Poe_italiano OKOK_Layout 1
Transcript
Poe_italiano OKOK_Layout 1
«Sentivo le ginocchia tremare forte, le dita indebolirsi poco a poco sull’appiglio. Qualcosa ronzava nelle mie orecchie e io pensavo: «Ecco il gelo della morte!».» Arthur Gordon Pym si imbarca clandestinamente a bordo della baleniera “Grampus” e si ritrova a vivere una serie di disavventure in mare. Scampato a un naufragio, viene salvato dall’equipaggio della nave “Jane Guy”, insieme alla quale farà rotta verso il Polo Sud alla ricerca di terre inesplorate. RRD Roberto Ricci Designs is a trademark licensed to: Montecristo SRL r o b e r t o r i c c i d e s i g n s . c o m Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym Edgar Allan Poe (1809-1849) è considerato uno dei più grandi e influenti scrittori statunitensi della storia. Scrittore di grande inventiva, ha anticipato generi letterari quali il racconto poliziesco (i suoi personaggi Auguste Dupin e William Legrand si possono considerare gli antenati più diretti dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle), e la fantascienza. Negli anni, la figura dello scrittore è stata omaggiata numerose volte nella cultura popolare, attraverso la letteratura, la musica, le produzioni cinematografiche e quelle televisive. Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym M O N T E C R I S V I A TO PA Z IO 7 / C - Z O N A IND.L E NO R D 5 8 1 0 0 G R O SS E TO , ITA LY - P.iva01178780530 PH+ 3 9 . 0 5 6 4 . 4 6 2 2 6 9 - FA X +39.0564.457808 M O NT E C R IS TO @R O B E R TO R ICCIDESIG NS.CO M RO BE R TO R IC C ID E S IG N S.CO M T O . S R L INTRODUZIONE Dopo una serie di avventure vissute nei mari del sud, tornato negli Stati Uniti, feci la conoscenza di alcuni rispettabili cittadini di Richmond, in Virginia, che mostrarono grande interesse per le regioni da me visitate e cercarono di convincermi a rendere pubblico il racconto delle mie peripezie. Io avevo i miei motivi per rifiutare, alcuni del tutto privati, altri no: dal momento che non avevo quasi mai tenuto un diario nel mio viaggio, avevo paura di non riuscire a scrivere, con il solo aiuto della memoria, un resoconto che avesse una parvenza di verità; escludendo, naturalmente, certe inevitabili esagerazioni alle quali è facile indulgere quando si descrivono eventi che tanto eccitano l’immaginazione; un altro motivo consisteva nel fatto che gli avvenimenti da narrare erano difficili da credere (suffragati soltanto da un unico testimone, un mezzosangue indiano) e quindi non potevo sperare che nella fiducia della mia famiglia e degli amici che nel corso della loro vita avevano prestato fede al mio amore per la verità. Temevo insomma che il pubblico avrebbe considerato i miei resoconti come favole ingegnose, oltre al fatto che anche la mia poca capacità di scrittore mi sconsigliava di accettare i suggerimenti dei miei consiglieri. 5 Tra i gentiluomini della Virginia che mostrarono attenzione per le mie osservazioni, in particolare per le parti del racconto che riguardavano l’oceano Antartico, vi era il signor Poe, già direttore del «Southern Literary Messenger», mensile pubblicato a Richmond dal signor Thomas W. White. Il signor Poe mi consigliò amichevolmente di scrivere un resoconto completo di quanto avevo visto e vissuto, confidando sull’intelligenza e il buon senso dei lettori: se anche il racconto fosse risultato rozzo, proprio per questo avrebbe avuto maggiori probabilità di essere preso per vero. Nonostante questo parere, esitavo a seguire il suo consiglio. Vedendomi irremovibile, mi chiese così il permesso di raccontare con parole sue la prima parte delle mie avventure, per pubblicarla sul «Southern Messenger», come fosse un romanzo. Non avendo nulla da obiettare, gli diedi il mio assenso, chiedendo solo che venisse omesso il mio nome. Le prime due puntate comparvero sui fascicoli di gennaio e febbraio (1837) del «Messenger»; per far sì che sembrasse davvero un romanzo, nel sommario della rivista accanto al titolo dei brani figurava il nome del signor Poe. La buona accoglienza riservata a queste avventure mi convinse ad affrontarne la stesura completa; infatti, nonostante il tono inverosimile di quella parte del mio racconto apparsa sul «Messenger» (senza comunque che i fatti venissero distorti), il pubblico non lo prese affatto come un romanzo, e infatti al signor Poe giunsero diverse lettere nelle quali era chiara una convinzione del tutto opposta. Ne dedussi che, proprio per la loro natura, i fatti da me narrati sarebbero risultati veritieri e dunque non dovevo temere l’incredulità dei lettori. 6 Ciò premesso, sarà facile capire quali brani, tra quelli che seguono, possano rivendicare la mia paternità; e si vedrà anche che nelle prime pagine, scritte dal signor Poe, niente è stato travisato. Segnalare dove termina la sua parte e dove inizia la mia sarebbe inutile, anche per quei lettori che non hanno letto il «Messenger»: le differenze di stile sono evidenti. A.G. Pym New York, luglio 1838 7 Capitolo 1 Mi chiamo Arthur Gordon Pym, mio padre era un onorato commerciante di forniture navali a Nantucket, dove sono nato. Mio nonno materno era un avvocato e aveva una buona clientela. La fortuna l’aveva sempre favorito e aveva speculato con profitto sui titoli della banca che allora si chiamava Edgarton New Bank. Con questi mezzi e con altri era riuscito ad ammassare una piccola fortuna. Era affezionato a me, credo, più che a ogni altra persona al mondo e avevo ragione di sperare che, dopo la sua morte, avrei ereditato la maggior parte dei suoi beni. Quando ebbi raggiunto l’età di sei anni, egli m’inviò alla scuola del vecchio signor Ricketts, un brav’uomo che aveva un solo braccio, camminava con un’andatura un po’ eccentrica ed era conosciuto da tutti quelli che avevano visitato New Bedford. Frequentai dunque la sua scuola fino all’età di sedici anni, quando dovetti abbandonarla per entrare nell’accademia del signor E. Ronald. Lì divenni molto amico del figlio del signor Barnard, un capitano di lungo corso che navigava regolarmente per conto della compagnia Lloyd & Vredenburg, ed era molto conosciuto anche a New Bedford. Suo figlio si chiamava Augustus ed era di circa due anni più grande di me. Era andato a caccia di balene con suo padre, sulla John Donaldson, e non 9 si stancava di narrarmi le prodezze che aveva compiuto nel sud dell’oceano Pacifico. Mi recavo spesso da lui e passavamo insieme tutta la giornata e, a volte, anche la notte. Occupavamo allora il medesimo letto e, quando voleva tenermi sveglio fino all’alba, non aveva che da raccontarmi le strane storie che conosceva intorno agli indigeni dell’isola di Timan o delle altre contrade che aveva avuto occasione di visitare nei suoi viaggi. A lungo andare, avevo finito per interessarmi molto ai suoi racconti e sentivo un forte desiderio di prendere il largo e navigare. Possedevo già una barca a vela chiamata Ariel, del valore forse di settantacinque dollari, con una cabina al centro del ponte e simile a uno sloop. Non ricordo più quale fosse il suo tonnellaggio, ma credo che dieci persone vi potessero stare comodamente. Su quell’imbarcazione facemmo dei viaggi così audaci che, quando ci penso, mi sembra di essere vivo solo per miracolo. Voglio ora raccontare ai miei lettori una di queste scappatelle che servirà d’introduzione a un racconto più importante e ben più lungo. Un giorno dunque il signor Barnard aveva dato un gran pranzo e, poco prima che finisse la serata, Augustus e io eravamo ambedue brilli. Come succedeva quasi sempre in simili casi, invece di tornare a casa, divisi il letto del mio amico. Era circa l’una di notte quando gli invitati lasciarono la casa di Barnard, e io, convinto che il mio amico si fosse addormentato senza uno dei suoi soliti racconti, già mi preparavo a gustare il sonno ristoratore. Eravamo dunque coricati forse da una mezz’ora, ed ero quasi sul punto d’assopirmi quando, svegliatosi di soprassalto, egli lanciò un’imprecazione giurando che per 10 tutti gli Arthur Pym della cristianità non si sarebbe mai rassegnato a dormire con una così bella brezza di sudovest. Mai nella mia vita provai una simile sorpresa e non potevo comprendere ciò che intendeva con tali parole e non sapevo spiegarmi la sua eccitazione se non come un effetto dei vini e dei liquori che aveva abbondantemente tracannato durante la serata. Ma la mia sorpresa si fece ancora più grande, quando lo vidi discorrere molto tranquillamente assicurandomi che sbagliavo di molto credendolo brillo, perché in realtà mai si era sentito, come in quell’ora, padrone di se stesso. Era solo stanco – aggiungeva – di dover stare a letto come un cane in una notte così bella, per cui era deciso ad alzarsi e vestirsi per andare a fare una piccola uscita in barca. Non saprei dire cosa pensassi esattamente allora di quella proposta; sta di fatto che, appena sentite quelle parole, venni travolto anch’io dall’entusiasmo, considerando quel progetto insensato come la cosa la più deliziosa e sensata da fare. Benché la brezza cui aveva accennato il mio amico somigliasse molto a una tempesta e la temperatura fosse glaciale (si era allora molto avanti, in ottobre), cionondimeno saltai dal letto come in un accesso di delirio, dichiarando al mio compagno che non mi sentivo meno coraggioso di lui nel dovermene rimanere a letto come un cane e che ero pronto all’azione non meno di un Augustus Barnard di Nantucket. Ci vestimmo dunque senza perdere un istante e corremmo ansiosi alla barca. Ariel era ancorata vicino alla vecchia banchina in rovina, presso il cantiere di costruzioni di Pankey & Co. e la fiancata strisciava quasi contro le vecchie mura del cantiere. Augustus saltò dentro, spazzando via con energia l’acqua 11 che ingombrava il ponte; issammo poi il fiocco e la randa e ci lanciammo arditamente e avidamente al largo. Come già detto, il vento soffiava gelido da sud-ovest e la notte era molto chiara e fredda. Augustus aveva impugnato il timone e io stavo in piedi sul ponte vicino all’albero e alla cabina. Favoriti dal vento, filavamo a grande velocita, senza sentire il bisogno di rivolgere all’altro una parola da quando avevamo staccato il battello dalla banchina. A un certo punto, mi sentii in dovere d’interrogare il mio compagno intorno alla rotta da tenere; ed egli fischiettò per alcuni minuti, senza rispondermi, poi a un tratto mi disse, con aria sdegnosa: «Per quanto mi riguarda, me ne vado in mare; e tu sei libero di tornare a casa, se il cuore ti consiglia così.» Stupito da quella risposta, lo guardai e subito, al primo sguardo, mi resi conto che, malgrado l’aria disinvolta, era eccitatissimo. Potevo vederlo distintamente al chiaro di luna che l’illuminava in pieno; il viso era più pallido del marmo, la mano era agitata da un tale tremito che solo a fatica poteva ancora reggere la barra. Compresi allora quanto la situazione fosse grave e mi allarmai tanto più perché, a quell’epoca, avendo scarsissime cognizioni circa la manovra di una barca, ero costretto ad affidarmi interamente alle cognizioni nautiche del mio amico. Il vento intanto si era rinforzato così da trascinarci lontano dalla costa ed io, vergognandomi della mia paura, cercai di mantenere, intrepidamente e per quanto possibile, il silenzio. Ma alla fine, non potendo più trattenermi, feci notare ad Augustus come fosse necessario pensare al ritorno, ma senza risultato migliore, perché 12 egli, dopo essere rimasto muto per alcuni istanti, come non avesse prestato attenzione alcuna alle mie parole, disse finalmente: «Abbiamo tempo... per tornare a casa... è ancora molto presto...». Avevo previsto, lo confesso, una risposta simile; eppure, nel tono con cui furono pronunciate queste parole vi era qualcosa che mi riempì di un indescrivibile terrore. Lo guardai dunque con attenzione per la seconda volta; le sue labbra erano spaventosamente livide, le ginocchia battevano l’una contro l’altra con tale violenza che solo a fatica poteva mantenersi in equilibrio. «Per l’amor di Dio, Augustus» gridai questa volta, fortemente spaventato «che hai dunque? che è successo? che vuoi fare?» «Che succede?» balbettò con aria di profonda sorpresa, e pronunciando queste parole abbandonò la barra e andò a sbattere con forza, col naso, sul fondo del canotto. «Che succede?... che succede?... nulla? che volete che succeda?... siamo qui vicini... andiamo dove vogliamo... che diamine!... non lo vedi dunque?» Allora tutta la verità m’apparve come in un lampo e mi lanciai verso di lui, rialzandolo. Era ubriaco, completamente ubriaco, così da non potersi tenere ad alcun sostegno, né parlare, né vedere. I suoi occhi erano assolutamente vitrei e quando, al colmo della disperazione e incapace di sorreggerlo, lo lasciai andare, cadde così pesantemente, come una botte, nell’acqua che riempiva il fondo dell’imbarcazione. Evidentemente nel corso della serata aveva bevuto più di quanto mi fossi accorto e il contegno che aveva mostrato nel coricarsi non era che la conseguenza di un’ubriachezza giunta al suo più alto 13 grado, una di quelle sbronze che, simili alla follia, lasciano spesso, a colui che ne è preda, la capacità d’imitare i modi e le parole di una persona in possesso di tutte le sue facoltà. Nondimeno, il freddo della notte non aveva tardato a produrre i suoi effetti e sotto la sua influenza l’energia mentale di Augustus era ben presto svanita e la confusa percezione che doveva avere senza dubbio della nostra pericolosa situazione aveva contribuito, naturalmente, ad affrettare la catastrofe. In quel momento giaceva completamente inerte nel fondo dell’imbarcazione e nulla poteva far prevedere che il suo stato dovesse subire qualche modifica prima che fossero trascorse molte ore. Nessuno può lontanamente immaginare il terrore che m’invase in quell’istante. I fumi dell’alcool si erano completamente dissipati lasciandomi infinitamente timido e incerto. Mi sapevo perfettamente incapace di condurre la barca e ciò che accresceva ancor più il mio terrore era sentire che il furore del vento e la violenza dei marosi avrebbero concorso, fra breve, alla nostra rovina. Senza dubbio un uragano andava addensandosi bruscamente alle nostre spalle e poiché non avevamo né bussola né provviste, era chiaro che, proseguendo in quella direzione, avremmo certamente perso di vista la costa prima del sorgere dell’alba. Questi pensieri, uniti a un’infinità di altre considerazioni, l’una più spaventosa dell’altra, turbinavano nella mia testa con una rapidità travolgente, paralizzando per alcuni minuti ogni mio movimento. Spinta dal vento, la barca fendeva l’acqua con una velocità terrificante, senza un terzarolo né al fiocco né alla randa e la prua era interamente avvolta dalla schiuma. Solo per un miracolo l’Ariel non si ribaltò quando Augustus abbandonò il ti14 mone ed io ero troppo sconvolto per prendere il suo posto. Fortunatamente la barca non perse l’allineamento e, a poco a poco, io riacquistai un briciolo di coraggio. Il vento continuava a rinforzare e ogni volta che ci risollevavamo dopo aver poggiato in avanti, le ondate ci assalivano e investivano da poppa. Ero talmente intirizzito da perdere coscienza di ciò che mi circondava, ma alla fine, facendomi forza con la disperazione, mi lanciai ad ammainare la randa. Come era da attendersi, essa si abbatté sul davanti, riempiendosi d’acqua, e strappando l’albero che trasportò sotto bordo. L’incidente fu la mia salvezza e quella del mio compagno, perché col solo fiocco ero in grado di reggere il vento, imbarcando di tanto in tanto delle ondate, ma evitando il rischio di una morte imminente. Allora afferrai la barra, respirando più sollevato all’idea che ci fosse ancora qualche speranza di salvezza. Poiché Augustus giaceva sempre in fondo alla barca e rischiava di annegare perché l’acqua raggiungeva quasi l’altezza di un piede nell’angolo in cui era caduto, mi sentii in dovere di rialzarlo un po’, mantenendolo nella posizione per mezzo di una corda che passai intorno alla cintura, attaccandolo poi a un anello, sul ponte della cabina. Dopo aver così preso ogni possibile precauzione e sentendomi tutto gelato e sconvolto, raccomandai la mia anima a Dio, proponendomi di sopportare ciò che mi fosse stato decretato dal destino, col coraggio di cui potevo essere capace. Mi ero dunque appena fermato su questa decisione quando, a un tratto, un grido lungo e stridente, o piuttosto un urlo che sembrava uscire dalla gola di mille demoni, lacerò l’aria intorno e sotto il battello. Non dimenticherò mai più, per tutta la vita, l’intensa agonia 15 che il terrore mi fece provare in quella notte di desolazione. Sentii i capelli drizzarmisi sulla testa, il sangue coagularsi nelle vene, il cuore cessare completamente i suoi battiti e, non sentendo più in me neppure la forza di levare gli occhi per capire cosa mi provocasse tanto terrore, mi abbattei, svenuto con la testa in avanti, sul corpo del mio amico. Quando ripresi i sensi e volsi lo sguardo intorno, mi vidi nella cabina di una grande nave baleniera, il Penguin, in rotta per Nantucket. Molte persone erano chine su di me e Augustus, più pallido della morte, si dava da fare a frizionarmi le mani. Vedendomi finalmente aprire gli occhi, uscì in esclamazioni di riconoscenza e di gioia che strapparono lagrime e sorrisi alle persone dall’aria seria che ci circondavano e ben presto mi vidi spiegato il mistero del nostro ritorno alla vita. Eravamo stati travolti da quella veloce nave baleniera che dirigeva verso Nantucket con tutte le vele spiegate al vento e che procedeva con rotta quasi perpendicolare alla nostra. A prua c’erano molti uomini, che videro la nostra barca solo quando non vi era più modo di evitarla e le grida d’allarme che avevano lanciato, vedendoci, erano appunto quelle che mi avevano tanto spaventato. La grossa nave – mi si disse poi – era passata sopra di noi con la stessa facilità con cui la nostra piccola imbarcazione sarebbe passata sopra una piuma, senza subire alcun freno alla sua corsa; al momento dell’impatto con la chiglia della nave, dal ponte della piccola barca non si era levato un grido, ma appena un debole scricchiolio confuso ai rumori prodotti dal vento e dall’acqua – e ciò era stato tutto. Pensando che la nostra barca, priva dell’albero come il lettore ricorderà, potesse essere la car16 cassa di un relitto abbandonato alla deriva, il comandante, il capitano E.T.V. Block di New London, già si disponeva a proseguire la navigazione senza preoccuparsi dell’incidente quando, per fortuna, due degli uomini che stavano sul ponte giurarono sul loro Dio che erano certi d’aver visto qualcuno alla barra e convinsero il capitano che si poteva salvare il naufrago. Ne seguì una breve discussione in cui Block, rosso in viso per il dispetto, dichiarò che non poteva perdere il suo tempo a vegliare su dei gusci di noce, che la sua nave non avrebbe certamente mai virato di bordo per una simile sciocchezza, che se vi era qualcuno nel battello, quel qualcuno avrebbe dovuto pensare alla propria salvezza senza lasciarne la cura a lui, Block, e che insomma, se non gli stava bene dovevano ugualmente tacere o andarsene al diavolo. Ma Henderson, il secondo ufficiale, tornò alla carica con giusta indignazione, condivisa dall’intero equipaggio, e lamentò aspramente quelle parole che dimostravano un’assoluta mancanza di pietà e di cuore. Parlò con sincerità, incoraggiato dall’approvazione di tutto l’equipaggio, e dichiarò al capitano che era deciso a non tenere in alcun conto i suoi ordini perché se così non avesse fatto, avrebbe meritato di essere impiccato appena posato piede a terra; poi – dopo aver respinto il capitano Block, divenuto pallidissimo pur non osando pronunziare parola – corse all’indietro e, afferrata la barra, comandò con voce decisa: «Sottovento!» I marinai corsero tutti ai loro posti e la nave virò di bordo con precisione. Tutto ciò era durato forse cinque minuti e il salvataggio si presentava quindi quasi impossibile, ammesso che vi fosse qualcuno a bordo dell’im17 barcazione naufragata. Pertanto il lettore si può rendere conto che Augustus ed io eravamo stati strappati per miracolo alla morte e la nostra salvezza era dovuta solo a circostanze straordinariamente fortunate, che le persone sagge e pie spiegherebbero con uno speciale intervento dalla Provvidenza. Quando la nave si arrestò, il secondo fece calare una scialuppa e vi saltò dentro con tre uomini, fra cui quelli che affermavano di avermi visto al timone. Si erano appena staccati dalla fiancata e la luna splendeva tutta bianca sul mare quando, a un tratto, la nave ebbe un pesante rollio dalla parte del vento. Henderson si rizzò subito sul banco, gridando ai suoi uomini: «Presto, arretrare!» e non si muoveva di là, continuando a ripetere con impazienza il comando. Gli uomini facevano del loro meglio ma, nel frattempo, la nave aveva fatto mezzo giro e si era spinta in avanti, nonostante a bordo tutte le braccia disponibili fossero occupate ad ammainare le vele. Con una manovra pericolosa, appena gli fu possibile, il secondo si aggrappò alle sartie. Un nuovo colpo di vento fece rollare la nave ed emergere la fiancata a tribordo fin quasi alla chiglia e si poté vedere ciò che agitava l’ufficiale: il corpo di un uomo ancorato in modo strano al fondo liscio e lucente del Penguin rivestito di rame; e a ogni movimento della nave quel corpo urtava con violenza lo scafo. Dopo molti tentativi infruttuosi, approfittando delle oscillazioni della nave, riuscirono finalmente a liberarmi dalla mia pericolosa situazione e a issarmi a bordo, perché quel corpo sperduto nell’oscurità del mare era per l’appunto il mio. Una delle caviglie di legno dell’armatura della nave, a quanto pare, fuoriusciva dal rivestimento in rame dello scafo ed era stata appunto quella 18 sporgenza che mi aveva agganciato in modo così insolito durante la mia escursione sotto la chiglia. La punta aveva fatto un buco nel colletto della mia giacca di stoffa grezza e, perforando la parte posteriore della mia nuca, si era conficcata tra due muscoli, proprio sotto l’orecchio destro. Seppure apparentemente privo di vita, mi avevano subito disteso su un letto e, non essendoci un medico a bordo, il capitano mi prodigò le cure più premurose, forse per far dimenticare, agli occhi dei suoi uomini, la sua cattiva disposizione all’inizio della vicenda. Nel frattempo Henderson aveva di nuovo abbandonato la nave, nonostante il vento soffiasse con la violenza di un uragano. Dopo poco s’imbatté in alcune travi della nostra barca e uno dei suoi uomini disse che, nel rumore della tempesta, gli pareva di udire di tanto in tanto un lamento. Quei coraggiosi marinai continuarono le loro ricerche per circa mezz’ora, nonostante i reiterati ordini del capitano Block di tornare alla nave e nonostante il rischio nell’affrontare la tempesta con la fragile scialuppa. Difficile immaginare come quella piccola imbarcazione potesse sfuggire alla distruzione. È vero che era stata costruita per la caccia alle balene ed era provvista, come potei constatare più tardi, di una camera d’aria, come i canotti di salvataggio che si usano sulle coste del Galles. Dopo lunghe e vane ricerche gli uomini avevano appena deciso di riguadagnare la nave, quando un debole grido provenne da una macchia scura che le onde trascinavano rapidamente verso di loro. Si lanciarono per raggiungerlo e in breve videro che si trattava di un pezzo del ponte dell’Ariel e, aggrappato a quella fragile zattera, scorsero Augustus che si dibatteva, apparentemente in fin di vita. Ripescandolo, notarono che era legato con una cima alle 19 travi in legno. Questa corda, il lettore lo ricorderà, l’avevo legata io intorno alla sua cintura e fissata a un anello per mantenere Augustus in posizione eretta ed era a questa precauzione che egli doveva la sua salvezza. L’Ariel aveva una struttura leggera e le ondate avevano fatto a pezzi il fasciame: il ponte, come si può immaginare, era stato sollevato dalla forza dell’acqua e galleggiava sulla superficie con altri relitti, ed essendo Augustus ancorato a esso, aveva potuto sfuggire a una morte terribile. Fu portato svenuto a bordo del Penguin e trascorse una lunga ora prima che desse segni di vita e capisse la natura dell’incidente occorso alla nostra imbarcazione. Quando finalmente si svegliò descrisse dettagliatamente ciò che aveva provato nell’acqua. Appena resosi conto del pericolo, si era subito trovato sott’acqua, roteando su se stesso a velocità incredibile, stretto da una cima avvolta tre o quattro volte intorno al collo. Un momento dopo, si era sentito tirato rapidamente verso la superfice, ma quasi subito aveva battuto con violenza contro un oggetto duro e il colpo gli aveva nuovamente fatto perdere i sensi. Tornato poi in sé, aveva in parte recuperato la ragione, per quanto ancora molto debole e confuso. Si era allora reso conto che era stato vittima di qualche incidente e che si trovava nell’acqua, anche se poteva respirare liberamente. In quel momento il relitto filava veloce sotto la spinta del vento, trascinando il corpo di Augustus che galleggiava sul dorso e che pertanto, finché fosse rimasto in quella posizione, non sarebbe affogato. Un’ondata improvvisa lo aveva riportato nuovamente sul relitto, e lui aveva fatto di tutto per restarvi attaccato, chiamando di tanto in tanto aiuto. 20 Poco prima che Henderson lo scorgesse, l’estrema debolezza l’aveva costretto a lasciare l’appiglio a cui si teneva disperatamente avvinghiato e, cadendo di nuovo in mare, pensava di essere perduto. Per tutto il tempo in cui si era dibattuto fra le onde, non aveva avuto il minimo ricordo dell’Ariel, né la minima idea circa le cause del nostro naufragio; solo una vaga sensazione di terrore e di prostrazione si era impadronita della sua mente. Quando lo ripescammo, aveva completamente perso cognizione della realtà e, come già detto prima, fu solamente un’ora dopo essere stato trasportato a bordo del Penguin che cominciò a prendere lentamente coscienza della sua situazione. Per quanto riguarda me, invece, ci vollero più di tre ore e si dovettero mettere in opera tutti i mezzi e i procedimenti usati in casi simili; potei essere strappato dal mio stato di coma solo con l’aiuto di numerose frizioni con panni di lana impregnati di olio caldo, un rimedio suggerito da Augustus. Il Penguin fece il suo ingresso in porto verso le nove del mattino, dopo aver sfidato una delle più terribili tempeste mai viste al largo di Nantucket. Augustus ed io facemmo in modo da trovarci dal signor Barnard all’ora del pranzo che, per fortuna, era stato ritardato a causa della festa della sera prima. Credo che tutti quelli che erano a tavola dovessero essere troppo stanchi per far caso al nostro viso stravolto, perché non ci voleva molto per accorgersene. Del resto, gli studenti sono capaci di miracoli quando si tratta di simulare e, quando i marinai del Penguin si vantarono nelle bettole della città di aver incrociato un’imbarcazione alla deriva e di aver tratto in salvo trenta o quaranta poveri diavoli, non credo in verità 21 che alcuno dei nostri amici abbia sospettato che quella terribile storia potesse riguardare l’Ariel, il mio compagno e me. Da allora abbiamo spesso parlato di questa avventura, ma mai senza provarne un certo fremito e una volta Augustus mi confessò francamente che in tutta la sua vita non era mai stato tanto angosciato come quando, sulla nostra piccola imbarcazione, si era accorto di essere veramente ubriaco, non riuscendo, nonostante gli sforzi, a vincere la forza dell’alcool. Capitolo 2 Quando si tratta di valutare il futuro, in favore o contro, non lo si fa con assoluta certezza, anche se ci si basa su semplici dati di fatto. Così, ad esempio, si potrebbe pensare che una sventura come quella appena descritta potesse avere l’effetto di una doccia fredda sulla mia nascente vocazione marittima. Orbene, fu proprio la settimana che seguì al nostro miracoloso salvataggio che io sentii, con maggiore forza, il desiderio di approfondire la conoscenza delle strane peripezie che sempre accompagnano la vita di un marinaio. Non ci volle molto per dimenticare gli aspetti scabrosi della mia avventura e perché tutti i dettagli più eccitanti o, per meglio dire, tutto il lato pittoresco della nostra recente e pericolosa vicenda in alto mare si illuminassero di una luce viva. Le mie conversazioni con Augustus si moltiplicavano di giorno in giorno e ci appassionavamo sempre più a quella che definivo la mia vocazione. Adesso posso supporre che quelle velleità marinare de22 rivassero in gran parte da varie sensazioni; ma una ve n’era che non poteva mancare d’influire fortemente sul mio temperamento entusiasta e sulla mia immaginazione sempre fervida, anche se un po’ tenebrosa. Ed è strano il fatto che ciò che mi seduceva più nel profondo e che mi spingeva ad abbracciare la professione di marinaio fossero appunto quelle ore terribili di sofferenza e disperazione. Provavo invece una modesta attrazione per gli aspetti positivi e mi pascevo solo di visioni di naufragi, di fame, di morte e di prigionia in terre selvagge. Fantasticavo insomma una vita di torture e lagrime, in qualche scoglio arido e desolato, in mezzo a un oceano inaccessibile e sconosciuto; queste fantasie, questi desideri – poiché si trattava semplicemente di desideri – non sono rari, come mi spiegarono più tardi, in tutti quelli che appartengono alla numerosa categoria dei malinconici. Ma, allora io li consideravo niente meno che segni profetici di un destino che mi sentivo in qualche modo obbligato a seguire. Quanto ad Augustus, condivideva perfettamente il mio stato d’animo, perché probabilmente la nostra intimità ci aveva portato a cambiare certi tratti del nostro rispettivo carattere. Otto mesi circa dopo il naufragio dell’Ariel, la compagnia Lloyd & Vredenburg, che credo fosse una consociata della banca di Enderby di Liverpool, si impegnò nella riparazione e nell’equipaggiamento del brigantino Grampus per la caccia alla balena. Si trattava di una vecchia carretta che poteva a malapena affrontare il mare anche dopo tutte le riparazioni possibili. Perché la scelta fosse caduta su quella nave, fra tante altre certamente migliori appartenenti agli stessi armatori, non mi è dato sapere. Il comando fu affidato al signor Barnard, che 23 avrebbe condotto con sé il figlio e, mentre si provvedeva all’equipaggiamento del brigantino, quest’ultimo mi invitava ad approfittare dell’occasione per soddisfare al mio desiderio di viaggiare. Naturalmente la cosa era per me molto attraente, ma non mancavano le difficoltà. Mio padre non era ostile all’idea; mia madre invece aveva crisi di nervi ogni volta che se ne accennava. Il peggio fu che mio nonno, da cui mi attendevo molto, giurò che non mi avrebbe lasciato uno scellino se avessi osato ancora parlargliene. Ma le difficoltà, lungi dall’estinguere il mio desiderio, ebbero solo l’effetto di ravvivare sempre più la fiamma che mi ardeva in cuore. Decisi quindi di partire a qualunque costo e, comunicatolo ad Augustus, ci preoccupammo solo di creare le condizioni per mettere il piano in esecuzione. Nel frattempo non tornai sull’argomento con i miei e, fingendo di dedicarmi interamente ai miei studi, nessuno poté dubitare che non avessi rinunciato al mio disegno. Ripensando a come mi ero comportato in quell’occasione, ho spesso provato un grande rimorso. L’ipocrisia di cui detti prova, nelle parole e nei fatti, per raggiungere il mio scopo era giustificata solo dall’ardente speranza di realizzare i miei sogni di viaggio, così lungamente accarezzati. Per tenere nascosto il mio piano dovevo necessariamente lasciare i preparativi ad Augustus, che passava gran parte della giornata a bordo del Grampus, incaricato dal padre della sistemazione della cabina e della stiva; ma, giunta la notte, non mancavamo di ritrovarci per progettare insieme il futuro. Avevamo passato quasi un intero mese in questi discorsi senza trovare una valida soluzione, quando un bel giorno Augustus mi disse finalmente che aveva un piano 24 a prova di bomba. Io avevo un parente a New Bedford, un certo signor Ross, presso il quale trascorrevo, di tanto in tanto, due o tre settimane. Il brigantino doveva prendere il mare verso la metà di giugno (dell’anno 1827) e concordammo che, due o tre giorni prima della partenza, mio padre, come spesso accadeva, avrebbe ricevuto un biglietto dal signor Ross, in cui questi lo pregava di mandarmi a passare da lui quindici giorni in compagnia dei suoi due figli, Robert ed Emmet. Augustus s’incaricò di preparare questo messaggio e di farlo pervenire a mio padre. Col pretesto di recarmi a New Bedford, dovevo quindi raggiungere il mio amico che, nel frattempo, avrebbe preparato un alloggiamento per me a bordo del Grampus. Mi promise di preparare un nascondiglio abbastanza comodo perché potessi passarci quei pochi giorni, durante i quali non dovevo rivelare la mia presenza a bordo della baleniera. Quando il brigantino avesse percorso abbastanza miglia perché non ci fosse il rischio di essere ricondotto in porto, allora – mi disse Augustus – avrei potuto usufruire di una camera spaziosa e comoda. Quanto a suo padre, avrebbe certamente riso della mia fuga e, del resto, avremmo sicuramente incrociato qualche nave cui affidare una lettera di spiegazioni per i miei parenti. Si giunse finalmente alla fine della prima quindicina di giugno e tutto era pronto. Il biglietto venne redatto, spedito; e un lunedì, di buon mattino, potei finalmente uscire, fingendo di andare a prendere il battello per New Bedford. In realtà, di lì a poco, trovai Augustus che mi aspettava all’angolo di una strada. Il nostro piano prevedeva che sarei rimasto nascosto fino al calar della notte, quando sarei salito di soppiatto a bordo del Grampus. 25 Ma poiché c’era una fitta nebbia decidemmo di comune accordo che non avrei perso tempo a nascondermi. Augustus quindi si avviò verso la banchina e io lo seguii a breve distanza, avvolto in un pesante mantello da marinaio che mi aveva portato per non essere riconosciuto. Ma alla seconda svolta, appena oltrepassato il pozzo del signor Edmund, qualcuno si piantò dritto davanti a me, come volesse squadrarmi da capo a piedi, e questo qualcuno non era che il vecchio signor Peterson, mio nonno. «Ah... ma, questo!... bontà divina!... Gordon!...» disse dopo un lungo silenzio «Ah, ma questo!... Di chi è dunque il vecchio mantello che portate sulle spalle?» «Signore» replicai, affettando all’uopo un’aria sorpresa e un tono di voce il più possibile deciso «Certamente vi sbagliate. Per prima cosa il mio nome non è Gordon e vi auguro di vederci meglio quando incontrate qualcuno, per evitare di scambiare per vecchio un mantello assolutamente nuovo.» Vi assicuro che non so come riuscii a contenermi, per non scoppiare con una risata in faccia al vecchio uomo, vedendo il modo curioso con cui ricevette quel rimprovero. Fece due o tre salti all’indietro, divenne pallidissimo, poi rosso, si tolse gli occhiali, se li rimise sul naso e si slanciò su di me, brandendo il suo ombrello. Poi improvvisamente si fermò nella sua rincorsa, come si fosse ricordato di qualcosa, e con un rapido dietrofront riprese la sua strada, fremente di collera e borbottando tra i denti: «Non è possibile, con degli occhiali nuovi... avrei ben creduto che fosse proprio Gordon... quel buono a nulla... quel marinaio d’acqua dolce!... che il diavolo se lo porti!...». 26 L’avevo dunque scampata bella! Continuammo il nostro cammino facendo più attenzione e giungemmo in breve a destinazione, senza altri inconvenienti. A bordo c’erano solo tre o quattro uomini, occupati non so in quali faccende. Sapevamo che il capitano Barnard era impegnato da Lloyd & Vredenburg, cosicché non sarebbe tornato che a sera molto tarda. Non c’era dunque molto da temere; Augustus salì per primo ed io lo seguii da vicino senza peraltro essere notato dagli uomini che lavoravano sul ponte. Entrammo negli alloggiamenti che trovammo vuoti. Erano sistemati con tutte le comodità, cosa molto rara su una baleniera. Vi erano quattro belle cabine per gli ufficiali, provviste di cuccette spaziose e comode. Notai pure un grande tappeto molto spesso che copriva il pavimento del quadrato e delle cabine. Il soffitto era a un’altezza di circa sette piedi e il tutto aveva un aspetto più lussuoso e piacevole di quanto non avessi immaginato. Ma Augustus non mi concesse a lungo il piacere di soddisfare la mia curiosità, insistendo sulla necessità di nascondermi al più presto. Mi condusse dunque nella sua cabina che era situata a tribordo. Appena entrati, chiuse la porta e tirò il catenaccio e a me parve che in tutta la mia vita non avessi visto una cameretta più graziosa di quella. Misurava forse dieci piedi di lunghezza e c’era solo una spaziosa cuccetta e un quadrato di circa quattro piedi con un tavolino, una sedia e piccoli scaffali carichi di libri che trattavano per lo più di viaggi e navigazione. Vi erano anche molte altre comodità in quella piccola e graziosa cabina, fra cui una credenzina dove Augustus aveva prudentemente stivato una riserva di ghiottonerie. 27 Appoggiò poi le dita su un punto del tappeto, in un angolo del quadrato, e mi fece notare che una parte del pavimento, sei piedi quadrati all’incirca, era stata accuratamente segata e poi riposizionata. Facendo pressione, quella parte si sollevava quanto bastava per passare un dito al di sotto. Questa manovra gli permise di aprire la botola, cui alcuni chiodini tenevano fissato il tappeto, e constatai che era abbastanza grande per poterci passare. Con un fiammifero Augustus accese una piccola candela che introdusse in una lanterna e s’introdusse nell’apertura, invitandomi a seguirlo. Una volta scesi, riportò il coperchio sulla botola e lo fissò con un chiodo, piantato nella parte superiore. Il tappeto naturalmente riprese il suo aspetto normale, cosicché l’apertura rimaneva celata. La candela faceva una luce così debole che solo con molta fatica riuscivo a farmi strada fra gli oggetti che ci circondavano. Ma poco a poco i miei occhi si abituarono all’oscurità e potei muovermi più facilmente, rimanendo aggrappato alla giacca del mio compagno. Attraverso un dedalo di passaggi stretti, giungemmo finalmente a un grande baule listato di ferro, simile in tutto a quelli utilizzati per spedire merce di pregio. Era alto circa quattro piedi e lungo più di sei, ma maledettamente stretto. Vi erano appoggiati sopra due grandi barili di olio, per il momento vuoti e coperti da una fila enorme di scatole che saliva fino al soffitto. Intorno a me, in qualunque direzione volgessi lo sguardo, vedevo provviste di ogni genere, ammassate e confuse, in un vero ed enorme caos, e una grande quantità di casse, panieri, scatole, botti, tanto che mi sembrava un miracolo riuscire a passarci attraverso. Appresi poi come Augustus avesse organizzato in tutta fretta la si28 stemazione della stiva in modo da assicurarmi un posto dove rimanere nascosto, aiutato in ciò solo da un uomo che poi non si sarebbe imbarcato sul Grampus. Il mio amico mi fece allora notare che una delle pareti della cassa poteva essere tolta facilmente e, dopo averla fatta scivolare, mi mostrò la disposizione dell’interno che m’impressionò molto. Un materasso, preso da uno dei letti della cabina ne ricopriva interamente il fondo e c’erano pure tutte le comodità che potevano stare in uno spazio così angusto. Non mi restava altro da fare che stendermi nel mio giaciglio provvisorio e starmene lì seduto o coricato, come preferivo. Fra le altre cose, trovai alcuni libri, poi penne, inchiostro, carta, coperte, una grande brocca d’acqua, una scatola di gallette, tre o quattro salami bolognesi enormi, uno splendido prosciutto, una coscia fredda di montone arrosto e una mezza dozzina di bottiglie di cordiali e liquori. Senza indugiare, presi dunque possesso della mia nuova casa, con più soddisfazione di quella di un re che s’insedia nella sua nuova reggia. Augustus m’indicò il congegno che permetteva di bloccare la parete mobile della cassa e, avvicinando la candela al soffitto, mi mostrò una cordicella nera che vi era fissata. Partendo dalla mia cuccetta, mi disse, la cordicella aggirava tutti i materiali ammassati nella stiva, raggiungendo un chiodo fissato sul ponte, subito sotto il portello che dava accesso alla sua cabina. La corda doveva servirmi a ritrovare con facilità la strada senza la sua guida, nel caso che un qualche accidente imprevisto mi obbligasse a raggiungerlo. Prese dunque congedo da me, lasciandomi, con la lanterna, una copiosa provvista di candele e fiammiferi e promettendo di venirmi a trovare tutte le volte che poteva, senza tradire il nostro segreto. 