mese, dove tra i molti film in concorso ci sarà il nostro Gomorra, una storia vera ambientata in un quartiere vero di Napoli, Scampia, buco nero nel corpo dello Stato. E di questi buchi ce ne sono parecchi in Italia. Buchi che assomigliano a quella Città involontaria di cui scrive Anna Maria Ortese nella cronaca letteraria di una sua visita al III e IV Granili, un caseggiato popolare nella prima periferia napoletana del dopoguerra. Il suo viaggio assume, man mano che procede, i tratti di un altro più famoso pellegrinaggio della nostra letteratura, anch’esso metaforico, anch’esso reale con le sue migliaia di riferimenti a nomi e fatti dell’Italia prerinascimentale. Il viaggio della Ortese, a differenza di quello dantesco, va dal basso verso l’alto. Dai piani terreni e i primi piani, abitati da esseri storti, pazzi, coi tratti zoomorfici, ai piani più alti, dove arriva la luce del sole e quasi s’ignora la disumanità delle calate, sembra tuttavia trasmettersi la stessa epidemia, che Dante identifica con la dannazione, ma che nel 1953, quando la Ortese pubblicò Il mare non bagna Napoli (volume che contiene il racconto, oggi riedito da Adelphi), non poteva che perdere ogni riferimento religioso. E allora, il suo narrare spoglia di metafore l’inferno suo e quello dantesco definendo la dannazione col suo vero nome: italianità. Una epidemia endemica che ha come sintomi l’impermeabilità al progresso. Nel 1953, quando Anna Maria Ortese scriveva il suo libro, il III e IV Granili erano già una sorta di grande rudere storico, un dinosauro quasi scheletrito arenato contro il fianco del Vesuvio. Nel 2008, quando Matteo Garrone filma il suo Gomorra, le “Vele” di Scampia (costruite vent’anni dopo il racconto della Ortese e divenute a loro volta una città involontaria) ci appaiono, attraverso la pellicola, come un ulteriore scheletro giurassico, invaso da una vita quasi batterica che ne ammanta le ossa. Nello stesso momento, oggi, mentre scriviamo o leggiamo, intorno alle nostre città, intorno a Roma (ne abbiamo parlato in più occasioni), si stanno costruendo altri grandi ruderi dell’edilizia popolare a capitale privato, in cui confluiranno decine di migliaia di italiani, affetti da quell’epidemia di primitività e che pagheranno un mutuo vitalizio per poter andare a fondare una nuova città involontaria, distintamente scollegata dal progresso e assai meno prossima al concetto di contemporaneo che non a quello pasoliniano di Nuova Preistoria. Un panorama che a ben vedere non differisce troppo da ciò che l’Italia è da sempre, ossia il più grande deposito di rovine della civiltà, un enorme parco a tema archeologico, i cui abitanti non possono far altro che replicare ciò che da sempre hanno abitato, vissuto, attraversato: carcasse di luoghi di cui non abbiamo mai conosciuto la grazia vitale e che abbiamo sempre percepito come scheletri, non troppo dissimili a quelli dei dinosauri che continuiamo a costruire, i cosiddetti ecomostri, quelli che Kinkaleri, assieme all’intera comunità reggiana di Felina, si divertì a far esplodere qualche anno fa in una irriverente “tombola” (www.kinkaleri.it/bingo.htm) o quelli che, proprio nel padiglione italiano della Biennale, lo studio Albori di Milano (www.albori.it) prova oggi ad “addomesticare” trasformandoli in ulteriori utopie abitative sostenibili. Il progetto dello spazio vitale La IX Biennale di Architettura di Venezia sfonda il concetto di «building» di Romolo Ottaviani - Spacexperience | Stalker Il 14 settembre ha aperto al pubblico l’XI Biennale di Architettura di Venezia, il direttore della mostra Aaron Betsky, l’ha intitolata Out there. Architecture beyond building in linea con la sua pubblicazione con Erik Adigard del 2000 Architecture must burn. Dunque, Là fuori, l’Architettura oltre l’Edificio, è la parola d’ordine, l’ingaggio con cui sono stati chiamati un foltissimo numero di professionisti e studi ad esprimersi su un concetto di “progetto” che non si esaurisce nella sola competenza tecnica, ma che la trascenda