29 Era il giorno 17 giugno. Trascorsi dunque nel mio angusto rifugio tre giorni e tre notti – almeno così mi sembrò – e solo due volte mi azzardai a uscire per distendere le membra intorpidite, restando nascosto in piedi fra due casse davanti all’apertura. Per tutto questo tempo Augustus non si fece vivo; ma io non mi preoccupai, sapendo che il brigantino doveva salpare da un momento all’altro e che nei preparativi della partenza non doveva essergli facile trovare l’occasione per venire a trovarmi. Poi finalmente sentii il coperchio della botola aprirsi e rinchiudersi e Augustus chiamarmi a bassa voce, chiedendomi se andava tutto bene e se avevo bisogno di qualcosa. «Non ho bisogno di nulla» gli risposi «Va tutto bene. Quando si parte?» «Non leveremo l’ancora prima di mezz’ora» mi disse «Ero venuto apposta per dirtelo e avevo paura che ti allarmassi per non avermi più visto. Dovrà trascorrere forse molto tempo prima che possa tornare, forse tre o quattro giorni. A bordo va tutto bene. Appena sarò risalito e la botola si sarà rinchiusa dietro di me, lasciati guidare dalla corda fino al chiodo. Troverai laggiù il mio orologio, che ti servirà di sicuro, poiché non puoi contare sulla luce del giorno per misurare il tempo. Mi sa che non immagini da quanto tempo sei qui: da tre giorni solamente. Oggi è il 21 giugno. Verrei volentieri a portarti l’orologio, ma ho paura che di sopra abbiano bisogno di me.» Detto questo, scomparve. Era forse trascorsa un’ora dalla sua partenza quando sentii distintamente il brigantino muoversi e mi rallegrai di poter finalmente iniziare un vero viaggio. Ero così contento che promisi a me stesso di non agitarmi e di 30 attendere con pazienza finché avessi potuto lasciare la mia cassa stretta per una cabina, certo più spaziosa, ma non necessariamente molto più comoda. La prima preoccupazione fu di andare a cercare l’orologio di cui mi aveva parlato Augustus. Lasciando la candela accesa, mi avviai tastoni nel buio, seguendo la corda in tutti i suoi giri; ma il percorso era così complicato che dopo molti passi e molte retromarce finivo sempre per ritrovarmi al punto di partenza. Finalmente potei raggiungere il famoso chiodo e, preso l’oggetto per cui mi ero mosso con grande fatica, rientrai senza difficoltà nel mio angusto ricovero. Passai allora in rassegna i libri che Augustus aveva avuto la gentilezza di lasciarmi e la mia scelta cadde sulla Spedizione di Lewis e Clarke alla foce del Columbia. Lo lessi per un po’ e poi, stanco, sentii le palpebre chiudersi e, dopo aver spento con cura la candela, mi addormentai in un sonno profondo. Al risveglio avevo la testa molto confusa e ci volle del tempo prima di ricordarmi per quali strane circostanze mi trovavo lì. Pian piano potei ricostruire l’accaduto. Accesi una candela e guardai l’orologio; era fermo e non avevo quindi modo di capire per quanto tempo avevo dormito. Sentivo dei crampi a gambe e braccia e per farli passare dovetti stare in piedi fra le due casse; avevo molta fame e subito pensai al montone freddo di cui avevo mangiato un pezzo prima di dormire e che mi era parso eccellente; con mia grande sorpresa però vidi che la carne era in stato di avanzata putrefazione. La scoperta mi agitò molto, perché, unita alla confusione che avevo provato risvegliandomi, mi faceva supporre che avessi dormito per un periodo di tempo straordinaria31 mente lungo. L’aria stagnante della stiva poteva, alla lunga, avere prodotto gli effetti più spiacevoli. Avevo un gran mal di testa, mi sembrava di respirare male ed ero oppresso da idee inquietanti. Tuttavia, non potevo ancora avventurarmi ad aprire la botola, né fare altro che potesse destare l’attenzione dell’equipaggio, e mi rassegnai ad aspettare con pazienza. Nell’angoscia mortale delle ventiquattro ore che seguirono nessuno mi venne in aiuto e non potei fare a meno di accusare Augustus d’indifferenza nei miei riguardi; mi preoccupavo soprattutto perché l’acqua della brocca era quasi finita; ero terribilmente assetato, avendo mangiato molto del salame bolognese, dopo aver perso il montone. In preda alla più viva inquietudine, non provavo più alcun interesse per la lettura; avevo una strana voglia di dormire, ma tremavo all’idea di cedere al sonno, per timore che l’aria viziata della stiva facesse qualche brutto scherzo, come quella del carbone in combustione. Il rollio del brigantino indicava che eravamo in mare aperto e un rumore sordo e cupo che sembrava venire da molto lontano mi faceva pensare che ci fosse una tempesta in arrivo. Non capivo perché Augustus non si facesse vivo. Avevamo fatto certamente abbastanza miglia perché potessi, senza problemi, fare la mia comparsa sul ponte. Doveva essere successo qualcosa... ma non potevo pensare a nulla che spiegasse perché egli continuava a prolungare così la mia prigionia, a meno che non fosse morto improvvisamente o fosse volato fuori bordo. Potevamo anche avere avuto venti contrari che avevano rallentato la nave e forse eravamo ancora vicini a Nantucket; ma dovetti ben presto abbandonare quell’ipotesi perché, se così fosse 32 stato, il brigantino avrebbe più di una volta virato di bordo, mentre la sua inclinazione costante indicava che non aveva cessato di far vela a un vento di tribordo. Del resto, ammettendo anche che fossimo ancora in prossimità dell’isola, come si spiegava che Augustus non fosse venuto a informarmi di quanto avveniva in coperta? Meditando tristemente su quella mia sgradevole situazione, mi rassegnai ad attendere ancora per altre ventiquattro ore, dopo di che, se nessuno fosse venuto in mio aiuto, sarei andato alla botola per avere spiegazioni da Augustus, o per lo meno per respirare un po’ d’aria fresca attraverso l’apertura e trovare una nuova provvista d’acqua. Preso da questi pensieri, malgrado i miei sforzi per resistere, caddi in una specie di sonno pesante o, per meglio dire, di torpore. Avevo una terribile nausea, mi sentivo assediato dalle peggiori catastrofi e orrori. Nella mia mente angosciata passavano strane immagini, esseri demoniaci dall’aspetto patibolare e feroce. A volte mi vedevo avvolto da enormi serpenti che mi affascinavano con le loro pupille luminose. Poi deserti senza luce, contrade desolate e spaventose si susseguivano senza posa davanti ai miei occhi; tronchi d’albero di altezza smisurata, grigi e spogli, si susseguivano nell’ombra all’infinito, così lontano che il mio sguardo poteva appena giungervi; le radici penetravano nel fondo di stagni, le cui acque, scure e opache, si distendevano spaventose e immobili. E quegli strani alberi sembravano vivere, vivere di una vita umana, gesticolando con le loro braccia spoglie, implorando le acque silenziose, gridando misericordia con l’accento della disperazione e dell’agonia. Poi la scena mutava: mi trovavo solo e nudo sulle sabbie infuocate del Sahara; ai miei piedi era accucciato un fe33 roce leone dei tropici. D’improvviso i suoi occhi furiosi si aprivano, il suo sguardo si fissava su di me: con uno scatto convulso si rizzava e scopriva la spaventosa fila di denti, la gola rossa lanciava un ruggito simile al tuono e io mi abbattevo pesantemente al suolo. Soffocato dall’angoscia, mi risvegliai. Ma quel sogno?... non era dunque un sogno? Almeno adesso ero tornato in me. Eppure, là davanti, enorme, stava un mostro con le zampe poggiate sul mio petto, sentivo il suo fiato caldo nelle orecchie... i denti di una bianchezza sinistra brillavano nelle tenebre. Anche se fosse bastato un solo movimento per salvarmi, una sola sillaba, ebbene, non avrei potuto muovermi né dire una parola. La bestia, chiunque essa fosse, manteneva la stessa posizione, rinviando l’attacco, ed io restavo disteso sotto di lui, assolutamente impotente, come vicino alla morte. Ogni energia fisica e morale mi abbandonava e mi sentii morire, veramente morire di paura. La mia mente vaneggiava, avevo delle nausee mortali. La mia vista si confondeva, tutto si oscurava ai miei occhi, anche le pupille di fuoco che stavano fisse su di me. Feci allora un ultimo sforzo sovrumano per rivolgere a Dio una debole preghiera e mi rassegnai alla morte. La mia voce parve risvegliare la rabbia sopita del mostro, che si distese su di me in tutta la sua lunghezza. Ma, con mio grande stupore, emettendo un grugnito sordo e prolungato si mise a leccare il mio viso e le mie mani, con grande esuberanza e con folli manifestazioni di gioia e amicizia! Ero trasecolato, smarrito per la sorpresa: ma non potevo aver dimenticato il guaito così particolare del mio terranova, Tigre, e le sue stravaganti carezze mi 34 erano ben conosciute. Era lui. Mi parve che il sangue mi rifluisse di colpo alle tempie e fu una sensazione di vertigine, come di risurrezione. Mi rizzai sul materasso e gettandomi al collo del fedele compagno e amico, sfogai la mia lunga angoscia con un pianto dirotto. Come già mi era già accaduto in precedenza, alzandomi ero tormentato dal dubbio e dal caos più completo. Passò del tempo prima di poter concatenare un’idea all’altra, ma a poco a poco ricuperai le mie facoltà e ricostruii la catena degli avvenimenti in seguito ai quali mi trovavo laggiù. Quanto a Tigre, non riuscivo a spiegare la sua presenza e, dopo mille congetture, mi rallegrai semplicemente del fatto che fosse venuto ad alleviare la mia solitudine e a portarmi il conforto del suo affetto. Molte persone si affezionano ai loro cani; eppure io ho amato Tigre di un amore non comune e mai – ne sono sicuro – alcuna creatura ne fu più degna. Già da sette anni era il mio compagno inseparabile e aveva dimostrato in più occasioni tutte le nobili qualità che rendono prezioso un animale. Quando era ancora un cucciolo l’avevo strappato dalle grinfie di un piccolo mascalzone di Nantucket che lo trascinava in acqua con una corda al collo; e il terranova, tre anni dopo, aveva pagato il suo debito di riconoscenza difendendomi dall’aggressione di un ladro per strada. Presi allora il mio orologio e, portandomelo all’orecchio, constatai che le lancette erano ancora immobili, e ciò non mi stupì perché ero convinto, da come mi sentivo, di aver dormito come la prima volta molto a lungo. Quanto tempo? Non avrei potuto dirlo. Bruciavo dalla febbre e la sete era ormai intollerabile; tastai il mio na35 scondiglio per trovarvi quel poco che restava della provvista d’acqua; non potevo più contare sulla luce perché la candela si era consumata e non trovavo nemmeno la scatola dei fiammiferi. Finii per trovare la brocca, che però era vuota. Certamente Tigre aveva bevuto l’acqua rimasta, come pure doveva aver mangiato il montone, il cui osso giaceva accuratamente spolpato accanto alla cuccetta. Questo accrebbe ancor di più la mia angoscia, gettandomi in uno stato di profondo sconforto. Ero di una debolezza estrema, tanto che il minimo movimento, il più leggero sforzo mi faceva tremare in tutte le membra come per un accesso di febbre. I movimenti e il rollio del brigantino si erano fatti più violenti e i barili d’olio sopra la mia cassa rischiavano in ogni momento di cadere, bloccando così il solo passaggio che mi permettesse di uscire o rientrare. Inoltre, soffrivo spaventosamente di mal di mare e per tutte queste ragioni mi decisi ad avviarmi, come potevo, verso la botola, per chiedere aiuto, mentre me ne restavano ancora le forze. Avendo preso quella decisione, mi misi a cercare fiammiferi e candele; trovai a fatica i primi, ma non trovai le candele così presto come speravo, poiché ero quasi sicuro di ricordarmi il luogo preciso in cui le avevo messe. Quindi, per il momento, rinunciai e, dopo aver raccomandato a Tigre di non muoversi, mi avvia senza esitazione verso la botola. Nel percorso si rivelò improvvisamente tutta la mia debolezza; facevo una grande fatica a trascinare il peso del mio corpo e più volte le gambe cedettero; caddi col viso in avanti e rimasi steso alcuni minuti in uno stato quasi d’incoscienza. Mi sforzavo comunque di avanzare, tremando per la paura di svenire in quel dedalo stretto e caotico della 36 stiva, che avrebbe significato morire. Alla fine, mentre mi trascinavo con tutte le mie forze, urtai con la fronte contro l’angolo aguzzo di una cassa armata di ferro. Rimasi solo leggermente stordito, ma mi accorsi con angoscia che la violenza del rollio aveva fatto scivolare quel cassone proprio a ostruirmi il passaggio. Tutti gli sforzi più disperati non riuscirono a smuoverlo neppure di un pollice, perché era chiuso dalle altre casse vicine e dal materiale di bordo. Debole com’ero, non mi restava che abbandonare la cordicella che mi serviva da guida e cercare un nuovo passaggio, oppure scavalcare l’ostacolo e continuare dall’altra parte. La prima soluzione offriva tante difficoltà e pericoli che ne tremavo al solo pensiero. Nello stato di debolezza in cui mi trovavo non potevo che esaurirmi in un simile tentativo e perire miseramente nel labirinto sinistro e ripugnante della stiva. Senza esitare, pensai di fare appello a quanto mi restava di forza e di coraggio per tentare, se possibile, di scavalcare la cassa. Pur essendomi preparato a quello sforzo, mi accorsi che le difficoltà che mi attendevano erano molto più grandi di quanto avessi pensato. Ai due lati dello stretto passaggio c’era una vera muraglia, formata da una moltitudine di pesanti materiali, che il più piccolo movimento poteva farmi cadere in testa e che, cadendo dietro di me, potevano opporre un insormontabile ostacolo a una mia probabile ritirata. Quanto alla cassa, era alta e pesante, e non offriva alcuna sporgenza su cui potessi posare il piede. Tentai invano, con tutti i mezzi possibili, di raggiungere la parte superiore, sperando d’issarmici a forza di braccia. Se anche avessi potuto sollevarmi abbastanza, era evidente che sarei stato sempre troppo debole e forse, in fondo, era meglio che non vi fossi riuscito. 37 Finalmente, in uno sforzo disperato per smuovere la cassa, sentii come una vibrazione nella parte frontale e, passando la mano negli interstizi, mi accorsi che un’asse, molto larga, si era smossa. Per fortuna avevo con me il coltello e col suo aiuto riuscii, non senza fatica, a staccarla completamente; m’introdussi quindi nell’apertura e con gioia scoprii che non c’era un altro lato! in altre parole, non aveva coperchio e ne avevo attraversato il fondo. Proseguii quindi senza grandi difficoltà, lungo la cordicella per raggiungere il chiodo, e fu con un sobbalzo al cuore, abbastanza giustificato, che mi alzai, spingendo dolcemente il coperchio della botola. Non si sollevò così presto come speravo e spinsi più forte, sempre col timore che nella cabina non ci fosse Augustus, ma un altro. Ma il coperchio faceva resistenza e rimasi perplesso e inquieto, perché sapevo che prima si sollevava con facilità; ancora una forte spinta, ma niente; cercai di smuoverlo con tutte le mie forze, ma non si mosse. Lo premetti con rabbia, con furore, con disperazione, ma resistette a tutti i miei sforzi e pensai allora che ciò non poteva dipendere che da due ragioni: o la botola era stata scoperta e il pavimento inchiodato di nuovo, oppure c’era stato piazzato sopra un peso enorme, cosicché ogni mio tentativo per sollevarlo risultava vano. Provai allora un senso di terrore estremo e di costernazione. Cercai invano di ragionare su quel mio essere così murato in quella tomba e, non potendo dare ordine alle mie idee, mi lasciai andare sul pavimento, senza resistere ai miei lugubri pensieri e prospettando di morire di sete per sete o di fame, oppure per asfissia. Alla fine tornai un po’ in me e, alzandomi, cercai con le dita le fessure intorno alla botola. Quando le trovai, le 38 esaminai con attenzione per vedere se un qualche chiarore proveniente dalla cabina filtrasse attraverso le assi, ma non vidi niente. Vi feci penetrare allora la sottile lama del coltello finché essa non ebbe trovato un oggetto resistente. Grattando un po’, capii che si trattava di una pesante massa di ferro e la particolare sensazione ondulata che mi trasmise la lama scivolando sulla lunghezza dell’apertura, mi fece pensare che si trattasse della catena dell’ancora. Non mi rimaneva che tornarmene alla mia cassa e rassegnarmi alla terribile sorte, oppure provare a tranquillizzarmi per trovare un altro modo di salvarmi. Mi rimisi dunque in marcia senza esitazione e riuscii, a prezzo di enormi difficoltà, a riguadagnare la mia cuccetta. Mentre mi lasciavo cadere sul materasso, distrutto dalla fatica, Tigre si allungò vicino a me, come se avesse voluto con le sue carezze consolarmi ed esortarmi a sopportare con coraggio. A lungo andare, il suo strano comportamento finì per attirare la mia attenzione. Dopo avermi leccato il viso e le mani per alcuni minuti, s’interruppe improvvisamente, lasciando sfuggire dalla gola un sordo guaito; quando tesi la mano verso di lui, lo trovai disteso immobile sul dorso, con le zampe in aria. Quella posizione mi parve abbastanza singolare e, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a spiegarmela; l’aria triste del povero terranova mi fece pensare che avesse ricevuto qualche colpo. Presi dunque le zampe tra le mani e le esaminai una dopo l’altra, senza trovare qualcosa di strano. Pensai allora che poteva aver fame e gli detti una fetta di prosciutto che divorò avidamente. Ma appena terminato il breve pasto, ricominciò il suo strano lamento. Pensai allora che poteva essere assetato 39 come me, ma poi mi resi conto che avevo controllato solo le zampe dell’animale, che poteva invece essere ferito alla testa o da qualche altra parte. Tastai con cura minuziosa la testa e non vi trovai alcuna ferita, ma scorrendo le mani sulla schiena sentii che il pelo era leggermente sollevato lungo una linea per tutta la larghezza. Sfogliando il pelo col dito, scopersi una piccola corda avvolta al suo corpo. A un esame più attento, trovai una strisciolina che, al tocco, mi parve come di carta da lettere che, attraversata dalla corda, era assicurata sotto la spalla sinistra del cane. Capitolo 3 Immaginai subito che quel pezzo di carta fosse un biglietto inviatomi da Augustus che, non potendo venire a liberarmi per un qualche imprevisto che non conoscevo, usava quel mezzo per tenermi informato sulla situazione. Tremando d’impazienza, mi misi di nuovo alla caccia dei fiammiferi e delle candele; ricordavo vagamente di averli messi con cura in un certo posto poco prima di addormentarmi e certamente, prima del mio ultimo viaggio verso la botola, sarei stato ancora capace di ricordare dove esattamente li avevo messi; ma adesso mi spremevo inutilmente le meningi e trascorsi un’ora nella vana ricerca. Mai prima, né sono certo, mi ero trovato più angosciato e insicuro. Finalmente, tastoni, con la fronte china fin quasi a toccare il pavimento vicino all’apertura della casa e più avanti, credetti di scorgere una debole luce, nella direzione degli alloggiamenti dei marinai. Molto sorpreso, 40 cercai di andare verso quella luce che sembrava a pochi passi da me. Avevo appena fatto un movimento in quella direzione, che già l’avevo completamente persa di vista e, prima di poter scorgerla di nuovo, fui costretto a tornare tentoni lungo la cassa per riprendere la posizione primitiva. Allora, muovendo la testa di qua e di là, con precauzione, vidi che, procedendo piano piano con la massima attenzione nella direzione opposta a quella che avevo preso la prima volta, avrei potuto avvicinarmi alla luce senza perderla di vista. Dopo ripetuti tentativi avanti e indietro finii per cadere sfinito e mi accorsi che la luce proveniva da alcuni residui di fosforo dei fiammiferi sparsi in fondo a un barile vuoto rovesciato. Mi stupii di trovarli lì e la mia mano s’imbatté in due o tre mozziconi di candele, evidentemente masticate dal cane; compresi allora come Tigre avesse distrutto tutta la mia provvista di candele e persi ogni speranza di poter leggere il biglietto di Augustus. I piccoli resti di cera erano così triturati e mescolati coi detriti del barile, che già disperavo di poter approfittarne ed ero quasi propenso a lasciarli dov’erano. Quanto al fosforo, di cui restavano al massimo due o tre frammenti, li raccolsi con la maggior cura possibile e raggiunsi con molta fatica il mio rifugio, dove Tigre era rimasto per tutto quel tempo. Non sapevo a cosa appigliarmi. Il buio era così fitto nella stiva che non potevo vedere la mia mano, anche tenendola davanti al viso. Quanto alla striscia di carta bianca, solo a fatica potei distinguerla, non guardandola direttamente, ma volgendo verso di essa la parte esterna della retina o, per meglio spiegarmi, guardandola in obliquo, per renderla appena percettibile. 41 Da questi dettagli si può facilmente capire quale oscurità regnasse nella mia prigione e il biglietto del mio amico, se pur si trattava di un biglietto suo, sembrava non avere altro effetto che di accrescere la mia angoscia e di torturare ancor più la mia disgraziata mente, già così scossa e depressa. Invano passai in rassegna mille espedienti assurdi per procurarmi della luce, in tutto simili a quelli che inventerebbe un uomo immerso nel sonno agitato dell’oppio, che ciascuno di essi appare di volta in volta al dormiente come la trovata più ragionevole o più inutile, a seconda se sia trascinato dai bagliori della ragione e dell’immaginazione. Finalmente mi venne un’idea, che mi sembrò così logica che mi stupii, a ragione, di non averla avuta prima. Stesi quindi la striscia di carta sulla coperta di un libro e, raccolti i frammenti di fosforo dal barile, ve li deposi sopra. Poi con il palmo della mano sfregai velocemente e con forza. Ben presto, una luce chiara si sparse su tutta la superficie, e se qualcosa vi fosse stato scritto, l’avrei certamente letto senza difficoltà. Ma su quel foglio non c’era altro che un bianco desolante; la luce si spense in pochi secondi e mi parve che il mio cuore si spegnesse con lei. Ho avuto occasione di dire che, per un certo tempo, ero come instupidito; avevo certamente degli intervalli momentanei di lucidità e anche dei risvegli d’energia, ma si trattava di rari momenti. Occorre certamente ricordare che già da più giorni respiravo l’aria pestilenziale di una scatola sepolta nella stiva di una baleniera e che già da qualche tempo la mia razione d’acqua era insufficiente. Oltretutto non dormiva da quattordici o quindici ore e avevo mangiato solo cose 42 salate da quando avevo perso il mio montone, a parte le gallette che erano troppo secche e stantie; del resto, la mia gola, gonfia e arida com’era, non riusciva a mandarle giù. Avevo la febbre alta ed ero in grave difficoltà, da ogni punto di vista. Potete capire come passai quelle lunghe ore di angoscia, dopo la vana ricerca del fosforo, prima che mi rendessi conto che avevo esaminato solo una parte del foglio, e che quindi non erano esaurite tutte le possibilità di salvarmi. Non proverò ora a descrivere la rabbia che mi prese quando improvvisamente capii la mia stupidaggine. In se stessa la cosa non sarebbe stata così grave se la follia e la mia debolezza non l’avessero accentuata. Infatti, arrabbiato per non aver letto in quel pezzo di carta neanche una parola, avevo fatto la sciocchezza di stracciarlo, spargendo i pezzi in ogni direzione. Ma in quell’occasione fui aiutato dall’istinto di Tigre. Avendo trovato, dopo faticosa ricerca, un frammento del biglietto, lo misi sotto il naso del cane per fargli capire che toccava a lui scovare gli altri. Non l’avevo mai addestrato a svolgere i compiti di solito assegnati alla sua razza e rimasi quindi sorpreso vedendolo svolgere compiutamente il mio piano. Vagò per alcuni minuti e presto trovò un secondo frammento abbastanza grande, che mi portò, e dopo una breve pausa stropicciò il naso contro la mia mano come aspettasse la mia approvazione. Gli accarezzai la testa e lui si rimise subito in caccia. Passarono alcuni minuti senza che tornasse, ma quando s’avvicinò a me, portava una grande striscia di carta, il resto del biglietto perduto che, come ricordavo, avevo rotto solo in tre pezzi. Per fortuna, non penai molto a prendere ciò che restava del fosforo, guidato dalla tenue luce emanata da un paio di frammenti. 43 I precedenti insuccessi mi avevano insegnato a essere prudente e questa volta presi tutte le mie precauzioni e riflettei bene su ciò che dovevo fare. Era probabile – così pensavo – che vi fosse uno scritto nella parte del foglio che non avevo esaminato; il difficile era sapere quale fosse quella parte. A questo riguardo, riunire i pezzi non aiutava in alcun modo, avevo solo la certezza che le parole – se poi di parole si trattava – si trovavano tutte su quella stessa parte del foglio nell’ordine logico in cui erano state scritte. Era dunque assolutamente necessario essere ben sicuro su quel punto, perché ciò che restava del fosforo era insufficiente per un terzo tentativo, nel caso avessi fallito anche il secondo. Disposi dunque la carta su un libro, come la prima volta, e mi fermai ancora, pensieroso, per alcuni minuti, esaminando attentamente il problema sotto tutti i suoi aspetti. In fin dei conti – pensavo – era possibile che la superfice della parte scritta fosse diversa al tatto rispetto all’altra. Decisi dunque di provare e passai accuratamente il dito sulla parte che mi si presentò per prima, senza percepire niente di particolare. Poi, girando la carta, la posai di nuovo sul libro e ripassai l’indice con cura su tutta la superfice e distinsi un debolissimo chiarore, appena percettibile, che seguiva quasi il mio dito nel suo cammino. Capii che quella luce proveniva dalle piccolissime particelle di fosforo che erano rimaste attaccate alla carta durante il mio primo vano tentativo; l’altra parte, il rovescio, doveva quindi essere il lato su cui era lo scritto, ammesso che ci fosse uno scritto. Girai nuovamente il biglietto e mi misi all’opera, come avevo già fatto: stropicciai il fosforo e ben presto si produsse una debole luce, ma questa volta mi apparvero distinta44 mente più righe di una scrittura che dovevano essere state tracciate con inchiostro rosso. Il flebile lampo era durato pochissimo e tuttavia, non fosse stato per l’emozione, avrei avuto il tempo di leggere per intero le tre frasi che avevo sotto gli occhi – perché si trattava di tre frasi. Così, impaziente di leggere subito tutto, riuscii a decifrare solo otto ultime parole «...sangue, restate nascosto, ne va della vostra vita...». Anche se avessi potuto leggere il biglietto per intero e capire esattamente il messaggio che il mio amico aveva cercato di farmi giungere, mettendomi al corrente della più grave catastrofe, sono certo che ciò non mi avrebbe sollevato, tanto grande fu l’orrore che provai per quel frammentario avvertimento, ricevuto in simili condizioni. E quella parola “sangue”, che è sempre così carica di mistero, di sofferenza e di terrore, mi apparve in tutta la sua potenza minacciosa. Quella parola, isolata dalle altre che la precedevano per qualificarla e renderla comprensibile, come cadde, fredda, gelida e pesante, nel profondo del mio spirito, nella densa oscurità della mia prigione! Certamente Augustus aveva le sue buone ragioni per volere che restassi nascosto e io formulai mille ipotesi su quali fossero quelle ragioni senza trovare una soluzione soddisfacente. Quando ero tornato dalla mia incursione verso la botola e prima che mi accorgessi dello strano comportamento di Tigre, avevo deciso di farmi sentire dagli uomini dell’equipaggio, o – se non vi fossi riuscito – di cercare un passaggio sottocoperta. La certezza che nutrivo di potere alla fine riuscire in una delle due imprese mi aveva fino a quel momento dato il coraggio per sopportare la mia triste situazione. Le poche parole che 45 avevo potuto leggere mi precludevano ora queste ultime due possibilità e presi coscienza dell’atrocità del mio destino. Nella più profonda disperazione mi lasciai andare sul materasso e vi rimasi per tutto il giorno e forse la notte, immerso in una specie di torpore interrotto da brevi intervalli in cui riprendevo coscienza del mio stato. Finalmente cercai di ragionare ancora una volta ed esaminai la situazione. Era improbabile che potessi resistere ancora ventiquattr’ore senz’acqua; era veramente impossibile. All’inizio della prigionia avevo fatto largamente uso dei cordiali che mi aveva lasciato Augustus, che non avevano fatto altro che accrescere la mia eccitazione, senza spegnere in alcun modo la sete che mi divorava. Adesso non mi restava più che un quarto di pinta di liquore, una bevanda molto alcolica che ripugnava al mio stomaco. Il salame era ormai finito e del prosciutto non restava che un piccolo avanzo di pelle; in quanto alle gallette, le aveva mangiate tutte Tigre, tranne una sola. Per di più, sentivo crescere il mal di testa e con esso quella specie di delirio che mi aveva preso quando ero assopito. Già da molte ore facevo un’enorme fatica a respirare e gli sforzi erano accompagnati da un movimento spasmodico del petto. Ma un’altra inquietudine, di tipo diverso, mi sollevò dal torpore e mi fece rizzare tremante sul materasso. Nasceva dagli strani movimenti del mio cane. Avevo già notato il suo comportamento mentre stropicciavo il fosforo sulla carta, durante il mio ultimo tentativo; in quel preciso momento aveva poggiato il naso contro la mia mano, con un debole guaito, ma io ero troppo impegnato per riflettere su quel dettaglio. Poco dopo, come già detto, mi ero lasciato cadere sul materasso e vi ero rimasto a lungo, immerso in una specie di 46 letargo. Fu allora che notai uno strano fischio vicinissimo al mio orecchio e, voltandomi, m’accorsi che proveniva da Tigre che ansimava e soffiava, visibilmente, in preda a una grande agitazione, con gli occhi che brillavano nelle tenebre d’una luce feroce. Ripiombai nel torpore e fui di nuovo svegliato allo stesso modo. La cosa si ripeté tre o quattro volte, fino a che non mi svegliai completamente. Il cane era accanto all’apertura della cassa, brontolava rabbioso ma sommesso e digrignava i denti come in preda a violente convulsioni. Certamente la sete e l’aria della stiva l’avevano esasperato e non sapevo cosa fare. L’idea di ucciderlo mi riusciva insopportabile, per quanto inevitabile al fine di salvarmi. Vedevo distintamente il suo sguardo feroce fisso nei miei occhi e attendevo l’istante in cui si sarebbe scagliato su di me. Finalmente, non potendo resistere più a lungo in quella terribile situazione, decisi di uscire dalla cassa a qualunque costo e di sbarazzarmi di lui, se il suo comportamento mi avesse costretto a farlo. Ma per uscire dovevo passargli sopra e lui sembrava avesse capito, perché già si era rizzato sulle zampe anteriori, come potei percepire dalla diversa posizione degli occhi, e scopriva tutta la fila di denti bianchi, visibili nell’oscurità. Raccolsi dunque quanto restava della pelle di prosciutto e la bottiglia di liquore, che strinsi contro il petto, afferrai anche un grande coltello che Augustus mi aveva lasciato, poi, avvolgendomi addosso il mantello il più stretto possibile, mi avanzai verso l’apertura della cassa. Ma appena mi mossi il cane mi saltò alla gola con un latrato rabbioso; il peso del suo corpo si abbatté sulla mia spalla destra e caddi violentemente sulla sinistra, mentre l’animale mi passava sopra il corpo. Ero accucciato sulle 47 ginocchia, la testa nascosta sotto le coperte e ciò mi salvò da un secondo attacco della bestia inferocita, di cui sentii i denti aguzzi piantarsi nella lana che mi avvolgeva il collo, senza che fortunatamente riuscissero ad attraversarne le pieghe. Ero sotto il cane, che mi aveva quasi sopraffatto quando, nella disperazione, mi rizzai coraggiosamente e, spingendo l’animale con violenza e tirando a me le coperte del materasso, le gettai su di lui; prima che potesse liberarsene, avevo raggiunto l’apertura della cassa e l’avevo chiusa alle mie spalle, impedendo al cane di seguirmi. Ma nella lotta avevo perso ciò che restava del prosciutto e avevo come unica provvista la sola bottiglia di liquore. Quell’idea e la disperazione mi spinsero a fare un gesto che avrebbe potuto fare un giovane vizioso: portai dunque la bottiglia alle labbra e, dopo averla vuotata tutta, fino all’ultima goccia, la scaglia a infrangersi contro il pavimento. L’eco prodotta dal vetro rotto si era appena dissolta quando sentii il mio nome pronunciato da una voce inquieta, ma soffocata, proveniente dalla stiva. La cosa era così imprevista e tale fu l’emozione che produsse in me, che non riuscii a rispondere. Mi era impossibile dire una sola parola e, spaventato all’idea che il mio amico potesse credermi morto e tornare via senza raggiungermi, rimasi inizialmente nascosto tra le casse vicino al mio rifugio, scosso da un tremito convulso, con la bocca tremante, sforzandomi invano di articolare parola. Una sola sillaba da parte mia, fosse anche sufficiente a salvare un migliaio di mondi, ebbene, quella sillaba non avrei saputo pronunciarla. Sentii allora come un debole movimento nella stiva, in qualche parte di fronte a me, ed ecco che il rumore si 48 fece meno distinto, più debole, come andasse man mano affievolendosi. Non potrei mai dimenticare quel rumore. Eccolo che s’allontanava, lui, il mio amico, il mio compagno, il solo da cui potessi aspettarmi un aiuto!... si allontanava... mi abbandonava... se n’era andato!... Voleva dunque lasciarmi morire in quel modo miserabile, soccombere nel più spaventoso, nel più odioso carcere... e una parola, una sillaba sola sarebbe bastata a salvarmi, e quella piccola sillaba non riuscii ad articolarla! In quel momento, ne sono sicuro, sentii lo spaventoso tormento dell’agonia; poi, preso dalle vertigini, caddi contro l’angolo della cassa in preda a una mortale debolezza. Cadendo, il coltello scivolò dalla cintura e cadde sul pavimento con un rumore metallico. Mai le mie orecchie furono accarezzate con tanta soavità da una nota musicale più deliziosa. Con profonda angoscia stavo in ascolto per capire se il rumore fosse stato percepito da Augustus, perché ero certo che la persona che aveva pronunciato il mio nome fosse lui. Dopo qualche attimo di silenzio, finalmente sentii di nuovo la parola «Arthur», ripetuta più volte a voce bassa ed esitante. Allora la speranza risuscitata mi sciolse finalmente la lingua, incatenata in fondo alla gola, e gridai disperato: «Augustus! oh, Augustus!» «Zitto, per l’amor di Dio!... taci!...» disse con voce tremante per l’emozione. «Tornerò da te fra un istante, appena mi sarò aperto un passaggio attraverso la stiva.» Lo udii muoversi a lungo nella stiva e ogni istante mi sembrava un’eternità. Finalmente sentii la sua mano posarsi sulla mia spalla, mentre con l’altra mi avvicinava una bottiglia d’acqua alle labbra. Solo chi è stato strappato im49 provvisamente alla morte o chi ha conosciuto l’insopportabile tormento della sete, aggravato da quanto patito nella mia orribile prigione, può immaginare l’indicibile sollievo che produsse in me quel lungo sorso di piacere, del più potente piacere fisico. Quando ebbi calmato la sete, Augustus trasse di tasca tre o quattro patate cotte e fredde che divorai con avidità; aveva portato con sé una lanterna, la cui luce deliziosa mi dava una grande gioia, quasi simile direi a quella procuratami dal cibo e dall’acqua. Ma ardevo dal desiderio di conoscere la causa della sua lunga assenza e lui cominciò subito a raccontarmi ciò che era accaduto a bordo durante la mia prigionia. Capitolo 4 Come avevo supposto, il brigantino era salpato un’ora circa dopo che Augustus mi aveva lasciato il suo orologio. Era il 20 giugno. Se il lettore ricorda, io ero già da tre giorni nella cassa e a bordo, durante tutto quel tempo, c’era stato un movimento incessante, un tale va e vieni, in particolare nelle cabine degli ufficiali, che il mio amico non aveva potuto farmi visita senza correre il rischio di svelare il segreto della botola. Quando finalmente poté scendere da me, io stavo bene nel mio nascondiglio e, nei due giorni che seguirono non si preoccupò più di tanto, pur spiando ogni buona occasione per scendere in stiva. Ma passarono quattro giorni senza che potesse trovare l’occasione propizia. Più volte aveva pensato di dire tutto a suo padre e farmi salire in coperta, ma non eravamo ancora abbastanza lontani da Nantucket e poteva temere, da alcune parole sfuggite al signor Barnard, che virasse immediatamente di 50 bordo se avesse scoperto la mia presenza sulla nave. D’altra parte, tutto considerato, Augustus – come mi disse poi – non poteva immaginare che avessi bisogno di aiuto e pensava che, in caso di necessità, non avrei esitato ad affacciarmi alla botola. Si era quindi rassegnato a lasciarmi laggiù finché non gli si offrisse l’occasione per scendere in stiva senza esserne visto e quell’occasione, ripeto, non si presentò che quattro giorni dopo che mi aveva lasciato il suo orologio o, per meglio dire, sette giorni dopo la mia sistemazione in fondo alla stiva. Era dunque sceso, senza portare con sé né acqua né provviste, ma semplicemente per dirmi di lasciare il mio nascondiglio per venire io stesso alla botola, mentre lui sarebbe rientrato nella cabina per passarmi dei viveri. Ma, una volta sceso, si era accorto che mi ero addormentato e gli parve che russassi sonoramente; da quanto potei calcolare, ciò accadde precisamente quando mi ero assopito dopo aver cercato l’orologio vicino alla botola e avevo quindi dormito tre giorni e tre notti consecutive, se non di più. Avevo già verificato – per esperienza diretta e per assicurazioni di altre persone – le virtù soporifere dell’aria impregnata dall’odore di olio e di pesce in un ambiente chiuso e, quando penso alle condizioni della stiva in cui ero imprigionato e al fatto che il brigantino era stato per un lungo periodo una baleniera, non mi sembrava strano aver dormito così a lungo, quanto piuttosto l’essermi risvegliato. Augustus mi chiamò una prima volta, a voce bassa e senza chiudere la botola, ma io non gli risposi. Allora, chiuse la botola e mi chiamò un più forte, ma io continuavo a russare. Restò allora perplesso; che doveva fare? Raggiungere la mia cassa attraverso quel caos gli avrebbe richiesto molto tempo e la sua assenza poteva 51 essere notata dal capitano Barnard che aveva sempre bisogno di lui per mettere ordine e copiare le carte di navigazione. Dopo averci pensato, decise di risalire e rimandare la visita a un’altra occasione, tanto più che il mio sonno gli sembrava tranquillo e nulla faceva supporre che potessi star male. Stava giusto riflettendo a ciò quando la sua attenzione fu richiamata da uno strano movimento e dai rumori che sembravano provenire dalla cabina accanto. Saltò fuori dalla botola più rapidamente possibile e aprì la porta della cabina, ma non aveva ancora posato il piede sulla soglia che fu raggiunto da un colpo di pistola al viso e stramazzò a terra. Una mano forte lo teneva inchiodato al pavimento della cabina, serrandogli la gola; poteva tuttavia vedere ciò che accadeva intorno: suo padre, i piedi e le mani legate, giaceva sui gradini di una scala, con la testa in giù; sulla fronte aveva un profondo taglio da cui il sangue colava a fiotti. Non parlava e sembrava moribondo. Il secondo ufficiale era chino su di lui e lo fissava con un’espressione diabolica mentre gli vuotava tranquillamente le tasche, prendendogli il portafoglio e il cronometro; sette marinai, fra cui il cuoco di bordo – un negro – cercavano le armi nella cabina di babordo e ben presto si armarono di fucili e munizioni. Senza contare Augustus e il capitano Barnard, in tutto nella cabina c’erano nove uomini, fra i più brutti ceffi dell’equipaggio. I banditi uscirono sul ponte trascinando il mio amico, dopo avergli legato le mani dietro il dorso. Raggiunsero subito il castello di prua col portello chiusa; due dei ribelli erano ai lati armati di scure, altri due vicino al boccaporto. Il secondo ordinò ad alta voce: «Voi laggiù, ascoltatemi bene, fatevi avanti, uno alla volta, e senza fiatare!» 