per indagare lo spazio vitale dell’uomo. Uno spazio che è quello “là fuori”, quello dell’inquinamento ambientale, della crisi energetica, della sovrappopolazione, quello della società multiculturale. Sono le relazioni sociali, politiche ed economiche a fare di questo spazio un “territorio”. Lo spazio è perenne, il territorio invece è in continua trasformazione e attende un progettista che è un intellettuale, attivatore di processi, che vede il progetto stesso come una processualità. La mostra propone evidentemente una riflessione epistemologica sul ruolo dell’architetto nella società, che in questi anni ha osservato l’intrecciarsi di arte, territorio e contesto sociale, di spazio pubblico, di questioni bioclimatiche ed energetiche in una rappresentazione complessa del paesaggio e dell’esperienza che ospita. La curatela vuole proporre un progettista capace di dialogare con i più disparati ambiti della ricerca scientifica al fine di esplorare queste circostanze innovative, quali la nuova realtà cibernetica e biotecnologica, come strumenti che consentono di affrontare la ri-definizione della relazione tra dimensioni dell’architettura e dimensione di vita dell’uomo e i nuovi valori simbolici che ne scaturiscono. Infatti, la mostra ha evidenziato la riemersione di diverse tendenze trasformative: dalla ricerca linguistica biomorfa e inorganica, all’architettura domestica modellata sull’abitante, alla ricerca di benessere attraverso un’architettura biocompatibile. D’altra parte, gli avanzamenti tecnico-scientifici postmoderni, consentiti dall’affermarsi nella scienza del paradigma della complessità e del digitale, in campo tecnologico contribuiscono, in questa prospettiva, a modificare il rapporto tra fenomeni tipici e mutanti, tra strutture lineari e caotiche della conoscenza disciplinare. L’architetto proposto da questa Biennale è immerso nella realtà che ci circonda, indaga e sperimenta in prima persona nuovi stili di vita, dando particolare importanza ai gesti che abiteranno lo spazio, progettando in funzione di essi, giocando nella plurisensorialità, trasgredendo aspettative culturali e meccaniche ritualità. invitati, che di Experimental Architecture si sono vestiti per questa occasione pur non avendo dedicato una carriera alla ricerca. Cosa che invece hanno fatto autori eccellenti, quali tra gli altri: Philippe Rahm, impegnato nel dare nuova figurazione allo spazio abitabile rifondandolo sui nudi principi fisici dello spazio concreto e lo Estudio Teddy Cruz, da anni impegnato nell’osservare, promuovere e progettare una condizione di vita possibile nei difficili territori del confine tra gli Stati Uniti ed il Messico a Tijuana. D’altra parte, l’abuso del termine sperimentale induce nel visitatore il desiderio di definirne una mappa, dei confini, una geografia; di conoscere gli attori di questi esperimenti: committenti e destinatari, perché non esiste una sperimentalità fuori da una rappresentazione politica. Le due città “Contro l’architettura” di Franco La Cecla, un pamphlet sull’attrito tra antropologia e arte di costruire di Attilio Scarpellini «Essere moderni vuol dire diventare l’alleato dei propri affossatori» (Milan Kundera) «Essere contemporanei significherebbe oggi prendere sul serio la catastrofe imminente (…)» (Franco La Cecla) L’ambiziosa aspettativa messa in scena da Betsky nell’attuale edizione della Biennale non ha però prodotto, a mio avviso, i risultati sperati. Forse, proprio il voler incentrare tutto il percorso espositivo sul termine “sperimentale” ha prodotto un’omogeneità di difficile lettura, rafforzata dall’atteggiamento mimetico assunto da molti Contro l’architettura di Franco La Cecla non è un libro per turisti, ma si muove in continuazione, si scrive nelle pause tra due viaggi che si intersecano: uno è una sortita nell’identico della città globale, ieri squadrata dalla geometria della “dura modernità”, oggi uniformata dal segno di un’architettura-spettacolo, preferibilmente bidimensionale, che ovunque impone la sua griffe, nel tentativo di vincere un’estenuante lotta con lo spazio e con la storia; l’altro è un excursus nella diversità delle città singolari – San Francisco, Tirana, San Pietroburgo, l’amatissima Barcellona – che dalla smaterializzazione del brand ripiomba felicemente nello spazio vissuto e vitale della strada, nella pratica sociale e irriducibilmente affettiva della città. In diverse città o nella stessa, come a New York dove lo sguardo si sdoppia: dalla metropoli antisociale plasmata senza posa dagli “archistar” che la considerano un prodotto, mentre Manhattan si avvia a diventare “una piattaforma costellata di monumenti architettonici da consumare come l’intero sistema d i s h o p p i n g a c u i N e w Yo r k s e m b r a pericolosamente avvicinarsi”, svoltata una via, si scivola in quella “vecchia di stratificazioni” (ottocentesca, neo-egizia, decò, liberty) che continua a premere, a lottare, dal basso dei marciapiede, per riportare la vertigine del grattacielo nell’orizzonte della strada, per non svanire nella vibrazione di un’immagine che si vende bene – al turismo globale gratificato dalla sua modernità – ma non può essere abitata. Così due città, una flesh and stone, votata alla materia, alla prossimità, alla resistenza umana – l’altra lanciata sulla china dell’evanescenza dell’economia virtuale – si inseguono ma, come Achille e la Tartaruga, sembrano destinate a non raggiungersi. Quando la seconda, carica di soldi e di potere, cala sulla prima, la svuota, la umilia, la isola, come accade col progetto di allargamento della Columbia University (potentissimo ateneo in prevalenza bianco) che, nato all’insegna della riqualificazione urbana, tracima su Harlem (storico quartiere nero ed ispanico) cancellando vecchie botteghe ed espellendo migliaia di residenti. Simili e diverse come persone, le città, dice La Cecla, “sognano altre città” e per restituire loro un senso bisogna sapersi smarrire nella trama romanzesca in cui le loro differenze si guardano e di pietra in pietra si richiamano, vedere “Venezia che sogna Istanbul che sogna Mosca”: la forza (la serena forza critica) di Contro l’architettura deriva dalla sua capacità di far discendere la critica dal romanzo (il primo autore citato, non a caso, è il Pamhuk di Altri colori) e il romanzo dal passo trasognato del flaneur. In un senso, questo libro di un centinaio di pagine che si presenta come un pamphlet è quanto di più simile a Immagini di Città di Walter Benjamin sia stato finora prodotto in Italia. Nell’altro, è una disanima spietata della sconnessione attuale tra la pratica dell’architettura e la realtà dell’abitare così come le ultime riflessioni di Virilio, di Baudrillard, di Nancy lo sono sull’autoreferenzialità dell’arte. Con la differenza che il potere che i Rem Koolhaas, i Frank Gehry, i Massimiliano Fuksas (e la meno star di tutti i progettisti, il più geometra di tutti gli architetti) esercitano sulle nostre vite è incommensurabilmente maggiore di quello esercitato dai Cattelan o dai Pistoletto. Perché come dice Robert Byron – il Virgilio di La Cecla – «gli edifici sono sempre con noi. La democrazia è un fatto urbano, l’architettura è la sua arte». Dipende, insomma, da come si sceglie di leggere Contro l’architettura: dal punto di vista del sogno, o da quello dell’incubo. Anche se per lo più si tratta, modernisticamente, di sogni che sconfinano nell’incubo: apparentemente divagante, l’allure dell’autore di Perdersi, lascia trasparire a ogni stazione l’architettura di un pensiero che sull’architrave dell’abitare, inteso non come consumo privato ma come bisogno di cittadinanza, misura i fallimenti utopici dell’ingegneria sociale anni ’60 e i trionfi effimeri del postmodernismo, la bruttura dell’ideologia e il cinismo dell’estetizzazione, la ville radieuse di Le Corbusier e la rarefazione mercantile di una progettazione convertita all’advertising e alla moda. Inferno solido, di vere fiamme: le banlieues parigine che, esplodendo nel 2006, rivelano (come la casa kafkiana che, per