52 Passarono alcuni minuti prima che qualcuno si facesse vivo. Finalmente, un ragazzo inglese che si era imbarcato come mozzo si fece avanti piagnucolando penosamente e scongiurando il secondo di risparmiargli la vita. Un colpo d’ascia sulla fronte fu la sola risposta che ricevette: il disgraziato cadde sul ponte senza emettere un gemito e il cuoco negro, prendendolo in braccio come fosse un bambino lo gettò in mare senza batter ciglio. Udendo il colpo prodotto dall’ascia e il tonfo del corpo in acqua, gli uomini sottocoperta si guardarono bene dall’avventurarsi sul ponte; a nulla valsero né le promesse, né le minacce, né i consigli, fino a che uno dei rivoltosi propose di soffocarli col fumo nel loro buco. Davanti a quella terribile minaccia tentarono una sortita in massa e per un attimo sembrava che stessero per riprendere possesso del brigantino. Ma alla fine gli ammutinati riuscirono a sbarrare il castello di prua: sei soli dei loro avversari avevano avuto il tempo di passare e questi sei uomini, privi di armi e in inferiorità numerica, dovettero arrendersi dopo una breve lotta. Il secondo si rivolse a loro in modo conciliante, nell’intento di convincere quelli rimasti sotto e indurli alla resa, perché essi potevano udire bene ciò che si diceva sul ponte. La sua sagacia e scelleratezza furono premiate, perché subito quelli rimasti nel castello di prua manifestarono l’intenzione di arrendersi e, saliti sul ponte uno a uno, furono legati e gettati a far compagnia agli altri sei sventurati; questa era la parte dell’equipaggio che non aveva partecipato all’ammutinamento, in tutto ventisette uomini. Ci fu quindi una scena atroce. I marinai prigionieri vennero trascinati sul ponte, dove il cuoco, con l’ascia in 53 mano, abbatteva le vittime con un solo colpo alla testa man mano che gli altri ammutinati li spingevano a forza davanti a lui. Ventidue uomini furono uccisi così; Augustus si vedeva perduto anche lui e aspettava che da un momento all’altro giungesse il suo turno; ma, forse perché i banditi cominciavano a essere stanchi o perché nauseati essi stessi dal loro orribile crimine, di fatto cinque prigionieri vennero per il momento risparmiati, fra cui il mio amico che era stato gettato nel mucchio. Il secondo mandò qualcuno a cercare del rhum sottocoperta e la banda d’assassini si abbandonò a una disgustosa orgia che si prolungò fino al tramonto del sole, quando nacque una disputa su ciò che si dovesse fare dei superstiti, che erano stesi sul ponte a pochi passi e quindi sentivano tutto. L’alcool doveva aver avuto un benefico influsso su alcuni degli ammutinati, perché alcuni proposero di liberare i prigionieri, a condizione che si unissero a loro, dividendo il bottino. Ma il cuoco – che era un vero demonio e che sembrava esercitare un’influenza anche maggiore del secondo, non voleva saperne e accennava a voler riprendere il suo orribile lavoro. Fortunatamente era così indebolito dall’alcool che poté facilmente essere tenuto a banda dagli altri componenti di quella banda sanguinaria, fra i quali era un individuo conosciuto sotto il nome di Dirk Peters. Quell’uomo era il figlio di un’indiana della tribù Upsaroka, che abitano nelle Black Hills, vicino alla sorgente del Missouri. Il padre era un cacciatore di pellicce, almeno credo, o comunque era in contatto con gli uffici commerciali indiani del fiume Lewis. Peters aveva l’aspetto più feroce che mai io abbia avuto occasione di osservare in un uomo. Era basso di statura poiché non superava i quattro piedi e otto 54 pollici di altezza, ma era forte come un Ercole. Le mani erano così smisurate che si faticava a crederle umane. Le braccia, come le gambe, erano stranamente arcuate e rigide. Anche la testa era mostruosa, enorme e completamente calva ad eccezione di un ciuffo solitario sulla sommità, come spesso nelle acconciature indiane. Per dissimulare la precoce calvizie, usava portare una specie di parrucca fatta di pelliccia di vari animali. In quel momento aveva in testa una pelle d’orso, che accresceva la naturale espressione feroce tipica degli Upsaroka. La bocca andava quasi da un orecchio all’altro: le labbra erano sottili e, per conformazione naturale, apparivano rigide, accentuando l’espressione autoritaria che non lasciava trasparire alcuna emozione, qualunque fosse; questa espressione il lettore se la può figurare immaginando dei denti di una lunghezza insolita, nascosti solo in parte dalle labbra. A prima vista si sarebbe potuto credere che fosse in preda a un riso convulso, ma guardandolo meglio e con più attenzione si vedeva, non senza un brivido, che quella fisonomia esprimeva l’allegria di un demonio. Della forza prodigiosa di quell’essere bizzarro parlavano molti aneddoti narrati dai marinai di Nantucket; di quella forza egli dava prova quando per qualche motivo si esaltava e molti pensavano che fosse uno squilibrato. Ma a bordo del Grampus, all’epoca in cui avvenne l’ammutinamento, quell’uomo sembrava più che altro un oggetto di scherno e, se mi sono dilungato a proposito di Dirk Peters, è perché, malgrado la sua apparenza feroce, fu in realtà il suo intervento che salvò la vita ad Augustus e anche perché avrò più volte occasione di parlare di lui nel corso della mia storia. Dopo lunga incertezza e accese discussioni fu deciso 55 che, a eccezione di Augustus – che Peters pretese in modo curioso che gli fosse assegnato come assistente – gli altri prigionieri sarebbero stati abbandonati alla deriva in una delle scialuppe. Il secondo scese poi in cabina per vedere se il capitano Barnard era ancora in vita e dopo poco riapparvero tutti e due, il capitano pallido come un morto, ma ripresosi della ferita ricevuta. Parlò ai marinai con voce insicura, facendo appello al loro senso del dovere, supplicandoli di non abbandonarlo così alla deriva, promettendo di sbarcarli dove volevano e di non consegnarli nelle mani della giustizia. Ma le sue parole volarono col vento; due rivoltosi lo afferrarono per le braccia e lo lanciarono fuori bordo nella scialuppa che era stata calata in mare, mentre il secondo si recava nelle cabine degli ufficiali. Poi i quattro uomini che giacevano sul ponte vennero sciolti dai legacci e fu loro ordinato di raggiungere il capitano, cosa che fecero senza opporre resistenza. Augustus invece rimase nella sua penosa posizione, pur dibattendosi e implorando di poter dire addio al padre. Ai disgraziati venne data una manciata di gallette e una fiasca d’acqua, ma nessun albero, nessuna vela, nessun remo e nessuna bussola. La barca fu rimorchiata per alcuni minuti, mentre gli ammutinati prendevano altre decisioni, e finalmente venne abbandonata in balia dei flutti. Nel frattempo era scesa la notte. Non c’era luna e non brillava una stella: nonostante un debole vento, il mare intorno non era rassicurante. In capo a poco la barca scomparve alla vista, e non si potevano certo nutrire speranze sulla sorte di quegli infelici. Siccome tutto questo avveniva a 35° 30’ di latitudine nord, e a 61° 20’ di longitudine ovest, o – per meglio 56 spiegare ai nostri lettori – a poca distanza dalle isole Bermude, Augustus tentò di consolarsi dicendosi che forse la scialuppa avrebbe avuto la fortuna di approdare o di avvicinarsi abbastanza alla riva da incontrare qualche imbarcazione costiera. Furono quindi issate tutte le vele e il brigantino proseguì la sua rotta verso sud-ovest; gli ammutinati avevano di sicuro in mente un’azione di pirateria che consisteva – per quanto aveva capito Augustus – nell’abbordare una nave in rotta dalle Isole di Capo Verde a Porto-Rico. Nessuno si curava di Augustus, che era stato liberato e poteva andare dove voleva. Dirk Peters dimostrava a suo riguardo una certa benevolenza e una volta lo sottrasse alla violenza brutale del cuoco. La sua situazione restava tuttavia molto precaria, perché non c’era molto da fidarsi dell’indifferenza e della benevolenza che gli avevano fino ad allora dimostrato quei marinai ubriaconi. Mi assicurò poi che, malgrado la paura per se stesso, la sua maggior preoccupazione riguardava me, e certamente non avevo ragioni per dubitare della sincerità della sua amicizia. Più volte era stato sul punto di far rivelare ai rivoltosi la mia presenza a bordo, ma sempre aveva rinunciato, ricordando le atrocità commesse sotto i suoi occhi e nella speranza di poter trovare presto un modo per venire in mio aiuto. A questo scopo spiava tutte le occasioni propizie, ma per quanto attiva fosse la sua vigilanza, fu solamente tre giorni dopo l’abbandono della scialuppa che poté trovare il momento opportuno. La sera del terzo giorno un forte vento si alzò da est e tutti si dovettero affrettare a ridurre le vele. Approfittando della confusione Augustus poté spingersi inosservato fino alla sua cabina, ma fu preso dall’angoscia 57 constatando che era diventata una specie di ripostiglio per ogni sorta di provviste e materiali di bordo e che, per far posto a una cassa, molte bracciate di vecchie catene erano state spostate da sotto la scala e poggiate sul pavimento della cabina, proprio sopra la botola. Non era neanche immaginabile spostarle, per cui tornò sul ponte in tutta fretta: ma proprio mentre risaliva, il secondo di bordo lo prese per la gola, chiedendogli perché fosse andato nella cabina e stava per gettarlo in mare sollevandolo sopra il pavese di babordo, quando per la seconda volta l’intervento di Peters gli salvò la vita. Fu ammanettato – a bordo c’erano molte paia di manette – gli vennero legati i piedi e fu trasportato negli alloggi sottocoperta, dove fu gettato in una cuccetta sotto il castello di prua, con l’assoluto divieto di rimettere piede sul ponte «finché il brigantino non fosse più un brigantino». Queste furono le ultime parole del cuoco di bordo mentre lo gettava sulla cuccetta e ciò che provava in quel momento è difficile da dire perché ci sono stati d’animo che nessuna parola può esprimere. Tuttavia, come il lettore vedrà presto, fu proprio quell’incidente che mi salvò la vita. Capitolo 5 Quando il cuoco lasciò il castello di prua, per alcuni minuti Augustus si lasciò andare alla disperazione, convinto che non sarebbe uscito vivo da quel luogo. Prese quindi la decisione di rivelare la mia presenza al primo marinaio che scendesse nella cabina, pensando che fosse meglio espormi a dividere la sorte dei ribelli che non la58 sciarmi morire di sete in fondo alla stiva; la mia reclusione infatti durava da dieci giorni, mentre la mia provvista d’acqua era appena sufficiente per quattro. Mentre pensava a questo, gli venne in mente che forse avrebbe potuto comunicare con me attraverso la stiva: in altra occasione, la difficoltà e i rischi dell’impresa l’avrebbero certamente dissuaso; ma in quel momento non aveva granché da perdere, per cui destinò ogni sforzo a quell’idea. Le manette costituivano il primo problema e, poiché non sapeva come sbarazzarsene, temette di trovarsi paralizzato in partenza. Poteva però farle scivolare, senza grandi sforzi e senza dolore, contraendo semplicemente le mani; quel tipo di manette infatti non erano adatte a un giovane con le ossa più tenere, che potevano comprimersi più facilmente. Con la mano libera poté sciogliere i lacci dei piedi, disponendo la corda in modo da poterla rimettere a posto nel caso fosse giunto qualcuno. Studiò poi il tramezzo, nella parte vicina al fondo della cuccetta. In quel punto era formato da un’asse di abete dello spessore di un pollice e Augustus pensò che non avrebbe fatto grande fatica ad aprirvi un passaggio. Non aveva ancora liberato la mano sinistra quando udì una voce sulla scala del castello di prua ed ebbe appena il tempo di ricacciare la mano destra nella manetta e di serrare la corda intorno alle caviglie fermandole con un nodo posticcio che Dirk Peters scese giù, seguito da Tigre che si accucciò subito nel quadrato. Il cane era stato portato a bordo da Augustus che, sapendo quanto ero affezionato all’animale, aveva pensato che avrei avuto piacere di averlo con me in navigazione; era dunque andato a prenderlo a casa di mio padre, dopo che ero stato chiuso in fondo alla stiva, 59 ma non aveva pensato a parlarmene il giorno in cui mi aveva portato l’orologio. Dopo l’ammutinamento Augustus non l’aveva più rivisto e aveva immaginato che fosse stato gettato in mare da qualche delinquente della banda. Si seppe in seguito che si era nascosto in un buco sotto una scialuppa, da cui non era più riuscito a districarsi. L’aveva trovato e liberato Peters che, in un impulso di generosità che il mio amico seppe apprezzare, glielo portò perché gli tenesse compagnia; gli lasciò anche un pezzo di carne salata e delle patate con una brocca d’acqua, dopodiché tornò sul ponte promettendo di tornare l’indomani con altre provviste. Una volta partito Peters, Augustus si sfilò le manette e si sciolse i piedi. Sollevò poi il materasso e con l’aiuto del coltello – dato che i rivoltosi non avevano pensato a perquisirlo – cominciò a intagliare energicamente una delle assi del tramezzo, il più vicino possibile al punto in cui era la cuccetta. Aveva scelto quel punto perché, se fosse venuto qualcuno, avrebbe potuto facilmente nascondere il lavoro iniziato, lasciando semplicemente ricadere la parte superiore del materasso. Ma per tutto il giorno nessuno venne a interromperlo, di modo che, giunta la sera, aveva quasi completamente tagliato l’asse. È opportuno spiegare ai lettori che la gente dell’equipaggio non dormiva più nel castello di prua, essendosi tutti, dopo l’ammutinamento, insediati negli alloggiamenti a poppa dove gozzovigliavano col vino e le provviste del capitano Barnard, occupandosi delle manovre del brigantino solo lo stretto necessario. Tutto ciò giocava a favore di Augustus e me, altrimenti non avrebbe potuto 60 venirmi in soccorso; quindi, nonostante il pericolo che giungesse qualcuno, si rimise con fiducia all’esecuzione del suo piano. Il giorno stava per spuntare quando terminò la seconda parte del suo lavoro che consisteva nel praticare nell’asse del tramezzo un secondo taglio a un piede circa di distanza dal primo, per aprirsi un passaggio sufficiente verso il corridoio sottocoperta. Una volta passato, s’incamminò senza troppe difficoltà verso il boccaporto, scavalcando dei barili d’olio accatastati fino al ponte superiore, che lasciavano lo spazio appena sufficiente per passare. Arrivato al boccaporto, si accorse che Tigre l’aveva seguito e procedeva tra due file di barili. Ma ormai era troppo tardi per raggiungermi prima del giorno, dati gli ostacoli da superare nella stiva. Decise quindi di tornare indietro e aspettare la notte seguente e, a questo scopo, cominciò a liberare il boccaporto per guadagnare tempo quando sarebbe tornato. Ma appena liberato, Tigre si lancio improvvisamente nel varco, soffiò per un istante e lasciò sfuggire un lungo guaito grattando con le zampe come se avesse voluto strappare l’assicella. Il comportamento del cane non lasciava dubbi sul fatto che sentisse la mia presenza, per cui Augustus pensò che sarebbe stato possibile all’animale raggiungermi, se lo avesse lasciato andare. La cosa gli suggerì l’idea di spedirmi un biglietto, ma era necessario innanzitutto che io non tentassi di uscire dal mio nascondiglio, almeno in quel momento, perché era ben certo di potermi raggiungere l’indomani, come aveva progettato. Gli avvenimenti che seguirono dimostrarono come quell’idea era stata felice, perché se non avessi ricevuto quel biglietto, avrei cercato disperatamente di segnalare la mia presenza all’equipaggio e il 61 risultato del tentativo sarebbe stato certamente la morte di ambedue. Decise dunque di scrivermi, ma il difficile era procurarsi gli strumenti per farlo. Da un vecchio stuzzicadenti ricavò una penna, pur dovendosi affidare solo a tatto perché nel luogo in cui si trovava era buio pesto. Come carta adoperò una copia della lettera contraffatta del signor Ross; l’imitazione della scrittura non era venuta bene e Augustus ne aveva rifatta un’altra, dimenticandosi la prima in tasca, dove ora l’aveva ritrovata. Mancava solo l’inchiostro, ma il mio amico rimediò facendosi un leggero taglio col coltello alla punta del dito, proprio di sotto l’unghia; il sangue che uscì fu sufficiente e il biglietto venne così scritto come permesso dal buio e dalle circostanze. In esso m’informava brevemente che a bordo l’equipaggio si era ammutinato, che il capitano Barnard era stato abbandonato alla deriva, che contava di portarmi a breve delle provviste, ma che non dovevo assolutamente farmi scoprire. Lo strano messaggio finiva con queste parole: «Traccio queste righe col sangue, stai nascosto, ne va della tua vita...». Attaccò il foglio di carta alla schiena del cane, lo spinse verso il boccaporto e tornò sui suoi passi al castello di prua, dove sembrava non fosse arrivato nessuno durante la sua assenza. Per nascondere l’apertura praticata nel tramezzo piantò il coltello proprio sopra e vi appese una camicia che era nella cuccetta; si rimise le manette e arrotolò di nuovo la corda intorno alle caviglie. Aveva appena finito che Dirk Peters discese, ubriaco fradicio ma di buon umore, portando al mio amico la sua razione quotidiana, che consisteva in una dozzina 62 di patate d’Irlanda cotte al forno e in una brocca d’acqua. Si sedette per un momento su un baule vicino alla cuccetta e cominciò a parlare liberamente del secondo e di ciò che accadeva a bordo. Il suo comportamento era molto strano, tanto che Augustus a un certo punto si sentì inquieto. Poi finalmente Peters se ne tornò sul ponte, borbottando tra i denti che l’indomani avrebbe portato al prigioniero un pranzo di primo ordine. Nel corso della giornata scesero anche due marinai fiocinieri e il cuoco, anch’essi completamente ubriachi e anch’essi parlarono a ruota libera. Sembravano avere opinioni molto diverse su come finire il viaggio e concordavano su un solo punto, l’abbordaggio della nave che doveva arrivare da un momento all’altro da Capo Verde. Per quanto Augustus poté capire, a spingere all’ammutinamento l’equipaggio era stata l’idea di un ricco bottino, ma soprattutto la rabbia che il secondo nutriva nei confronti del capitano Barnard. Adesso l’equipaggio era diviso in due fazioni, una faceva capo al secondo e l’altra al cuoco. La prima aveva stabilito di abbordare la nave più adatta al loro piano e di riparare in una qualunque isola delle Antille per approntarla per una scorreria piratesca. La seconda e più grande, di cui Peters faceva parte, voleva invece continuare nell’originaria rotta del brigantino verso il Pacifico meridionale, a caccia di balene e per fare ogni traffico che potesse capitare. Le ragioni di Peters, che aveva più volte battuto quei mari, sembravano riscuotere consenso fra i ribelli, che oscillavano tra molte idee confuse che puntavano sempre al denaro e al divertimento. Raccontava loro di mondi meravigliosi e sconosciuti nelle migliaia di isole del Pacifico; parlava dell’assoluta libertà 63 di cui avrebbero goduto e soprattutto del clima delizioso e delle risorse di quelle terre dove la natura è incredibilmente generosa e le donne straordinariamente belle. Non era stata presa ancora alcuna decisione definitiva, ma i racconti del mezzosangue avevano colpito l’immaginazione dei marinai e tutto faceva pensare che alla fine avrebbe vinto il suo piano. I tre uomini se ne andarono dopo un’ora e per tutta la giornata nessuno scese più dov’era il mio amico. Questi non si mosse fino a notte, quando si liberò dai ferri e dalla corda e si preparò per il secondo tentativo. Trovata una bottiglia in una delle cuccette, la riempì con l’acqua della brocca lasciatagli da Peters e si riempì le tasche di patate. Fu contento nello scoprire anche una lanterna con un mozzicone di candela, che poteva accendere al momento giusto perché aveva con sé una scatola di fiammiferi. Quando fu buio del tutto, s’introdusse nel buco del tramezzo, dopo aver sistemato la coperta nella cuccetta per simulare una persona addormentata. Appena passato, appese come la prima volta la camicia al coltello sulla parete per nascondere il buco e infine rimise al suo posto l’asse che aveva tagliato. Penetrò così nel corridoio sottocoperta e si avviò di nuovo tra il ponte superiore e la barriera di barili d’olio fino al grande boccaporto. Una volta giunto là, accese il mozzicone di candela e scese, a fatica e tastoni, attraverso i materiali accatastati nella stiva. Il sudicio e l’odore insopportabile non tardarono a preoccuparlo, perché gli sembrava impossibile che fossi potuto sopravvivere così a lungo in quel posto soffocante. Mi chiamò per nome più volte, ma senza risposta e i suoi timori si confermarono. Il rollio del brigantino produceva un rumore forte e non poteva certo sentire il 64 mio respiro o il mio russare; aprì dunque la lanterna e, continuando ad avanzare, la tenne il più possibile in alto, per quanto gli permetteva lo spazio della stiva, di modo che la vista della luce, nel caso fossi stato ancora vivo, mi facesse capire che arrivavano soccorsi. Trovato però il passaggio bloccato da ostacoli insormontabili, alla fine aveva rinunciato a raggiungermi e con l’angoscia nel cuore era risalito nel castello di prua. Prima però di condannarlo senza appello, bisogna esaminare con serenità le gravi difficoltà con cui si era confrontato. La notte avanzava rapidamente e nel castello di prua la sua assenza avrebbe potuto essere scoperta, cosa che sarebbe sicuramente avvenuta se non avesse riguadagnato il suo posto prima del sorgere del giorno. La candela stava ormai per spegnersi nella lanterna e avrebbe avuto problemi a rifare al buio il percorso di ritorno. Bisogna inoltre considerare che pensava fossi morto e che sarebbe stato del tutto inutile arrivare fino alla mia cassa correndo mille pericoli. Mi aveva chiamato a più riprese senza ricevere alcuna risposta; sapeva che ero già da undici giorni e da undici notti senza altra provvista d’acqua se non quella della brocca che mi aveva lasciato all’inizio; era inoltre molto probabile che io, non potendo immaginare che la prigionia sarebbe durata così a lungo, non avessi razionato le provviste fin dall’inizio. A tutte queste riflessioni va aggiunto che, per lui che veniva dal castello di prua dove l’aria era purissima, quella della stiva doveva sembrargli pestifera, ben peggiore di quando mi ero installato laggiù, perché allora i boccaporti erano rimasti aperti per mesi. Se a tutte queste considerazioni si aggiunge ancora la terribile e sanguinosa scena a cui il mio amico aveva da poco assistito, la sua 65 reclusione, le privazioni, la morte sfiorata, il caso equivoco a cui doveva la vita, tutte considerazioni che non aiutavano certo il suo morale e la sua energia, allora il lettore potrà capire perché io stesso guardassi l’apparente debolezza della sua amicizia e della sua fedeltà con più tristezza che indignazione. Augustus aveva udito distintamente il rumore della bottiglia che s’infrangeva contro il pavimento, ma non era ben sicuro che quel rumore provenisse dalla cassa; il dubbio però lo convinse a perseverare nel suo tentativo. Si arrampicò dunque fin quasi all’altezza del secondo ponte e, aspettato che la nave fosse un po’ meno coricata sul fianco, mi chiamò a voce più alta possibile, senza preoccuparsi del rischio che qualcuno dell’equipaggio lo sentisse. Il lettore ricorderà che quella volta avevo sentito la voce ma, stravolto com’ero, non ero riuscito a rispondere. Convinto allora che le sue paure purtroppo erano fondate, aveva ripreso il percorso indietro verso il castello di prua, senza perdere più tempo in vane ricerche. Nella fretta aveva rovesciato alcune piccole casse e anche quel rumore – ricorderete – era giunto alle mie orecchie; ed era appena tornato indietro di pochi passi quando la caduta del mio coltello lo fece nuovamente esitare; fece un altro dietrofront, scavalcò di nuovo la stiva e gridò i1 mio nome ancora più forte, approfittando di una tregua del vento. Questa volta trovai il fiato per rispondergli e lui, sconvolto dalla gioia al pensiero di ritrovarmi ancora vivo, decise di fare qualunque cosa pur di giungere fino a me. Districandosi nel labirinto della stiva, ebbe la fortuna di trovare un passaggio più praticabile e, dopo molti sforzi, raggiunse la mia cassa completamente sfinito. 66 Capitolo 6 Mentre eravamo insieme vicino alla cassa, Augustus mi raccontò questa storia per sommi capi e solo più tardi poté entrare nei dettagli. Temeva che la sua assenza potesse venire notata ed io, da parte mia, fremevo per lasciare l’odioso luogo della mia prigionia. Decidemmo quindi muoverci, senza esitazione, verso il varco praticata nel tramezzo, poiché era là che dovevo installarmi provvisoriamente, mentre Augustus sarebbe andato in ricognizione. Tigre era sempre chiuso nella cassa e non potevamo sopportare l’idea di abbandonarlo così; d’altra parte, che avremmo dovuto fare? Non sentivamo alcun rumore e nemmeno appoggiando l’orecchio contro la cassa percepivamo il suo respiro. Convinto ormai che fosse morto, mi decisi ad aprire la porta e lo trovammo là, disteso, in preda ad un profondo torpore, ma ancora vivo. Dovevamo sbrigarci, ma non potevo abbandonarlo laggiù senza tentare di salvare un animale che per ben due volte mi aveva salvato, per cui cercammo insieme di trascinarlo come potevamo, con grande fatica. Augustus era costretto a superare gli ostacoli portando in braccio l’enorme cane, perché io ero talmente sfinito che non ce l’avrei mai fatta. Finalmente arrivammo al varco e Augustus passò per primo, poi fu la volta di Tigre. Era andato tutto bene e ringraziammo Dio dal profondo del cuore per averci salvato dal pericolo. Decidemmo che per il momento sarei rimasto vicino al varco, attraverso il quale il mio amico mi avrebbe potuto facilmente passare una parte delle sue razioni quotidiane, respirando oltretutto un’aria decisamente migliore. Perché il lettore possa meglio comprendere alcuni pas67 saggi di questo racconto in cui si parla della sistemazione della stiva e che potrebbero risultare poco chiari a lettori che non hanno avuto occasione di vedere una stiva ben sistemata, bisogna riconoscere che il modo in cui questa importante operazione era stata compiuta a bordo del Grampus attestava la più imperdonabile negligenza da parte del capitano Barnard, che non era il marinaio vigile ed esperto che ci si poteva aspettare dal suo ruolo. Uno stivaggio ben fatto deve essere effettuato con molta cura e, per parlare solo della mia esperienza, ho constatato che molti disastrosi incidenti derivano dalla negligenza e dall’ignoranza da parte dei marinai delle norme che regolano questa parte del loro mestiere. Le navi costiere, stante la fretta e il disordine che accompagnano sempre il carico o lo scarico, soffrono più delle altre per il cattivo stivaggio. L’essenziale è impedire al carico e alla zavorra di muoversi col rollio della nave. A questo scopo, occorre prestare molta attenzione non solo al carico, ma anche alla sua natura e se si tratti di un pieno carico o di un carico parziale. In un carico di tabacco o di farina, per esempio, i fusti o i barili sono così compressi nella stiva della nave da deformarsi e, quando escono, ci mettono molti giorni a riprendere l’aspetto primitivo. Si adotta lo stivaggio per compressione soprattutto per occupare meno spazio nella stiva e un carico di sole derrate, come farina o tabacco, non patirà alcun inconveniente. Certo, ci sono stati casi in cui questo sistema ha avuto conseguenze incresciose, ma le cause erano in realtà da attribuire ad altro. Accade ad esempio che un carico di cotone fortemente compresso si dilati in certe condizioni, facendo letteralmente esplodere una nave in mare e qual68 cosa di simile può avvenire anche col tabacco in fermentazione. Ma è soprattutto il carico parziale quello più pericoloso, per cui occorre prendere tutte le precauzioni per prevenire una catastrofe. Solo chi ha affrontato una grande tempesta o, ancora di più, chi ha provato il rollio di una nave provocato da un’improvvisa raffica di vento, può farsi un’idea della formidabile potenza delle onde e della terribile spinta che ricevono, per contraccolpo, i carichi che non si è avuto cura di assicurare bene. E in caso di carico parziale diventa assolutamente necessario uno corretto e meticoloso stivaggio; quando una nave è appruata (in particolare con poca vela avanti) e la prua non è costruita a regola d’arte, può capitare che si verifichi uno sbandamento, che si può ripetere anche ogni quindici o venti minuti senza gravi inconvenienti, a condizione che lo stivaggio sia ben fatto. Se così non è, alla prima pesante ondata tutta la massa del carico scivola verso la parte coricata sull’acqua e la nave, incapace di riprendere il suo equilibrio, è esposta fatalmente a imbarcare acqua e ad affondare in pochi secondi. Non è esagerato affermare che la metà dei naufragi durante una tempesta siano dovuti al movimento del carico o della zavorra. Quando s’imbarca un carico parziale, dopo essere stato disposto il più strettamente possibile, il tutto deve essere coperto da un piano di assi facilmente removibili, che occupino tutta la larghezza della nave e queste assi saranno intercalate da puntelli che raggiungano in alto l’armatura del ponte, rendendo il carico stabile. Per le granaglie invece vanno prese precauzioni supplementari. Una stiva piena di grano quando si abbandona il porto, all’arrivo a destinazione risulterà piena solo per tre quarti, e ciò nonostante il carico, misurato staio a staio 69 dal consegnatario, sorpassi di molto, in seguito al rigonfiamento del grano, la quantità assegnata. Questo fenomeno deriva dalla compressione del carico durante la traversata, che varia in ragione delle condizioni del mare incontrate. Quando si stiva il grano senza prestare attenzione a che sia ben compresso, anche se sistemato con assi e puntelli, durante una lunga traversata sarà sempre esposto a forti scosse che possono provocare terribili incidenti. Esistono molti sistemi per comprimere il grano, fra cui la pratica che consiste nell’immergervi dei cunei. Ma anche dopo aver preso tutte queste precauzioni e dopo aver faticato per assicurare le assi mobili, un marinaio che conosca bene il suo mestiere non sarà tranquillo se deve affrontare una seria burrasca con un carico di grano, o peggio ancora, con un carico parziale. E tuttavia si vedono quotidianamente nei nostri porti – e in quelli europei ancora di più – centinaia d’imbarcazioni che fanno cabotaggio con carichi parziali, spesso della specie più pericolosa, senza aver preso tutte precauzioni indispensabili, e solo per miracolo giungono a destinazione. Uno degli esempi più deplorevoli che conosca di simili imprudenze è quello del capitano Joël Rice, al comando della goletta Firefly, che nel 1825 fece rotta da Richmand (Virginia) a Madeira con un carico di grano. Aveva effettuato diversi viaggi senza gravi incidenti, nonostante non prestasse grande attenzione allo stivaggio e non usasse alcun sistema di compressione del carico. Era la prima volta che trasportava grano e il frumento occupava solo metà della stiva. Nella prima parte della traversata incontrò solo leggere brezze, ma giunto a circa una giornata da Madeira si alzò un forte vento da nord-nord ovest, che lo costrinse a ridurre la velatura. Mise quindi la goletta al 70 vento lasciando una mezzana con due terzaroli e la nave si comportò secondo le aspettative, non imbarcando neppure una goccia d’acqua. Al calare della notte l’uragano si era un po’ calmato e già la goletta cominciava a riprendere il suo assetto quando, improvvisamente, un’enorme ondata scaricò a tribordo. Si udì tutto il carico di grano rotolare con una tale violenza da sfondare il grande boccaporto e in pochi secondi l’imbarcazione colò a picco come una palla di piombo. Tutto ciò accadeva quasi a portata di voce di un piccolo sloop di Madeira, che raccolse uno degli uomini dell’equipaggio, il solo che si salvò; al contrario, lo sloop superò la tempesta in perfetta sicurezza, diretto da una mano esperta. Lo stivaggio a bordo del Grampus lasciava molto a desiderare, se pure si può definire stivaggio un insieme caotico di barili d’olio e di materiali di bordo. Ho già parlato del modo con cui gli oggetti erano disposti nella stiva: sul ponte inferiore, come ho avuto modo di dire, c’era uno spazio sufficiente per il mio corpo tra i barili d’olio e il ponte superiore; ancora spazio era vicino al boccaporto superiore e non erano questi i soli vuoti esistenti. Vicino al buco praticato da Augustus nel tramezzo del castello di prua vi era posto per un intero barile, ed era precisamente in questo luogo che mi trovavo, per il momento, sistemato abbastanza comodamente. Mentre il mio amico riguadagnava il suo posto e risistemava le manette ai polsi e la corda alle caviglie si era fatto giorno. A dire il vero, l’avevamo scampata bella perché, appena prese tutte queste precauzioni, sentimmo il secondo scendere nel castello di prua, seguito da Dirk Peters e dal cuoco. Vi si trattennero per alcuni minuti parlando 71 della nave che doveva arrivare da Capo Verde e sembravano aspettarla con grande impazienza. Alla fine il cuoco si avvicinò al luogo dov’era Augustus e si sedette. Potevo udire e vedere tutto dalla mia improvvisata cuccetta, perché il pezzo di asse tagliato non era stato ricollocato e temetti che il negro spostasse il camiciotto appeso per nascondere l’apertura, nel qual caso avrebbe scoperto tutto non avremmo avuto scampo. Ma la nostra buona stella ci aiutò e, pur sfiorando più volte il camiciotto col rollio della nave, non si appoggiò tanto da scoprire l’inganno. Fortunatamente avevamo fissato la parte inferiore del camiciotto al tramezzo in modo che non potesse oscillare e scoprire l’apertura. Per tutto il tempo Tigre era rimasto ai piedi del letto e sembrava aver recuperato in parte le forze, perche a intervalli lo vedevo aprire gli occhi e respirare profondamente. Dopo qualche minuto il secondo e il cuoco si ritirarono, lasciando nel castello di prua Peters che, subito dopo la loro partenza, venne a sedersi nel posto poco prima occupato dal secondo. Parlò amichevolmente con Augustus e ci accorgemmo che aveva fatto finta di essere ubriaco quando c’erano gli altri due. Rispose tranquillamente a tutte le domande rivoltegli dal mio amico, gli disse di stare tranquillo, che suo padre si era certamente salvato, perché prima del tramonto del sole, il giorno che la scialuppa era stata abbandonata alla deriva, non vi erano meno di cinque vele in vista. Insomma, dalle sue parole si capiva che cercava di consolarlo e questo che mi sorprese e mi fece piacere. A dire il vero, cominciavo a nutrire la speranza che forse, con l’aiuto di Peters, saremmo riusciti a riprendere possesso del brigantino e comunicai questa mia idea ad Augustus appena se ne presentò l’occasione. Egli convenne 72 con me che la cosa era possibile, ma insistette sulla necessità di fare un simile tentativo solo con la massima attenzione, perché l’atteggiamento del mezzosangue gli sembrava ispirato solo da un capriccio e continuava a chiedersi se non fosse un po’ fuori di testa. Di lì a un’ora circa Peters risalì sul ponte e tornò solo a mezzogiorno, portando ad Augustus un bel pezzo di montone salato e del pudding. Appena se ne andò, io presi con piacere la mia parte di cibo senza neppure tornare nel mio buco. Il giorno trascorse senza che nessun altro dell’equipaggio scendesse nel castello di prua e, calata la notte, andai nella cuccetta di Augustus e dormii di un sonno profondo quasi fino all’alba, quando il mio amico mi svegliò perché aveva sentito dei rumori sul ponte, e tornai di corsa nel mio nascondiglio. Quando venne il giorno, constatammo che Tigre si era quasi completamente ripreso e non presentava alcun sintomo d’idrofobia; beveva infatti con grande avidità l’acqua che gli davamo, e, nel corso della giornata, riacquistò tutte le forze e il suo appetito. Il suo strano comportamento era sicuramente dovuto all’aria malsana della stiva e non aveva nulla a che fare con l’idrofobia; io non potevo che gioire al pensiero di averlo tirato fuori dalla cassa per tenerlo ancora con me. Era il 30 giugno ed erano ormai trascorsi tredici giorni dalla nostra partenza da Nantucket. Il 2 luglio scese il secondo, ubriaco come sempre, ma di buon umore. Si avvicinò alla cuccetta di Augustus, e dandogli una pacca sulla schiena, gli chiese se si sarebbe comportato bene se lo avesse messo in libertà, a patto che non avesse più rimesso piede nella camera. Naturalmente il mio amico rispose di sì e allora il manigoldo gli sciolse i lacci dopo avergli fatto trangugiare un sorso di 73 rhum da una bottiglia che aveva tirato fuori dalla tasca. Poi tutti e due salirono sul ponte e passarono tre ore senza che rivedessi Augustus; quando scese mi portò buone notizie: gli era permesso di andare e venire a proprio piacimento sul brigantino, sempre però nella parte prodiera, e doveva continuare a dormire nel castello di prua. Inoltre, portò con sé del buon cibo e una bella provvista d’acqua. Il brigantino era sempre in attesa della nave che doveva arrivare da Capo Verde e poiché ce n’era una in vista, si presumeva che fosse lei. I fatti che si produssero durante la settimana seguente sono di poca importanza e non si legano in modo diretto alla trama di questo racconto, ma siccome non posso passarli completamente sotto silenzio, li riporterò semplicemente qui, sotto forma di giornale. 3 luglio. Augustus mi ha portato tre coperte che mi sono servite a organizzarmi nella mia cuccetta un letto abbastanza comodo. Per tutto il giorno nessuno è venuto nel castello di prua, salvo il mio compagno. Tigre si è piazzato proprio davanti al buco e ha dormito profondamente, come non si fosse ancora rimesso completamente del suo malessere. Verso sera un improvviso colpo di vento ha investito il brigantino prima che avesse tempo di ridurre la vela e per poco non l’ha fatto capovolgere, ma la raffica non è durata a lungo e non abbiamo riportato danni, se non alla vela di trinchetto che si è strappata. Dirk Peters si è mostrato molto gentile con Augustus per tutto il giorno, si è trattenuto con lui a lungo a parlare del Pacifico e delle isole che ha visitato. Gli ha chiesto se non sarebbe stato contento di fare un viaggio laggiù, ma ha anche aggiunto che l’equipaggio sembrava propenso a seguire piuttosto la 74 volontà del secondo. Augustus gli ha subito detto che sarebbe stato felice di vedere quei posti, che gli sembrava la cosa migliore e che comunque tutto sarebbe stato meglio della vita da pirata. 4 luglio. La nave segnalata non era che un piccolo brigantino proveniente da Liverpool, che è lasciato proseguire senza problemi. Augustus ha passato la maggior parte del tempo sul ponte per capire cosa volevano fare gli ammutinati; ci sono state violente discussioni e in seguito a una di queste un fiociniere, Jimm Bonner, è stato gettato in mare. Il partito del secondo ha guadagnato terreno, perché Bonner stava col cuoco e con Peters. 5 luglio. All’alba si è alzato da ovest un vento che a mezzogiorno è diventato tempesta e il brigantino ha tenuto solo le vele di senale e trinchetto. Cazzando la vela di gabbia, Simms, uno dei seguaci del cuoco, completamente sbronzo, è caduto in mare ed è annegato senza nessuno abbia mosso un dito per salvarlo. A bordo sono rimasti in tredici: da una parte Dirk Peters, Seymour, il cuoco, Jones, Greely, Hartmann Rogers e William Allen; dall’altra il secondo, di cui non ho mai saputo il nome, Absalom Hicks, Wilson, John Hunty e Richard Parker; infine, io e Augustus. 6 luglio. La tempesta è durata per l’intera giornata, soffiando rabbiosamente, accompagnata da pioggia. Il brigantino ha imbarcato una buona quantità d’acqua e una delle pompe di sentina ha dovuto lavorare tutto il tempo e, giunto il suo turno, Augustus ha pompato come gli altri. Nella nebbia una grande nave ci è passata vicina, ma quando l’abbiamo avvistata non più a portata di voce. Si suppone che fosse la nave che gli ammutinati stavano aspettando; il secondo ha chiamato da lontano, 75 ma il frastuono della tempesta ha impedito di udire la risposta. Alle undici, un’ondata ha colpito violentemente la murata a babordo danneggiandola. Verso mattina il vento sembrava essersi finalmente calmato. 7 luglio. Per tutto il giorno siamo stati in balia di gigantesche ondate e il brigantino, essendo quasi vuoto, rollava in modo pazzesco: dalla mia cuccetta sentivo distintamente i movimenti del carico in stiva e io stesso ho sofferto il mal di mare. Peters si è trattenuto a lungo con Augustus, informandolo che due uomini della sua parte, Greely e Allen, erano passati dall’altra, col secondo, e avevano scelto di diventare pirati. Ha fatto ad Augustus delle proposte che lui non ha capito bene. Verso sera la nave ha cominciato a imbarcare acqua da alcune e l’acqua filtrava anche attraverso il fasciame di prua. Le cose sono migliorate quando abbiamo issato una vela a prua. 8 luglio. Al sorgere del sole una leggera brezza si è alzata da est e il secondo ha fatto mettere la prua a sud-ovest con l’intenzione di raggiungere una delle isole delle Antille, per iniziare il suo piano piratesco. Per quanto ne sapeva Augustus, Peters e il cuoco non si sono opposti. L’idea di abbordare la nave di Capo Verde è definitivamente tramontata. Nel corso della giornata sono state avvistate due piccole golette. 9 luglio. Bel tempo; tutti sono occupati a riparare la murata a babordo. Peters ha fatto di nuovo una lunga chiacchierata con Augustus ed è stato più esplicito delle altre volte: ha detto che per niente al mondo avrebbe mai condiviso le idee del secondo e ha pure lasciato capire che meditava di strappargli il comando del brigantino, anzi ha chiesto al mio amico se in quel caso poteva 76 contare su di lui. Senza esitare Augustus ha risposto di sì e Peters, dopo avergli detto che ne avrebbe parlato coi suoi uomini, se n’è andato e non si è più visto per tutto il giorno. Capitolo 7 10 luglio. Avvistato un brigantino proveniente da Rio, con destinazione Norfolk. Tempo coperto con una leggera brezza da est. Oggi è morto Hartmann Rogers; alle otto è stato preso da convulsioni dopo aver bevuto un grog. Era uno degli uomini dalla parte del cuoco, uno di quelli su cui Peters contava di più; quest’ultimo ha detto ad Augustus che sospettava che il secondo l’avesse avvelenato, e che temeva di fare la stessa fine se non stava in guardia. Nel suo gruppo erano rimasti solo lui, Jones e il cuoco, mentre nel partito opposto erano sette. Aveva parlato a Jones della sua idea di strappare al secondo il comando del brigantino, ma la sua proposta era stata accolta con freddezza e si era guardato bene dall’insistere o di farne parola col cuoco. Non se ne dovette pentire, perché nel pomeriggio il cuoco parve determinato a unirsi al partito del secondo, come di fatto avvenne. Per parte sua, Jones non mancò di rimproverare Peters, lasciandogli anzi comprendere che avrebbe potuto rivelare al secondo il suo piano. Occorreva quindi agire al più presto, e avendo Peters detto ad Augustus che era deciso a riprendere il controllo della nave a qualunque costo purché qualcuno lo avesse aiutato, il mio amico lo rassicurò che lo avrebbe appoggiato in tutto e, rite77 nendo fosse il momento giusto, lo informò della mia presenza a bordo. Il mezzosangue si mostrò sorpreso e al tempo stesso contento, perché non poteva più fare assegnamento su Jones, che riteneva già guadagnato alla causa avversa. Scesero subito nel castello di prua, dove Augustus mi chiamò per nome. In breve tempo Peters e io divenimmo buoni amici. Fu deciso che avremmo tentato di riprendere la nave alla prima occasione, escludendo Jones dai nostri piani. In caso di successo, avremmo condotto il brigantino nel primo porto e consegnato alle autorità; la sconfitta del suo partito aveva costretto Peters a rinunciare ai suoi progetti sulle isole del Pacifico, perché la spedizione avrebbe richiesto un equipaggio, e ora Peters sperava di farsi riconoscere incapace di intendere e di volere – e di fatto confessò la sua demenza per aver appoggiato gli ammutinati – oppure, nel caso in cui fosse riconosciuto colpevole, sperava di ottenere clemenza con l’intercessione di Augustus e me. Improvvisamente fummo interrotti dal grido: «Tutto l’equipaggio alle vele!» Peters e Augustus si lanciarono sul ponte. Come al solito, quasi tutti gli uomini erano ubriachi e, prima che le vele fossero convenientemente serrate, una violenta raffica aveva già fatto sbandare il brigantino su un fianco. Si raddrizzò presto, ma aveva già imbarcato molta acqua. Appena raddrizzato, una seconda e poi una terza raffica si abbatterono sulla nave senza causare danni. Sembrava l’inizio di una tempesta, che infatti non tardò ad arrivare e ben presto si alzò un violento vento da nord-ovest. Tutto fu serrato come meglio fu possibile. Al cader della notte il vento rinforzò e il mare s’ingrossò; 78 Peters tornò con Augustus al castello di prua e riprendemmo la conversazione interrotta; concordammo che senza dubbio quello era il momento per mettere in atto il nostro progetto, perché i nostri nemici non potevano certo aspettarsi un tale tentativo in quelle condizioni. Le vele erano tutte ammainate e non c’era necessità di manovrare finche non tornava il bel tempo e, nel caso in cui il nostro tentativo avesse avuto successo, avremmo sempre potuto liberare uno o due degli uomini dell’equipaggio per aiutarci a condurre la nave in un porto. Ma il problema era la grande sproporzione di forze, poiché eravamo solo in tre, mentre nella cabina c’erano nove uomini; inoltre, tutte le armi a bordo erano nelle loro mani, fatta eccezione per un paio di piccole pistole che Peters portava nascoste in tasca e un lungo coltello da marinaio che teneva sempre alla cintura dei pantaloni. Alcuni indizi – come, ad esempio, il fatto che qualunque cosa assomigliasse a un’arma o a un’ascia non fosse al solito posto – facevano supporre che il secondo avesse dei sospetti, almeno riguardo a Peters, e che apettava l’occasione propizia per liberarsi di lui. Era chiaro che avremmo dovuto agire al più presto possibile. Le forze pero erano troppo squilibrate perché potessimo trascurare la minima precauzione. Il piano di Peters era il seguente: sarebbe salito sul ponte e avrebbe attaccato discorso con l’uomo di guardia, William Allen, finché gli si fosse presentata l’occasione per farlo volare fuoribordo senza difficoltà e senza rumore, dopo di che saremmo saliti anche noi e ci saremmo impadroniti di tutte le armi e infine saremmo corsi a sbarrare la porta della cabina prima che opponessero resistenza. 