essere vista, deve bruciare nella notte) la profondità di un orrore sociale legato a doppio filo alla loro discriminante bruttezza di utopie funzionali a un pensiero che pianifica l’aggregazione sociale ma finisce col costruire la segregazione urbana. Inferno soffice: l’architettura che sposando la bidimensionalità, il design, il cinema, perde la sua “concretezza volumetrica” (la sua responsabilità), rende l’anima allo spettacolo delle merci (gaudioso, come già lo immaginava Debord) e volta le spalle alla città e alla sua (in)vivibilità. Un movimento che, per inciso, riproduce lo stesso stacco che dall’economia reale porta a quella virtuale, lasciandosi dietro le spalle il famigerato “valore d’uso” (tranne a non ritrovarselo davanti, sotto forma di maceria, di rifiuto, di nuda vita nell’avanzare di quella periferia globale che dalle bidonville dell’Asia e dell’Africa stringe d’assedio il mondo). Ora che nei buchi neri del capitale finanziario la volatilità del valore di scambio vola a rovescio, cioè precipita, sarebbe interessante sapere da La Cecla quale destino si prepara a quelli che Gabriella Lo Ricco e Silvana Micheli hanno battezzato archistar. Nella controluce delle sue città-narrazioni, concrete e brulicanti, quasi sempre riversate sulla strada, mai del tutto afferrabili dall’ occhio vitreo del formalismo architettonico – dotate di una forza che più che storica sembra immemoriale – si staglia puntualmente l’ombra dell’anticittà corrispondente. C’è quella come New York che nella sua accumulazione di potenza distrugge o chiama la distruzione (esemplari le due pagine che ruotano attorno all’afasia simbolica della ricostruzione di Ground Zero). Ma c’è anche quella come Palermo, che nella propria mediatizzazione tenta di far scomparire per incanto la propria miseria. «Milano e Palermo e Napoli sono modelli forse ancor più avanzati di Bangalore, perché rappresentano il dissolvimento della città come entità fisica e la sua sostituzione (in presenza agonizzante della città) con un suo simulacro vendibile. E’ l’Italia come luogo di un capitalismo dell’immagine che della rivoluzione informatica ha preso non il potenziale di connessione con il resto del mondo ma la riduzione brutale della realtà a un surrogato mediatico». I telefonini come indici berlusconiani della modernità italiana non sono lontani, ma anche la politica degli eventi – purché grandi – sub specie riformista: solo la realtà del territorio è lontana da questo sguardo deviato che transustanzia le macerie della vita in capitale simbolico e fa risorgere città nel balenio di una parola – purché dettata da un pubblicitario di grido: “Palermo è cool”. No, Contro l’architettura non è un libro per turisti. E’ un libro per flaneurs e per rivoluzionari. Un libro per chi ha voglia di tornare, fisicamente, in strada. In libreria: Franco La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Milano 2008, pp. 117, 12 euro La frattura delle quiete “Manifesto. Progetto Urlo”, a Prato i dieci manifesti silenziosi di Kinkaleri di Mariateresa Surianello E’ uno dei gruppi italiani meno classificabili all’interno della griglia ministeriale dei generi e per questa sua indomita trasversalità Kinkaleri incarna una delle espressioni e delle esperienze più interessanti e provocantorie della scena contemporanea. Per gli stessi motivi, proprio per questa sua urgenza creativa multidisciplinare, la formazione toscana, nata nel 1995, agisce spessissimo in spazi non teatrali, addirittura en plain air, e in molti casi in gallerie e musei e in altrettante occasioni in luoghi pubblici, inserendosi nei tessuti ospitanti, siano essi strutture architettoniche pre-esistenti o effimere, costruite ad hoc per il tempo dell’intervento. Determinante nelle azioni di Kinkaleri è il ruolo giocato dallo spettatore, non riconducibile a un semplice suo coinvolgimento mentale, ma spinto fino a renderlo fisicamente protagonista della performance. E’ questo il caso del nuovo intervento, programmato dal 29 settembre (fino al 13 