79 Io non ero d’accordo, perché non potevo credere che il secondo – che, aldilà dei suoi superstiziosi pregiudizi, era uomo molto astuto – si mostrasse in quell’occasione così ingenuo da farsi incastrare facilmente. Il fatto stesso che vi fosse un uomo di guardia sul ponte, secondo me, provava che il secondo era in allerta, perché – a eccezioni delle navi con una disciplina ferrea – non si usa mettere un uomo di guardia sul ponte quando la nave è alla cappa durante una tempesta. Dovevamo comunque fare qualcosa e nel più breve tempo possibile, perché non v’era dubbio che, una volta divenuto sospetto, Peters sarebbe stato soppresso alla prima occasione, che si sarebbe presentata facilmente per l’equipaggio quando la tempesta si fosse calmata. Allora Augustus suggerì che Peters, con un pretesto qualunque, togliesse le catene ammassate sulla botola della cabina; questo ci avrebbe permesso di sorprenderli passando dalla stiva; ma, dopo averci riflettuto, convenimmo che il rollio e il movimento della nave erano troppo violenti per riuscire nell’impresa. Fortunatamente mi venne l’idea di giocare sulla superstizione e la cattiva coscienza del secondo. Il lettore ricorderà che uno dei marinai, Hartman Rogers, era morto quel mattino stesso in preda alle convulsioni, dopo aver bevuto alcool misto ad acqua. Peters ci aveva detto che per lui quella morte era dovuta all’avvelenamento da parte del secondo, anzi affermava che le sue deduzioni erano fondate su degli indizi certi che non riuscimmo a strappargli di bocca; il categorico silenzio in cui si chiuse in quell’occasione dà, in qualche modo, l’idea del personaggio. Ma noi, senza sapere se i suoi sospetti fossero più o meno fondati, ci lasciammo facil80 mente convincere e ci muovemmo di conseguenza. Rogers era morto verso le undici del mattino dopo violente convulsioni e, pochi minuti dopo la morte, il corpo aveva l’aspetto più spaventoso e disgustoso che mi ricordi. La pancia si era gonfiata oltre misura, come quella di un annegato che fosse rimasto in acqua per più settimane. Le mani erano ugualmente gonfie mentre la pelle del viso era tutta cosparsa di una sottile peluria, segnata da rughe e con uno strano colore biancastro, con qua e là larghe chiazze di un colore rosso vivo, simili a quelle che produce la psoriasi. Una di queste chiazze gli attraversava la faccia in diagonale e copriva per intero uno degli occhi, come una striscia di velluto rosato, ed era in questo stato ripugnante che il corpo era stato deposto nella cabina, prima di essere gettato in mare. Quando il secondo vide il cadavere fu certamente assalito da rimorsi o rimase spaventato davanti a quell’orribile spettacolo, perché ordinò subito ai suoi uomini di cucire il morto in un sacco e di fargli un funerale come si usa in mare. Impartiti questi ordini, tornò giù in cabina, come se non sopportasse la vista della sua vittima. Mentre gli uomini si preparavano a ubbidirgli, la tempesta aveva raddoppiato d’intensità e il funerale dovette essere rimandato. Il corpo, abbandonato a se stesso, fu sballottato qua e là sul ponte, dov’è ancora adesso mentre sto scrivendo, scosso dai violenti movimenti del brigantino. Avendo elaborato il nostro piano di battaglia, ci sentimmo in dovere di eseguirlo al più presto. Peters salì dunque sul ponte e, come si aspettava, fu immediatamente accostato da Allen che sembrava essere stato messo lì per spiare i suoi movimenti. Il bandito venne liquidato in silenzio e nel modo più spiccio. Peters gli si 81 avvicinò con aria disinvolta, come per fare una chiacchierata, poi all’improvviso, afferratolo per la gola, lo scaraventò fuori bordo prima che avesse il tempo di lanciare un grido. Noi lo raggiungemmo subito. Nostra prima preoccupazione fu cercare delle armi; ma dovevamo muoverci con molta prudenza per evitare di urtare gli oggetti sul ponte, mentre furiose ondate si abbattevano sul brigantino che beccheggiava paurosamente. Ci aspettavamo inoltre, a ogni istante, di vedere il secondo salire per mettere in moto le pompe, perché era chiaro che il brigantino stava imbarcando molta acqua. Dopo qualche tempo trascorso alla ricerca di armi, avevamo trovato solo due barre delle pompe. Augustus ne prese una e io l’altra, poi dopo avergli tolto la camicia gettammo in mare il cadavere di Rogers. Peters e io scendemmo giù, mentre Augustus restò di guardia sul ponte, bello stesso punto occupato prima da Allen, ma volgendo le spalle all’accesso della cabina, in modo che, se uno dei banditi fosse salito, potesse credere che vi era sempre laggiù il loro uomo di guardia. Appena giunto in basso, m’affrettai a travestirmi in modo da rassomigliare, in tutto e per tutto, al cadavere di Rogers. La camicia che gli avevamo tolto ci fu molto utile, perché di taglio particolare e facilmente riconoscibile; somigliava, per spiegarmi meglio, a una specie di camiciotto che si usava portare sulle altre vesti; era, in tricot blu, a grandi righe bianche. L’indossai quindi dopo essermi sistemato una pancia posticcia, in modo da imitare la mostruosa deformazione del cadavere rigonfio; per questo utilizzai delle coperte, mentre con dei mezzi guanti bianchi, pieni di pezzi di stoffa, detti alle mie mani l’aspetto gonfio di quelle del morto. Fatto 82 ciò, Peters mi truccò, fregandomi il viso con del gesso e macchiandolo con del sangue ricavato facendosi un taglio sulla punta del dito. Non dimenticammo la grande chiazza rossa che attraversava l’occhio, cosicché il mio viso era veramente terrificante. Capitolo 8 Quando mi potei vedere a uno specchio appeso in cabina, alla debole luce di una torcia nautica, la mia fìsionomia e il ricordo della terribile realtà che incarnavo mi fecero una tale impressione che mi prese un violento tremito e fece una gran fatica a riacquistare il sangue freddo indispensabile per svolgere la parte che mi ero assunto. Non c’era tempo da perdere, così io e Peters salimmo sul ponte. Lì era tutto tranquillo e, scivolando lungo il bordo, raggiungemmo tutti e tre il portello della cabina. Era solo socchiuso e si era fatto in modo che non potesse essere spinto improvvisamente da fuori, mettendo sul gradino superiore dei ceppi che bloccavano la chiusura. Ci fu facile quindi vedere all’interno attraverso le fessure dei cardini. Per fortuna non avevamo provato a prenderli di sorpresa, perché erano ben attenti. Solo uno era addormentato proprio in fondo alla scala con accanto un fucile, mentre gli altri erano seduti su alcuni materassi che erano stati tolti dalle cuccette e gettati sul pavimento. Erano assorti in una seria conversazione e, pur avendo fatto bisboccia, come testimoniavano le brocche vuote e i boccali di stagno sparsi qua e là, non erano del tutto ubriachi come al solito. Avevano tutti i loro coltelli, alcuni avevano pure delle pistole e 83 numerosi fucili erano su una cuccetta a portata di mano. Per un po’ ascoltammo la conversazione prima di muoverci, perché non avevamo ancora ben deciso se far comparire lo pseudo Rogers al momento dell’attacco, per bloccare la loro reazione. I discorsi vertevano sui loro piani di pirateria, ma non riuscimmo a capire molto, se non che volevano fare combutta con i marinai della goletta Hornet e, se possibile, impadronirsi anche di quella nave per fare progetti ancora più grandi. A un certo punto uno ha fatto il nome di Peters e il secondo gli ha risposto a voce bassa, così non abbiamo potuto capire. Aggiunse poi, a voce più alta, che non capiva cosa complottasse nel castello di prua con quel moccioso del figlio del comandante e che, per lui, quei due prima volavano in mare e meglio era. Nessuno rispose, ma era facile capire che le sue parole avevano il consenso di tutta la banda e in particolare di Jones. In quel momento io ero in preda a un tremito violentissimo, tanto più che né Augustus ne Peters – come potei rendermi conto – non sapevano che pesci prendere. Decisi comunque di vendere cara la mia pelle e di non lasciarmi vincere dalla paura. Il frastuono spaventoso prodotto dal vento e dalle ondate che investivano il ponte ci impediva di capire quel che dicevano; in uno dei rari momenti di calma, tuttavia, udimmo distintamente il secondo dare ordine a uno dei marinai di andare nel castello di prua a controllare cosa facevano quei due, perché non tollerava congiure a bordo del brigantino. Per fortuna il rollio della nave in quel momento era così forte che l’ordine non poté essere eseguito immediatamente. A un certo punto il cuoco si era alzato dal suo pagliericcio per venirci a cercare, ma era arrivata 84 un’ondata così spaventosa che avevo paura che troncasse gli alberi, e lo mandò a sbattere la testa contro la porta di una delle cabine a babordo, con tanta forza da sfondarla. Per fortuna nessuno di noi era stato travolto dall’ondata, cosicché avemmo il tempo di ripiegare precipitosamente sul castello di prua e accordarci in tutta fretta, prima che arrivasse il cuoco, o piuttosto prima che la sua testa emergesse dalla scaletta, perché non salì sul ponte. Da dove si trovava non poteva vedere che Allen non era più al suo posto, per cui, credendolo sempre lì, si mise a ripetere a squarciagola ciò che il secondo gli aveva ordinato. E Peters gli rispose: «Sì!... sì!...» camuffando la voce, e il cuoco ridiscese quasi subito senza sospettare nulla. I miei compagni allora arretrarono con cautela ed entrarono nella cabina. Peters chiuse la porta alle sue spalle, come l’aveva trovata. Il secondo li accolse con finta cordialità e disse ad Augustus che, in ragione della sua buona condotta negli ultimi tempi, gli avrebbe potuto, d’allora in avanti, installarsi nella cabina e considerarsi come uno dei loro. Gli porse un bicchiere di rhum e glielo fece bere. Io vedevo e sentivo tutto, perché avevo seguito i miei amici verso la cabina appena la porta era stata chiusa ed ero tornato al mio posto d’osservazione. Avevo le due barre delle pompe e ne avevo nascosta una vicino alla scaletta per averla sotto mano nel caso ne avessi avuto bisogno. Facevo appello a tutto il mio sangue freddo per non perdere nulla di ciò che accadeva nella camera e cercavo di concentrarmi per poter compiere bene la mia parte che 85 consisteva nell’apparire ai ribelli appena Peters me ne avesse dato il segnale, come era stato fin da principio convenuto. In quel momento lui stava portando la conversazione sui particolari più raccapriccianti dell’ammutinamento e sulle mille superstizioni che corrono nel mondo dei marinai. Non riuscivo ad afferrare tutte le sue parole ma, dalle facce di chi ascoltava, potevo facilmente rendermi conto dell’effetto prodotto da quella conversazione. Il secondo era visibilmente agitato e quando, un momento dopo, uno degli uomini fece allusione all’aspetto spaventoso del cadavere di Rogers, mi chiesi se non stesse per svenire. Peters gli chiese allora se non gli sembrava giunto il momento di gettarlo in mare, aggiungendo che era uno spettacolo orribile vederlo dimenarsi così, seguendo i movimenti della nave. A queste parole, il delinquente respirò in modo convulso e volse lentamente la testa verso i suoi compagni come per supplicare qualcuno di salire su per compiere quel lugubre servizio. Ma nessuno si mosse, ed era evidente che tutta la banda era terrorizzata. In quel preciso momento Peters mi diede il segnale ed io aprii subito la porta della scaletta e, scendendo senza dire una parola, piombai improvvisamente in mezzo ai banditi. L’effetto prodotto da quell’apparizione non deve meravigliare se si pensa alle circostanze in cui avveniva. Generalmente, in casi simili, lo spettatore conserva un fondo di dubbio sulla realtà della visione che si presenta ai suoi occhi; coltiva un po’ la speranza, per quanto debole, di essere vittima di un trucco e che l’apparizione non sia in realtà una visita dall’oltretomba. Questi fenomeni si accompagnano quasi sempre a un misto di dub86 bio e di terrore, a una paura improvvisa che le apparizioni possano essere reali. Ma in questo caso si può immaginare come nella testa di quei miserabili non potesse sussistere alcun dubbio che l’apparizione di Rogers fosse realmente il suo cadavere risuscitato o, per lo meno, il suo fantasma. L’isolamento del brigantino dopo l’ammutinamento, accentuato dal mare in burrasca, rendevano inverosimile l’ipotesi di un qualche trucco, che comunque avevano escluso fin dall’inizio. Eravamo in mare da ventiquattro giorni e non avevamo comunicato con una sola nave, a parte qualche richiamo da lontano. Del resto la totalità dell’equipaggio – o per lo meno ciò che essi consideravano la totalità dell’equipaggio, non avendo alcuna ragione di sospettare la presenza di un clandestino a bordo – era riunita nella cabina, a eccezione di Allen, l’uomo di guardia, e per ciò che concerneva quest’ultimo, la sua taglia gigantesca – misurava sei piedi e sei pollici – era troppo famigliare perché venisse loro l’idea di identificarlo con l’apparizione. Se si aggiunge a queste considerazioni la tempesta spaventosa, la conversazione condotta da Peters, la profonda impressione prodotta il mattino stesso su quegli uomini dall’aspetto ripugnante del vero cadavere, la perfezione del mio travestimento, la luce tremula della lanterna che oscillando violentemente di qua e di là proiettava su di me ombre strane e fantastiche, si capirà insomma come l’effetto prodotto dalla nostra trovata fosse oltre le nostre aspettative. Il secondo si rizzò sul pagliericcio e, senza dire una parola, cadde all’indietro stecchito sul pavimento della cabina e una forte ondata lo fece rotolare come un ciocco di legno. Dei sette che restavano, tre soli conservarono 87 all’inizio un po’ di presenza di spirito: gli altri quattro restarono come inchiodati al pavimento dove erano seduti e mai vidi nella mia vita persone più terrorizzate e angosciate. I soli a resistere furono il cuoco, John Hunt e Richard Parker, anche se la loro difesa fu debole e tardiva. I primi due furono fatti fuori con un colpo di pistola da Peters; io invece colpii Parker alla testa con la barra che avevo portato con me. Nel frattempo Augustus aveva afferrato uno dei fucili sul pavimento e l’aveva scaricato su uno dei rivoltosi, Wilson. Ne restavano quindi solo tre, che però avevano avuto il tempo di riprendersi dalla sorpresa e cominciavano sicuramente a capire che si era trattato di un trucco, perché si difesero con molta più rabbia e decisione e, non fosse stato per la forza erculea di Peters, avrebbero finito per avere il sopravvento. I tre erano Jones, Greehly e Absolom Hicks. Il primo aveva atterrato Augustus, immobilizzandogli il braccio, e certamente avrebbe avuto ragione di lui, giacché né Peters né io potevamo liberarci subito dei nostri rispettivi avversari, quando molto opportunamente un amico intervenne, un amico che non ci aspettavamo di veder giungere così alla riscossa. Quell’amico non era altri che Tigre. Con un ringhio sordo, si lanciò nella cabina nel momento stesso in cui Augustus stava per soccombere e, gettatosi su Jones, lo inchiodò al pavimento. Il mio amico era troppo provato per poterci aiutare e io stesso ero così impacciato del travestimento da non potermi difendere bene. Fortunatamente il cane non abbandonò la gola di Jones e Peters, per parte sua, era capace di resistere ai due uomini rimasti ed è molto probabile che li avrebbe finiti prima se non fosse stato impedito dallo spazio ri88 stretto e dai violenti movimenti della nave. Alla fine afferrò uno dei pesanti sgabelli rovesciati al suolo e spaccò il cranio di Greehly, che stava per scaricare il suo fucile su di me; poi, quando il rollio lo fece cadere su Hicks, lo afferrò alla gola e in un attimo lo strangolò. Così, in meno tempo di quanto ne abbia impiegato io a raccontare la scena, eravamo diventati padroni del brigantino. L’unico dei nostri avversari ancora in vita era Richard Parker, che, se il lettore ricorda, era stato abbattuto da me con un colpo di barra all’inizio del combattimento e ora giaceva immobile vicino alla porta della cabina sfondata; ma, quando Peters lo scosse col piede, ci supplicò di risparmiarlo. Aveva una leggera ferita alla testa e nessun altro danno, perché il colpo che gli avevo dato l’aveva solo stordito. Si alzò in piedi e, per il momento, non trovammo di meglio che legargli le mani dietro la schiena. Il cane continuava a ringhiare senza allontanarsi da Jones, che dopo un rapido esame risultò morto e il sangue colava a fiotti da una profonda ferita alla gola, prodotta, senza dubbio, dai denti aguzzi dell’animale. Era circa l’una del mattino e il vento soffiava sempre con spaventosa violenza. Il brigantino faticava più del solito a reggere il mare ed era necessario alleggerirlo. Quasi a ogni rollio sottovento imbarcava molta acqua che aveva inondato anche la cabina durante la nostra battaglia, perché io non avevo potuto chiudere il boccaporto quando ero sceso. Il parapetto a babordo era stato spazzato via e anche la cambusa. L’albero di maestra, duramente provato, scricchiolava ed era evidente che non avrebbe tardato molto a crollare. Per lasciare più spazio nella stiva il piede era stato fissato nel corridoio sotto il ponte – pratica assolutamente deplorevole, 89 cui purtroppo ricorrono i costruttori inesperti – rischiando di essere strappato dalla base. Per colmo di sfortuna, scandagliando la sentina trovammo non meno di sette piedi d’acqua. Lasciando i cadaveri dei ribelli sul pavimento della cabina, corremmo alle pompe, dopo avere naturalmente liberato Parker perché partecipasse anche lui al lavoro. Il braccio di Augustus fu bendato alla meglio, dopo di che ci aiutò come poteva. Avevamo capito che, manovrando una delle pompe ininterrottamente, avremmo potuto impedire al livello dell’acqua di crescere ulteriormente. Poiché eravamo solo in quattro, il lavoro era molto faticoso, ma, senza lasciarci scoraggiare, attendemmo l’alba con ansia, sperando di riuscire allora ad alleggerire il brigantino abbattendo l’albero di maestra. Passammo così una notte d’angoscia e di fatica immensa e, quando il giorno riapparve finalmente, la tempesta non si era ancora calmata, anzi sembrava rinforzare. Trascinammo allora i corpi dei ribelli sul ponte per gettarli in mare, poi nostra prima cura fu di liberarci dell’albero di maestra. Prendemmo tutte le precauzioni e Peters, che aveva trovato le asce nella cabina, attaccò l’albero mentre noi, da parte nostra, sorvegliavamo i puntelli e gli appoggi. Nel momento in cui il brigantino prendeva una grande ondata sottovento, fu dato il segnale di tagliare gli appoggi e subito, tutta questa la massa di legno e di attrezzature cadde, scuotendo tutta l’imbarcazione, ma senza tuttavia causare nessun danno serio. Costatammo allora che, se il bastimento reggeva meglio il mare, la situazione restava comunque precaria, perché nonostante gli sforzi non riuscivamo a bloccare l’acqua senza ricorrere alle pompe. 90 Potevamo rallegrarci per non aver perso ancora la scialuppa, rimasta intatta nonostante le ondate. Ma dovemmo darci da fare perché, una volta partito l’albero di maestra, oltre al trinchetto che assicurava al brigantino una relativa stabilità, ogni colpo di mare si scaricava su di noi e in pochi minuti il ponte fu battuto da un capo all’altro, la scialuppa spazzata via, il parapetto di tribordo distrutto e l’argano ridotto a pezzi ed era difficile immaginare una situazione peggiore. A mezzogiorno parve che la tempesta si calmasse un po’, ma la speranza fu crudelmente delusa perché la calma non durò che qualche minuto e l’uragano tornò ancora più violento. Verso le quattro del pomeriggio era letteralmente impossibile reggerci in piedi, tanto la tempesta infuriava con rabbia. La sera non speravamo più che la nave reggesse fino al mattino e a mezzanotte eravamo immersi nell’acqua che era salita fino al ponte inferiore. Poco dopo si spezzò il timone e l’ondata che lo sradicò sollevò la poppa del brigantino letteralmente fuori dell’acqua cosicché, ricadendo, ondeggiò con una scossa simile a quella di una nave che s’incaglia. Avevamo sempre sperato che il timone reggesse, perché era di una solidità eccezionale e costruito come non ne avevo mai visti e come non ebbi più occasione di vedere. Lungo l’asse principale era disposta una serie di robusti ganci di ferro e altri, identici, lungo la ruota di poppa. Una grossa asta di ferro attraversava questi arpioni di modo che il timone era assicurato alla ruota di poppa, ma si muoveva liberamente sul fusto. Si può avere un’idea della potenza spaventosa dell’ondata che lo portò considerando che i ganci della ruota di poppa che erano disposti su tutta la sua lun91 ghezza e sul lato interiore furono completamente strappati, senza alcuna eccezione, dalla massa di legno. Avevamo appena avuto il tempo di respirare dopo questo terribile urto, che una delle più spaventose ondate che mi sia capitato di vedere si abbatté perpendicolarmente sul ponte, spazzando via la cabina, sfondando i boccaporti e non lasciando niente della nostra imbarcazione che non fosse sommerso. Capitolo 9 Per fortuna, prima che facesse notte, ci eravamo assicurati con delle cime a ciò che restava dell’argano ed era stata proprio questa manovra a salvarci. Ce ne stavamo distesi tutti e quattro, aderendo il più possibile alle assi del ponte, più o meno storditi dalla spaventosa massa d’acqua che si abbatteva su di noi; e quando l’acqua si ritirò eravamo quasi soffocati. Appena ebbi ripreso a respirare normalmente, chiamai ad alta voce i miei compagni. Uno solo, Augustus, poté rispondermi: «Siamo perduti!... Che Dio abbia pietà delle nostre anime!» Poi, poco a poco, anche gli altri recuperarono la parola e ci esortarono a riprendere coraggio, dicendo che non bisognava perdere la speranza, che, data la natura del carico, la nave non poteva affondare e che c’erano speranze che l’uragano si calmasse al mattino. E queste parole m’infusero una nuova vita perché era evidente che con un carico di barili vuoti una nave non può colare a picco; e tuttavia, per quanto la cosa possa sembrare strana, ero talmente sconvolto che quel fatto mi era completamente 92 sfuggito e, fino a quel momento, era proprio il pericolo di affondare che mi aveva più spaventato. Rinasceva quindi in me la speranza e cercai di consolidare le cime che mi legavano all’argano distrutto. La notte era buia più di quanto non si possa immaginare e nessuna penna può descrivere il frastuono assordante e il caos che ci circondavano. Il ponte era al livello del mare o, per meglio dire, eravamo accerchiati da una cresta di spuma alta come una muraglia, di cui una parte si rovesciava continuamente su di noi. Le teste – e non sto esagerando – non riuscivano a emergere dall’acqua che un secondo su tre, e, quantunque fossimo stretti gli uni agli altri, nessuno di noi poteva vedere il suo vicino né alcuna parte del brigantino sul quale eravamo così violentemente sbattuti. Di tanto in tanto ci chiamavamo l’un l’altro, sforzandoci di ravvivare la speranza in quello di noi che ne aveva più bisogno e di dargli un po’ di conforto. Ci preoccupava la debolezza di Augustus; le ferite del braccio destro dovevano impedirgli di reggersi abbastanza forte agli appigli e temevamo che da un momento all’altro cadesse in mare perché ci sarebbe stato impossibile aiutarlo. Per fortuna era nel posto più sicuro della nave e aveva la parte superiore del corpo protetta dall’argano, che attenuava la violenza delle ondate che si abbattevano su di lui. Era finito lì solo per caso, dopo aver cercato di raggiungere un punto che certamente sarebbe stato molto pericoloso per lui e dove sicuramente sarebbe morto prima dell’alba. Lo sbandamento del brigantino a babordo faceva sì che fossimo meno esposti alla furia del mare. Ho già detto come la nave e la metà del ponte fossero costantemente sommerse e le ondate che ci arrivavano da tribordo erano, in larga misura, attenuate dal fianco della nave; stando di93 stesi, il viso contro il ponte, ci bagnavano soltanto, mentre le onde che venivano da babordo erano semplici rigurgiti e, data la posizione, non potevano esercitare su di noi una forza tale da farci mollare gli appigli. Restammo dunque coricati in quelle spaventose condizioni fino all’apparire del giorno che ci rivelò, ancora più manifesto, l’orrore che ci circondava. La tempesta infatti continuava a crescere, divenendo un vero e proprio uragano e ci sembrava impossibile sopravvivere. Passammo molte ore così, in silenzio, temendo a ogni istante di perdere i nostri appigli e di vedere i resti dell’argano volare in mare e una delle enormi ondate che provenivano da tutte le direzioni spingere il ponte così profondamente sott’acqua da farci annegare prima di risalire alla superficie. Con l’aiuto di Dio riuscimmo a sfuggire tutti questi pericoli e a mezzogiorno avemmo la gioia di vedere la luce benedetta del sole. Poco dopo il vento calò sensibilmente e, per la prima volta dalla sera precedente, Augustus prese la parola per chiedere a Peters, che era disteso vicino a lui, se pensava che ci restasse ancora qualche possibilità di salvezza. Inizialmente il mezzosangue non rispose e pensammo che fosse annegato; poi finalmente, con nostra grande gioia, riuscì a parlare, pur con voce debolissima, e ci disse che stava malissimo, che le cime strette intorno alla pancia gli tagliavano la carne e che doveva assolutamente scioglierle, a costo di morire, perché non poteva più sopportare il dolore. Questo ci addolorò perché non potevamo aiutarlo in alcun modo, finché il mare non si fosse calmato. L’incoraggiammo dunque a stringere i denti, promettendogli di aiutarlo appena fosse stato possibile e lui rispose che ogni momento poteva essergli fatale, che tutto sa94 rebbe finito prima che avessimo il tempo di soccorrerlo e, detto ciò, si lamento per alcuni istanti ancora e poi tacque, cosicché pensammo che fosse morto. Con l’avvicinarsi della sera il mare si era calmato al punto che soltanto ogni tanto una striscia d’acqua veniva a urtare contro lo scafo dalla parte del vento, che a sua volta aveva ridotto l’intensità. Erano già trascorse molte ore senza che udissi la voce dei miei compagni: preoccupato, provai a chiamare Augustus, che mi rispose con una voce così debole che non potei comprendere cosa diceva. Mi rivolsi poi a Peters e a Parker, ma nessuno dei due rispose alla mia domanda. Poco dopo caddi in uno stato di semincoscienza durante la quale mi si presentarono le più soavi visioni: alberi verdi, pianure ondeggianti di grano maturo, cortei di ballerine, schiere di cavalieri e altre simili fantasmagorie. Ora mi rendo conto che tutto ciò che si presentava alla mia mente era dominato dal movimento: i soggetti dei miei sogni non erano mai cose immobili come una casa, una montagna; erano, al contrario, mulini a vento, vascelli, grandi uccellacci, persone a cavallo, carrozze lanciate a folle velocità e altri oggetti mobili che si offrivano alla mia vista in una sequenza interminabile. Quando mi svegliai il sole si era già levato da un’ora e fu con grande difficoltà che potei rendermi conto della mia situazione; per un po’ credevo di essere sempre in fondo alla stiva, nella mia cassa, e che il corpo di Parker fosse quello di Tigre. Quando tornai pienamente in me, mi accorsi che il vento non era più che una brezza molto moderata e che il mare era relativamente calmo, cosicché il brigantino imbarcava acqua solo da una parte. Il mio braccio sinistro non era più legato ed era molto 95 scorticato all’altezza del gomito; quello destro era ancora intorpidito, mentre la mano e il pugno erano molto gonfi per la stretta della cima. Anche la corda che avevo stretto alla vita mi dava molta noia e non riuscivo a sopportarla. Cercai con lo sguardo i miei compagni e vidi che Peters era ancora vivo, pur avendo le reni così spaventosamente serrate da una cima da sembrare tagliato in due; appena potei fare un movimento, mi fece un debole gesto con la mano, per mostrarmi la sua corda. Augustus non dava più segno di vita: era ripiegato su se stesso intorno a un pezzo dell’argano. Vedendo che mi movevo, Parker mi chiese se ce la facevo a liberarlo perché – diceva – se avessi potuto stringere i denti e liberarlo, avremmo avuto ancora qualche speranza di salvezza; in caso contrario, saremmo stati tutti inevitabilmente condannati. Lo invitai a farsi coraggio, assicurandolo che avrei fatto di tutto per liberarlo; difatti, esplorando la tasca dei pantaloni trovai un temperino e, dopo molti tentativi infruttuosi, riuscii ad aprirlo. Con la mano sinistra riuscii a liberarmi il braccio e questo mi permise di tagliare tutti gli altri lacci; ma, quando volli cambiare posizione, sentii che le gambe mi mancavano e che non avrei potuto più rialzarmi o muovere il braccio in nessun modo. Lo feci allora notare a Parker, che mi consigliò di starmene fermo per alcuni istanti, aggrappandomi con la mano sinistra all’argano per permettere al sangue di riprendere la sua circolazione. Così feci e lo strano intorpidimento pian piano scomparve e potei muovere una gamba, poi l’altra e finalmente, recuperare in una certa misura l’uso del braccio destro. Mi trascinai allora verso Parker con la più grande prudenza, senza drizzarmi sulle gambe, tagliai tutte le cime che l’avvolgevano e presto 96 poté recuperare l’uso degli arti. Senza perdere un istante, tagliammo poi la corda di Peters, che si era conficcata profondamente nella carne attraverso la cintura dei pantaloni di lana e la camicia che, quando la togliemmo, il sangue sgorgò in abbondanza. Ma appena liberato, Peters poté parlare, mostrandosi molto sollevato, e fu ben presto in condizioni di muoversi con molta più facilità di Parker e me, cosa da attribuire senza dubbio al copioso salasso che aveva appena subito. Avevamo poca speranza di vedere Augustus tornare in sé, perché non dava alcun segno di vita. Ma, avvicinandoci a lui, capimmo che era solo svenuto per un’emorragia, dato che le bende con cui avevamo fasciato il braccio ferito erano state strappate con violenza dall’acqua. Dopo averlo sciolto e sbarazzato dai resti dell’argano, lo mettemmo al sicuro dalla parte del vento, in un luogo asciutto, con la testa china sul corpo e ci demmo da fare tutti e tre a frizionargli gli arti. Dopo circa una mezz’ora di questi sforzi, riprese i sensi, ma fu solamente all’indomani mattina che sembrò riconoscerci e che ricuperò la parola. Nel frattempo, mentre eravamo intenti a liberarci, era scesa la notte; il cielo cominciava a coprirsi di nuovo e avevamo una terribile paura che il vento aumentasse, perché in quel caso nulla più avrebbe potuto strapparci alla morte, deboli come eravamo. Fortunatamente il vento restò moderato per tutta la notte e il mare si calmò, e questo che ci fece nutrire la speranza di cavarcela. Una piacevole brezza soffiava sempre da nord-ovest e non faceva affatto freddo. Augustus fu assicurato all’argano con la massima attenzione, per evitare che cadesse in mare per il rollio della nave; era ancora troppo debole 97 per reggersi da solo. Quanto a noi, non era affatto necessario: ci stringemmo gli uni contro gli altri, legandoci con le corde recuperate dall’argano e ci consultammo sul modo per uscire da quella deplorevole situazione. C’eravamo tolti i vestiti e li avevamo strizzati, traendone grande vantaggio, perché così divennero più caldi e comodi, contribuendo pian piano a rimetterci completamente in forze; aiutammo Augustus a fare altrettanto, strizzammo i suoi vestiti e anch’egli ne ebbe lo stesso beneficio. Adesso soffrivamo molto la fame e la sete e, quando pensavamo a cosa fare per rimediarvi, ci mancava il coraggio e rimpiangevamo quasi di essere sfuggiti alle onde, al confronto molto meno pericolose. Cercammo conforto nella speranza di essere strappati dalla nostra situazione da qualche nave di passaggio ed esortandoci a sopportare con forza le calamità che ancora ci aspettavano. Giunse finalmente il mattino del 14 luglio e il tempo si conservava bello e gradevole, con una brezza che si soffiava da nord-ovest, ma molto dolce. Il mare si era completamente calmato e il brigantino, qualunque fosse la causa, che non potevamo conoscere, non era più sbandato e il ponte era un po’ più asciutto, così potevamo andare e venire liberamente. Erano ormai trascorsi tre giorni e tre notti senza bere e mangiare e volevamo ispezionare la neve per trovare qualcosa. Ma era completamente allagata e ci mettemmo al lavoro senza grandi speranze: costruimmo una specie di draga con due assi ove avevamo piantato dei chiodi strappati ai resti di un portello; le assi erano disposte perpendicolari e, dopo averle assicurate all’estremità di una cima, le gettammo nella cabina, tirandole da una 98 parte all’altra nella speranza di raccogliere qualcosa da mangiare, o almeno che ci aiutassero a trovarne. Passammo gran parte della mattinata in questa pesca, ma senza successo, non avendo trovato che alcune coperte che i chiodi avevano agganciato, e convenimmo che la nostra invenzione era troppo rudimentale per essere utile a qualcosa. Facemmo la stessa prova nel castello di prua, senza migliori risultati e già cominciavamo a disperarci, quando Peters propose di legarsi a una cima per entrare nella cabina e provare a pescare qualcosa e la proposta fu accolta con l’entusiasmo che può ispirare una nuova speranza. Cominciò quindi a spogliarsi, restando con i soli pantaloni, e gli venne passata intorno alla cintura una corda solida e assicurata sopra le spalle perché non scivolasse. L’operazione non era facile perché non potevamo sperare di trovare molte provviste in cabina, ammesso che ve ne fossero; bisognava dunque che l’esploratore, per così dire, dopo esser sceso, girasse a destra e facesse sott’acqua un tragitto di dieci o dodici piedi attraverso uno stretto corridoio, per raggiungere la cambusa e tornare indietro, sempre senza respirare. Quando tutto fu pronto, Peters scese nella cabina attraverso la scaletta e, quando l’acqua gli arrivò al mento s’immerse del tutto e girò a destra, cercando di raggiungere la cambusa; ma il primo tentativo andò a vuoto. Mezzo minuto dopo la sua sparizione, sentimmo una scossa alla corda che lo tratteneva; era quello il segnale perché lo tirassimo su. Lo issammo dunque in tutta fretta, tanto che si procurò delle contusioni lungo la scala, e tornò a mani vuote perché aveva potuto muovere solo qualche passo nel corridoio per gli sforzi che 99 doveva fare per evitare di risalire e andare a battere contro il ponte; riemerso dall’acqua, era allo stremo delle forze e dovette fare una pausa di un buon quarto d’ora, prima di arrischiarsi a ridiscendere. Il secondo tentativo fu anche più sfortunato. Restò a lungo sott’acqua senza dare il segnale e noi, temendo per la sua sorte, lo tirammo su di nostra iniziativa; se avessimo tardato ancora un po’, sarebbe rimasto asfissiato. A quanto pare, aveva dato più strattoni alla corda senza che ce ne fossimo accorti, probabilmente perché una parte della corda si era attorcigliata al passamano, all’estremità della scaletta. Quel passamano ci ostacolava a tal punto che decidemmo di strapparlo prima di ricominciare le operazioni e, poiché per far quello potevamo contare solo sulle nostre braccia, dovemmo scendere tutti insieme in acqua, spingendoci più avanti possibile, tirando con tutte le forze per demolirlo. Anche il terzo tentativo non ebbe più successo dei precedenti e fu chiaro che non saremmo arrivati a nulla se chi s’immergeva non si fosse munito di un peso che gli permettesse in basso sul pavimento della cabina. Cercammo invano e a lungo qualche oggetto utile a questo scopo e finalmente trovammo una delle catene di mezzana e, poiché dondolava già, ci fu facile strapparla per intero. Peters quindi la legò solidamente a una delle caviglie ed effettuò la sua quarta esplorazione nella cabina: stavolta riuscì a raggiungere la cambusa, ma con disappunto la trovò chiusa e fu costretto a tornare indietro perché, nonostante gli sforzi, non avrebbe potuto restare sott’acqua un minuto di più. La nostra situazione si faceva sempre più tragica e Augustus ed io non riuscivamo a 100 trattenere le lacrime all’idea delle difficoltà e delle poche probabilità di salvezza che ci restavano. Ci inginocchiammo quindi per pregare Dio e implorare il suo soccorso e, rialzandoci dopo quella breve preghiera, ci sentimmo rinvigoriti e pronti a cercare nuovi modi per sopravvivere. Capitolo 10 Poco dopo successe qualcosa che, anche ora, a distanza di tempo, provoca in me un’emozione perché, se all’inizio fu una grande gioia, poi si rivelò fonte di grande paura. Eravamo sul ponte, vicino al portello della cabina, discutendo su come raggiungere la cambusa, quando, alzando gli occhi su Augustus, di fronte a me, vidi che era improvvisamente impallidito e che le labbra tremavano in modo strano. Gli rivolsi la parola fortemente preoccupato, ma non rispose e già cominciavo a immaginare qualche nuova disgrazia, quando mi accorsi della strana luce dei suoi occhi, che fissavano un oggetto alle mie spalle. Guardai da quella parte e non dimenticherò mai l’euforia che mi prese quando scorsi un grande brigantino che si dirigeva verso di noi e che non era a più di due miglia! Mi alzai e, tendendo le braccia verso la nave, rimasi immobile in quella posizione senza articolare parola. Anche Peters e Parker avevano avuto una reazione analoga, anche se la manifestavano in modo diverso:il primo danzava sul ponte come un pazzo, proferendo le più stravaganti sciocchezze, intercalate via via a urla e imprecazioni; l’altro invece scoppiò in lacrime e per un pezzo continuo a singhiozzare come un bambino. 101 La nave avvistata era in un grande brigantino-goletta, di costruzione olandese, dipinto di nero e con una polena dorata. Aveva evidentemente affrontato una tempesta e immaginammo che si trattasse dello stesso l’uragano che avevamo incontrato noi, perché il piccolo albero di coffa era stato strappato, come pure una parte della murata di tribordo. Quando l’avvistammo era a circa due miglia sopravvento, diretto verso di noi, e poiché la brezza era molto leggera, ci meravigliammo che avesse spiegato solo la piccola vela prodiera e la randa; era molto lento e la nostra impazienza si trasformò in vera e propria frenesia. Nonostante l’emozione, non potemmo fare a meno di notare il modo maldestro in cui era condotto: i suoi movimenti facevano pensare che non ci avesse visto, oppure che, non scorgendo persone a bordo, fosse sul punto di virare in tutt’altra direzione. Quando noi, presi dalla paura, ci mettevamo a urlare a squarciagola la strana nave sembrava per un momento cambiare idea e dirigere di nuovo verso di noi. Questa manovra si ripeté due o tre volte e alla fine avevamo concluso che il timoniere doveva essere pazzo. Fino a che la nave non fu a un quarto di miglio da noi, non potemmo scorgere nessuno sul ponte e solo allora vedemmo tre marinai che, a giudicare dal loro costume, dovevano essere olandesi: due erano distesi su vecchie vele vicino il castello di prua; il terzo invece era chino a tribordo, vicino al bompresso, e sembrava studiarci con molta curiosità. Era un uomo alto e ben proporzionato, dalla pelle molto scura; sembrava volerci incoraggiare, facendo cenni con la testa in modo gioviale anche se strano, senza cessare per un istante di sorridere, come per mostrare in tutto il loro splendore la fila di denti 102 bianchi. Mentre la nave si avvicinava, vedemmo il suo berretto rosso cadere in mare, ma lui non parve preoccuparsene più di tanto e continuò coi sorrisi e la strana mimica. Il lettore mi perdoni questi dettagli, ma sono necessari perché si comprendano bene i fatti. Adesso il brigantino procedeva lento, ma con una direzione più sicura. Ancora oggi non riesco a rievocare questo episodio senza una forte emozione: sentivamo i cuori sobbalzare freneticamente ed emettevamo grida di gioia e ringraziamenti a Dio per l’insperata salvezza che si prospettava ai nostri occhi. Ma d’un tratto, portato dal vento, ci giunse dalla misteriosa imbarcazione ormai vicina un odore, un fetore tale che non so trovare parole per definirlo: infernale, soffocante, intollerabile, per dare l’idea. Per respirare mi voltai verso i miei compagni e vidi che erano bianchi come il marmo, ma non avevamo tempo da perdere in discussioni o congetture: il brigantino era solo a una cinquantina di piedi da noi e sembrava volersi accostare per farci salire a bordo senza mettere in acqua una scialuppa. Ci slanciammo a poppa, ma una forte ondata lo deviò di cinque o sei gradi dalla rotta e, quando fu a circa venti piedi di distanza, potemmo gettare un occhio sul ponte. Non dimenticherò mai l’orrore di quello spettacolo! Venticinque o trenta cadaveri, fra cui alcune donne, giacevano sull’assito nel più ripugnante stato di putrefazione. Nessuno – lo vedemmo con certezza – nessuno era vivo in quella maledetta nave e tuttavia non potemmo fare a meno di chiedere aiuto a quei cadaveri. Sì, per lungo tempo e con intensità, nell’agonia della nostra condizione, abbiamo supplicato quegli spettri taciturni e ripugnanti di arrestarsi per prenderci a bordo, 103 di non lasciarci diventare come loro, di accordarci la loro generosa ospitalità. L’orrore, la disperazione ci facevano delirare, l’angoscia della nostra spaventosa delusione ci rendeva completamente pazzi. Al nostro primo urlo di terrore rispose qualcosa che sembrava partire dal bompresso del brigantino, qualcosa di perfettamente simile a un grido umano, che anche l’orecchio più esercitato si sarebbe ingannato. Una nuova e improvvisa ondata riportò per alcuni minuti sotto i nostri occhi il castello di prua e avemmo la spiegazione di quel grido. Ci apparve di nuovo la figura alta e robusta, che si sporgeva dal parapetto oscillando sempre la testa, ma col viso adesso rivolto verso di noi in modo che potevamo vederlo bene. Le braccia erano allungate, i palmi penzolavano rivolti all’indietro; la camicia era strappata sulla schiena e si vedeva la carne; accanto, sulla schiena, era posato un enorme gabbiano, impegnato a cibarsi dell’orribile cibo, il becco e le zampe affondate quasi per intero nel corpo del cadavere, mentre le penne bianche erano macchiate di sangue. Il brigantino continuava a bordeggiare intorno a noi come se avesse voluto vederci più da vicino: allora l’uccello, dopo aver distolto con uno sforzo la testa rossa dall’orrido banchetto e averci guardato un momento con aria stupida, si alzò in volo lentamente dal cadavere e prese a volteggiare sopra il nostro ponte, tenendo nel becco un lembo di carne sanguinolenta che alla fine cadde e si spiaccicò con un rumore flaccido e sinistro proprio ai piedi di Parker. Dio mi perdoni! In un primo momento ebbi allora un pensiero che non oso formulare e mi sorpresi a muovere un passo verso quella macchia sanguinolenta. 104 Alzando gli occhi, vidi lo sguardo di Augustus carico di un rimprovero così intenso e così perentorio che presi immediatamente coscienza di ciò che stavo facendo; feci un balzo in avanti e, tremando, lanciai la cosa spaventosa in mare. Il corpo da cui proveniva quel lembo di carne, in equilibrio sul parapetto, si muoveva in qua e là sotto le beccate del gabbiano e per quello in un primo momento l’avevamo creduto vivo. Liberato dal peso del gabbiano, girò in parte su se stesso, permettendoci di vederlo in viso. Mai, mai, ebbi occasione di vedere uno spettacolo più terrificante! Gli occhi erano scomparsi e la carne intorno alla bocca era stata divorata lasciando i denti completamente scoperti. Era dunque questo il sorriso che ci aveva fatto rinascere alla speranza! era dunque questo... Ma qui mi fermo. Il brigantino, come già detto, passò a poppavia e proseguì il suo cammino lento e regolare sotto il vento, e con esso e con il suo equipaggio terrificante scomparvero le nostre visioni salvifiche. Data la sua rotta esitante, avremmo potuto anche abbordarlo in un modo o nell’altro, ma la delusione e l’orrore di quanto avevamo intravisto ci avevano completamente paralizzato. Avevamo visto e sentito, ma non fummo, ahimè, in grado di agire e pensare, se non quando era troppo tardi. Il lettore capirà quanto la nostra testa fosse indebolita da questo semplice particolare: la nave era già molto lontana e restava visibile solo metà dello scafo, quando ci venne l’idea di gettarci a nuoto per raggiungerla e per poco non la mettemmo in pratica. Da allora ho cercato di sciogliere il terrificante mistero di quel brigantino sconosciuto. Le sue dimensioni e il profilo ci fecero supporre, come ho già detto, che fosse un mercantile olandese e il costume degli uomini del105 l’equipaggio accreditava questa nostra ipotesi. Ci sarebbe stato facile di leggere il suo nome a poppa e di cogliere altri dettagli che ci avrebbero permesso di identificarlo, ma la forte emozione ci fece perdere di vista tutto quanto avrebbe potuto illuminarci. Il colore giallastro di alcuni dei cadaveri che non erano ancora completamente putrefatti ci fece pensare che tutti a bordo fossero morti per la febbre gialla o qualche altra analoga epidemia. Se così era stato – e non vedo possibile altra ipotesi – la morte era avvenuta con una fulminante rapidità, a giudicare dalla posizione dei corpi, senza alcun analogo precedente nella storia delle pestilenze di cui l’umanità abbia conservato il ricordo. È anche possibile che un veleno introdotto accidentalmente nelle provviste di bordo sia all’origine della tragedia; può darsi infine che quegli infelici avessero mangiato qualche pesce di una specie sconosciuta e velenosa, un animale o un uccello marino. Ma non ha alcun senso imbastire delle ipotesi su un fatto che è e rimarrà per sempre ignoto, un terrificante e insondabile mistero. Capitolo 11 Passammo il resto della giornata in una specie di letargo instupidito, scrutando il mare alla ricerca di possibili navi finché l’oscurità, nascondendolo ai nostri occhi, ci riportò alla realtà. I morsi della fame e della sete ci assalirono ancora più forti, passando in secondo piano le altre preoccupazione. Non potendo fare nulla fino al mattino, ci sistemammo alla meglio, cercando di riposarci un po’. 106 Aldilà di quanto potessi sperare, io dormii fino all’alba, quando i miei compagni – che non erano altrettanto comodi – mi svegliarono per fare altri tentativi di raggiungere i viveri nella cambusa. Il tempo era bellissimo; non avevo mai visto un mare così calmo; la temperatura era gradevole e il brigantino olandese ormai fuori di vista. La prima preoccupazione fu di scardinare due delle catene a prua, che vennero agganciate ai piedi di Peters; fatto ciò, lui cercò ancora una volta di raggiungere nel minor tempo possibile il portello della cambusa, tentando di sfondarlo, e contava di riuscirci, perché il brigantino era molto più stabile di prima. Raggiunse così abbastanza rapidamente il portello e, strappando dalla sua caviglia una delle catene, se ne servì per forzarlo, ma inutilmente, perché il legno era molto più solido di quanto si potesse immaginare. Risalì dunque completamente sfinito per la lunga immersione e si presentò la necessità di sostituirlo in quella pericolosa missione. Parker si propose subito, ma dopo tre discese dovette tornare indietro senza aver potuto raggiungere il portello. Data la ferita al braccio, Augustus era impossibilitato a tentare una discesa poiché, quand’anche fosse riuscito a raggiungere il portello, non sarebbe mai riuscito a sfondarlo. Toccava dunque a me impegnarmi per la salvezza comune. Peters aveva lasciato una delle catene nel corridoio e appena mi fui immerso, mi resi conto di non essere abbastanza zavorrato per procedere nell’acqua. Decisi dunque, come primo tentativo, di cercare la seconda catena. Procedendo tastoni in lungo e in largo sul pavimento del corridoio, sentii un oggetto duro che afferrai subito, non avendo il tempo di verificare cosa fosse, do107 podiché mi girai e tornai in superficie. Avevo trovato una bottiglia e il lettore può immaginare con quale gioia costatammo che era piena di vino di Porto! Dopo aver reso grazie a Dio per quell’aiuto opportuno e prezioso, la aprimmo subito servendoci del mio temperino e un piccolo sorso bastò a darci un conforto indicibile conforto e calore. La bottiglia fu poi richiusa con cura e appesa in modo che non si rompesse. Riposatomi in attimo, scesi di nuovo e incappai nella seconda catena, risalii subito e l’attaccai alla caviglia per effettuare una terza discesa, ma questa volta convinto che non sarei mai giunto alla porta della cambusa. Tornai su scoraggiato; dovevamo ormai abbandonare ogni speranza, e potei leggere sul viso dei miei compagni l’ombra della morte. Il sorso di vino aveva prodotto in loro una specie di delirio da cui io ero rimasto indenne grazie all’immersione. Facevano discorsi sconclusionati, su argomenti che non avevano nulla a che vedere con la nostra situazione. Peters, ad esempio, mi fece una serie di domande su Nantucket; anche Augustus – ricordo – si avvicinò a me con la massima serietà chiedendomi un pettinino perché aveva i capelli pieni di scaglie di pesce e voleva sbarazzarsene prima di sbarcare. Parker sembrava un po’ meno sconvolto e m’incoraggiava a immergermi ancora una volta per riportare tutto ciò che c’era in cabina. Acconsentii e al primo colpo, dopo un’apnea di oltre un minuto, recuperai una valigetta di cuoio che apparteneva al capitano Barnard; l’aprimmo subito con la debole speranza di trovarvi qualcosa da bere o da mangiare, ma purtroppo conteneva solo un completo per radersi e due camicie di tela. Scesi ancora una volta di, ma tornai a mani vuote e, appena misi la testa fuori dall’ac108 qua, sentii un rumore come se qualcosa si fosse rotto sul ponte e una volta risalito, costatai che i miei compagni erano stati così ingrati da approfittare della mia assenza per bere il vino rimasto nella bottiglia, che avevano poi fatto cadere e cercato di rimettere al suo posto prima che riemergessi. Feci loro rilevare l’egoismo di tale condotta e Augustus scoppiò a piangere: quanto agli altri, si sforzarono di prendere la cosa a ridere, ma a Dio non piaccia che io possa rivedere nella mia vita una tale risata; le loro smorfie erano assolutamente terrificanti; nelle loro pance vuote il vino aveva prodotto un effetto violento e istantaneo. Feci una gran fatica a convincerli a distendersi e, appena lo fecero, caddero in un sonno pesante. Mi trovai dunque solo sul brigantino e si potrà facilmente immaginare di quale natura fossero i miei pensieri. Non vedevo altra prospettiva che morire lentamente di fame o, nell’ipotesi migliore, di essere inghiottito dalla prima tempesta che fosse sopraggiunta, perché, nello stato di sfinimento in cui ci trovavamo, non potevamo sperare di resistere a un nuovo assalto. La fame era intollerabile e avrei fatto qualsiasi cosa per placarla. Con l’aiuto del coltello, tagliai un pezzetto della valigia di cuoio e provai a masticarlo, ma non potei inghiottire neppure la minima parte. Al calar della notte i miei compagni si svegliarono, uno dopo l’altro, in uno stato di depressione indescrivibile prodotto dal vino, i cui fumi erano svaniti. Erano scossi come da una febbre violenta e chiedevano dell’acqua con grida snervanti. Mi ispiravano la più profonda pietà, ma al contempo mi rallegravo per non aver bevuto come gli altri, risparmiandomi le sinistre e desolanti sensazioni. 109 Il loro atteggiamento mi preoccupava perché era evidente che, se non fosse mutato, non avrei potuto contare su di loro per tentare di salvarci. Non avevo ancora abbandonato ogni speranza di recuperare qualcosa, ma non potevo ripetere il tentativo se uno di loro non fosse stato in grado di aiutarmi reggendo la corda mentre scendevo. Parker mi sembrava meno debole degli altri e cercai quindi di rianimarlo in qualche modo. Pensando che un’immersione nell’acqua di mare avrebbe potuto essere utile allo scopo, gli legai una corda intorno al corpo, lo condussi fino alla scala – lui mi lasciò fare sino alla fine – e da lì lo spinsi nell’acqua ripescandolo subito. L’esperimento mi dette ragione, perché sembrò riprendere vita e, quando lo distesi sul ponte, mi chiese con aria più ragionevole perché avessi fatto ciò. Quando glie lo spiegai mi ringraziò, mi disse che si sentiva molto meglio ed esaminò la nostra situazione con lucidità. Decidemmo allora di fare ad Augustus e Peters lo stesso trattamento; lo facemmo senza indugi e con risultati sensibili. L’idea mi era stata suggerita da una lontana reminiscenza di non so più quale opera di medicina, che parlava dell’efficacia di una doccia nei casi di depressione da alcolismo. Vedendo che potevo di nuovo contare sui miei compagni per reggere la corda, feci tre o quattro immersioni in cabina, anche se era già notte e un leggero vento da nord-ovest faceva muovere il nostro relitto. Queste nuove esplorazioni fruttarono due coltelli da tavola, una brocca da tre galloni vuota e una coperta, ma nulla da mangiare. Raccolti questi oggetti, continuai finché mi sentii allo stremo delle forze, ma senza miglior risultato. Nella notte anche Parker e Peters si spinsero sott’acqua, uno dopo l’altro, ma anche loro senza successo. Sta110 vamo chiaramente sprecando energie inutilmente e rinunciammo, passando il resto della nottata nella depressione più profonda. Finalmente giunse l’alba 16 luglio e scrutammo avidamente l’orizzonte in ogni direzione, ma invano. Il mare era sempre molto calmo, nonostante la solita brezza da nord. Per sei giorni non avevamo né mangiato né bevuto, ad eccezione della bottiglia di Porto, ed era chiaro che non avremmo potuto reggere più a lungo, a meno di qualche fortunata scoperta. Non ho mai visto – e spero di non aver più occasione di vedere – esseri umani ridotti come Peters e Augustus, talmente magri che, se li avessi incontrati a terra, non li avrei mai riconosciuti. La loro fisionomia era cambiata a tal punto che non mi capacitavo che fossero gli stessi di qualche giorno prima. Anche Parker era molto dimagrito e debole da non riuscire a tenere ritta la testa, ma non era ancora nelle condizioni drammatiche degli altri; non si lamentava e cercava di incoraggiarci in ogni modo. Quanto a me, pur avendo molto sofferto fin dall’inizio di questo mio pericoloso viaggio e nonostante il mio fisico delicato, ero quello che soffriva di meno, perché ero meno dimagrito di loro e restavo padrone di tutte le mie facoltà, mentre gli altri sembravano tornati bambini, ridendo alle mie domande con espressione idiota e dicendo le più assurde sciocchezze. Ogni tanto comunque sembravano riprendere vita, come avessero di nuovo coscienza della situazione, e allora si alzavano d’improvviso, in un sussulto di energia, e riprendevano a parlare in modo ragionevole, seppure con aria depressa. Del resto, è possibile che io facessi loro la stessa impressione e che facessi le stesse cose stravaganti e stupide, non saprei dirlo. 111 Verso mezzogiorno, Parker disse che vedeva terra a babordo e io durai non poca fatica a dissuaderlo dal gettarsi in mare per raggiungere a nuoto la riva. Peters e Augustus non si curavano di lui, sembravano sprofondati entrambi in una cupa contemplazione. Guardai verso la direzione indicatami e non vidi niente; d’altronde, sapevo fin troppo bene quanto fossimo ancora lontani da qualsiasi terra per farmi illusioni e ci volle molto tempo per convincere Parker. E lui scoppiò in lagrime come un bambino, gridando e singhiozzando per due o tre ore; dopodiché, stanco e sfinito, si addormentò. Peters e Augustus fecero alcuni vani tentativi di masticare dei pezzi di cuoio: li consigliai di ammollarli prima, ma erano troppo sfiniti e indeboliti per seguire i miei consigli. Quanto a me, cercai di masticare anch’io di tanto in tanto per calmare i morsi della fame, ma ciò che più mi angosciava era la mancanza d’acqua e la sola cosa che mi trattenne dal bere l’acqua di mare fu il ricordo delle terribili conseguenze patite da altri nelle mie stesse condizioni. Eravamo quasi al tramonto quando improvvisamente scorsi una vela a est, davanti a noi, dalla parte di babordo, e mi parve che fosse una grande nave che avanzava proprio verso di noi, a una probabile distanza di dodici o quindici miglia. Nessuno dei miei compagni l’aveva ancora vista e mi astenni dal segnalarlo subito nel timore di una nuova delusione. Ma quando vidi distintamente che si avvicinava sempre di più e che puntava dritta su di noi, non potei contenermi più a lungo e la indicai ai miei compagni di sventura, che si alzarono in piedi e si abbandonarono, ancora una volta, a mani112 festazione di gioia, piangendo, ridendo come idioti, saltando, trascinandosi sul ponte, strappandosi i capelli, pregando e bestemmiando a un tempo. Il loro entusiasmo era così contagioso e la salvezza sembrava così vicina, che non potei impedirmi di partecipare alla loro follia e di dare libero sfogo a tutta l’esuberanza della mia gratitudine e della mia felicità. Facevo le capriole, mi trascinavo sul ponte, battevo le mani, gridavo, facevo tutte le sciocchezze possibili, finché improvvisamente fui richiamato alla realtà e rigettato nella più cupa disperazione quando vidi la nave virare bruscamente e fare rotta in direzione quasi opposta. Mi occorse non poco tempo per convincere del nuovo crollo delle nostre speranze i miei poveri compagni, che a ogni mia affermazione replicavano con sguardi e sorrisini increduli. Ma fu la condotta di Augustus che più mi stupì; avevo un bel dire e un bel fare per persuaderlo; s’incaponiva a sostenere che la nave veniva verso di noi a vele spiegate e già si preparava per salire a bordo. Pretendeva che delle alghe che fluttuavano intorno al brigantino fossero la scialuppa del vascello e voleva lanciarvisi sopra, e urlava, si sgolava da straziarmi il cuore; dovetti usare la forza per impedirgli di gettarsi in mare. Quando l’emozione si fu un poco placata, continuammo a seguire con lo sguardo la nave finché non scomparve nella nebbia che nel frattempo era sopraggiunta. Allora Parker si volse verso di me con un’espressione che mi fece rabbrividire. Sembrava avere una lucidità che non avevo mai notato in lui e, prima ancora che aprisse la bocca, avevo già immaginato cosa avrebbe detto. In poche parole, proponeva che uno di noi si sacrificasse per permettere agli altri di salvarsi. 113 Capitolo 12 Già da tempo avevo idea che forse saremmo giunti a quel punto estremo, il più orribile fra tutti, e in cuor mio avevo giurato di volere morire, in qualunque modo fosse, piuttosto che ricorrere, per sopravvivere, a quella soluzione. E la mia determinazione non era stata scalfita dalle torture della fame. La proposta di Parker non era arrivata alle orecchie di Peters e Augustus, così lo presi da parte e, pregando con tutte le mie forze Dio perché mi desse la forza necessaria per distoglierlo dal suo odioso piano, lo scongiurai in nome di ciò che aveva di più sacro e con tutta l’eloquenza che mi ispirava l’orrore della situazione, di rinunciare alla sua idea e di non comunicarla agli altri. Lui mi ascoltò senza fare la minima obiezione ai miei argomenti e già cominciavo a sperare di averlo convinto, quando, terminato il mio discorso, prese a sua volta la parola dicendo che riconosceva che avevo ragione, che il pensare a quella cosa era certamente l’idea più terribile che potesse partorire la mente di un uomo, ma che aveva sofferto tutto ciò che si può umanamente soffrire e che non era necessario che tutti morissero quando era possibile, anzi probabile, che la morte di uno assicurasse la salvezza degli altri; aggiunse inoltre che sarebbe stata fatica sprecata tentare di dissuaderlo, perché era giunto a quella conclusione prima che avvistassero la nave e che solo per quello aveva aspettato ad avanzare la sua proposta. Io allora lo supplicai, se anche non riuscivo a farlo desistere dalla sua idea, che almeno la rimandasse di un giorno, perché era possibile che un’altra nave venisse in soccorso e ripetei le considerazioni che mi parevano più 114 adatte al caso, che potessero far presa su un uomo dalla natura selvaggia. E lui mi rispose che aveva atteso fino all’ultimo, che non poteva più vivere senza mangiare qualcosa e che, se si rinviava l’esecuzione del suo piano, sarebbe stato troppo tardi, almeno per quanto riguardava lui. Compresi allora che non avrei potuto ottenere nulla con la persuasione e gli parlai con un altro tono. Gli dissi che avevo sofferto meno di loro per le comuni sventure, che in quel momento ero molto più forte, non solo di lui, ma anche di Peters e Augustus; in breve, che ero perfettamente in grado di ricorrere alla forza e che, se avesse fatto il minimo tentativo di comunicare agli altri il suo selvaggio progetto di cannibalismo, non avrei esitato a gettarlo in mare. A queste parole, mi prese per la gola ed estraendo un coltello cercò a più riprese di colpirmi allo stomaco e solo la sua debolezza gli impedì di riuscire nell’impresa. Da parte mia, preso dalla disperazione, lo spinsi contro la murata, deciso a gettarlo in mare, e sfuggì alla morte solo per l’intervento di Peters, che si avvicinò a noi e ci separò, chiedendoci quale fosse il motivo del nostro diverbio, cosicché Parker ebbe il tempo di informarlo di tutto, prima che potessi impedirglielo. L’effetto delle sue parole fu ancora più terribile. Certamente Augustus e Peters, senza dir nulla, nutrivano già da tempo lo stesso spaventoso pensiero di Parker e costui l’aveva solo formulato per primo; condivisero dunque completamente la sua idea e manifestarono la volontà di metterla in pratica senza più indugi. Fino a quel momento avevo sperato che almeno uno di loro avesse il coraggio da stare dalla mia parte e opporsi al115 l’ignobile progetto; con l’appoggio di uno dei miei compagni mi sarei sentito capace di impedirne la realizzazione, ma, abbandonata quella speranza, non mi restava che vegliare sulla mia stessa sicurezza, perché continuare a oppormi voleva dire offrire a quegli uomini, nella loro spaventosa situazione, un pretesto sufficiente per negarmi la possibilità di giocare le mie carte nella tragedia che si sarebbe svolta fra breve. Dissi dunque che acconsentivo alla loro proposta e che chiedevo solamente una dilazione di un’ora per lasciare che la nebbia si diradasse e controllare se la nave che avevamo avvistato si ripresentasse. Con grande difficoltà ottenni alla fine la promessa che avrebbero aspettato e, grazie al vento che si era alzato, la nebbia si dissolse prima che un’ora fosse trascorsa; ma non si vedeva nessuna nave e ci apprestammo a tirare a sorte. È con estrema riluttanza che darò qui il resoconto della spaventosa scena che seguì e di cui nessun avvenimento successivo poté cancellare dalla mia memoria anche il più insignificante dettaglio; il ricordo avvelenerà inesorabilmente tutti gli istanti che mi restano ancora a vivere. Passerò su questa parte della mia storia il più rapidamente possibile, in considerazione degli avvenimenti di cui tratta. Il solo modo che avessimo a disposizione per quella terribile lotteria, in cui giocavamo tutti il nostro turno mortale, era quello delle paglie. Piccoli bastoncini di legno più o meno lunghi potevano svolgerne la funzione e fu stabilito che sarei stato io a reggerli in mano. Fra tutte le tragedie in cui un uomo può incappare, rare sono quelle in cui non faccia ricorso all’istinto di sopravvivenza, un istinto che cresce tanto più è fragile il filo che lo lega alla vita. Ma la faccenda che mi era toccata, così diversa dal 116 tumulto e i pericoli della tempesta o dalla tortura crescente della fame, quella faccenda – ripeto – m’indusse a pensare alle poche probabilità che mi si risparmiasse la più terribile delle morti, terribile per lo scopo stesso cui doveva servire; e ogni particella della forza che mi aveva sostenuto per così lungo tempo si involava rapidamente come piuma in balìa del vento, lasciandomi il miserabile trastullo del più abbietto e miserabile terrore. All’inizio non avevo la forza per spezzare e raccogliere insieme i pezzetti di legno, perché le mie dita rifiutavano quel compito e le ginocchia tremavano convulsamente. Passai velocemente in rassegna i modi più assurdi per evitare di essere complice di quell’odiosa speculazione. Pensai di gettarmi ai piedi dei miei compagni e scongiurarli di risparmiarmi questo triste compito, di scagliarmi su di loro all’improvviso e ucciderne uno perché fosse inutile tirare a sorte; in una parola, pensai a tutto fuorché a compiere ciò che dovevo fare. Finalmente, dopo aver perso non poco tempo in quelle folli considerazioni, fui richiamato a me stesso dalla voce di Peters che mi invitava a toglierli al più presto dalla terribile ansia; ma anche allora non potevo risolvermi a estrarre i pezzetti di legno e indugiai immaginando ogni astuzia per far estrarre quello più corto a uno dei miei compagni di miseria, perché era convenuto che quello cui fosse toccato sarebbe morto per salvare gli altri. Prima però di condannarmi per questa malvagia idea, il lettore provi a mettersi al mio posto. Alla fine, non potendo più differire la cosa e col cuore che mi batteva in petto fino a scoppiare, avanzai verso il castello di prua dove mi aspettavano i miei compagni, tesi una mano e Peters estrasse subito il suo. Il bastoncino non era il più corto, era salvo, e dunque una spe117 ranza in meno per me, una probabilità di salvarmi che svaniva. Cercando di raccogliere il coraggio, porsi i bastoncini ad Augustus, che estrasse immediatamente il suo. Anch’egli era salvo! E poiché ora le probabilità di vita o di morte si bilanciavano perfettamente, sentii crescere in me la ferocia della tigre, l’odio peggiore, più demoniaco contro il mio povero compagno Parker. Ma questo sentimento non durò a lungo e, con un tremito convulso e gli occhi chiusi, gli tesi i due bastoncini rimanenti. Trascorsero forse cinque minuti prima che si risolvesse a scegliere e in quei momenti di angoscia che sembrava spezzarmi il cuore, non aprii mai gli occhi. Finalmente estrasse uno dei bastoncini, ma ignoravo ancora quale fosse; nessuno parlava e io restavo immobile, smarrito, senza osare di scoprire il mio destino alzando gli occhi sul legnetto rimasto. Quando Peters mi toccò la mano, alzai lo sguardo su Parker e mi accorsi subito dalla sua espressione che ero salvo e che egli era il condannato. Rimasi senza fiato e caddi svenuto sul ponte. Ripresi conoscenza in tempo per assistere all’epilogo del dramma, cioè alla morte di colui che ne era stato il protagonista, poiché aveva suggerito l’idea. Non oppose la minima resistenza e, colpito alla schiena da Peters, cadde subito morto. Non descriverò qui l’orrendo banchetto che seguì, né ciò che avvenne nei giorni seguenti perché simili cose si possono soltanto immaginare e le parole non avrebbero mai la forza sufficiente a imprimere nella mente l’orrore della realtà. Dirò soltanto che, avendo calmato la spaventosa sete bevendo il suo sangue e, sbarazzatisi di comune accordo di mani, gambe e testa gettandoli in acqua, facemmo a pezzi e divorammo il resto nei quattro giorni che seguirono. 118 Il 19 luglio venne una pioggia che durò quindici o venti minuti e ci permise di raccogliere un po’ d’acqua con l’aiuto degli stracci che avevamo recuperato con la rudimentale draga dopo la tempesta. Era appena mezzo gallone, ma quella provvista, per quanto modesta, bastò a infonderci energie e speranza, anche se in capo a due giorni eravamo di nuovo allo stremo: il tempo era caldo e gradevole, con nebbie passeggere e delle leggere brezze provenienti da nord o da ovest. Il 22 luglio, mentre eravamo seduti uno di fronte all’altro meditando sulla nostra sorte, improvvisamente un’idea balenò nella mia mente e accese un barlume di speranza. Mi ricordai che, quando avevamo tagliato l’albero di trinchetto, Peters mi aveva passato un’ascia dicendomi di metterla in un luogo sicuro e ricordavo anche che alcuni istanti prima che le ondate scuotessero e sommergessero il brigantino, io l’avevo deposta nel castello di prua, su uno dei quadrati di babordo. Ora pensavo che, se l’avessimo trovata, avremmo potuto praticare un’apertura nel ponte sopra la cambusa e recuperare delle provviste. Quando comunicai il piano ai miei compagni, emisero un debole grido di gioia e, rianimati da quella speranza, ci lanciammo tutti e tre verso il castello di prua. Lì la discesa era più difficile che nella cabina, perché il portello era molto più stretto e il lettore ricorderà che il passamano della scaletta della cabina era stato scardinato, mentre il passaggio al castello di prua era ancora intatto. Quel passaggio non era che un semplice boccaporto di forse tre piedi quadrati, per cui io non esitai a tentare la discesa e, legata una cima intorno alla vita come la prima volta, m’immersi subito. Andai dritto al quadrato e, al 119 primo colpo, riuscii ad afferrare l’ascia, accolta con grida di giubilo dai miei compagni, che vedevano in quel rapido ritrovamento un buon auspicio. Iniziammo quindi a sfondare il ponte con tutta l’energia infusa dalla nuova speranza, alternandoci, Peters e io, perché il braccio ferito impediva ad Augustus di dare mano. Eravamo ancora troppo deboli per lavorare senza prendere fiato e apparve evidente che sarebbero occorse molte ore per aprire un passaggio che permettesse di scendere fino alla cambusa; ma non ci scoraggiammo e, dopo aver lavorato tutta la notte alla luce della luna, il 23 di luglio, all’alba, i nostri sforzi furono finalmente coronati da successo. Peters si offrì di andare per primo e, prese tutte le precauzioni, scese e tornò quasi subito con un vasetto che, con nostra grande gioia, trovammo pieno di olive che furono subito divise tra noi e divorate con avidità. Poi Peters effettuò una nuova immersione che superò di molto le nostre speranze, perché tornò un istante dopo portando un grosso prosciutto e una bottiglia di vino di Madeira. Facemmo attenzione a non berne che un sorso a testa, avendo imparato a nostre spese quali potessero essere gli effetti dell’alcool; il prosciutto era guastato dall’acqua e non si poteva mangiare, tranne una parte di circa due libbre vicina all’osso, che fu suddivisa in tre parti. Peters e Augustus non seppero resistere e ingoiarono in un solo boccone la loro porzione; io invece fui più saggio e, pensando che mi avrebbe aumentato la sete, ne mangiai solo un pezzettino; dopodiché ci riposammo da quella sfibrante fatica. A mezzogiorno ci sentivamo un poco più riposati e in forze e riprendemmo la pesca alle provviste, alternandoci, 120 Peters e io, con più o meno successo, fino al tramonto del sole. In quel lasso di tempo avemmo la fortuna di trovare quattro altri vasetti di olive, un secondo prosciutto, una damigiana con quasi tre galloni di vino di Madeira e, cosa particolarmente gradita, una piccola tartaruga delle Galapagos; alla partenza del Grampus infatti, il capitano Barnard ne aveva portate alcune a bordo, prese dalla goletta Mary Pitts che tornava allora da una caccia alle foche nel Pacifico. Avrò spesso, in seguito, occasione di parlare di questa specie di tartaruga; come il lettore saprà, si trova soprattutto nel gruppo delle omonime isole del Pacifico – così chiamate certamente dal nome locale dell’animale, Gallipago, che significa appunto tartaruga d’acqua dolce. La carne di questo rettile è un alimento eccellente e molto nutritivo e spesso ha garantito la sopravvivenza a migliaia di marinai occupati nella caccia alla balena e in altre spedizioni nel Pacifico. Quella che avevamo avuto la buona fortuna di pescare nella cambusa non era di grandi dimensioni e pesava forse dalle sessantacinque alle settanta libbre. Era una femmina in buone condizioni, abbastanza in carne e la sua sacca conteneva più di due pinte d’acqua limpida e molto dolce. Era per noi un vero tesoro e, inginocchiatici contemporaneamente, ringraziammo ardentemente Dio per questo regalo giunto così a proposito. Durammo molta fatica a far passare l’animale dall’apertura, perché opponeva una strenua e sorprendente resistenza; ci mancò poco che sfuggisse dalle mani di Peters e ricadesse in acqua. Augustus gli passò intorno al collo una cima munita di un nodo scorsoio, riuscendo così a tenerla ferma mentre io saltavo nel buco per aiutare Peters a issare la bestia sul ponte. 121 L’acqua contenuta nella tasca dell’animale fu vuotata con ogni cura nella brocca che, come il lettore ricorda, era stata portata sul ponte in seguito a una scoperta precedente. Fatto ciò, rompemmo il collo di una bottiglia, lasciandovi il tappo, per ricavarne una specie di bicchiere di un po’ meno di un quarto di pinta. Ognuno di noi ne bevve un sorso e fu deciso che quella sarebbe stata la nostra razione quotidiana. Nei tre giorni precedenti il tempo era stato bello e secco, così le coperte che avevamo ripescato nella cabina erano completamente asciutte, come pure i nostri vestiti, e questo ci permise di passare la notte del 23 luglio abbastanza comodi e di dormire tranquillamente, dopo aver cenato con olive, prosciutto e un sorso di vino. Per paura che una parte delle provviste cadesse in mare nella notte, le assicurammo alla meglio intorno a ciò che restava dell’argano. Quanto alla nostra tartaruga, che avevamo cura di conservare viva più a lungo possibile, venne rovesciata sul dorso e assicurata in qualche modo. Capitolo 13 24 luglio. Al mattino ci sentivamo forti e rinfrancati. La situazione rimaneva sempre molto precaria, perché non sapevamo dove ci trovassimo – certamente molto lontani da terra – non avevamo viveri che per una quindicina di giorni, anche razionandoli drasticamente, e l’acqua ci mancava completamente. Ma le sventure che avevamo passato erano talmente orribili che quelle attuali ci sembravano ben piccola cosa. All’alba ci preparammo a riprendere le nostre esplora122 zioni nella cambusa quando iniziò a piovere forte con qualche fulmine e nostra prima preoccupazione fu di raccogliere quell’acqua. Usando il solito straccio la facemmo colare nella brocca e quella era già quasi piena quando un forte vento da nord ci costrinse a smettere. Ci portammo allora a prua e li, legati ai resti dell’albero di trinchetto, attendemmo gli eventi con sangue freddo. A mezzogiorno il vento si era calmato, ma a sera rinforzò e la nave riprese a rollare con violenza. L’esperienza ci aveva però insegnato cosa fare in quella situazione, per cui notte passò relativamente tranquilla, pur essendo investiti da ondate furiose. 25 luglio. Al mattino la tempesta si era molto calmata e trasformata in una leggera brezza, ma avemmo la brutta sorpresa che due vasetti di olive e il nostro prosciutto erano stati spazzati via dalle onde. Decidemmo però di non uccidere ancora la tartaruga e, per pranzo, ci accontentammo di alcune ulive e acqua mescolata a un po’ di vino, trovando così ristoro ed energie, senza intossicarsi con l’alcool, come avvenuto in precedenza. A mezzogiorno il sole ci apparve allo zenith e avemmo la certezza che i venti che avevano spirato a lungo da nord e da nordovest ci avevano spinto verso l’equatore. Verso sera avvistammo molti pescecani, uno dei quali enorme; a un certo punto, quando un’ondata sommerse il relitto, ce lo trovammo quasi in faccia e addirittura Peters fu colpito dalla sua coda. Alla fine un’ondata lo allontanò, con nostro grande sollievo; col mare più tranquillo l’avremmo potuto catturare facilmente. 26 luglio. Essendosi calmato il vento calmato, abbiamo deciso di ricominciare le nostre ricerche nella cambusa, ma dopo tutta quella fatica e con grande disperazione, 123 capimmo che da lì non c’era molto d’aspettarsi, perché il portello della cambusa era sfondato e tutto era filato giù in stiva. 27 luglio. Mare quasi piatto, con un po’ di vento, sempre da nord-ovest. Il sole è divenuto molto caldo dopo mezzogiorno e abbiamo provato un vivo sollievo tuffandoci in mare. Ma occorre fare molta attenzione, perché i pescecani sono sempre nei paraggi. 28 luglio. Sempre bel tempo. Il brigantino continua a essere sbandato in modo inquietante e temiamo che a un certo punto si capovolga completamente. Prendiamo tutte le precauzioni possibili e mettiamo al sicuro la tartaruga, la brocca e le poche olive rimaste. Mare molto piatto per tutto il giorno. 29 luglio. Sempre lo stesso tempo. Il braccio di Augustus comincia a presentare sintomi di cancrena; il malato è preso da sonnolenza e la sua sete è eccessiva. Non possiamo che sfregare il suo viso con un po’ d’aceto tolto dalle olive, e sembra provare molto sollievo. Non potendo far nulla di meglio, triplichiamo la sua razione d’acqua. 30 luglio. Giornata eccessivamente calda, non un alito di vento. Un gigantesco pescecane ha montato la guardia tutta la notte vicino allo scafo. Abbiamo cercato invano di catturarlo con un nodo scorsoio. Augustus è molto peggiorato, tanto per le ferite quanto per la mancanza di cibo appropriato. Ci supplica continuamente di liberarlo da quel supplizio, vuole solo morire. A sera abbiamo cenato con ciò che rimaneva delle olive, ma l’acqua dalla brocca era talmente putrida che abbiamo potuto berla senza mischiandola col vino, dopodiché abbiamo deciso di uccidere la tartaruga l’indomani. 124 31 luglio. Dopo una notte d’ansia e di stress, causate dallo sbandamento della nave, siamo costretti a uccidere e fare a pezzi la tartaruga, che ci sembra più piccola di quanto immaginato, anche se in buone condizioni. Ne abbiamo ricavato non più di dieci libbre di carne e, perché durasse il più a lungo possibile, l’abbiamo tagliata a strisce sottilissime che abbiamo messo nei vasetti e nella bottiglia che avevamo conservato e vi abbiamo versato sopra l’aceto delle olive. Facendo un calcolo approssimativo, abbiamo da parte tre libbre di carne di tartaruga e siamo ben decisi a non toccare questa provvista prima d’aver consumato il resto; poiché la nostra razione giornaliera è quattro once circa di carne, dovremmo avere da mangiare per almeno dodici giorni. Verso sera è venuta una forte pioggia accompagnata da lampi e da violenti colpi di tuono; ma è durata poco e abbiamo potuto raccogliere solo mezza pinta d’acqua che abbiamo lasciato, di comune accordo, ad Augustus, che sembra ormai giunto agli estremi. Man mano che raccoglievamo l’acqua lui la beveva attraverso il telo che avevamo disteso su di lui in modo che l’acqua gli colasse in bocca; infatti non avevamo più un recipiente disponibile, a meno di vuotare il vino della damigiana, o l’acqua marcia della brocca, cosa che avremmo fatto se continuava a piovere. Il malato non sembra aver provato grande sollievo: il braccio è diventato tutto nero, dal pugno fino alla spalla, i piedi sono ghiacci e temiamo di vederlo esalare l’ultimo respiro da un momento all’altro. È dimagrito in modo incredibile; lui che pesava centoventisette libbre alla partenza da Nantucket, ora non ne pesa più di quaranta o cinquanta al massimo. Gli occhi sono profondamente in125 cavati nelle orbite e appena visibili, la pelle delle gote è talmente tesa che non può masticare niente e nemmeno buttar giù un liquido se non con grande difficoltà. 1 agosto. Il tempo si mantiene molto calmo, il sole è soffocante e soffriamo atrocemente per la sete, perché l’acqua della brocca è ormai imbevibile, tutta mangiata dai vermi: tuttavia, con grande ripugnanza, siamo riusciti a ingoiarne un po’ mischiandola al vino, ma non per questo la sete si è calmata. Proviamo solo un po’ di sollievo tuffandoci in mare, ma non possiamo abusare di questo espediente per la costante presenza di pescecani. Augustus è chiaramente agonizzante; non possiamo far nulla per salvarlo e non sappiamo cosa fare per rendere meno atroci i suoi tormenti. A mezzogiorno spira fra violente convulsioni, dopo essere rimasto muto e immobile per parecchie ore; la sua morte ci ha portato i più cupi presentimenti e prodotto su di noi un’impressione così forte che siamo rimasti tutto il giorno vicino al cadavere senza fare un movimento, senza scambiarci una parola, se non a voce molto bassa. Solo al calar della notte ci siamo decisi finalmente ad alzarci e a gettare il cadavere fuoribordo. Il suo aspetto era così ripugnante e la decomposizione già così avanzata che quando Peters lo sollevò una gamba del morto gli restò in mano. Quando tutta quella carne putrefatta fu gettata in mare, il chiarore fosforescente che circondava la nave illuminò sette o otto enormi pescecani e, quando s’impadronirono della miserabile preda, lo scricchiolio di quei denti formidabili si sarebbe potuto udire alla distanza di un miglio. A quel rumore ci sentimmo stringere il cuore da un orrore indicibile. 2 agosto. La stessa calma spaventosa, lo stesso caldo; l’alba ci trova in uno stato di grande depressione e de126 bolezza fisica, perché l’acqua della brocca è inutilizzabile; non è che una spessa massa di gelatina, un miscuglio ributtante di vermi e melma, che abbiamo gettato in mare, e, dopo averla risciacquata ben bene nell’acqua marina, vi abbiamo versato un po’ d’aceto prelevato dai nostri vasetti con la carne di tartaruga. La sete è diventata quasi intollerabile: abbiamo cercato di spegnerla col vino, ma era come gettare olio sul fuoco e ci siamo pesantemente ubriacati; abbiamo pure tentato di alleviare la sofferenza mescolando al vino dell’acqua di mare, ma quel miscuglio ci ha provocato nausee così spaventose che non abbiamo più provato. La giornata è trascorsa a spiare con ansia il momento in cui potevamo bagnarci, ma invano, perché il relitto del brigantino era circondato da ogni lato da una schiera di pescecani, gli stessi senza dubbio che la sera precedente avevano divorato il nostro povero amico, e che attendevano, da un momento all’altro, venisse offerto loro un nuovo banchetto. Questa constatazione ci ripiombò nel peggiore sconforto, perché non potevamo rinunciare a quell’unico conforto in quelle condizioni così spaventose. Del resto, anche sul ponte non eravamo più sicuri, poiché il più piccolo passo falso, il più imprudente movimento potevano abbandonarci in balìa di questi mostri voraci, che si avvicinavano sotto vento e che le nostre grida e i nostri gesti non sembravano spaventare. Peters aveva assestato un colpo d’ascia a uno dei più grossi, ferendolo seriamente, ma questo continuava la sua caccia. Al tramonto il cielo si è annuvolato, ma con nostra disperazione le nuvole sono passate senza scaricare pioggia e il tormento della sete e la paura dei pescecani ci hanno portato una lunga notte d’insonnia. 