ottobre), Manifesto. Progetto Urlo, un’istallazione che utilizza un mezzo particolarmente abusato nell’industria dell’advertising, il cartellone pubblicitario, appunto, come recita il titolo. Location plurima sarà Prato, città in cui dal 2001 è basato questo “raggruppamento di formati e mezzi in bilico nel tentativo”, con un suo spazio operativo nell’ex area industriale Campolmi. In questa sua città opulenta che smorza i conflitti del nostro presente con un’operosità silenziosa, Kinkaleri accende piccoli fuochi sparsi, cercando di interrompere l’automatismo del flusso quotidiano. In alcuni punti del tessuto urbano considerati “nevralgici”, Kinkaleri andrà ad affiggere dei grossi manifesti, di tre metri per sei, raffiguranti delle persone che urlano. Dieci zone della città trasformate in luoghi di rappresentazione di altrettante immagini mute, in cui l’artificio dell’atto di urlare è mostrato attraverso la presenza in campo del microfono. Quasi una sintesi, come un’asciugatura operata dalla memoria è questa serie di manifesti urlanti, che arriva dopo tre tappe in cui il sonoro è stato protagonista assoluto. Il progetto è partito nell’estate del 2004 a Nyon sul lago di Ginevra (per coincidenza, il 2004 è anche l’anno dell’Urlo di Pippo Debono), qui Kinkaleri, previa registrazione, è andata diffondendo con altoparlanti le urla di consenzienti persone del luogo e creando così il panico nella tranquilla località montana. Additati come provocatori i Kinkaleri furono insultati dalla popolazione che si è vista interrompere quella sua ostentata tranquillità. Le cose sono andate meglio l’anno dopo a Roma, con l’istallazione davanti all’Auditorium di una casetta inzeppata di casse altoparlanti che sprigionavano urla strazianti. Intervenne però la polizia ad anticiparne la conclusione. L’urlo evidentemente è qualcosa di inascoltabile e vedremo se a Prato si dimostrerà anche qualcosa di inguardabile. Se si pensa a L’urlo di Munch come capostipite, il suo comparire sulla scena pittorica di fine ‘800 certo non lasciò gli spettatori indifferenti. Atto che scaturisce dal profondo e che presuppone uno sforzo nell’emissione, consigliato alla stregua del pianto, l’urlo potrebbe avere una funzione liberatoria. Sia esso di gioia, di rabbia, di dolore o di angoscia è meglio comunque tenerlo nascosto, non è manifestazione da compiere in pubblico e quando ciò avviene gli spiazzamenti sono assicurati. Però Kinkaleri ha sperimentato anche un altro tipo di rapporto che si crea con l’atto di urlare: davanti a 12mila persone presenti a San Siro per Circular Domus (organizzata nell’ambito della Fiera del mobile di Milano). Col titolo Stadium il gruppo ha dato vita per due ore a un’azione che prevedeva che solo alcune persone prestabilite raggiungessero il centro campo dove era piazzato un microfono e da lì lanciassero il proprio urlo. L’esito fu una imprevedibile ressa per guadagnare quel microfono e urlarci dentro. Centinaia di persone sovraeccitate cercarono di entrare in campo mettendo a rischio il compimento della performance. Bisogno liberatorio o smanie di protagonismo – meglio la seconda - certo non è l’Urlo (Howl) di ribellione e di denuncia lanciato da Allen Ginsberg. Manifesto. Progetto Urlo si svolge nell’ambito di Territoria #3, l’articolata iniziativa dedicata all’arte contemporanea, avviata il 12 settembre dalla Provincia di Prato, in collaborazione con la Regione Toscana. Con il sottotitolo “Lo spazio del contemporaneo”, Territoria #3 si snoda attraverso tre sezioni (spazio pubblico, spazio di contaminazione, spazio di formazione) e in diversi comuni pratesi. Tra tutti gli appuntamenti, il pacchetto formazione che andrà avanti per sei mesi con progetti site specific si presenta oggi come una risposta alle intenzioni del governo di liquidare l’arte contemporanea come qualcosa di incomprensibile e quindi inutile. Lo spazio dell’arte, tra “site specific” e casellari ministeriali Una riflessione a partire dal “Bestiario Festival” di Roma di Graziano Graziani L’ex