127 3 agosto. Nessuna speranza di sollievo. Il brigantino è sempre più sbandato e non possiamo più stare in piedi. Abbiamo sistemato in un unico punto il vino e i vasetti con la tartaruga, in modo da non perderli nel caso la nave facesse altri bruschi movimenti, e a questo scopo abbiamo recuperato due grossi chiodi e li abbiamo piantati con l’ascia nella chiglia sotto vento, appendendoci le provviste. La sete continua a tormentarci e non troviamo sollievo, tanto più che non possiamo bagnarci per via dei pescecani che non ci hanno lasciato mai in pace. 4 agosto. Poco prima dell’alba ci siamo accorti che il brigantino cominciava a volgere la chiglia in alto e abbiamo cercato di evitare di essere travolti. La rotazione si è svolta prima lentamente e gradualmente, permettendoci di risalire dalla parte del vento, perché ci eravamo premurati di assicurare delle cime ai chiodi cui erano appese le nostre provviste. Ma non avevamo previsto l’accelerazione del movimento, che in breve ci scaraventò in mare, lasciandoci a dibatterci sotto l’enorme chiglia, rovesciata su di noi. Cadendo ero stato costretto ad abbandonare la cima e, vedendomi immerso sotto il brigantino, completamente sfinito, persi ogni speranza e mi rassegnai a morire. Ma la nave continuava e oscillare muovendo l’acqua, che mi riportò in superficie e mi trascinò a circa venti yard. Peters era scomparso. Ad alcuni passi da me galleggiava un barile d’olio e vicino altri oggetti, provenienti dal brigantino. Temevo soprattutto i pescecani, perché sapevo che dovevano essere vicini e, per allontanarli da me, battevo l’acqua coi piedi e le mani, producendo molta schiuma, cercando al contempo di raggiungere il relitto. Ed è a 128 quest’espediente, così semplice e naturale, che certamente devo la mia salvezza, perché il mare intorno al brigantino era talmente infestato da questi mostri prima che cadessimo in acqua, che avrei dovuto essere attaccato. Ebbi invece la fortuna di arrivare incolume, ma, privo di forze, non avrei mai potuto scalare la chiglia senza il provvidenziale intervento di Peters che, aggrappato dalla parte opposta, mi lanciò una di quelle cime che avevamo assicurato ai chiodi. Appena sfuggiti agli squali, un altro pericolo ci si prospettò, non meno imminente e spaventoso, quello di morire di fame, perché le provviste erano state strappate dalla furia dell’acqua, malgrado i nostri sforzi per assicurarle. Di fronte a quell’ennesima sventura, demmo libero sfogo alla nostra disperazione, piangendo come bambini, senza trovare la forza di consolarci l’un l’altro. Una tale debolezza parrà forse inverosimile a quelli fra i nostri lettori che non si sono mai trovati in simili circostanze, ma bisogna pensare alle tante disgrazie che avevamo dovuto sopportare e che ci avevano fatto perdere il lume della ragione. Io ho affrontato in seguito pericoli altrettanto gravi, e ho sempre resistito con coraggio alle avversità; quanto a Peters, il lettore dovrà facilmente convenire che aveva dato prova di uno stoicismo incredibile, che compensava e giustificava la depressione e la debolezza presente. Il capovolgimento del brigantino e la perdita del vino e della tartaruga – ripeto ancora una volta – ci avevano sprofondato in una tremenda angoscia, tanto più che con essi era scomparso il telo che ci serviva a raccogliere la pioggia, come pure la brocca in cui la conservavamo. Trovammo però lo scafo e la chiglia della nave rivestiti da uno spesso strato di conchiglie, che si rivelarono un ali129 mento saporito e di grandi qualità nutritive. Così la sventura che ci aveva tanto angosciato si traduceva per noi in un bene, perché ci forniva cibo a sufficienza per un mese, a condizione che ne facessimo uso moderato; adesso, inoltre, stavamo in una posizione più comoda e meno pericolosa rispetto a prima. L’impossibilità di bagnarci però ci faceva dimenticare i vantaggi dalla nostra nuova situazione; volendo sfruttare la prima pioggia che fosse caduta, ci togliemmo le camicie per usarle come avevamo fatto col telo, sperando di raccoglierne almeno una mezza brocca per volta. Ma la giornata trascorse senza che una nuvola facesse la sua comparsa e la tortura della sete divenne presto intollerabile. Nel giro di un’ora Peters riuscì ad addormentarsi, seppure di un sonno agitato, ma per mela sofferenza era tale che non potei mai chiudere occhio. 5 agosto. Quel giorno si alzò una leggera brezza che ci spinse verso un grande banco di alghe, dove avemmo la fortuna di pescare undici piccoli granchi che ci procurarono pasti davvero deliziosi. La loro testa era tenerissima, cosicché potevamo mangiarli tutti interi; inoltre, stimolavano la sete molto meno delle conchiglie che avevamo trovato nella chiglia. Fra quelle alghe non si vedevano squali, così potemmo fare un bagno rinfrescante che portò sollievo alla sete. La sera eravamo più tranquilli e potemmo dormire un po’. 6 agosto. Il cielo fu veramente benevolo con noi quel giorno, con una pioggia che durò senza interruzione da mezzogiorno fino a notte e, davanti a quell’insperata fortuna, rimpiangemmo amaramente la perdita della brocca e della damigiana, perché avremmo potuto riempire uno o anche due recipienti. Ma almeno potemmo finalmente 130 soddisfare la sete che ci tormentava e, rianimati e contenti, lasciammo che le nostre camicie s’impregnassero d’acqua, per poi torcerle in modo da far scivolare in bocca quel benedetto liquido. Tutta la giornata trascorse in quest’occupazione. 7 agosto. Appena spuntata l’alba avvistammo, tutti e due contemporaneamente, una vela che avanzava verso di noi da est e salutammo la prodigiosa apparizione con un lungo, ma debole grido di gioia; poi cercammo di fare tutti i segnali possibili, agitando le camicie, saltando per quanto ci permettesse lo sfinimento, gridando anche con tutta la forza dei nostri polmoni, sebbene la nave fosse a non meno di quindici miglia. Continuava ad avvicinarsi e presto ci rendemmo conto che se avesse tenuto la stessa rotta, sarebbe passata abbastanza vicino da poterci vedere e venire a salvarci. Infatti, un’ora dopo la grandiosa scoperta, potemmo scorgere distintamente gli uomini dritti sul ponte; si trattava di una lunga e bassa goletta che sembrava tuttavia contare un equipaggio molto numeroso. Eravamo molto agitati perché temevamo che non ci vedessero, o che avessero deciso lasciarci morire sul nostro relitto. Sarebbe stato certamente un diabolico crimine; ma per quanto possa sembrare inverosimile e inumano, una tale scelleratezza è stata compiuta tante volte in mare, da esseri appartenenti a pieno titolo alla razza umana; io stesso potrei citare numerosi esempi, se non temessi di allontanarmi troppo dal soggetto del mio racconto. Grazie a Dio, in quell’occasione i nostri timori furono smentiti e presto vedemmo gli uomini agitarsi sul ponte della nave, che subito issò la bandiera britannica e, stringendo il vento, virò dritta verso di noi. Mezz’ora dopo 131 eravamo nella cabina della goletta Jane Guy, di Liverpool, comandata dal capitano Guy e partita per la caccia alla foca e per ragione di commercio verso i mari del sud e le isole del Pacifico. Capitolo 14 La Jane Guy era una piccola goletta di forse centottanta tonnellate di stazza. Con la prua particolarmente filante, mi sembrò il veliero più veloce che avessi mai visto, a vele spiegate e con vento moderato. Le sue caratteristiche, in particolare il modesto pescaggio, non erano molto adatte all’uso cui era stata destinata. Per quel tipo di spedizione sarebbe stata più adatta un’imbarcazione più grande, con un tonnellaggio dalle trecento alle cinquecento tonnellate. Avrebbe dovuto avere la struttura di un brigantino, diversa da quella delle navi dei mari del sud. Avrebbe dovuto contare su un altro armamento, ancore e cavi molto più robusti e, soprattutto, cinquanta o sessanta marinai robusti ed esperti. L’equipaggio della Jane Guy, al contrario, si componeva di trenta-trentacinque uomini, più il capitano e il secondo, tutti senza dubbio bravi marinai, ma non era – ripeto – né bene armata né bene equipaggiata come avrebbe dovuto esigere un comandante esperto dei rischi di quel mestiere. Il capitano Guy era uomo molto gentile e affabile, con grande esperienza di navigazione nei mari del sud, dove aveva passato gran parte della sua vita. Gli mancavano però l’energia e l’intraprendenza necessarie in quel genere di viaggi. Era comproprietario della nave e aveva 132 poteri discrezionali per caricare tutte le merci che ritenesse opportuno. Aveva a bordo specchietti, fiammiferi, asce, martelli, forbici, lime, rasoi, chiodi e una congerie di altri strumenti e gingilli che si usava portare, come merce di scambio in quelle spedizioni. La goletta era partita da Liverpool il 10 luglio, aveva attraversato il tropico del Cancro il 25, a 20° di longitudine ovest e il 29 luglio era approdata all’isola di Sal (una delle isole di Capo Verde), dove aveva imbarcato sale e altre provviste necessarie alla spedizione. Il 3 agosto era ripartita, facendo rotta a sud-ovest in direzione del Brasile, passando l’equatore tra i 28 e i 30° di longitudine ovest. Questa è la rotta normalmente seguita dalle navi che dall’Europa vanno verso il Capo di Buona Speranza, o da quelle che si dirigono, per questa via, alle Indie Orientali, perché ciò permette di evitare le correnti contrarie molto forti lungo la costa della Guinea. È la rotta migliore perché si trovano sempre venti da ovest col favore dei quali si raggiunge velocemente il capo. L’intenzione del capitano Guy era di fare il primo scalo alla terra di Kerguelen, ignoro per quale ragione. Il giorno in cui la goletta ci raccolse era al traverso di Capo San Rocco, a 31° di longitudine ovest, e di conseguenza noi avevamo probabilmente percorso, da nord a sud, non meno di venti gradi. A bordo della Jane Guy venimmo accolti con tutta l’umanità che necessitava la nostra drammatica situazione e in capo a una quindicina di giorni, durante i quali tenemmo rotta costante verso sud-est, con un buon vento e bel tempo, io e Peters ci riprendemmo completamente dalle sventure e dalle orribili sofferenze patite, cosicché il loro ricordo ci apparve presto come 133 un brutto incubo da cui ci eravamo finalmente svegliati, piuttosto che fatti realmente accaduti. Il viaggio continuò per più settimane senza fatti di rilievo, se non per l’incontro di qualche baleniera, o, più spesso, di balene o capodogli. Il 16 settembre, vicino al Capo di Buona Speranza, la goletta incontrò le prime serie difficoltà dalla partenza da Liverpool. In quel tratto di mare, ma ancora di più a sud e a est del capo – noi invece ci trovavamo ancora a ovest – i naviganti sono spesso travolti da tempeste da nord, di una violenza spaventosa, tempeste che generano ondate enormi e caratterizzate da colpi di vento improvvisi e di una violenza incredibile. Erano quasi le sei del mattino quando giunse il vento da nord, come di consueto, annunciando una forte burrasca; alle otto si alzò il mare peggiore che avessi mai visto; fu necessario ridurre quanto più possibile le vele, ma la goletta avanzava a fatica, rivelandosi poco adatta a reggere quelle condizioni. Prima del tramonto, il nero che spiavamo con inquietudine si allargò a sud-ovest e un’ora dopo vedemmo il fiocco a prua abbattersi e penzolare a ridosso dell’albero di maestra. Non erano passati neanche due minuti che, nonostante tutte le precauzioni, ci trovammo improvvisamente sbandati su un fianco e un finimondo di acqua e schiuma si rovesciò su di noi. La raffica da sud-ovest durò poco e per fortuna ci raddrizzammo senza gravi danni. Il capitano Guy disse, a ragione, che avevamo evitato un disastro solo per un miracolo. Il 13 ottobre avvistammo l’isola del Principe Edoardo, a 46° 53’ di latitudine sud e a 37° 46’ di longitudine est; due giorni dopo giungemmo nei pressi dell’isola della Posses134 sione e doppiammo le isole Crozet, a 42° 59’ di latitudine sud e a 48° di longitudine est; il 18 ottobre raggiungemmo l’isola di Kerguelen o della Desolazione, nell’Oceano Indiano meridionale e gettammo l’ancora nel porto di Christmas, in quattro braccia d’acqua. Quest’isola, o piuttosto quest’arcipelago, a ottocento leghe circa dal Capo di Buona Speranza, fu scoperta nel 1772 dal barone di Kerguelen, un francese che s’immaginò che quella terra facesse parte di un vasto continente australe e pubblicò nel suo paese un memoriale che sollevò all’epoca grande curiosità. L’anno dopo il governo francese, interessato a quella scoperta, incaricò il barone di tornare da quelle parti per approfondire le sue ricerche e fu allora che l’errore venne accertato. Nel 1777 il capitano Cook raggiunse lo stesso arcipelago e battezzò l’isola più grande col nome di isola della Desolazione, nome perfettamente azzeccato. Appena sbarcato, il viaggiatore è quasi tentato di supporre il contrario perché, da settembre a marzo, le colline dell’isola sono coperte da una lussureggiante vegetazione dovuta in gran parte a una piccola pianta simile alla sassifraga che si propaga con facilità a queste latitudini. A parte questa pianta, non si trovano altre specie vegetali in tutta l’isola e solo vicino al porto si può vedere un po’ d’erba rinsecchita, mista a licheni, che danno al paesaggio il desolante aspetto di un luogo montagnoso, sebbene i rilievi siano solo colline. Le cime sono coperte di neve, dal principio alla fine dell’anno, e la costa presenta parecchi porti, di cui il migliore è quello di Christmas. È questo il primo porto che s’incontra nella parte nord orientale dell’isola, dopo aver passato il Capo François, la cui profilo caratteristico contrassegna il porto. 135 Procedendo verso est si trova Wasp Bay, una piccola baia circondata da ogni parte. In fondo a Wasp-Bay si trova un piccolo ruscello, in cui è facile fare provvista di un’acqua buonissima. Nell’isola di Kerguelen si trovano alcune specie di foche a pelo lungo e abbondano anche gli elefanti marini; anche i pinguini sono numerosi, specialmente il pinguino reale, così chiamato in ragione delle sue dimensioni e del suo bel piumaggio. I pinguini reali che avemmo occasione di vedere a Kerguelen erano un po’ più grossi delle oche. Le altre specie sono il pinguino macaoni, il jackass, e il rookerg. Oltre al pinguino, si trovano anche molti altri uccelli, fra cui la procellaria azzurra, l’alzavola, la gallina di Port Egmont, la rondine di mare, la procellaria della tempesta, la grande procellaria, l’albatros, e così via. Il mattino stesso del nostro arrivo al porto di Christmas, il signor Patterson fece calare in mare le barche e, sebbene non fosse ancora la stagione giusta, partimmo per la caccia alle foche, lasciando il comandante e un suo giovane parente in un punto della costa occidentale, da dove dovevano partire per una missione all’interno dell’isola, di cui non conoscevo la natura. Il capitano Guy aveva con sé una bottiglia con una lettera sigillata e s’incamminò dalla spiaggia verso una delle alture. Appena lo perdemmo di vista, Peters e io, nella barca con il secondo, ci mettemmo alla ricerca delle foche, e restammo in quella zona per circa tre settimane, durante le quali esplorammo tutta la costa, non solo dell’isola di Kerguelen, ma anche delle altre piccole isole vicine. I nostri sforzi, tuttavia, non dettero grandi risultati: incontrammo, è vero, molte foche, ma con grande fatica riuscimmo a mettere insieme solo trecentocinquanta 136 pelli. Gli elefanti di mare erano molto numerosi, particolarmente sulla costa occidentale dell’isola principale, ma non si riuscimmo a ucciderne più di una ventina. Il 21 ottobre tornammo a bordo della goletta, dove trovammo il capitano Guy e suo nipote che ci fecero un quadro ben poco seducente dell’interno dell’isola, che descrissero come una delle più cupe e sterili regioni della terra. Avevano trascorso due notti nell’isola per un malinteso col secondo, che non aveva inviato in tempo una scialuppa per riportarli a bordo. Capitolo 15 Il 12 novembre noi salpammo da Christmas e tornammo verso ovest, lasciando a babordo l’isola Marion, una delle isole dell’arcipelago di Crozet. Dopo aver doppiato l’isola del Principe Edoardo, mettemmo la prua a nord e giungemmo, quindici giorni dopo, all’arcipelago di Tristan d’Acunha. La più grande delle isole, che porta questo nome, ha una circonferenza di quindici miglia ed è così alta che può essere avvistata da una distanza di ottanta-novanta miglia. Un grande altipiano si estende fin verso il centro dell’isola, su cui si erge un altissimo cono vulcanico, simile al picco di Tenerife. La base di questo cono è coperta dalla vegetazione, ma la parte superiore è costituita da roccia brulla e coperta di neve per gran parte dell’anno. Sulla costa nord-occidentale si trova una baia, con una spiaggia di sabbia nera dove le navi possono facilmente approdare. Qui è facile procurarsi dell’acqua e pescare merluzzi e altri pesci. L’altra isola più grande, e la più occidentale dell’arcipe137 lago, si chiama Inaccessibile; le coordinate sono 37° 17’ di latitudine sud e 12° 24’ di longitudine ovest; conta sette o otto miglia di circonferenza e la costa è arida e brulla da ogni lato. L’isola di Nightingale, la più piccola e la più meridionale, si trova a 37° 26’ di latitudine sud e a 12° 12’ di longitudine ovest; il territorio è accidentato e sterile, attraversato da una profonda vallata. Le coste di quest’isola, durante la stagione, abbondano di leoni ed elefanti marini e di foche, oltre a una grande varietà di uccelli oceanici. Nelle sue acque incrociano molte balene. Il 20 novembre, con tempo variabile, riprendemmo quindi la nostra rotta in direzione sud-ovest, dove si doveva trovare la più meridionale delle isole dell’arcipelago; non scorgendo intorno a noi alcuna terra, continuammo verso ovest, seguendo il parallelo a 53° sud fino a 50° di longitudine, ovest. Mettemmo poi la prua a nord fino al 52° di latitudine sud, poi verso est fino alla costa di Georgia, seguendo questo meridiano fino alla latitudine da cui eravamo partiti. Facemmo allora più diagonali attraverso l’area di mare che avevamo circoscritto, effettuando minuziosi rilevamenti per la durata di tre settimane con un tempo sereno e piacevole. Ci convincemmo così che, se in epoche precedenti erano esistite terre da quelle parti, adesso non ne restava più traccia Capitolo 16 In origine il capitano Guy, dopo aver soddisfatto la sua curiosità sulle isole Auroras, intendeva doppiare lo stretto di Magellano e risalire lungo la costa occidentale della Patagonia, ma certe informazioni ottenute a Tristan 138 d’Acunha lo convinsero a fare rotta verso sud, nella speranza di imbattersi in alcuni isolotti che dovevano trovarsi a 60° di latitudine sud, 41° 20’ di longitudine ovest. Se non avessimo scoperto quelle terre e se il tempo fosse stato favorevole, si riprometteva di puntare verso il Polo sud. Così il 12 dicembre salpammo in quella direzione. Il diciotto raggiungemmo il punto indicato da Glass e incrociammo per tre giorni nella zona, senza scorger traccia delle isole di cui aveva parlato. Ripartiti il 21, visto il tempo eccezionalmente sereno, riprendemmo il viaggio verso sud, decisi a spingerci il più possibile lungo quella rotta. Prima di inoltrarmi in questa parte del racconto ritengo opportuno, per quei lettori che hanno prestato scarsa attenzione al susseguirsi delle scoperte in quelle regioni, dare un breve resoconto dei rarissimi tentativi finora compiuti per raggiungere il Polo sud. Quello del capitano Cook è il primo del quale si abbia una relazione dettagliata. Nel 1772 salpò sul Resolution verso sud, accompagnato dall’Adventure, sotto il comando del tenente Furneaux. In dicembre era giunto a 55° di latitudine sud e 26° 57’ di longitudine est. Da lì in poi cominciò a incontrare banchi di ghiaccio di piccole dimensioni, spessi da otto a dieci pollici, che si muovevano da nord-ovest verso sud-est. Il ghiaccio si presentava anche in grandi blocchi, attraverso i quali le navi faticavano ad aprirsi un varco. Dati i moltissimi uccelli che vennero avvistati e grazie anche ad altri indizi, il capitano Cook credette di essere nelle immediate vicinanze della terraferma. Con un freddo intenso continuò verso sud, fino a raggiungere il 64mo parallelo, a 38° 14’ di longitudine est. I venti erano ora moderati e il clima si mantenne mite per cinque giorni, con il ter139 mometro fermo sui 2°F. Nel gennaio 1773 le navi superarono il Circolo polare antartico, ma non poterono spingersi più a sud; infatti, una volta raggiunta la latitudine di 67° 15’, la strada era sbarrata senza rimedio da un’enorme distesa di ghiaccio, che si estendeva su tutto l’orizzonte meridionale, a perdita d’occhio. Il ghiaccio era ovunque. Enormi banchi, che si estendevano per miglia e miglia, formavano una massa compatta che s’innalzava di diciotto o venti piedi sul livello del mare. La stagione inoltrata e l’assoluta impossibilità di aggirare questi ostacoli costrinsero il capitano Cook, sia pure controvoglia, a riprendere la rotta verso nord. Nel novembre successivo riprese comunque l’esplorazione dell’Antartico. A 59° 40’ di latitudine s’imbatté in una forte corrente che portava a sud. A dicembre, quando le navi avevano raggiunto 67° 31’ di latitudine e 142° 54’ di longitudine ovest, il freddo si fece più intenso, accompagnato da nebbia e da temporali. Anche qui c’erano tantissimi uccelli: albatros, pinguini e soprattutto procellarie. A 70° 23’ di latitudine le navi incontrarono alcuni enormi isole di ghiaccio e poco dopo, verso sud, furono avvistate nuvole bianche come la neve, segno che la banchisa era vicina. A 71° 10’ di latitudine, 106° 54’ di longitudine ovest, gli esploratori trovarono il cammino sbarrato da un immenso mare di ghiaccio, che si estendeva per tutto l’orizzonte meridionale. A sud, quella distesa continuava per un miglio circa; a nord era tutta frastagliata, ma talmente compatta da risultare invalicabile. Oltre questa fascia, la superficie ghiacciata continuava a essere relativamente liscia ancora per un buon tratto, innalzandosi poi all’orizzonte estremo in gigantesche catene di montagne di ghiaccio, 140 che s’innalzavano una sull’altra. Secondo il capitano Cook questa distesa così vasta raggiungeva il Polo sud, o forse si trovava collegata a un continente. J.N. Reynolds, che con grandi sforzi e perseveranza riuscì a organizzare una spedizione nazionale per esplorare anche quelle regioni, parlando del tentativo del Resolution disse: «Non ci sorprende che il capitano Cook non sia riuscito a oltrepassare i 71° 10’, mentre siamo stupiti che abbia raggiunto quel punto a 106° 54’ di longitudine ovest. La penisola di Palmer, che si trova a sud delle Shetland, a 64° di latitudine, a sud e a ovest si estende ben oltre i limiti raggiunti da qualunque navigatore. Cook puntava su questa terra, quando la sua avanzata venne fermata dal ghiaccio; riteniamo ciò inevitabile, a quella latitudine, anche al 6 di gennaio, e dunque quando la stagione è all’inizio; né ci sorprenderebbe che una parte delle montagne ghiacciate descritte fosse unita alla parte continentale della penisola di Palmer, o a qualche altro territorio situato più avanti a sud-ovest». Nel 1803 i comandanti Kreutzenstern e Lisiausky ricevettero l’incarico dallo zar Alessandro di Russia di circumnavigare il globo. Nei loro tentativi di spingersi a sud arrivarono fino ai 59° 58’, 70° 15’ di longitudine ovest, dove trovarono delle forti correnti che li spingevano a est. Di balene ce n’erano in quantità, ma di ghiaccio non ne videro affatto. Reynolds, a proposito di questo viaggio, fa notare che se Kreutzenstern fosse arrivato in quella zona a stagione meno tarda, avrebbe senza dubbio trovato del ghiaccio, ma quando toccò la latitudine sopra citata era marzo. I venti più forti, che soffiano in quel periodo da sud-ovest, con l’aiuto delle correnti avevano spinto i lastroni di ghiaccio nella re141 gione glaciale delimitata a nord dalla Georgia, a est dalla Terra di Sandwich e dalle Orcadi australi, e a ovest dalle Shetland australi. Con due piccole navi, nel 1822 il capitano James Weddell della Marina Britannica riuscì ad andare più a sud di qualsiasi altro navigatore in precedenza, senza incontrare particolari difficoltà. Riferisce che, pur trovandosi in più occasioni prigioniero del ghiaccio prima del 72mo parallelo, una volta raggiuntolo non ne vide più nemmeno un cristallo; arrivato a 74° 15’ di latitudine era sparita anche la banchisa e restavano soltanto tre isole di ghiaccio. Per quanto comparissero numerosi stormi di uccelli e altri segni, che di norma indicano la presenza di terraferma, e per quanto l’uomo di guardia in coffa avesse avvistato coste sconosciute a sud delle Shetland, Weddell stranamente si mostrò scettico sull’esistenza di terre nelle regioni antartiche. L’11 gennaio 1823 il capitano Benjamin Morrell, al comando della goletta americana Wasp, salpò dalla Terra di Kerguelen con l’intenzione di spingersi a sud quanto più possibile. Il primo febbraio raggiungeva i 64° 52’ di latitudine sud e i 118° 27’ di longitudine est. Il brano che segue è tratto dal suo diario, in quella data: «Poiché ben presto la brezza rinfrescò in un vento da undici nodi, sfruttammo questa possibilità per dirigerci verso ovest; convinti però che, avanzando verso sud oltre i 64° di latitudine, avremmo trovato quantità di ghiaccio sempre minore, puntammo in quella direzione, superando così il Circolo Antartico a 69° 15’ est. A questa latitudine non c’era banchisa, e di isole di ghiaccio se ne vedevano pochissime». In data 14 marzo si legge poi: «Il mare era ormai completamente libero dalla banchisa e si vedevano non più 142 di una dozzina di isole di ghiaccio. La temperatura dell’aria e dell’acqua intanto era di almeno tredici gradi superiore alla massima (dunque più mite) che avessimo mai registrato tra il 60mo e il 62mo parallelo sud. Ci trovavamo allora a 70° 14’ di latitudine sud; la temperatura dell’aria era di otto gradi, quella dell’acqua di sei. In quel punto calcolai una variazione di 14° 27’ verso est per azimut. Ho superato il Circolo Antartico diverse volte, all’altezza di vari meridiani, verificando nelle varie misurazioni che sia la temperatura dell’aria sia quella dell’acqua aumentavano gradualmente man mano che procedevo oltre il 65° di latitudine sud, e che la variazione diminuiva nella medesima proporzione. A nord di questa latitudine invece, più o meno tra il 60° e il 65° sud, eravamo spesso in gran difficoltà a trovare un varco per la nave tra le immense e numerosissime isole di ghiaccio, alcune delle quali misuravano uno e forse due miglia di circonferenza, e più di cinquecento piedi di altezza sul livello del mare». A bordo, il capitano Morrell aveva quasi terminato l’acqua e il combustibile; trovandosi anche senza gli strumenti adatti, e in una stagione avanzata, nell’impossibilità di spingersi ancora verso ovest fu costretto a tornare indietro, anche se davanti a lui il mare si stendeva aperto. A suo parere, se quelle cause di forza maggiore non l’avessero costretto al rientro, avrebbe potuto arrivare, se non proprio fino al Polo, almeno sino all’85mo parallelo. Ho riportato le sue opinioni in merito, dando loro un certo spazio, in modo che il lettore possa giudicare fino a che punto saranno confermate dalle mie esperienze future. Il capitano Briscoe, al servizio degli Enderby, armatori londinesi di baleniere, nel 1831 salpò con il brigantino 143 Lively alla volta dei mari del sud, avendo come scorta il cutter Tula. Il 28 febbraio, a 66° 30’ di latitudine sud e 47° 13’ di longitudine est, avvistò terra, «distinguendo in modo chiaro tra le nevi le vette nere di una catena di montagne che andava in direzione est-sud-est». Rimase in quei paraggi per l’intero mese seguente, ma il maltempo gli impedì di avvicinarsi a meno di dieci leghe dalla costa. Data la stagione, non potendo fare altre scoperte, tornò a nord, per svernare nella Terra di Van Diemen. All’inizio del 1832 si spinse ancora a sud, avvistando terra a sud-est il 4 febbraio, a 67° 15’ di latitudine e 69° 29’ di longitudine ovest. Si accorse presto che si trattava di un’isola vicina al corpo principale della terra da lui stesso scoperta e, riuscito a sbarcare il ventuno del mese, ne prese possesso in nome di Guglielmo IV, chiamandola isola Adelaide in onore della regina d’Inghilterra. La Royal Geographical Society di Londra, non appena ottenute le informazioni sui particolari della scoperta, giunse alla conclusione che «un tratto ininterrotto di terra si estende da 47° 30’ di longitudine est fino a 69° 29’ di longitudine ovest, tra il 66mo e il 67mo parallelo di latitudine sud». Intorno a queste conclusioni, Reynolds osserva: «Non concordiamo sulla loro esattezza, né le scoperte di Briscoe consentono di arrivare a simili conclusioni. Fu proprio entro tali limiti che Weddell avanzò verso sud, lungo un meridiano a est della Georgia, della Terra di Sandwich, delle Orcadi australi e delle isole Shetland». La mia esperienza diretta darà ulteriori prove dell’infondatezza delle conclusioni raggiunte dalla Society. A partire da questo resoconto, nel quale sono stati citati i principali tentativi di giungere fino alle più estreme latitudini meridionali, si capirà che prima del viaggio della 144 Jane Guy rimanevano quasi trecento gradi di longitudine lungo i quali il Circolo Antartico non era mai stato percorso. Un ampio territorio attendeva dunque che noi lo esplorassimo e ascoltai quindi con profondo interesse il capitano Guy dichiarare le sue intenzioni di puntare, coraggiosamente, verso sud. Capitolo 17 Dopo aver dunque rinunciato alla scoperta delle isole, per la durata di quattro giorni ci spingemmo verso sud, senza incontrare ghiacci: il 26 dicembre a mezzogiorno, a 63° 23’ di latitudine sud e a 41° 25’ di longitudine ovest, scorgemmo alcune grandi isole e una distesa di ghiaccio di media estensione; il vento soffiava da sud-ovest o da nord-est, ma molto debole; i venti da ovest erano rari e sempre accompagnati da pioggia; avevamo tutti i giorni la neve e il 27 dicembre il termometro segnava 35°F. 1° gennaio 1828. Oggi siamo completamente circondati dai ghiacci e le prospettive non sono per niente rassicuranti: una violenta tempesta ha soffiato dal nord-est per tutta la mattina, spingendo grossi blocchi di ghiaccio contro il timone e la poppa con tanta violenza, da farci temere conseguenze fatali. Verso sera la tempesta infuriava ancora, ma a un certo punto l’enorme massa di ghiaccio che ostruiva il paesaggio si è aperta in due; spiegando tutte le vele, siamo riusciti ad aprirci un varco attraverso iceberg di dimensioni minori, fino al mare libero; man mano che ci avvicinavamo, riducevamo le vele e, una volta oltrepassato l’ostacolo, siamo rimasti con la vela di trinchetto e una sola mano di terzaroli. 145 2 gennaio. Tempo accettabile. A mezzogiorno eravamo a 60° 10’ di latitudine sud e a 42° 20’ longitudine ovest, avendo attraversato il Circolo polare antartico. Pochissimo ghiaccio in vista nella costa del sud, benché vi fossero grandi banchi alle nostre spalle. Abbiamo fabbricato una specie di scandaglio usando un vaso di ferro della capacità di venti galloni circa. Abbiamo trovato una corrente da nord di una velocità di un quarto di miglia all’ora. Temperatura 33°F. 5 gennaio. Avanziamo sempre verso sud senza ostacoli seri. Al mattino tuttavia ci siamo trovati di nuovo davanti a una distesa di ghiaccio; al di là un tratto di mare libero che disperavamo di raggiungere. Abbiamo virato a est, costeggiando la banchisa e abbiamo finito per scoprire un varco di quasi un miglio di larghezza ove ci siamo addentrati al calar del sole. Il mare in cui ci troviamo è disseminato di iceberg, ma non è più banchisa compatta, per cui osiamo spingerci avanti. 7 gennaio. Il mare si mantiene abbastanza libero e proseguiamo la navigazione senza ostacoli; abbiamo scorto a ovest alcuni enormi iceberg e a mezzogiorno siamo passati molto vicini a uno di essi; nel punto più alto doveva misurare almeno cento braccia sopra il livello del mare, aveva forse tre quarti di lega di circonferenza, e i fianchi erano disseminati di cascate. Siamo rimasti a ridosso di quell’isola di ghiaccio per due giorni, dopo di che è sparita in una densa nebbia. 10 gennaio. Al mattino, molto presto, abbiamo avuto la sventura di perdere un uomo che è caduto in mare. Era un americano, Peters Vredenburgh, di New York, ed era considerato come uno dei migliori marinai di bordo. Era a prua, quando un piede gli è scivolato ed è caduto fra 146 due blocchi di ghiaccio senza più riemergere. Fa molto freddo e siamo continuamente investiti da raffiche di vento e ghiaccio provenienti dal nord e da est. Incontriamo enormi iceberg, l’orizzonte sembra un muro di ghiaccio. La sera abbiamo incrociato delle assi di legno portate dalla corrente e in alto volava una grande quantità d’uccelli, fra i cui procellarie, albatros e un grosso uccello dalle penne azzurre e lucide. 12 gennaio. Avanzare verso sud-est è ancora molto difficile, perché da qualunque parte volgiamo lo sguardo vediamo una distesa infinita di ghiaccio, sormontata da vere montagne dai picchi disposti degradanti uno sull’altro. Facciamo rotta a ovest nella speranza di scoprire un passaggio. 14 gennaio. Stamani abbiamo raggiunto la punta della distesa di ghiaccio che impediva il passaggio e, dopo averla doppiata, ci siamo trovati in mare aperto, senza più ostacoli. Abbiamo calato uno scandaglio di duecento braccia e misurato una corrente in direzione sud di mezzo miglio all’ora. La deviazione per azimut è scesa, la temperatura atmosferica è più dolce, nessuna traccia di ghiaccio intorno a noi. A bordo tutti sono convinti che siamo vicini al polo. 17 gennaio. Giornata piena d’incidenti. Stormi di uccelli volavano sopra di noi; ad alcuni abbiamo sparato dal ponte della nave, fra cui una specie di pellicano, le cui carni si sono rivelate commestibili. Poiché il tempo era buono, il capitano Guy ha fatto calare due imbarcazioni per esplorare un blocco di ghiaccio che sembrava occupato da un enorme animale. Dirk Peters e io accompagnavamo il secondo in una delle due scialuppe e, avvicinandoci all’isolotto di ghiaccio, vedemmo che 147 l’animale era un orso bianco di dimensione superiori alla norma. Poiché eravamo bene armati, non abbiamo esitato ad attaccarlo e gli abbiamo scaricato addosso i nostri fucili. Ma l’orso apparentemente non ne ha risentito e, abbandonando il blocco di ghiaccio, si è lanciato a nuoto con la bocca spalancata in direzione della barca dove eravamo io e Peters. Restammo sorpresi da quella reazione e, prima che avessimo il tempo di difenderci, l’orso era già riuscito a montare per metà col suo corpo massiccio nell’imbarcazione e ad afferrare uno dei nostri uomini alla schiena senza che avessimo trovato il modo di respingerlo. Fu la forza e l’agilità di Peters a salvarci, altrimenti non saremmo scampati alla morte. Appoggiandosi sul dorso dell’enorme bestia, gli conficcò il coltello nella nuca, fino al cervello. L’orso sprofondò nell’acqua, fulminato, senza neppure dibattersi, trascinando nella caduta Peters, che però riemerse subito e, con una cima che gli avevamo lanciato, legò il corpo dell’animale. Tornammo a bordo trionfanti, rimorchiando il nostro trofeo. Lo misurammo e contava più di quindici piedi di lunghezza; la sua pelliccia era perfettamente bianca, con un pelo molto ruvido e crespo; gli occhi erano colore rosso sangue, più grossi di quelli dell’orso artico, e il muso più rotondo. La carne era tenera, ma molto rancida e sapeva di pesce, il che non impedì agli uomini dell’equipaggio di divorarla con grande appetito e di dire che era buona. Ci stavano godendo il nostro successo, quando udimmo le grida di gioia dell’uomo di vedetta. Terra a tribordo! Tutto l’equipaggio si mise in movimento... e, col favore di un vento a favore da nord-est, in breve ci avvicinammo alla costa. Era un isolotto basso e roccioso, di 148 circa una lega di larghezza, e del tutto privo di vegetazione, fatta eccezione di una specie di fico selvatico. Avvicinandoci da nord, scorgemmo una roccia di forma bizzarra che si protendeva sul mare e che somigliava, in modo strano, a una balla di cotone cardato. All’estremità meridionale raccogliemmo vicino alla riva, sepolta per metà sotto un mucchio di pietre, un pezzo di legno che sembrava una polena. A parte quel frammento di prua, ammesso che fosse veramente una polena, nessun altro indizio faceva supporre che degli esseri umani avessero mai vissuto in quell’isola; intorno, lontani, galleggiavano alcuni piccoli blocchi di ghiaccio; l’isolotto, che il capitano Guy battezzò col nome di Bennet, in onore del suo socio, comproprietario della goletta, è situato a 82° 50’ di latitudine sud e 42° 20’ di longitudine ovest. Nella nostra rotta verso sud avevamo quindi superato di otto gradi i punti raggiunti da tutti i navigatori che ci avevano preceduto e il mare davanti a noi si presentava completamente libero; costatammo, al contempo, che la deviazione decresceva uniformemente, a misura che ci spingevamo avanti, cosa più sorprendente ancora, tanto più che, oltre alla temperatura atmosferica, anche quella dell’acqua andava crescendo. Il tempo, infatti, era molto gradevole e usufruivamo di un vento costante, ma debole. Avevamo solo due problemi: il carburante che stava per esaurirsi e dei sintomi di scorbuto manifestatisi tra gli uomini dell’equipaggio. Queste cose iniziavano a preoccupare il capitano Guy, che riteneva opportuno tornare indietro e ne parlava continuamente. Quanto a me, ero convinto che proseguendo su quella rotta non avremmo tardato a incontrare una terra qualunque, e avevo ragione 149 di credere che non vi avremmo trovato la desolazione delle latitudini artiche. Lo consigliai vivamente di proseguire, almeno per alcuni giorni, nella rotta che avevamo seguito fino ad allora, perché mai più avremmo avuto migliore occasione per risolvere il grande problema dell’esistenza di un continente antartico e confesso che ero molto indignato di fronte alle obiezioni timide e intempestive del nostro comandante. Non dubitavo che, alla fine, i rimproveri che gli rivolgevo in continuazione l’avrebbero incoraggiato a proseguire oltre. Così, pur deplorando i drammatici e sanguinosi episodi, successi a seguito di quei miei consigli, credo di potere essere a buon diritto orgoglioso di aver contribuito, in una certa misura, a svelare agli occhi della scienza uno dei segreti più meravigliosi che mai abbiano attirato la sua attenzione. Capitolo 18 18 gennaio. La mattina abbiamo proseguito la nostra rotta verso sud, con un tempo molto bello e il mare completamente piatto. La temperatura dell’acqua era 53°F. Abbiamo calato in acqua il nostro scandaglio e abbiamo verificato una corrente nella direzione del polo di un miglio l’ora. Questo costante concorso del vento e della corrente a spingere verso sud preoccupava non poco il capitano Guy. Durante la giornata abbiamo avvistato diverse balene e molti stormi di albatros in volo sopra la nave. Abbiamo anche ripescato un arbusto con delle bacche simili a quelle del biancospino, come pure la carcassa di uno strano animale terrestre; misurava circa tre piedi di lunghezza e sei soli pollici di altezza, con quattro 150 gambe molto corte e piedi muniti di lunghi unghioli rossi e brillanti, di una sostanza simile al corallo. Il corpo era ricoperto di un pelo morbido e bianchissimo, la coda era lunga quasi un piede e mezzo e fine come quella di un topo. La testa somigliava a quella di un gatto, fatta eccezione per le orecchie, pendenti come quelle di un cane. I denti erano dello stesso colore scarlatto delle unghie. 19 gennaio. Oggi, a 83° 20’ di latitudine sud e 43° 5’ di longitudine ovest, con un mare molto cupo, l’uomo di vedetta ha avvistato terra e, avvicinandoci, abbiamo costatato che si trattava di tre grandi isole. La costa era a strapiombo e l’interno appariva molto boscoso e ce ne rallegrammo. Quattro ore circa dopo la scoperta, gettammo l’ancora a una profondità di dieci braccia su un fondo sabbioso a una lega dalla riva, perché gli alti frangenti rendevano pericoloso avvicinarsi troppo. Calammo in acqua le due imbarcazioni più grosse e un plotone bene armato – di cui facevamo parte io e Peters – si mise alla ricerca di un passaggio nella cintura di roccia che circondava le isole. Dopo lunghe esplorazioni, scoprimmo finalmente un canale e stavamo per addentrandoci, quando vedemmo staccarsi dalla riva quattro piroghe piene di uomini che sembravano armati fino ai denti. Lasciammo che si avvicinassero e, poiché procedevano abbastanza veloci, si trovarono presto a portata di voce. Il capitano Guy issò allora un fazzoletto bianco all’estremità di un ramo e, vedendolo, gli indigeni si arrestarono subito, pronunciando frasi incomprensibili, miste a grida fra cui si potevano distinguere le parole Anamoo-moo e Lama-lama. Questa sceneggiata durò per una buona mezz’ora, durante la quale avemmo tutto il tempo di studiare la loro fisionomia. 151 Le quattro piroghe, che potevano misurare cinquanta piedi di lunghezza e cinque piedi di larghezza, contenevano in tutto centodieci indigeni. La loro statura era simile a quella degli europei, i muscoli erano però più vigorosi e sodi. La pelle era nera come la pece, i capelli spessi, lunghi e crespi. Le vesti consistevano semplicemente in una pelle di un animale sconosciuto, nero, dal pelo liscio e morbido, modellata intorno al corpo con una certa cura. Le loro armi erano principalmente delle mazze dì legno nero, in apparenza molto pesanti; potemmo però notare molte lance e anche delle frecce. Il fondo delle piroghe era tutto disseminato di pietre nere della dimensione di un grosso uovo. Quando ebbero finito la loro arringa – perché si trattava certamente di un’arringa ufficiale nel loro linguaggio – uno di essi, che aveva tutta l’aria di essere il capo, si alzo sulla prua della piroga facendoci segno di avvicinare le imbarcazioni alle loro. Fingemmo di non capire l’invito, ritenendo più prudente mantenere per quanto possibile una certa distanza, perché era ben quattro volte più di noi. Il capo indovinò senza dubbio ciò che passava per la nostra testa, per cui ordinò alle altre tre piroghe di arrestarsi mentre lui proseguiva verso di noi. Appena accostato, saltò a bordo della più grande delle nostre scialuppe e, sedendosi a fianco del capitano Guy, indicò col dito la goletta, ripetendo: Anamoo-moo e Lamalama. Tornammo allora verso la Jane Guy, seguiti da vicino dalle quattro piroghe. Avvicinandoci a bordo, il capo manifestò uno stupore e una gioia estrema: batteva le mani, si percuoteva le cosce e il petto, saltellava. Gli altri condividevano la sua ilarità e in capo a pochi minuti, fu un baccano davvero assordante. 152 Una volta tornata la quiete, il capitano Guy, fece issare le scialuppe per precauzione, dopo di che cercò di spiegare al capo – il cui nome, come apprendemmo dopo, era Too-Wit – che non poteva ammettere a bordo più di venti uomini alla volta. Il capo parve capire subito la proposta e diede istruzioni ai suoi uomini, facendo avvicinare una sola piroga, mentre le altre restavano a distanza. Venti selvaggi salirono così a bordo e si mi misero a perlustrare il ponte, arrampicandosi da ogni parte, comportandosi assolutamente come fossero in casa propria, ed esaminando tutto con la più viva curiosità. Era chiaro che vedevano gli uomini bianchi per la prima volta e il colore della nostra pelle sembrava provocar loro un profondo disgusto. Pensavano che la Jane Guy fosse una creatura vivente, sembrava anzi che temessero di ferirla con la punta delle loro lance, che poggiavano con delicatezza. A un certo punto, il nostro equipaggio si divertì molto per i modi strani di Too-Wit. Il cuoco di bordo era intento a spaccare la legna vicino alla cucina, e, senza pensarci, piantò l’ascia sul legno del ponte incidendolo a fondo; subito il capo si precipitò sul cuoco, scuotendolo brutalmente, poi emise una specie di lamento, simile quasi a un grido di dolore, per mostrare che compativa la sofferenza della goletta e si mise a spianare con la mano, ad accarezzare la ferita, a ripulirla con l’acqua di mare contenuta in un secchio che si trovava lì vicina. Era un’ingenuità a cui non eravamo preparati, ma – per quanto mi riguarda – pensai che la scena fosse un po’ simulata. Quando i nostri ospiti esaurirono – nel bene e nel male – la loro curiosità per la struttura della nave, vennero condotti sottocoperta e il loro stupore non ebbe più limiti: 153 sembravano talmente sorpresi da non articolare parola; andavano da una parte all’altra in un silenzio rotto solo ogni tanto da sorde esclamazioni. Le armi, che permettemmo loro di maneggiare liberamente, furono per loro oggetto delle più svariate supposizioni. Credo che non avessero la minima idea a cosa servissero, e che le giudicassero piuttosto per degli idoli, nel vedere la cura che avevamo nel maneggiarle e il modo con cui sorvegliavamo ogni loro movimento quando le toccavano. Alla vista dei grossi cannoni, il loro stupore, raddoppiò; si avvicinarono con i segni del più profondo rispetto e del più profondo timore, ma si rifiutarono di esaminarne i minimi dettagli. Nella cabina c’erano due grandi specchi e vedendoli restarono di stucco. Too-Wit si avvicinò per primo, camminando di fronte all’uno e volgendo la schiena all’altro prima di essersene accorto. Ma quando, alzando gli occhi, il selvaggio vide la sua immagine riflessa nello specchio, sembrò impazzire. Fece bruscamente dietrofront per scappare, ma quando si vide di nuovo sull’altro specchio, credetti veramente che stramazzasse al suolo. Non riuscimmo in alcun modo a indurlo a guardarsi un’altra volta nello specchio e, inginocchiatosi sul pavimento col viso tra le mani, non si mosse più, cosicché dovemmo trascinarlo a forza sul ponte. L’intera tribù indigena fu ricevuta a bordo in questo modo, a gruppi di venti. A Too-Wit fu concesso di restare per tutto il tempo in cui durò la processione e a noi non parve che avessero intenzione di portare via niente; dopo la loro partenza infatti costatammo che non mancava nulla. Durante la visita mantennero un atteggiamento amichevole; nelle loro maniere vi erano tuttavia alcuni dettagli che restavano per noi inspiegabili; ad esempio, non c’era modo 154 di farli avvicinare a cose assolutamente inoffensive, come le vele della goletta, un uovo, un libro aperto, una scodella di farina. Cercammo di sapere da loro se avevano qualcosa da barattare, ma durammo un’enorme fatica a farci capire. Scoprimmo poi con nostra grande sorpresa che in quelle isole c’erano molte tartarughe giganti e una l’avevamo vista nella piroga di Too-Wit. Vedemmo anche delle oloturie in mano agli indigeni, che le mangiavano crude. Queste stranezze, o per meglio dire ciò che noi consideravamo come stranezze, spinsero il capitano Guy a intraprendere un’esplorazione, nella speranza di trarre qualche vantaggio dalla scoperta. Quanto a me, ero curioso certamente di conoscere queste isole più a fondo, ma ero ancora più desideroso di proseguire, senza indugio, il nostro viaggio. Il tempo era bello, ma non sapevamo quanto sarebbe durato e, avendo già raggiunto l’84° parallelo, col mare aperto davanti a noi e una corrente che trascinava veloce verso sud, mi spazientivo sentendo parlare di una sosta in quelle isole più lunga di quanto sarebbe stato necessario per la salute dell’equipaggio e per approvvigionarsi a sufficienza di combustibili e viveri. Dimostrai dunque al capitano Guy che sarebbe stato assai ragionevole far sosta in quelle isole al ritorno, per svernarvi nel caso che il passaggio fosse bloccato dai ghiacci, ed egli finì per arrendersi alla mia decisione, perché avevo acquistato, non so io stesso come, un singolare ascendente su di lui, e fu deciso che saremmo rimasti una settimana per ristabilirsi e poi avremmo proseguito la navigazione verso sud, quando era ancora possibile. Facemmo quindi tutti i preparativi e, con la guida di Too-Wit, la Jane Guy manovrò senza difficoltà attra155 verso gli scogli per gettare finalmente l’ancora a forse a un miglio dal litorale, in una bella baia circondata da ogni parte dalla terra, sulla costa sud-est dell’isola principale, su un fondo di sabbia nera. Ci fecero capire che in fondo a quella baia sfociavano quattro limpidi ruscelli d’acqua fresca e che la vegetazione all’interno era lussureggiante. Le quattro piroghe ci scortavano sempre, seppure a rispettosa distanza, e Too-Wit, che era a bordo con noi, dopo l’operazione di ancoraggio, ci invitò ad accompagnarlo a terra per visitare il villaggio. Il capitano Guy accettò l’invito; dieci indigeni vennero custoditi a bordo come ostaggi, e un piccolo gruppo, composto di dodici dei nostri, si affrettò a seguire il capo. Avemmo cura di armarci bene, ma in modo da non creare diffidenza, non conoscendo ancora a fondo l’indole di questi selvaggi e non volendo, d’altra parte, destare sospetti che avrebbero potuto provocarci serie conseguenze. Oltre a mettere in posizione i cannoni e sollevare le reti sulle murate, prendemmo altre precauzioni per evitare sorprese alla goletta. Al secondo fu dato ordine di non lasciar salire a bordo nessuno durante la nostra assenza e di mandare una barca armata di spingarda a cercarci lungo l’isola se entro dodici ore non fossimo tornati. Man mano che ci addentravamo all’interno, ci convincevamo sempre più di trovarci in un paese molto diverso da quelli finora esplorati da uomini civili. Nulla di quanto vedevamo ci era familiare. Le piante non somigliavano alla vegetazione che cresce nelle zone torride, in quelle temperate o in quelle gelide del nord, e diverse anche da quelle delle basse latitudini da noi appena attraversate. 156 Anche le rocce erano strane, nella forma, nel colore e nella struttura; i ruscelli, per quanto incredibile, avevano così poco in comune con quelli che scorrono altrove che esitammo a berne l’acqua, perché ci sembrava impossibile che avesse qualità naturali. Arrivati a un ruscello che ci attraversava il cammino (il primo che incontravamo), Too-Wit e il seguito si fermarono a bere. L’aspetto di quell’acqua ci lasciava sospettosi, per paura che fosse contaminata e passò un po’ di tempo prima che ci rendessimo conto che, in quell’arcipelago, tutti i corsi d’acqua erano così. Non sono in grado di descrivere precisamente la natura di quel liquido, né posso farlo in due parole. Anche se scorreva rapida lungo i declivi come una qualsiasi acqua, non possedeva – se non quando precipitava a cascata – la normale trasparenza, anche se era del tutto limpida, come ogni altra acqua calcarea. A prima vista, e soprattutto dove la pendenza era meno pronunciata, sembrava avere la consistenza di una densa soluzione di gomma arabica disciolta in acqua. Ma di tutte le sue straordinarie caratteristiche, questa era quella che sorprendeva meno. Non era incolore, né possedeva un colore uniforme; scorrendo, presentava ogni possibile sfumatura purpurea, come le tinte di una seta cangiante. Il modo in cui si creavano queste variazioni di tono causò in noi uno stupore profondo simile a quello che lo specchio aveva suscitato in Too-Wit. Riempito un secchio e lasciata depositare bene l’acqua, scoprimmo che il liquido aveva diverse venature distinte, ognuna di un colore diverso, e queste venature non si mescolavano tra loro; la perfetta coesione tra le singole particelle di ognuna era altrettanto imperfetta tra una venatura e l’altra. Facendo passare la lama di un coltello attraverso le venature, l’acqua vi si ri157 chiudeva subito sopra, e una volta ritirato il coltello non restava traccia del suo passaggio. Se invece la lama veniva fatta passare attentamente tra una vena e l’altra, la separazione era perfetta, e la forza di coesione non riusciva subito ad annullare l’effetto. I curiosi fenomeni relativi a quell’acqua costituirono il primo anello di una lunga catena di scoperte, apparentemente miracolose, che mi riservava il destino. Capitolo 19 Ci vollero circa tre ore di cammino in un sentiero molto impervio per raggiungere il villaggio, che si trovava a non meno di nove miglia all’interno. Come ci avvicinammo con Too-Wit e il suo seguito, una moltitudine d’indigeni si lanciò verso di noi, con grida fra cui distinguemmo il solito ritornello Anamoo-moo! e Lama-lama!, e la nostra sorpresa fu molto grande quando vedemmo che, fatta qualche eccezione, erano completamente nudi e che le vesti di pelliccia erano privilegio esclusivo degli uomini che componevano l’equipaggio delle piroghe. Pareva che questi ultimi si fossero accaparrati tutte le armi del paese, perché non vedemmo un’arma tra le mani degli abitanti del villaggio; c’erano molti bambini e donne non prive di bellezza, alte, slanciate, snelle, con una certa grazia nel passo e nell’andamento come è raro vedere nella nostra società civilizzata. Disgraziatamente le labbra, come anche quelle degli uomini, erano grosse e sgraziate, cosicché, anche quando ridevano, non scoprivano mai i denti; la capigliatura era invece molto più fine di quella degli uomini. 158 Fra questi indigeni nudi, si potevano vedere dieci o forse dodici uomini, vestiti di pelli nere, come quelli che accompagnavano Too-Wit, armati di lance e di mazze pesanti, e sembravano possedere un grande ascendente sul resto della popolazione che, quando si rivolgeva a loro, usava sempre il titolo di Wampoo. Erano loro i custodi di una capanna dal tetto in pelle nera. Quella di Too-Wit era situata al centro del villaggio ed era molto più spazioso e di costruzione molto più accurata degli altri. L’albero cui era appoggiato era stato tagliato all’altezza di dodici piedi circa dalla radice ed erano stati lasciati numerosi rami sotto il punto tagliato, in modo da mantenere la copertura del tetto ben stesa e impedirle di battere contro il tronco; questa copertura, formata da quattro pelli molto grandi attaccate le une alle altre con dei rinforzi di legno, era assicurata alle estremità per mezzo di tiranti fissati a terra; il suolo era coperto di grandi foglie a guisa di tappeto. Venimmo dunque condotti con gran pompa a quella residenza, mentre dietro di noi si accalcava una folla di selvaggi, quanti la capanna poteva contenerne. Too-Wit si sedette sulle foglie facendoci segno di seguire il suo esempio e ci trovammo così in una posizione molto scomoda e pericolosa. Eravamo dodici, seduti a terra, circondati da circa quaranta indigeni seduti sui calcagni e così strettamente addossati a noi che, nel caso fosse successo qualcosa, ci saremmo trovati nell’impossibilità non solo di servirci delle nostre armi, ma anche di estrarle dalle tasche. Il resto della tribù – presumibilmente tutti gli abitanti dell’isola – non poteva naturalmente essere contenuta sotto la tenda, per cui si stipava fuori, e se non fummo schiacciati lo dovemmo solo ai gesti e alle grida ripetute di Too-Wit. Era soprattutto la sua presenza in 159 mezzo a noi che garantiva la nostra sicurezza, per cui decidemmo di stringerci ancor più intorno a lui, pensando che fosse quello il mezzo migliore per trarci da quell’imbarazzante situazione e decisi a ucciderlo subito al primo segno di ostilità. Dopo qualche protesta, il capo riuscì a ottenere il silenzio e ci rivolse un discorso abbastanza lungo, simile a quello con cui ci aveva omaggiato dall’alto della sua piroga, con la differenza che gli Anamoo-moo! erano questa volta pronunciati con più enfasi rispetto ai Lama-lama! Noi ascoltammo la nuova arringa con profondo rispetto e il capitano Guy rispose con dichiarazioni d’amicizia e simpatia nei confronti di Too-Wit, cui fece dono, terminando il breve discorso, di alcune collane di vetro azzurro e di un coltello. Con nostra grande sorpresa e storcendo il naso, il re mostrò di non gradire molto le collane, mentre accettò con grande soddisfazione il coltello, dopodiché Too-Wit ordinò immediatamente il pranzo, che venne servito sotto la tenda e dove i piatti venivano fatti passare sopra la testa degli indigeni che assistevano. Unico cibo erano i visceri ancora palpitanti di uno di quei maialini dalle gambe gracili che avevamo visto giungendo al villaggio e, vedendo che non sapevamo come servircene, il capo ce ne diede l’esempio inghiottendo alcuni bocconi di quel cibo disgustoso; davanti a tale insopportabile spettacolo, il nostro stomaco non tardò a dare dei segni manifesti di rivolta, ciò che provocò presso il sovrano uno stupore analogo – per intenderci – a quello che gli aveva fatto provare la vista dei nostri specchi. Ma non riuscì in alcun modo a convincerci a prendere la nostra parte di quelle delicate leccornie, perché declinammo di cuore quell’onore, facendogli capire che ci eravamo appena 160 alzati da un pranzo molto abbondante e che questo ci impediva di fare onore alla sua tavola. Alla fine del pranzo sottoponemmo al re una serie di domande, usando i mezzi più ingegnosi che il lettore può immaginare, per conoscere quali fossero i prodotti di quella terra della contrada e se ce ne fosse qualcuno da cui potessimo trarre profitto. Finalmente parve capire, in qualche modo, dove volevamo arrivare e si offrì di condurci a un certo punto del litorale dove, così ci assicurò, pullulavano le oloturie. Questa per noi era un’eccellente occasione per sfuggire alla folla che ci pressava, per cui manifestammo il nostro impaziente desiderio di togliere la seduta; uscimmo infatti dalla tenda e, scortati da tutta la popolazione del villaggio, seguimmo il capo fino alla punta sud-est dell’isola, non molto lontano da dove la nostra nave aveva gettato l’ancora. Per circa un’ora restammo in quel luogo aspettando le quattro piroghe, su cui prendemmo posto e fummo velocemente portati attraverso gli scogli a uno più grande e più al largo, dove scoprimmo una quantità di oloturie, quante non ne aveva mai viste neanche il più vecchio dei nostri marinai, negli arcipelaghi delle basse latitudini. Ma restammo laggiù solo il tempo necessario per capire che laggiù ce n’era da caricare almeno dodici navi, dopo di che risalimmo a bordo della goletta e ci separammo da Too-Wit non senza aver ottenuto la promessa che ci sarebbero state portate tante tartarughe e anitre quanto le sue piroghe avessero potuto contenerne. Durante tutta quest’avventura, non notammo nel comportamento degli indigeni alcun indizio che potesse destare sospetto, se non il fatto che il loro numero si era considerevolmente accresciuto durante il tragitto dalla goletta al villaggio. 161 Capitolo 20 Il capo mantenne la sua parola e fummo ben presto forniti di provviste fresche in abbondanza: le tartarughe erano particolarmente squisite, e le anitre molto superiori alle nostre migliori specie di volatili selvatici, estremamente tenere, succulente e di un sapore delizioso. Quando gli facemmo capire cosa avremmo desiderato, gli indigeni ci portarono inoltre una gran quantità di sedano e un’erba efficace contro lo scorbuto, insieme a un carico di pesce fresco o seccato. Il sedano era per noi un regalo molto gradito: quanto all’erba contro lo scorbuto, fu una risorsa veramente insperata, perché guarì tutti gli uomini dell’equipaggio coi sintomi di quella malattia; in breve non avemmo più un solo malato a bordo. In cambio di quei doni e del pesce di cui ci avevano fornito in abbondanza, regalammo agli indigeni collane di vetro azzurro, oggetti di rame, chiodi, coltelli, pezze di stoffa rossa, ed essi si mostravano molto soddisfatti dello scambio. Stabilimmo quindi sulla costa un mercato, protetto dai cannoni della goletta, e il commercio si svolgeva in modo leale e regolare quale non avremmo mai osato sperare da parte di quei selvaggi, dato il modo con cui si erano comportati nel villaggio di Klock-Klock. Per più giorni tutto si svolse così nel modo più amichevole; gli indigeni venivano spesso a gruppi a bordo della goletta e spesso alcuni dei nostri si recavano a terra, spingendosi in lunghe incursioni all’interno, senza essere disturbati in alcun modo dagli abitanti. Considerando la facilità con cui si poteva caricare la nave di oloturie grazie alla buona disposizione degli indigeni, il capitano Guy decise di trattare con Too-Wit perché con 162 la sua gente si occupasse della raccolta del prodotto e costruisse apposite capanne per immagazzinarne il più possibile, mentre noi avremmo approfittato del tempo favorevole per continuare la nostra esplorazione verso sud. Quando comunicò la proposta al capo, questi si mostrò ben disposto a concludere l’accordo, per cui fu convenuto che, dopo aver fatto i preparativi necessari, dopo aver scelto la zona, iniziato la costruzione dei magazzini ed effettuato altri lavori per cui era richiesto l’intero equipaggio, la goletta avrebbe proseguito la sua navigazione, lasciando tre dei suoi uomini nell’isola per sorvegliare l’esecuzione dell’opera e insegnare agli indigeni i procedimenti per essiccare le oloturie. Per quei lettori che lo ignorano, l’oloturia – o cetriolo di mare – è un mollusco oblungo, di taglia che varia da 3 a 18 pollici, ma alcune misurano fino a due piedi di lunghezza; il corpo è di forma quasi rotonda, con una leggera incavatura nella parte che posa sul fondo del mare. Questo mollusco si raccoglie a una profondità di tre o quattro piedi e, con un coltello, gli viene praticata un’incisione di un pollice o più, secondo le dimensioni, e per questa incisione vengono estratte le interiora che somigliano a quelle di altri abitanti del mare; poi viene lavato, bollito a una certa temperatura che non deve essere né troppo elevata né troppo bassa, dopo di che viene sotterrato nel suolo, per la durata di quattro ore, poi fatto bollire nuovamente per un certo tempo e infine fatto seccare tanto al sole che al fuoco. I cinesi considerano l’oloturia un cibo prelibatissimo e anche come ricostituente per un organismo malato o indebolito dagli eccessi, così questo mollusco raggiunge presso di loro 163 un prezzo molto elevato che può variare da 4 dollari fino a 90 dollari al picul [circa 60 kg], secondo la qualità. Conclusi dunque gli accordi a questo riguardo, furono date tutte le disposizioni necessarie per preparare il terreno e costruire lo stabilimento. Venne scelta un vasta area pianeggiante vicino alla costa orientale della baia, dove c’erano in abbondanza acqua e il legname necessario per la costruzione; tutti si misero all’opera con entusiasmo, con grande stupore degli indigeni; dopo aver abbattuto un numero di alberi sufficiente, li lavorammo per costruire la struttura. In due o tre giorni il lavoro era abbastanza avanti per poterlo affidare, in tutta sicurezza, ai tre uomini dell’equipaggio che avevamo deciso di lasciare lì. Si trattava di John Carson, Alfred Harris e Patterson, tutti e tre non sbaglio, originari di Londra, che si erano offerti volontari. Alla fine del mese eravamo pronti per partire, ma avevamo promesso di andare al villaggio per una solenne visita di commiato e Too-Wit aveva tanto insistito perché tenessimo fede all’impegno che non potemmo rifiutarci. Credo che, fino a quel momento, nessuno di noi nutrisse il minimo dubbio sulle buone intenzioni di quei selvaggi, che avevano sempre dimostrato una grande cordialità, che ci aiutavano col massimo impegno nel nostro lavoro, che ci offrivano spesso le loro provviste, senza mai derubarci del più piccolo oggetto, pur apprezzando moltissimo tutto ciò che ci apparteneva, a giudicare dalle loro manifestazioni di gioia a ogni dono che facevamo loro. In particolare le donne si mostravano riconoscenti in ogni modo e, insomma, bisognava essere ben scontrosi e sospettosi di carattere per nutrire il minimo dubbio sulle intenzioni di un popolo che si era dimostrato così amichevole. 164 Ma non trascorse molto tempo che dovemmo accorgerci che quella buona disposizione apparente faceva parte di un piano preordinato e che quei selvaggi che ci avevano riservato un’accoglienza così benevola erano, in realtà, fra i più barbari, ipocriti e sanguinari mostri che abbiano disonorato la superficie del globo. Il primo febbraio quindi scendemmo a terra per fare visita al villaggio e, pur non nutrendo – lo ripeto ancora – il minimo sospetto, avevamo preso le debite precauzioni. Sei uomini restavano a bordo della goletta con l’ordine di non fare avvicinare alcun indigeno durante la nostra assenza, per nessuna ragione, e di restare costantemente di guardia sul ponte. Furono issate le difese alle murate, e i cannoni pronti con una doppia carica. La goletta era ancorata a un miglio circa dalla costa e nessuna piroga poteva abbordarla senza essere scorta e cadere subito sotto il tiro dei nostri cannoni. Considerati i sei uomini rimasti a bordo, a terra eravamo scesi in trentadue, tutti armati fino ai denti, muniti di fucili, coltelli, pistole, senza contare il lungo coltello che ogni marinaio porta sempre con sé, analogo al bownieknife che è ora in uso nelle nostre regioni dell’ovest e del sud. Appena scesi a terra un centinaio di guerrieri coperti di pelli nere si unì a noi per farci da scorta e con sorpresa costatammo che non avevano armi. Interrogato in proposito, Too-Wit, ci rispose semplicemente «Mette non we pa pa si», che voleva dire «Non servono armi quando siamo tutti fratelli». Prendemmo per buone quelle parole e proseguimmo il nostro cammino. Avevamo già oltrepassato la sorgente e il ruscello di cui ho parlato ed entravamo in una stretta gola incassata tra le colline in cui 165 si trovava il villaggio; quella gola era rocciosa e così accidentata che avevamo durato grande fatica a superarla nella prima visita a Klock-Klock. Era lunga circa un miglio e mezzo, forse anche due, e si snodava attraverso le colline, mutando spesso direzione con gomiti e curve improvvise. Tutto il percorso era fiancheggiato da pareti di roccia a picco che raggiungevano i 70-80 piedi, e in certi punti ancora di più. La larghezza era di circa 40 piedi per gran parte del tragitto, ma in alcuni punti si restringeva tanto da permettere il passaggio di cinque o sei uomini al massimo. Insomma, non c’era luogo più adatto per un’imboscata ed era naturale che tenessimo pronte le nostre armi entrando nella gola scortati da quei selvaggi. Quando penso alla nostra folle imprudenza, ciò che mi stupisce di più è come abbiamo potuto affidarci, qualunque siano state le circostanze, in balia di quei selvaggi, al punto da permetter loro di camminare davanti e dietro di noi, durante il percorso in quella gola pericolosa. Confidavamo ciecamente nella forza dei nostri uomini, nell’efficacia delle nostre armi da fuoco, la cui potenza era ancora sconosciuta agli indigeni, e sopratutto nell’amicizia che quegli infami scellerati ci avevano fino ad allora dimostrato. Cinque o sei di loro ci precedevano come per aprirci il cammino, affrettandosi, con evidente ostentazione, a spostare le grosse pietre che ingombravano la strada, e dietro di loro avanzava il nostro gruppo; camminavamo a ranghi serrati, senza altra preoccupazione che restare uniti, e dietro veniva gli altri indigeni, con un ordine e una compostezza mai notata prima. Dirk Peters, un marinaio chiamato Wilson Allen ed io, camminavamo alla destra dei nostri compagni, osser166 vando le strane stratificazioni della parete che cadeva a strapiombo sopra di noi. A un certo punto una fessura nella roccia attirò la nostra attenzione; era abbastanza larga per far passare un uomo senza difficoltà e penetrava nella collina per una lunghezza da 8 a 10 piedi in linea retta, per poi curvare a sinistra. La fessura e la gola, per quanto potevamo giudicare, erano alte da sessanta a settanta piedi; nelle crepe della parete crescevano alcuni arbusti stentati ed ebbi la curiosità di esaminarli da vicino per cui penetrai nella fessura e ne staccai alcune nocciole, ma subito mi ritrassi in tutta fretta. Girandomi, mi accorsi che Peters e Allen mi avevano seguito e li pregai di tornare indietro, facendogli osservare che quel buco era troppo stretto per passare in due, promettendo di dar loro alcune delle mie nocciole. Stavamo dunque tornando sui nostri passi verso l’uscita e Allen era quasi arrivato, quando sentii improvvisamente una scossa che non somigliava a niente di quanto avessi mai provato prima e che mi fece pensare – se anche ero in grado di pensare in quella circostanza – che la terra stesse per dissolversi e che fosse arrivato il giorno della distruzione universale. Capitolo 21 Appena ripresi i sensi, mi sentii come soffocato, mi dibattevo in mezzo alle tenebre, in una massa di terra friabile che gravava pesante su di me da ogni parte, minacciando di seppellirmi interamente. Spaventato, feci ogni sforzo per tirarmi su e vi riuscii finalmente; rimasi allora per alcuni istanti immobile, cer167 cando di spiegarmi cosa fosse successo e dove mi trovassi. In quel momento sentii come un lamento vicino al mio orecchio e quasi subito distinsi la voce di Peters che, in nome di Dio, chiedeva aiuto. Avanzai di due o tre passi, aiutandomi con mani e piedi, inciampai e caddi addosso al mio compagno, che era sepolto per metà sotto un mucchio di terra e lottava disperatamente per liberarsi. Scavai a mani nude la terra che lo immobilizzava con l’energia di cui disponevo e riuscii, dopo molti sforzi, a liberarlo dalla sua scomoda prigione. Ripresici dalla fatica e dalla sorpresa, ci scambiammo alcune considerazioni e giungemmo alla conclusione che le pareti del crepaccio in cui ci eravamo addentrati dovevano essere crollati a seguito di qualche fenomeno naturale, o più verosimilmente in ragione del proprio peso, e che di conseguenza eravamo sepolti vivi e irrimediabilmente perduti. Per un momento fummo presi dalla disperazione, ma alla fine Peters disse che avremmo dovuto cercare di capire le dimensioni del crollo, esplorando la nostra prigione per trovare una possibile via di fuga. Mi aggrappai avidamente a quella speranza e, facendo appello a tutte le mie forze, cercai di aprirmi un varco attraverso la terra friabile e avevo appena mosso qualche passo, quando mi apparve un raggio di luce, appena percettibile ma sufficiente per convincerci che almeno non saremmo morti asfissiati. Ci aggrappammo dunque a un masso che ostruiva il passaggio dalla parte da cui veniva la luce, e potemmo avanzare più facilmente e respirando meglio. Eravamo ora in grado di distinguere ciò che ci circondava e costatammo che eravamo quasi in fondo al crepaccio, vicino al punto in cui svoltava a sinistra. Ancora uno sforzo e raggiungemmo la svolta, 168 da cui, con nostra grande gioia, scorgemmo una larga spaccatura che saliva molto in l’alto formando un angolo di circa quarantacinque gradi; non potevamo valutare quanto fosse lunga quella breccia, ma, poiché la luce vi filtrava abbastanza liberamente, non disperavamo di raggiungere la sommità e quindi la via di uscita. Solo allora mi ricordai che eravamo tre ad avere deviato per addentrarci in quella spaccatura e che non avevamo più rivisto il nostro compagno Allen, per cui decidemmo di tornare indietro per cercarlo. Dopo lunghe ricerche, rese pericolose dalla terra friabile a strapiombo su di noi, Peters mi gridò finalmente che aveva trovato il piede del nostro compagno, ma che il resto del corpo era sepolto così in profondità che sarebbe stato impossibile liberarlo; era purtroppo vero, come potei costatare, e il povero Allen era morto. Col cuore stretto dall’angoscia, abbandonammo il corpo al suo destino, dirigendoci verso l’imbocco della galleria. La larghezza dell’apertura era appena sufficiente per passare e, dopo uno o due infruttuosi tentativi di scalata, fummo presi di nuovo dalla disperazione. Ho già detto che le colline in cui era incavata la gola erano composte di una roccia friabile molto simile al talco. Le pareti del crepaccio che cercavamo di scalare avevano la stessa composizione ed erano molto sdrucciolevoli e i nostri piedi potevano a malapena far presa nei punti meno ripidi mentre, quando il pendio si faceva più verticale, non c’era assolutamente modo di procedere. Ma la disperazione raddoppiò il nostro coraggio e coi nostri bowie-knives scavammo dei gradini nella terra friabile, poi, a rischio di romperci il collo, ci aggrappammo ai piccoli appigli di una specie di ardesia un po’ più resi169 stente che, qua e là, formava come una prominenza nella massa di terra e così raggiungemmo finalmente una piattaforma naturale, da cui si poteva distinguere un lembo di cielo azzurro al limitare di una gola coperta dal verde. Volgendo indietro lo sguardo per vedere il crepaccio da dove eravamo emersi e l’aspetto delle sue pareti, ci accorgemmo che si era formato di recente; il cataclisma che ci aveva presi alla sprovvista, qualunque fosse la sua natura, ci aveva quindi aperto la via di salvezza. Eravamo così sfiniti dalle fatiche sopportate, così deboli, che potevamo appena stare in piedi e articolare qualche parola, e Peters si sforzava inutilmente di farmi capire che dovevamo chiamare i nostri compagni in aiuto, sparando dei colpi con le pistole che portavamo ancora alla cintura; quanto ai fucili e ai coltelli, li avevamo perduti sotto il crollo ed erano rimasti certamente laggiù; il seguito della vicenda ce ne avrebbe fatto pentire amaramente. Per fortuna avevo come un vago sospetto dell’abominevole tranello che ci era stato teso e fu questa la ragione per cui evitammo di far conoscere ai selvaggi dove ci trovavamo. Dopo un riposo di circa un’ora ci stavamo incamminando lentamente verso la parte superiore della gola, quando udimmo un frastuono confuso di grida spaventose; giungemmo affannati fino a quella che si poteva pensare fosse la sommità, perché da quando avevamo lasciato la piattaforma, eravamo sprofondati sotto alte rocce e arbusti ricadente strapiombo, a una grande altezza sopra le nostre teste. Con infinite precauzioni, scivolammo verso una stretta apertura da cui potevamo spingere lo sguardo intorno e, in un attimo, lo spaventoso mistero del terremoto si svelò ai nostri occhi. 170 Il nostro posto d’osservazione era quasi in cima alla più alta di quelle colline di steatite e la gola in cui il nostro gruppo di trentadue uomini era penetrato si snodava sulla sinistra a circa cinquanta piedi da noi. Ma su una lunghezza di almeno cento yards, il passaggio era interamente ostruito dai detriti di più di un milione di tonnellate di terra e rocce, il cui crollo era stato provocato in modo artificiale. Il modo usato per far crollare quella massa enorme era tanto semplice quanto evidente, perché c’erano ancora tracce visibili dell’opera criminale; in vari punti, sul lato est della gola – noi invece ci trovavamo in quello a ovest – erano piantati dei pioli nel suolo; in quei punti il terreno non si era mosso, ma per tutta la lunghezza del precipizio dove era sprofondata la massa di roccia, era evidente – a giudicare dalle tracce lasciate sul terreno, che somigliavano a quelle lasciate da una zappa – che erano stati piantati dei pioli del tutto simili a quelli davanti ai nostri occhi, piantati con un intervallo di una yard, su una linea di trecento piedi circa, ad alcune decine di passi dall’abisso. I pioli rimasti in piedi erano uniti da solidi legacci ed era evidente che anche gli altri dovevano essere uniti allo stesso modo. Ho già segnalato la particolare conformazione di queste colline di steatite e la descrizione che ho fatto della stretta e profonda fessura, che ci aveva permesso di sfuggire a un mortale seppellimento, servirà a farne più nettamente conoscere la natura. La formazione del terreno era tale che la minima scossa naturale doveva fendere il suolo in strati verticali, in linee parallele, e che una modesta spinta artificiale poteva avere un effetto catastrofico. Non c’era quindi alcun dubbio che, usando quella fila di pioli, fosse stata operata una frattura nel 171 suolo, alla profondità di uno o due piedi, con le corde agganciate ai pali e tese lungo il bordo della collina; uno solo di quei selvaggi, tirando con tutte le sue forze ciascuna di quelle corde, disponeva così di una forza di leva enorme, che bastava a far precipitare, a un segnale dato, l’intera parete della collina sul fondo del precipizio. La sorte dei nostri poveri compagni non poteva dunque lasciare alcun dubbio: noi eravamo i soli sfuggiti al disastro, i soli che non erano rimasti sotto le macerie. Eravamo quindi i soli bianchi rimasti vivi in quell’isola. Capitolo 22 La nostra situazione, quale ci appariva allora, non era certo più rassicurante di quando eravamo sepolti sotto le macerie; ora non avevamo altre alternative che di essere messi a morte dai selvaggi o trascinare in mezzo a loro una vita miserabile di schiavitù. Potevamo certo nasconderci in qualche posto sui fianchi delle colline, o, in mancanza di meglio, nel crepaccio da cui eravamo appena usciti; così facendo, però, saremmo stati in balia del freddo e della fame durante il lungo inverno polare; e, quando fossimo stati costretti a cercare da mangiare, avremmo certamente tradito la nostra presenza. Tutta l’area intorno brulicava di quei selvaggi e ne scorgemmo nuovi gruppi arrivare dall’isola meridionale su delle zattere piatte, certamente per aiutare nella conquista e nel saccheggio della Jane Guy. La goletta se ne stava sempre tranquillamente ancorata nella baia e gli uomini rimasti a bordo dovevano essere del tutto ignari del pericolo che li minacciava. Come rim172 piangemmo allora di non essere rimasti al loro fianco, per aiutarli a fuggire o per morire con essi cercando di difenderci. Non vedevamo alcuna possibilità di informarli del pericolo senza attirare, immediatamente, la rovina sulle nostre teste; del resto – se anche ci fossimo riusciti – non potevamo pensare di esser loro utili in qualche modo. Un colpo di pistola poteva forse bastare a far capire loro che era successo qualcosa, ma non poteva comunicare che l’unica loro speranza di salvezza era di abbandonare immediatamente la baia e filare lontano, e che nessun senso del dovere o dell’onore li obbligava più a rimanere lì, dal momento che i loro compagni erano ridotti ai due ancora vivi e dato che il colpo di pistola non li avrebbe messi in guardia più di quanto non fossero già contro l’attacco che il nemico preparava. Dare l’allarme con un colpo di pistola non avrebbe portato vantaggi, ma solo danno, per cui, dopo un’attenta valutazione, decidemmo di non farne di nulla. Pensammo anche di precipitarci verso la costa, impadronirci di una delle piroghe ferme in fondo alla baia e cercare di tornare a bordo, ma riconoscemmo subito che quel piano disperato era assolutamente irrealizzabile. Tutta l’area intorno – ripeto – brulicava di selvaggi che scivolavano guardinghi dietro i cespugli e i fianchi delle colline per non essere scorti dalla goletta. Molto vicini a noi, il gruppo dei guerrieri vestiti con le pelli nere, con Too-Wit alla testa, bloccavano l’unico passaggio da cui potevamo sperare di riguadagnare la costa, evidentemente in attesa dei rinforzi per procedere all’attacco della Jane Guy. Infine, nelle piroghe in fondo alla baia c’erano indigeni in apparenza disarmati, ma che certamente avevano armi a portata di mano, per cui 173 dovemmo con grande amarezza restarcene nel nostro nascondiglio, come semplici spettatori del terribile dramma che si sarebbe svolto a breve. In capo a circa mezz’ora circa, vedemmo infatti cinquanta o sessanta imbarcazioni col fondo piatto, piene d’indigeni spuntare dalla punta a sud della baia; i selvaggi sembravano non avere altre armi che delle corte mazze e delle pietre ammassate in fondo alle imbarcazioni. Subito dopo, un altro gruppo, ancor più numeroso, giunse dalla parte opposta, armato allo stesso modo; anche le quattro piroghe si riempirono d’indigeni che sbucavano dei cespugli in cima alla baia per unirsi agli altri due gruppi. Così, in men che non si dica, la Jane Guy si vide circondata da una gran moltitudine di selvaggi inferociti, visibilmente pronti a dare l’assalto. Non c’era alcun dubbio sul fatto che sarebbero riusciti nel loro tentativo: i sei uomini rimasti sulla nave, seppur decisi a vender cara la loro pelle, non erano certo in numero sufficiente per manovrare i cannoni né per sostenere una lotta così impari. Facevo fatica a immaginare che si sarebbero difesi, e invece mi sbagliavo, perché li vidi accorrere a poppa per fronteggiare l’assalto delle piroghe, che erano a portata di tiro, mentre le zattere si trovavano ancora a un quarto di miglio. Pe ragioni che ignoro – o forse per la sorpresa e lo spavento dei nostri poveri compagni nel vedersi in quella situazione disperata – i colpi andarono tutti a vuoto. Non una piroga venne colpita, non un selvaggio ucciso; il tiro era troppo corto e la scarica aveva appena sfiorato le loro teste. Il solo effetto che produsse su di loro la detonazione e il fumo fu un grande stupore, così forte che per un istante mi domandai se non stessero per rinunciare completa174 mente all’impresa e riguadagnare la riva, cosa che avrebbero certamente fatto se i nostri avessero fatto seguire ai colpi di cannone una scarica di moschetto; le piroghe infatti erano molto vicine e la scarica avrebbe certamente avuto qualche effetto, se non altro avrebbe arrestato l’assalto, guadagnando il tempo necessario per inviare un’altra bordata col cannone. Disgraziatamente, i marinai non pensarono a questa tattica e corsero a babordo per far fronte alle zattere e questo permise a due delle piroghe di riprendersi dalla paura, di guardarsi intorno e costatare che non avevano subito danni. La scarica di babordo invece produsse gli effetti più devastanti: i colpi di cannone fecero a pezzi sette o otto zattere, uccisero trenta o quaranta selvaggi e molti furono scaraventati in mare, in gran parte feriti gravemente. Gli altri, completamente terrorizzato, batterono ina una precipitosa ritirata, senza neppure ripescare i compagni che si vedevano galleggiare qua e là, implorando soccorso con urla disperate. Ma il successo giungeva troppo tardi per salvare i nostri valorosi compagni: il gruppo delle piroghe, più di centocinquanta uomini, si era già arrampicato a bordo della goletta, attaccandosi alle sartie e scavalcando il parapetto; nessun ostacolo poteva più arrestare l’avanzata di quelle bestie inferocite; i nostri marinai furono colpiti e fatti a pezzi in un batter d’occhio; a questa vista, i selvaggi delle zattere si ripresero dalla paura e si precipitarono in massa per saccheggiare la nave. In cinque minuti la Jane Guy subì il più feroce assalto e la più spaventosa devastazione che si fosse mai vista; il ponte venne distrutto, demolito; le cime, le vele, tutto ciò che poteva essere tolto dal ponte, ridotto in brandelli; nel frattempo, trainandola con le piroghe e 175 spingendola a poppa e ai lati, le migliaia di indigeni spinsero la nave, riuscendo a portarla a riva dove fu consegnata a Too-Wit che, nella posizione di capo assoluto, per tutta la durata dell’attacco non si era mai mosso dal suo posto d’osservazione sulla collina, ma che, ottenuta la vittoria, si degnava di scendere coi suoi guerrieri con la pelle nera e prendere la sua parte di bottino. La partenza di Too-Wit ci permise di uscire dal nostro rifugio e di andare a esplorare la collina; vicino al torrente e a cinquanta yards circa dall’entrata, scorgemmo una piccola fonte e questo ci permise di calmare un poco la sete. Non lontano erano parecchi cespugli simili a quelli di cui avevo parlato: le nocciole ci parvero molto buone, il loro gusto ricordava quello della nostra comune nocciola. Ne riempimmo subito i cappelli, le depositammo nel crepaccio e tornammo a cercarne altre. Mentre cercavamo di raccoglierne il più possibile, un movimento nei cespugli ci allarmò e stavamo per sgusciare nuovamente nel nostro nascondiglio quando un grosso uccello nero, un tarabuso, emerse faticosamente da un cespuglio di nocciolo. Ero così sorpreso che non sapevo cosa fare, ma Peters ebbe abbastanza presenza di spirito da lanciarsi sull’uccello e afferrarlo per il collo prima che potesse volar via. Gli sforzi che faceva per sottrarsi alla cattura e le grida che lanciava erano così terribili che fummo quasi sul punto di lasciarlo andare, temendo che il rumore allertasse qualcuno di quei selvaggi, che potevano ancora trovarsi nelle vicinanze. Alla fine, un colpo di bowie-knife ebbe ragione di lui e lo trascinammo nel crepaccio, soddisfatti di avere, comunque andasse, una provvista di cibo per una settimana. 