Mattatoio di Testaccio, a Roma, è un luogo potentemente suggestivo, a metà tra il passato e la modernità. Una struttura enorme, in parte recuperata e in parte in abbandono, che ospita contemporaneamente musei, università, magazzini, stalle e centri sociali (fino a qualche tempo fa anche un campo rom). Realtà che abitano con formule diversissime i suoi grandi moduli in muratura, punteggiati di colonne e strutture di metallo, binari aerei e ganci, strumenti per lo smistamento delle bestie da macellare e per avviare le carcasse già tagliate. Strumenti che appartengono a un passato che ancora osserva, con lo sguardo severo del toro di pietra che campeggia sull’ingresso del campo boario, questo quartiere di Roma che anch’esso si dibatte, come un’anguilla impazzita, tra un’anima autenticamente popolare che ha sempre meno ossigeno e la progressiva “gentrification” dell’area, ad opera di locali e professionisti alla moda (architetti, attori, giornalisti su tutti) che stanno pian piano subentrando nel quartiere. È qui che, dal 23 al 26 settembre, si è svolta la prima edizione di Bestiario, manifestazione ideata e diretta da Keramik Papier. Un festival che già dal nome, di eco cortazariana, dichiara in modo esplicito di non voler utilizzare lo spazio del Mattatoio come cornice per una manifestazione, ma di volerlo abitare, permeare, farsene invadere e influenzare a sua volta; in una parola, farlo vivere. E così il catalogo di “bestie rare e fantastiche” – così venivano definiti i bestiari medievali, altra immagine potentemente sospesa tra antico e moderno – prende vita in questo ultimo scorcio di un settembre insolitamente freddo, invitando le “bestie” del teatro contemporaneo ad abitare a loro volta lo spazio. La formula del festival, infatti, è un collage di interventi site specific, con una forte componente legata al suono: sono diversi gli interventi in forma concerto, e a fine spettacoli un dj set chiude le serate. E difatti, calpestando i sampietrini dei viali del Mattatoio, spostandosi da un’entrata all’altra del padiglione occupato dal festival, si aveva quasi l’impressione di curiosare tra le tende di un circo, in cerca di meraviglie. Con questo spirito si materializzava lo sfondo dorato dei Dewey Dell, da cui si staccava un’ombra danzante, sospesa tra forme e suoni violentemente contemporanei e un’atmosfera da corte di antichi faraoni. O si veniva avvinti dalla tromba d’aria luminosa di Cosmesi, fatta di palloncini azzurri. O ancora si restava a guardare le evoluzioni luminose della performance del gruppo russo Portablepalace. Molti dei lavori non sono stati pensati per il festival, ma adattati comunque allo spazio. In alcuni casi con risultati sorprendenti, come per il lavoro di Gruppo Nanou, Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto, uno spettacolo compiuto che, distribuito nella vasta profondità del padiglione, si snodava lungo più piani di visione, ravvicinata, media, lontana, ridisegnando parte della coreografia per adattarla all’ambiente, pieno di colonne, che sono divenute parte integrante della geografia compiuta dai passi zoomorfi dei due performer. Fortezza di MK, lavoro di grande impatto che gioca con i codici della boxe, trapiantato dalle vasche di cemento di Isola del Liri (dove ha debuttato) alle pareti di marmo del mattatoio, cambiava nettamente di segno senza perdere la sua bellezza: se lì l’immaginazione si perdeva lungo immagini di palestre abusive nelle periferie parigine, qui il movimento sincopato dei corpi sembrava riempirsi delle eco della Roma delle palestre popolari di pugilato, e delle storie di atleti legati al quartiere di provenienza, come i fratelli Proietti di Testaccio, Alvaro Nuvoloni di Garbatella, o lo sfortunato Lazzaro Anticoli, detto Bucefalo, uno dei 75 ebrei trucidati nelle fosse ardeatine, che durante il fascismo non poté vincere il titolo nazionale a causa delle leggi razziali. Meno legati specificatamente allo spazio, ma impreziositi dall’ambientazione non convenzionale, le Tensioni di Giano