176 Uscimmo poi nuovamente per esplorare i dintorni e ci spingemmo abbastanza lontano sul fianco meridionale della collina, ma senza trovare altro in fatto di viveri. Ci accontentammo quindi di raccogliere una provvista di legna secca e ripartimmo, dopo aver scorto due o tre gruppi d’indigeni che s’incamminavano verso il loro villaggio, carichi del bottino preso sulla nave, e che – di questo avevamo grande paura – potevano vederci passando vicino alla collina. Nostra prima preoccupazione fu dunque quella di rendere il più sicuro possibile il nostro nascondiglio e, a questo scopo, disponemmo alcuni arbusti sopra la breccia attraverso cui avevamo visto lo squarcio di cielo azzurro quando eravamo usciti dal crepaccio, e vi praticammo una stretta apertura, larga abbastanza da permetterci di poter osservare tutta la baia, senza esporci al pericolo di essere visti dal basso. Fatto ciò, ci rallegrammo della sicurezza del nostro rifugio, perché lì eravamo assolutamente invisibili finché non ci fossimo avventurati sulla collina. Nulla poteva lasciarci supporre che i selvaggi un giorno avrebbero provato a entrare anche in quel buco. Quando però pensammo che quell’apertura che ci aveva permesso di fuggire era stata originata con ogni probabilità dal crollo recente del versante opposto e che era la sola via per raggiungerlo, la gioia che ci dava l’idea di avere un posto sicuro lasciò il posto al pensiero che scendere di lì era assolutamente impossibile. Decidemmo quindi di esplorare attentamente la cima della collina, appena possibile, e, nell’attesa, sorvegliavamo tutte le gesta e i movimenti dei selvaggi attraverso il nostro osservatorio. Quelli avevano interamente saccheg177 giato la goletta e si preparavano ad appiccarle fuoco; infatti, poco dopo, vedemmo le fiamme levarsi dal grande boccaporto con un fumo denso, e altre fiamme dal castello di prua. Le attrezzature, gli alberi, i brandelli di vela sfuggiti al saccheggio e alla distruzione, s’infiammarono quasi subito e il fuoco aggredì ben presto il ponte. A bordo c’erano ancora molti indigeni intenti a staccare a colpi pietra, d’ascia e con le palle di cannone le serrature e tutte le altre finiture in ferro e rame. A terra, nelle piroghe e nelle zattere, c’erano non meno di diecimila indigeni, nelle immediate vicinanze della goletta, senza contare quelli che, carichi di bottino, riprendevano a gruppi il cammino dell’interno o delle isole vicine. Presentimmo allora il disastro, che infatti si verificò proprio come speravamo. Dapprima, fu come una grande scossa, di cui sentimmo distintamente il contraccolpo, ma senza il rumore dell’esplosione, come quello di una leggera scarica elettrica; i selvaggi ne parvero stupiti e interruppero, per un istante, il loro lavoro e le loro urla; ma, mentre stavano per rimettersi all’opera, un’enorme nube di fumo si alzò improvvisamente, carica di elettricità; poi, come sprigionata dalle viscere stesse della nave, sgorgò un’enorme fiammata, che ci parve innalzarsi all’altezza di un quarto di miglio, e immediatamente le fiamme si estesero tutt’intorno e, in una confusione indescrivibile, ci fu come una violenta mitragliata di pezzi di legno, di metallo, di membra umane; infine l’esplosione si produsse in tutta la sua violenza, arrivando fino a noi, mentre le colline intorno rimbombavano, moltiplicando l’eco della detonazione, e i detriti polverizzati si abbattevano ovunque. 178 La strage prodotta fra gli isolani oltrepassò le nostre più vive speranze ed essi raccolsero, perfettamente maturo, il frutto del loro tradimento; l’esplosione ne uccise un migliaio e un altro migliaio rimase spaventosamente mutilato. Tutta la baia era disseminata di quei miserabili che si dibattevano cercando di stare a galla e sulla riva lo spettacolo era ancora più spaventoso. Sembravano completamente paralizzati da questa inaspettata disfatta e non facevano niente per soccorrersi l’un l’altro. Finalmente, il loro atteggiamento mutò poco a poco e dallo stupore passarono, per reazione, al delirio dell’eccitazione, correndo da tutte le parti, lanciandosi verso un punto della baia per scappare quasi subito, con volti in cui si poteva leggere, di volta in volta, le più allucinanti espressioni di orrore, rabbia e d’intensa curiosità, e gridando a squarciagola: «Tekeli-li! Tekeli-li!» Più tardi vedemmo un gruppo numeroso spingersi verso l’interno delle colline, per uscirne poco dopo con un carico di pioli di legno che portarono nel punto in cui la ressa era più fitta e quasi subito la folla si fece da parte, come per rivelare ai nostri occhi l’oggetto di quella agitazione. Scorgemmo allora qualche cosa di bianco steso per terra, ma non potevamo distinguere di che si trattasse; finalmente, riconoscemmo in quella cosa informe il corpo del bizzarro animale dai denti e dagli artigli scarlatti che la goletta aveva pescato in mare il 18 gennaio. Il capitano Guy l’aveva fatto conservare per impagliarlo e portarlo in Inghilterra e mi ricordavo che aveva dato delle istruzioni al riguardo prima d’arrivare all’isola e che l’aveva fatto trasportare in cabina, chiuso in una delle casse. Quello strano animale era stato senza dubbio scagliato sulla riva dall’esplosione, ma quello che 179 non potevamo comprendere era perché avesse generato una tale eccitazione fra i selvaggi. Gli indigeni si affollavano a breve distanza dal corpo, ma nessuno sembrava volersi avvicinare di più; quelli che avevano portato dei pioli si affrettavano a piantarli in cerchio intorno alla bestia, ma questo lavoro non era ancora finito che tutta l’orda si precipitò verso l’interno dell’isola, senza smettere di gridare: «Tekeli-li! Tekeli-li!» Capitolo 23 Nei sei o sette giorni seguenti, restammo nel nostro nascondiglio, non facendo che rare sortite e sempre con la massima prudenza, per andare in cerca di acqua e nocciole. Avevamo costruito una specie di capanna sulla piattaforma e vi avevamo piazzato un letto di foglie secche e tre grosse pietre piatte che ci servivano contemporaneamente da camino e da tavola. Potevamo facilmente accendere un fuoco, sfregando uno contro l’altro due pezzi di legno secco, l’uno di legno tenero, l’altro di legno duro. L’uccello così opportunamente catturato ci offrì un nutrimento eccellente, anche se un poco coriaceo; non era un uccello oceanico ma una specie di tarabuso, dalle piume di un nero lucido, picchiettate di grigio, con ali molto piccole in rapporto alla taglia. In seguito ne vedemmo tre uguali vicino al crepaccio, che sembravano cercare quello che avevamo catturato, ma non si posarono a terra neppure una volta e non riuscimmo a prenderli. Così, per tutto il tempo che durò la carne di quell’uccello, la situazione era sopportabile; ma quando finì fu 180 necessario procurarci altri viveri; le nocciole da sole non bastavano al nostro sostentamento, anche perché, quando ne abusavamo troppo, ci procuravano violente coliche e forti emicranie. Avevamo visto molte tartarughe vicino alla costa, a est della collina, e pensavamo che avremmo potuto catturarle facilmente se avessimo potuto scendere senza venir visti dagli indigeni dell’isola. Decidemmo quindi di tentare una sortita e cercammo prima di scendere lungo il versante meridionale che sembrava offrire meno difficoltà, ma non avevamo ancora percorso cento yards che trovammo il sentiero interrotto improvvisamente da una propaggine della frana in cui i nostri compagni avevano trovato la morte. Percorremmo la cresta di questa gola per un quarto di miglio, finché non fummo di nuovo bloccati da un profondo precipizio, la cui parete non offriva alcuna possibilità di discesa, e fummo obbligati a tornare sui nostri passi, per il canale principale. Una nuova ricognizione dalla parte est ebbe il medesimo risultato e, dopo un’ora di fatica, in cui corremmo mille volte il rischio di romperci il collo, scoprimmo che non avevamo fatto che scendere in una grande fossa di granito nero, il cui fondo era coperto da una polvere fine e la cui sola uscita era lo stesso sentiero accidentato che avevamo preso per giungere fin là. Fu dunque necessario rifare il penoso tragitto per raggiungere la parte nord della collina, e là dovemmo fare la massima attenzione, perché alla minima imprudenza rischiavamo di essere facilmente visti dal villaggio. Ci trascinammo dunque a quattro zampe lungo il pendio e talvolta eravamo costretti a strisciare al suolo e nascon181 derci così, aggrappandoci agli arbusti. Con tutte queste precauzioni non eravamo ancora molto lontani dal nostro punto di partenza, quando sbucammo su un precipizio ancora più profondo dei precedenti, che dava direttamente sulla gola principale. Le nostre paure erano dunque confermate: non c’era alcuna possibilità di scendere da quella collina. Estenuati, tornammo alla meglio alla piattaforma e, gettatici sul nostro letto di foglie, ci riposammo per alcune ore. Dopo quella spedizione infruttuosa, passammo molti giorni a esplorare attentamente la collina per renderci conto di quali alternative disponessimo. Ci fu impossibile trovare del cibo, a eccezione delle solite nocciole e di una specie di coclearia che cresceva in abbondanza in un piccolo spiazzo di quattro piedi di lato e che ci credemmo in diritto di spogliare. Il 15 febbraio – se ho buona memoria – non ne restava più e, quanto alle nocciole, erano sempre più rare, cosicché la nostra situazione divenne alquanto precaria. Il 16 febbraio facemmo di nuovo il giro della nostra prigione, sperando di scoprire qualche via d’uscita, ma anche questa volta la speranza fu vana. Esplorammo pure il crepaccio in cui eravamo rimasti sepolti, con la debole illusione di trovare un passaggio per raggiungere la gola principale. Anche questa volta fummo completamente delusi, ma trovammo un fucile che portammo con noi. Il 17 febbraio una nuova sortita per esplorare più da vicino la fossa di granito nero che avevamo raggiunto nelle prime esplorazioni; ricordavamo di aver trascurato uno degli spiragli che si aprivano nella parete della fossa e lo volevamo esplorare più a fondo, anche se non speravamo più di trovare una via d’uscita. 182 Ci fu abbastanza facile raggiungere il fondo della fossa, come già avevamo fatto, e questa volta avemmo la pazienza di controllare con attenzione. In verità era uno dei luoghi più straordinari che avessi mai visto e a stento si poteva credere che fosse esclusivamente opera della natura. La fossa misurava dall’estremità est fino a quella ovest cinquanta yards di lunghezza, tenendo conto di tutte le curve: la distanza dall’est all’ovest in linea retta non superava quaranta o cinquanta yards, da quanto io potei supporre, perché non avevo alcun mezzo per misurarla in modo preciso. Al principio della nostra discesa in quell’abisso, cioè su un tragitto di un centinaio di piedi a contare dalla sommità della collina, le due pareti presentavano ben poca somiglianza fra loro e non sembravano essere state mai coerenti, essendo una composta di steatite e l’altra di marmo con venature di un materiale metallico. A tratti l’intervallo compreso fra le due pareti occupava una larghezza minima di sessanta piedi circa e non aveva una struttura regolare. Ma, al di sotto del limite indicato, l’intervallo si restringeva subito e le pareti presentavano di nuovo per un pezzo differenze di composizione geologica, di colore e d’aspetto superficiale. Solo a partire da una cinquantina di piedi prima del fondo, cominciava la simmetria perfetta; le pareti erano allora interamente uniformi dal punto di vista della struttura, del colore e della direzione, il materiale era un granito molto nero e molto brillante e la distanza fra le due facce opposte era regolarmente di venti yards. La configurazione precisa dell’abisso sarà resa più intelligibile dal disegno che qui è riprodotto, perché portavo fortunatamente con me un taccuino e una matita che ho sempre conser183 vato con la più grande cura durante tutte le mie avventure, cosicché ho potuto ricostruire una specie di promemoria per tutta una filza di piccoli dettagli di cui non avrei saputo, certamente, conservare il ricordo. Figure che rappresentano il contorno generale delle gole e delle fosse. Questa figura riproduce il profilo generale della fossa, senza le cavità più piccole a lato – e ve ne erano parecchie – ciascuna con una corrispondente protuberanza dal lato opposto. Il fondo della fossa era ricoperto per uno spessore di tre o quattro pollici da uno strato di polvere quasi impalpabile, al di sotto della quale riprendeva il granito nero. Sulla destra, all’estremità inferiore, si nota il segno di una stretta apertura ed è la fessura di cui ho parlato, quella che la nostra seconda visita aveva per scopo di esplorare con più attenzione. Vi penetrammo con decisione, recidendo un ammasso di rovi che impedivano il passaggio e rimuovendo della silice aguzza che somigliava a punte di freccia. Una debole luce proveniente dall’estremità opposta ci incoraggiò a perseverare nel nostro tentativo; stretti come in una morsa avanzammo ancora di trenta piedi e vedemmo che l’apertura da cui proveniva la luce era una volta bassa, di forma regolare, 184 coperta della stessa polvere impalpabile della fossa principale. Una pioggia di luce si rovesciò su di noi e, voltandoci bruscamente, sbucammo in una nuova camera alta, assolutamente identica alla prima, non fosse stato per la sua forma allungata. La larghezza totale di questo secondo fossa, a partire dall’apertura A, girando la curva B, fino all’estremità D, era di centocinquanta yards. Al punto C scoprimmo una piccola apertura simile a quella che ci aveva permesso di uscire dal primo abisso, anch’essa ingombra di rovi e silici dalla punta acuminata. L’attraversammo e costatammo che, dopo un tragitto di quaranta piedi, il corridoio dava accesso a una terza fossa, anche questa identica alla prima. La lunghezza totale di questa terza fossa era di 320 yards. Al punto superiore, si apriva una fenditura larga circa 6 piedi, che penetrava fino a una profondità di 15 piedi nella roccia, dopo di che finiva con uno strato di marmo. Strani segni impressi nella muraglia marnosa. Eravamo sul punto di uscire da quell’abisso ove la luce penetrava appena, quando Peter richiamò la mia attenzione su una serie di strani segni impressi nella muraglia marnosa, che qui formava il fondo dell’imbuto. Con un leggero sforzo d’immaginazione si poteva vedere la prima incisione sulla sinistra – o per meglio dire, verso nord – come il profilo grossolano di un uomo col braccio teso. Gli altri segni sembravano caratteri alfabetici 185 e Peters ne sembrava persuaso. Riuscii tuttavia a convincerlo che si sbagliava richiamando la sua attenzione sul terreno, dove, frammisti alla polvere, individuammo dei grossi frammenti di marna, che erano stati indubbiamente proiettati laggiù da qualche evento naturale, provenienti della superficie dove avevamo scoperto gli intagli; notammo infine che alcuni dei frammenti combaciavano perfettamente coi buchi sulla parete; questo dimostrava che tutto quello era opera della natura. Una volta accertato che le strane incisioni non aiutavano a sfuggire dalla nostra prigione, ci rimettemmo in cammino, abbattuti e disperati, verso la sommità della collina. Nulla di notevole avvenne nelle ventiquattr’ore che seguirono, se si eccettua, durante un’esplorazione a est del terzo abisso, la scoperta di altre due fosse triangolari di grande profondità, con pareti di granito nero come le altre. Non ci parve opportuno scendere in quegli abissi, che sembravano dei semplici pozzi naturali, senza alcuna uscita, e che misuravano ciascuno forse venti yards di circonferenza. Capitolo 24 Il 20 di febbraio, vedendo che ci sarebbe stato completamente impossibile sostentarci più a lungo con le nocciole, che ci provocavano crudeli sofferenze, prendemmo la decisione di tentare uno sforzo disperato per scendere il fianco meridionale della collina. In quel punto la parete del precipizio era composta di steatite molto tenera ed era quasi verticale in tutta la sua estensione (una profondità di centocinquanta piedi almeno) 186 e in certi punti strapiombante. Dopo lunghe ricerche scoprimmo una stretta sporgenza, venti piedi circa al di sotto dell’orlo dell’abisso; Peters riuscì a saltarvi, mentre io lo reggevo con l’aiuto dei nostri fazzoletti giuntati insieme. Anch’io riuscii a saltare con maggior fatica e ci parve possibile scendere tutta la parete nello stesso modo in cui eravamo usciti dalla gola in cui eravamo rimasti sepolti dal violento terremoto. Il tentativo era più temerario di quanto l’immaginazione possa concepire, ma non avevamo altra scelta ci dovemmo decidere. Sulla piattaforma in cui ci trovavamo crescevano alcuni arbusti di nocciolo e a uno di questi legai un capo della corda formata coi nostri fazzoletti. Assicurai l’altra estremità alla vita di Peters e lo calai nel precipizio finché i fazzoletti non rimasero tesi; lui allora praticò un foro profondo da otto a dieci pollici nella steatite, scavando obliquamente la roccia al di sotto di lui a un’altezza di un piede circa e piantò un piolo col calcio della pistola, creandosi così un solido appiglio. Poi io lo issai di quattro piedi circa, e lì scavò un secondo buco identico al primo, assicurandosi così un punto d’appoggio per piedi e mani. Slegai allora la corda di fazzoletti dall’arbusto e gliene gettai l’estremità che lui legò al piolo superiore, dopo di che si lasciò cadere dolcemente a tre piedi circa della sua prima stazione, cioè su tutta la lunghezza della corda. Arrivato lì, praticò un altro foro dove piantò un altro piolo, poi si sollevò con tutte le sue forze in modo da poter posare i piedi nel terzo buco, afferrando al contempo con le mani il piolo superiore. Malgrado tutto, dopo uno o due tentativi a vuoto, che non per questo erano meno pericolosi – perché, mentre tentava con la mano destra di sciogliere la corda, doveva 187 contemporaneamente tenersi con la sinistra — si rassegnò a tagliare la corda lasciando pendere dal piolo un pezzo di sei pollici; poté così attaccare i fazzoletti al secondo piolo e scendere di un gradino al di sotto del terzo, badando bene questa volta di non cadere troppo in basso. Con questo procedimento, che io non avrei mai saputo immaginare per mio conto, e di cui tutto l’onore deve essere attribuito alla sicurezza e all’audacia di Peters, il mio compagno, aggrappandosi qua e là alle asperità della parete, giunse finalmente in fondo senza incidenti. Rimasi immobile per un istante, non sentendomi sicuro di poterlo seguire, poi finalmente mi decisi anch’io. Prima di scendere Peters si era tolto la camicia, che ora, unita alla mia, mi forniva la corda necessaria all’impresa. Gettai dunque nel precipizio il fucile che avevamo trovato, legai la corda al cespuglio di nocciolo e mi lasciai subito scivolare, cercando di dimenticare, con i movimenti stessi, la paura che altrimenti non avrei saputo dominare. Il trucco funzionò abbastanza bene all’inizio, ma presto mi sentii sconvolto all’idea del precipizio che dovevo ancora scendere, col solo aiuto dei gradini molto precari e dei fori nella steatite. Mi sforzavo invano di allontanare da me quel pensiero e di non staccare lo sguardo dalla parete liscia che avevo davanti; più lottavo disperatamente per non pensarci, più la mia testa si fissava su quell’idea. Alla fine la mia mente entrò in crisi, quella crisi spaventosa in cui si cominciano ad anticipare le sensazioni più adatte a provocare la caduta, in cui si prova la nausea, le vertigini, l’ultimo sforzo e l’orrore finale di una caduta a capofitto. Vivevo quelle allucinazioni come una realtà, sentivo tutte quelle cose orribili 188 piombarmi addosso, divenire reali, sentivo le ginocchia tremare forte, le dita indebolirsi poco a poco sull’appiglio. Qualcosa ronzava nelle mie orecchie e pensavo: «Ecco il gelo della morte!». E allora mi prese un desiderio irrefrenabile, quello di guardare in basso. Non potevo più, non volevo più tenere lo sguardo fisso sulla roccia e, con una selvaggia, inesprimibile sensazione in cui l’orrore si mescolava al sollievo, spinsi il mio sguardo fino in fondo all’abisso. Per un attimo ancora le mie dita s’aggrapparono convulsamente al loro appiglio e quello sforzo accompagnava in me l’idea indebolita della salvezza finale – qualche cosa come un’ombra fluttuante attraverso la mia mente – e quasi subito sentii la mia testa presa dall’impulso di cadere, un desiderio, un fascino, una passione assolutamente invincibile. Mollai la presa e, piegato su me stesso lungo la parete, oscillai, per un secondo ancora, contro quella nuda superficie. Ma ecco che uno schianto si produsse improvvisamente nel mio cervello: una voce acutissima, la voce di un fantasma, mi gridava nelle orecchie; un viso nero, satanico, avvolto dall’ombra, si levò immediatamente sotto di me; mi lasciai sfuggire un sospiro e, come se il cuore mi si spezzasse, caddi tra le braccia del fantasma. Avevo perduti i sensi e Peters mi aveva afferrato in tempo nel momento in cui stavo per cadere. Dal fondo della parete aveva seguito i miei movimenti e, intuendo il pericolo che mi minacciava, aveva cercato d’incoraggiarmi con tutti i mezzi che aveva potuto immaginare; ma la mia mente era così stravolta che non avevo sentito nulla di ciò che mi diceva e non mi ero neanche accorto che parlasse. Alla fine, vedendomi vacillare, si era affrettato ad arrampicarsi per soccorrermi ed era arrivato ap189 pena in tempo. Se fossi caduto con tutto il mio peso, la debole corda si sarebbe spezzata e sarei inevitabilmente sprofondato nell’abisso; ma il mio compagno arrestò la mia caduta e potei restare sospeso nel vuoto finché non ebbi ripreso coscienza, cosa che richiese un buon quarto d’ora. Una volta tornato in me, la vertigine era sparita; ero come rinato e, sempre con l’aiuto di Peters, raggiunsi sano e salvo la base del precipizio. Non eravamo molto lontani dalla gola in cui i nostri amici avevano perso la vita, a sud del punto in cui la collina era crollata. L’aspetto del luogo era stranamente desolato, simile alle descrizioni che i viaggiatori fanno delle tristi contrade della vecchia Babilonia; per non parlare delle rovine delle colline sprofondate che sbarravano l’orizzonte a nord. Il terreno era disseminato di enormi tumuli che sembravano i resti di gigantesche architetture, ma a guardare più da vicino non vi si riconosceva la mano dell’uomo. C’erano solo detriti e grossi blocchi di granito, informi e neri, si alternavano qua e là a blocchi di marna, e i due materiali avevano ricche incrostazioni metalliche; scorgemmo anche enormi scorpioni e rettili che normalmente non si trovano a quelle latitudini. Nostra prima preoccupazioni era di procurarci qualcosa da mangiare, per cui decidemmo di dirigersi verso il litorale, distante non più di mezzo miglio, per catturare delle tartarughe che avevamo visto dall’alto del nostro nascondiglio sulle colline. Avevamo fatto appena cento yards, scivolando con prudenza dietro i grossi blocchi e i tumuli, e stavamo per girare un angolo, quando cinque indigeni balzarono fuori da una piccola caverna e abbatterono Peters con un colpo di mazza; lui cadde e gli assalitori si lanciarono nuovamente su di lui per finirlo 190 e io ebbi il tempo di riavermi dalla sorpresa. Avevo ancora con me il fucile, ma il grilletto era stato danneggiato per la caduta dall’alto del precipizio e pensai che fosse inutilizzabile; così lo gettai, preferendo affidarmi alle pistole, che invece avevo conservato con grande cura. Avanzai verso gli aggressori e feci fuoco; due selvaggi caddero e un altro che stava per trafiggere Peters con la lancia, fece un balzo indietro senza mettere in opera il suo triste disegno. Liberato il mio amico, il peggio era passato. Anche Peters aveva le sue pistole di cui però non fece uso, preferendo contare sulla sua forza, veramente superiore a qualunque altro uomo. Impugnò quindi la mazza di uno dei selvaggi stesi a terra e spappolo la testa ai tre che restavano, spedendoli istantaneamente all’altro mondo, con un colpo solo. In breve restammo padroni del terreno. Tutto questo si era svolto in un batter d’occhio e, non credendo ai nostri occhi, ce ne stavamo attoniti, accanto a quei cadaveri, immersi in una sorta di ebete contemplazione, quando dei clamori lontani ci richiamarono alla realtà. Evidentemente le esplosioni avevano messo in allarme gli indigeni e ci avrebbero sicuramente scoperti. Per tornare alla collina saremmo dovuti andare nella direzione da cui provenivano le grida e, ammesso che fossimo riusciti a raggiungerla, era impossibile che non ci vedessero. La situazione era delle peggiori e non sapevamo dove andare, quando uno dei selvaggi che avevo colpito e che credevo morto si alzò improvvisamente, cercando di scappare. Lo bloccammo subito prima che potesse fare un passo e stavamo per ucciderlo, quando Peters suggerì che sarebbe stato meglio portarlo con noi. Lo trascinammo dunque, facendogli 191 capire che se avesse resistito lo avremmo ucciso; bastò poco per renderlo docile e ci seguì nella nostra corsa precipitosa attraverso le rocce in direzione della costa. Il terreno era così accidentato che vedevamo il mare solo a tratti e quando ci apparve per intero eravamo alla distanza di sole duecento yards. Sbucando allo scoperto sulla sabbia, vedemmo, con nostra grande costernazione, che una moltitudine di isolani si riversava dal villaggio e da resto dell’isola correndo verso di noi con gesti furiosi e con urla bestiali. Stavamo per fare dietrofront per nasconderci negli anfratti del terreno quando scorgemmo la prua di due piroghe dietro una grossa roccia. Corremmo alla massima velocità consentita dalle nostre gambe e, raggiungendole scoprimmo che non c’era nessuno, ma solo tre grosse tartarughe e remi sufficienti per un equipaggio di sessanta persone; spingemmo il prigioniero a bordo e mettemmo la piroga in acqua con tutta l’energia che ci rimaneva. Eravamo appena a cinquanta yards della spiaggia quando ci rendemmo conto che avevamo commesso una grande sciocchezza lasciando la seconda piroga in mano ai selvaggi, che erano giunti a cento yards dalla riva e acceleravano la corsa. Non c’era tempo da perdere, avevamo un’unica speranza, a costo di enormi sforzi dovevamo tornare indietro e raggiungere l’altra piroga prima che se ne impadronissero gli indigeni. Era l’unico modo per salvarci, altrimenti eravamo condannati. La piroga era costruita con prua e poppa identiche, cosicché non occorreva fare una virata, ma bastò cambiare posizione ai remi per invertire la rotta. Appena i selvaggi si accorsero dei nostri movimenti, raddoppiarono le loro grida come la foga e si avvicinavano a gande velocità. 192 Dal canto nostro, remavamo con la forza della disperazione e, quando giungemmo alla piroga, uno solo degli indigeni ci aveva raggiunto e pagò cara la sua velocità, perché Peters gli bruciò le cervella nel momento stesso in cui toccava il bordo. Il gruppo degli isolani era all’incirca a venti o trenta passi da noi saltammo nella piroga: prima tentammo di trascinarla al largo, fuori di portata dei selvaggi, ma vedendo che era troppo pesante e che non c’era tempo, con uno o due colpi col calcio del fucile Peters la sfondò a prua e ai lati. Fatto ciò, riguadagnammo il largo; due indigeni avevano fatto in tempo ad aggrapparsi alla nostra imbarcazione e non volevano mollare, cosicché ci vedemmo costretti a liberarcene a colpi di coltello. Questa volta ce l’avevamo fatta... filavamo veloci in mare e il grosso dei selvaggi, raggiunta la piroga demolita, lanciò urla di rabbia e di vendetta. In verità, quanto ho potuto conoscere sul conto di quegli scellerati, me li ha rivelati come la razza la più perversa, più astuta, più vendicativa, più sanguinaria e, sotto tutti i punti di vista, più diabolica che si sia vista sulla faccia della terra. Ci avrebbero certamente massacrati se fossimo caduti nelle loro mani. Cercavano ancora con sforzi disperati di spingere la piroga squarciata, ma presto dovettero convincersi che non era utilizzabile e, dopo avere di nuovo lanciato grida spaventose, si lanciarono verso le colline. Non c’erano pericoli immediati, ma la situazione non era comunque rosea: pensavamo che i selvaggi avessero altre quattro piroghe simili alla nostra, perché non eravamo ancora stati informati – il nostro prigioniero ce lo disse più tardi – che due di esse erano state distrutte dall’esplosione della Jane Guy. Calcolammo quindi che sa193 remmo stati inseguiti dai nostri nemici appena avessero potuto raggiungere l’altro lato della baia, distante circa tre miglia, dove di solito stavano le piroghe, e con quel timore cercavamo di allontanarci il più possibile dall’isola, scivolando velocissimi sull’acqua, dopo aver costretto il prigioniero a prendere anche lui il remo. Circa mezz’ora dopo, percorse almeno cinque o sei miglia verso sud, ci apparve una moltitudine d’imbarcazioni a fondo piatto e di zattere, provenienti dal fondo della baia, con l’evidente intenzione d’inseguirci, ma ben presto li vedemmo tornare indietro, forse giudicando disperato e vano il tentativo. Capitolo 25 Eccoci dunque in mezzo all’immenso e lugubre Oceano Antartico, sotto una latitudine che superava gli 84°, in una fragile piroga, senza altri viveri che tre tartarughe. Doveva inoltre essere ormai vicino il lungo inverno polare, per cui dovevamo decidere con urgenza il da farsi. C’erano sei o sette isole in vista, appartenenti al medesimo arcipelago e distanti cinque o sei leghe le une dalle altre, ma non avevamo nessuna voglia di avventurarci su alcuna di esse. La Jane Guy era arrivata nord e si era lasciata alle spalle zone glaciali spaventose, anche se ciò non concorda con le comuni nozioni sull’Oceano Antartico, ma che la nostra esperienza personale non metteva in dubbio. Di conseguenza, cercare di tornare da quella parte sarebbe stata una vera follia, soprattutto con la stagione così avanzata. Sola una strada ci sembrava offrire speranze, e fu dunque deciso di spingersi 194 coraggiosamente verso sud, dove almeno avremmo potuto scoprire altre terre e dove il clima forse era più clemente. Fino ad allora avevamo osservato che nell’Oceano Antartico, come in quello Artico, non si scatenavano mai tempeste violente né ondate esagerate; la nostra piroga era grande ma fragilissima e pensammo di renderla più solida, per quanto ci consentivano le nostre limitatissime risorse. L’imbarcazione era costituita dalla corteccia di un albero sconosciuto e misurava circa cinquanta piedi da poppa a prua, da quattro a cinque piedi in larghezza e quattro e mezzo di profondità; era quindi sostanzialmente diversa dalle imbarcazioni di altri indigeni dell’Oceano del sud coi quali le nazioni civilizzate sono entrate in contatto. Noi non avevamo mai pensato che quelle piroghe potessero essere opera di quei selvaggi primitivi che le possedevano; più tardi infatti, interrogando il nostro prigioniero, venimmo a sapere che erano state costruite dagli indigeni di un arcipelago situato a sud-ovest delle isole in cui le avevano trovate e che, per nostra fortuna, erano cadute nelle mani dei nostri nemici. Coi numerosi remi che non ci servivano costruimmo una specie di armatura a prua per rinforzarla contro le ondate e piantammo inoltre due remi in guisa di alberi, fissandoli ai due bordi, uno di fronte all’altro, e agganciammo a questi alberi improvvisati una vela formata dalle nostre due camicie; e questo lavoro ci richiese non poco tempo perché non ottenemmo aiuto dal prigioniero. L’aspetto della vela sembrava spaventarlo e non c’era modo di convincerlo a toccarla; quando tentavamo di forzarlo o di avvicinarlo a essa, si metteva a tremare, gridando: «Tekeli! Tekeli!». 195 Dopo aver sistemato in quel modo la piroga, doppiammo l’ultima isola dell’arcipelago e puntammo decisamente verso sud. La temperatura era gradevole, soffiava una dolce brezza da sud, il mare era calmo e le giornate erano lunghissime. Non c’era ghiaccio in vista e non avevamo neppure scorto un iceberg, passato il traverso dell’Isola di Bennet. Evidentemente la temperatura dell’acqua era molto elevata. Uccidemmo la più grossa delle nostre tartarughe, che ci fornì contemporaneamente carne e acqua in abbondanza, poi proseguimmo la navigazione senza incidenti per sette o otto giorni, col vento costantemente favorevole e la corrente che ci spingeva nella direzione scelta; così potemmo fare un tragitto considerevole verso sud. 1° marzo.1 Molti fenomeni insoliti ci fecero pensare che stavamo entrando in una regione di grandi scoperte e di meraviglie. L’orizzonte a sud era costantemente velato da una vasta cortina di vapore grigio e impalpabile, incendiata a tratti da banderuole di fuoco ondeggianti da ovest a est o viceversa e uniforme in basso e in alto: in poche parole un fenomeno con tutte le violente variazioni di un’aurora boreale. L’altezza media di quella cortina, come ci appariva dal punto in cui ci trovavamo, era di circa 25°; la temperatura del mare sembrava momentaneamente salita e se ne percepiva il calore. 3 marzo. Quel giorno, tempestando di domande il nostro prigioniero, ottenemmo alcune spiegazioni sull’isola del massacro, sui suoi abitanti e sui suoi costumi; il let1 Per motivi che il lettore comprenderà facilmente, non posso garantire l’esattezza dei dati che seguono. Li riporto solo per dare più chiarezza al mio racconto, nel modo in cui li ho annotati sul taccuino per mezzo della mia matita. 196 tore potrebbe ancora interessarsi a questi dettagli. Dirò solamente che l’arcipelago era composto di otto isole, con un unico re, chiamato Tsalamon o Tsalamoun che risiedeva in una delle più piccole; dirò anche che le pelli che costituivano l’uniforme dei guerrieri provenivano da un animale di taglia enorme, che viveva esclusivamente in una vallata vicina alla residenza reale; che gli isolani non costruivano altre imbarcazioni che delle zattere a fondo piatto, e che le quattro piroghe, le uniche che avessero di quel tipo, erano venute loro per caso da una grande isola sud-ovest; che il nome del nostro prigioniero era Nu-mu, che non conosceva affatto l’Isola Bennet; e infine, che l’isola da cui eravamo fuggiti si chiamava Tsalal. La sillaba iniziale della parola Tsalaman o Tsal, si pronunziava con un fischio prolungato che ci fu impossibile riprodurre, anche dopo ripetuti sforzi, e che era esattamente identico a quello del tarabuso nero che avevamo mangiato in cima alla collina. 3 marzo. Il colore dell’acqua era veramente strano: la colorazione si era rapidamente alterata; aveva perduto tutta la trasparenza per prendere la tinta e la consistenza del latte. Nelle nostre immediate vicinanze il mare normalmente era calmo e la nostra imbarcazione non correva alcun pericolo. Spesso però vedevamo alla nostra destra o a sinistra, più o meno lontane, delle improvvise increspature della superficie e notammo che erano sempre precedute da strane ondulazioni del mare nella regione a sud. 4 marzo. Quel giorno, visto che il vento da nord calava sensibilmente, tolsi dalla tasca un fazzoletto bianco per aumentare la superficie esposta al vento. Nu-mu era seduto al mio fianco e, come il fazzoletto gli sfiorò il viso, 197 ebbe delle convulsioni violente. A queste crisi seguirono una profonda depressione e torpore, e sempre il grido soffocato: «Tekeli! Tekeli! ». 5 marzo. Il vento è cessato del tutto, ma siamo sempre trascinati verso il sud da una forte corrente. A dire il vero, avevamo tutte le ragioni per essere allarmati dalla piega degli avvenimenti, eppure niente ci turbava; il viso di Peters non tradiva alcun timore e solamente in certi momenti assumeva un’espressione che non saprei definire. L’inverno polare si avvicinava, ma non sembrava così terribile, e io mi sentivo come intorpidito nel corpo e nella mente, in una sensibilità di sogno, e ciò era tutto! 6 marzo. Il vapore grigio si era alzato di più gradi al di sopra dell’orizzonte e la colorazione grigiastra spariva a poco a poco. L’acqua era molto calda, quasi bruciava a toccarla e il colore era lattiginoso. Quel giorno, improvvisamente, l’acqua si agitò vicino alla piroga e, come sempre, il fenomeno coincise con una particolare fiammata alla sommità della cortina di vapore e con uno strappo leggero alla sua base; quando il vapore si arrestò e il mare si calmò una fine polvere bianca cadde sulla piroga e su un esteso braccio di mare. Nu-mu crollò allora sul fondo dell’imbarcazione, nascondendo il viso tra le mani e niente poté deciderlo ad alzarsi. 7 marzo. Abbiamo interrogato Nu-mu sul motivo che aveva spinto la sua tribù a massacrare i nostri compagni, ma era troppo terrorizzato per risponderci in modo ragionevole; rimaneva steso in fondo all’imbarcazione e di fronte alle nostre insistenze nel porgli la domanda, faceva gesti strani, come sollevare il labbro superiore coll’indice per scoprire i denti. Erano neri ed era la prima volta che osservavamo i denti di un indigeno di Tsalal. 198 8 marzo. Uno di quegli animali bianchi che, al suo apparire nella baia di Tsalal, aveva causato un’emozione così forte fra i selvaggi, nuotava a fianco della nostra piroga. Ho pensato per un momento di catturarlo ma poi, preso da un improvviso timore, ho lasciato perdere. Il calore dell’acqua andava sempre crescendo, non si poteva resistere a lungo immergendo la mano. Peters non apriva bocca e non sapevo spiegarmi la sua apatia. Guardai Nu-mu: respirava appena. 9 marzo. Intorno a noi è caduta continuamente una pioggia di cenere in grande quantità; il nastro di vapore al sud si è alzato in cielo in modo prodigioso e comincia ad assumere una forma ben definita. Non saprei trovare definizione migliore che paragonandola a un’infinita cataratta, che rotola silenziosa in mare da un lontanissimo bastione. La gigantesca copriva in tutta la sua estensione l’orizzonte a sud 21 marzo. Le tenebre incombevano su di noi, ma dall’oceano color latte si alzava un raggio di luce che sembrava sfiorare i bordi dell’imbarcazione. Eravamo quasi sepolti da quella valanga di cenere bianca che si ammonticchiava sempre più sulla piroga, ma che fondeva al contatto dell’acqua. Il fondo della cateratta era inghiottito dalle tenebre in lontananza, tuttavia ci avvicinavamo a essa con una spaventosa velocità. A momenti vi si potevano distinguere come degli enormi strappi momentanei, e attraverso questi strappi si vedevano agitarsi immagini fuggevoli e nebulose; vi convergevano, venti possenti, ma silenziosi, il cui volo fendeva l’oceano incendiato. 22 marzo. Le tenebre si erano fatte ancora più opache, attenuate solamente dalla luce delle acque che si riflet199 tevano nella cortina bianca che si spiegava davanti a noi. Intanto, delle vere orde di uccelli giganteschi, di un bianco livido, volavano continuamente dietro la nostra strana vela e il grido che lanciavano, sfuggendo ai nostri occhi, era l’eterno ritornello: «Tekeli-li!». Nu-mu ha fatto uno strano movimento in fondo all’imbarcazione e, toccandolo, abbiamo capito che non era più nel mondo dei vivi. E allora siamo accorsi nell’abbraccio della cataratta, in cui si era aperto una fenditura, quasi per inghiottirci. Ma nel nostro cammino si levò a un tratto una figura umana, ricoperta da un velo e molto più grande del comune. E il colore della pelle dello strano fantasma era il bianco perfetto della neve. FINE 200 NOTA La stampa quotidiana ha già dato notizia al pubblico delle circostanze collegate alla recente, dolorosa e improvvisa scomparsa del signor Pym. I pochi capitoli finali che, mentre gli altri erano già in corso di stampa, furono trattenuti per una revisione, temiamo che siano andati irrimediabilmente perduti nell’incidente che ha visto la morte del loro autore. In caso contrario, se mai verranno ritrovate, anche queste pagine saranno rese note al pubblico. Niente è stato lasciato d’intentato per rimediare alla lacuna. La persona che viene citata nell’introduzione, che da quanto dice potrebbe ritenersi in grado di colmare questo vuoto, ha declinato il compito con valide obiezioni, sia per i pochi precisi particolari di cui dispone, sia per avere dubbi sull’autenticità dell’ultima parte del racconto. Da Peters, che è vivo e abita in Illinois, qualche informazione potrebbe forse essere possibile ottenerla, ma fino a oggi è stato impossibile rintracciarlo. Se in futuro lo si potrà incontrare, saprà sicuramente fornire gli elementi utili a completare la storia del signor Pym. La perdita degli ultimi due o tre capitoli (infatti erano soltanto due o tre) è tanto più irrimediabile in quanto contenevano con sicurezza materiale relativo al Polo, o perlomeno alle zone più vicine a esso, e anche perché le rivelazioni che l’autore ha fatto su quelle regioni potrebbero venire confermate oppure smentite, in tempi non lontani, dalla spedizione governativa in corso di allestimento nei mari dell’Antartico. 201 Stampato nel dicembre 2015 da Tipografia ABC - Sesto Fiorentino (Fi)