e il corpo sottile e quasi disperso nell’ampiezza del padiglione della Donna mancina di Manuela Giovagnetti, come anche il concerto di Julia Kent e Barbara de Dominicis o il video sonorizzato di Zimmerfrei. Mentre il live sonoro dei Pathosformel, che riprende la parte musicale del loro ultimo lavoro La più piccola distanza, eseguito nella penombra e sullo sfondo di un marmo slavato dalle luci di computer e strumenti, recuperava la dimensione onirica dello spettacolo. Freddo e novità della manifestazione non sono un buon motivo per starsene a casa, e così la presenza del pubblico sancisce la riuscita di Bestiario, che per essere alla sua prima edizione trova un riscontro prezioso. Ci si può chiedere – come si è sentito fare tra il pubblico in attesa di entrare nelle sale – se tra la crisi dei festival storici e il progressivo prosciugamento delle risorse destinate alla cultura annunciato dalle amministrazioni di destra nazionale e locale, dare vita a un nuovo festival sia la risposta più adatta alla progressiva erosione di spazi per il teatro contemporaneo. Una critica che allo stesso tempo centra una crisi reale e un falso problema. Le manifestazioni culturali sono strette in una morsa contraddittoria: intercettano denaro solo quando assumono la forma dell’“evento”, ma sono anche uno dei canali principali tramite cui circolano risorse. Un ripensamento è certamente necessario (e questa estate è stato tentato da Altre Velocità e molti altri nell’ambito della crisi di Santarcangelo), ma il successo di pubblico di manifestazioni come Bella Ciao o Short Theatre – successo che si verifica contestualmente alla progressiva erosione di risorse e spazi a disposizione di questi festival – testimonia che la sensibilità politica (variabile fondamentale di questo meccanismo) non solo non va nella direzione di garantire una stabilità di lavoro che permetta di sperimentare formule e soluzioni, ma si sta sempre più scollando dalla sensibilità dei cittadini e degli artisti. Nel suo libro Dancing in the street Barbara Ehrenreich ci ricorda che, storicamente, le persone si radunano soprattutto per vivere l’esperienza dell’estasi collettiva, della felicità che sola si prova stando in gruppo. Questa dinamica, così vera e centrale per un’arte come il teatro, si annulla nelle formule dei teatri d’abbonamento. La presenza di Bestiario al Mattatoio, come quella di Short Theatre al teatro India o di Bella Ciao alle Officine Marconi, ci dice allora che esiste un modo diverso di vivere quegli spazi e, contestualmente, di far vivere il teatro. Un modo per tradurre il consumo di eventi culturali in pratiche di vivere urbano, e per trasformare i teatri (e non solo) da luoghi dove ci si reca per consumare un’offerta culturale per poi fuggire via, in spazi vissuti orizzontalmente tanto dagli artisti quanto dal pubblico. In una parola, in luoghi abitati – luoghi, cioè, che respirano la presenza di chi li vive e che a loro volta influenzano quelle esistenze. Questo ripensamento dei luoghi e delle formule di partecipazione all’evento artistico costituiscono un tassello importante verso un’idea di città che è lontana anni luce da quella che vede lo spazio urbano esclusivamente come luogo del transito dei flussi del lavoro e del consumo, una città che guarda con sospetto chi la vive al di là di questi flussi vertiginosi, la cui unica preoccupazione è arginare le inevitabili fuoriuscite con la sorveglianza elettronica e poliziesca, o con ordinanze dal sapore medievale come quella antibivacco. Il sottosuolo dell’anima Marco Pontecorvo racconta con “Parada” il riscatto di chi vive sotto terra di Gian Maria Tosatti A New York ci sono la Uptown e la Downtown. A Bucarest anche. La differenza sta solo nel fatto che in occidente il sopra e il sotto sono intesi in senso orizzontale (rispetto all’orientamento dell’isola di Manhattan), mentre al di là di una “cortina di ferro” che non è ancora veramente caduta, il concetto è da intendersi in senso verticale. Di sopra c’è la rete stradale e di sotto quella fognaria, dove vivono migliaia di bambini abbandonati dai genitori dopo essere fruttati i pochi soldi del “bonus bebè” ai tempi di Ceausescu. Ci sono arrivati fuggendo da luoghi ancora peggiori, da orfanotrofi di concentramento, da famiglie violente. Questo spaccato – o meglio questa “sezione” terrestre - è lo sfondo su cui si disegna il racconto cinematografico di Marco Pontecorvo, Parada, che sembra tracciato con un pastello a cera su un pezzo di cartone trovato nella spazzatura - come la scritta nella locandina -, che sembra una favola e invece non lo è. La storia è vera e narra il viaggio di un giovane clown franco-algerino, Miloud, arrivato in Romania, all’inizio dello scorso decennio, per amore della libertà e rimastoci più del previsto per provare a costruire una delicatissima scala tra le due città. Su di essa, uno dopo l’altro i bambini di strada si arrampicheranno fino ad uscire definitivamente da quel limbo crudele e geloso che è il sottosuolo della città e dell’anima al contempo. Ed, infatti, il rapporto tra libertà e condanna sta tutta in una metafora topografica. Come in Underground di Kusturica, anche qui chi sta sotto terra è ostaggio dell’incubo di qualcun altro, di qualcuno che si muove alla luce del sole colpevolmente consapevole delle proprie responsabilità. Sono gli uomini che pagano pochi spiccioli per abusare delle ragazzine, sono i genitori irresponsabili, sono i poliziotti che esercitano il loro potere contro i diritti umani, i criminali che guadagnano sulla pelle degli orfani, ma sono anche tutti quelli che passano senza farsi domande davanti a panorami desolanti di disagio come quello reale che campeggerà sui titoli di coda. Tra gli abitanti della superficie c’è anche però chi, come Miloud, cercherà di fare qualcosa di concreto che va al di là della pietà. Il suo è un dialogo basato sull’insegnamento di una pratica che si fa senso e rapisce i giovani protagonisti fino a fargli invertire rotta, fino a fargli desiderare una vita possibile attraverso l’arte del circo. Da qui viene Parada, nato prima come uno spettacolo con protagonisti quegli stessi bambini di cui si seguono i travagli nel film, e divenuto poi una fondazione estremamente attiva nel recupero del disagio infantile (www.parada.it). In questa pellicola, dunque, c’è in gioco molto di più di una storia da raccontare. La scelta che fa Pontecorvo è assai più sofisticata di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Il ragionamento parte non tanto dalla vicenda di Miloud, ma da ciò che quella storia rappresenta da un punto di vista linguistico. Le sue caratteristiche sono, infatti, quelle della fabula che, come parente più prossima del mito, si pone come meta-racconto e va a sovrapporsi alle traiettorie quotidiane di ogni singolo spettatore, assolutizzandosi. Perché tale effetto emerga con chiarezza lo sfondo frastagliato della Bucarest dei boskettari (così sono chiamati i bambini di strada) è ideale per prendere una certa distanza dalla realtà mimetica di casa nostra e poter osservare uno spazio del racconto in cui siano netti i contrasti, e spigolose le sfaccettature. Parada è un film pieno di significato e di forza ideale, destinato a deflagrare con maggiore violenza in un momento come questo, in cui il tema della tolleranza torna ad essere motivo d’inquietudine per molti. Tuttavia prima di tutto questo film è un’ottima opera cinematografica. Ben raccontata, ben girata e ben recitata (specie nella versione in lingua originale). Quel che ha da dire pretende di dirlo solo attraverso il linguaggio dell’arte. Senza didascalie, facendo politica proprio come accadeva nei teatri dell’antica Grecia. Ed è per questo che lo spettatore sente quel senso di commozione a cui, se non riesce a dare un nome è solo per desuetudine. La parola esatta per definirla in modo aristotelico sarebbe catarsi ed è la conseguenza di quel grado di bellezza che, per dirla con Dostoevskij, può salvare il mondo. la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.