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«Sentivo le ginocchia tremare forte, le dita indebolirsi poco
a poco sull’appiglio. Qualcosa ronzava nelle mie orecchie e
io pensavo: «Ecco il gelo della morte!».»
Arthur Gordon Pym si imbarca clandestinamente a bordo
della baleniera “Grampus” e si ritrova a vivere una serie
di disavventure in mare. Scampato a un naufragio, viene
salvato dall’equipaggio della nave “Jane Guy”, insieme
alla quale farà rotta verso il Polo Sud alla ricerca di terre
inesplorate.
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r o b e r t o r i c c i d e s i g n s . c o m
Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym
Edgar Allan Poe (1809-1849) è considerato uno dei più grandi e influenti scrittori
statunitensi della storia. Scrittore di grande inventiva, ha anticipato generi letterari
quali il racconto poliziesco (i suoi personaggi Auguste Dupin e William Legrand si
possono considerare gli antenati più diretti dello Sherlock Holmes di Arthur Conan
Doyle), e la fantascienza. Negli anni, la figura dello scrittore è stata omaggiata
numerose volte nella cultura popolare, attraverso la letteratura, la musica, le produzioni cinematografiche e quelle televisive.
Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym
Edgar Allan Poe
Le avventure
di Gordon Pym
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INTRODUZIONE
Dopo una serie di avventure vissute nei mari del sud,
tornato negli Stati Uniti, feci la conoscenza di alcuni rispettabili cittadini di Richmond, in Virginia, che mostrarono grande interesse per le regioni da me visitate e
cercarono di convincermi a rendere pubblico il racconto
delle mie peripezie.
Io avevo i miei motivi per rifiutare, alcuni del tutto privati, altri no: dal momento che non avevo quasi mai tenuto un diario nel mio viaggio, avevo paura di non
riuscire a scrivere, con il solo aiuto della memoria, un
resoconto che avesse una parvenza di verità; escludendo, naturalmente, certe inevitabili esagerazioni alle
quali è facile indulgere quando si descrivono eventi che
tanto eccitano l’immaginazione; un altro motivo consisteva nel fatto che gli avvenimenti da narrare erano difficili da credere (suffragati soltanto da un unico
testimone, un mezzosangue indiano) e quindi non potevo sperare che nella fiducia della mia famiglia e degli
amici che nel corso della loro vita avevano prestato fede
al mio amore per la verità.
Temevo insomma che il pubblico avrebbe considerato i
miei resoconti come favole ingegnose, oltre al fatto che
anche la mia poca capacità di scrittore mi sconsigliava
di accettare i suggerimenti dei miei consiglieri.
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Tra i gentiluomini della Virginia che mostrarono attenzione per le mie osservazioni, in particolare per le parti
del racconto che riguardavano l’oceano Antartico, vi era
il signor Poe, già direttore del «Southern Literary Messenger», mensile pubblicato a Richmond dal signor Thomas W. White. Il signor Poe mi consigliò amichevolmente
di scrivere un resoconto completo di quanto avevo visto
e vissuto, confidando sull’intelligenza e il buon senso dei
lettori: se anche il racconto fosse risultato rozzo, proprio
per questo avrebbe avuto maggiori probabilità di essere
preso per vero.
Nonostante questo parere, esitavo a seguire il suo consiglio. Vedendomi irremovibile, mi chiese così il permesso
di raccontare con parole sue la prima parte delle mie avventure, per pubblicarla sul «Southern Messenger»,
come fosse un romanzo. Non avendo nulla da obiettare,
gli diedi il mio assenso, chiedendo solo che venisse
omesso il mio nome. Le prime due puntate comparvero
sui fascicoli di gennaio e febbraio (1837) del «Messenger»; per far sì che sembrasse davvero un romanzo, nel
sommario della rivista accanto al titolo dei brani figurava
il nome del signor Poe.
La buona accoglienza riservata a queste avventure mi convinse ad affrontarne la stesura completa; infatti, nonostante il tono inverosimile di quella parte del mio racconto
apparsa sul «Messenger» (senza comunque che i fatti venissero distorti), il pubblico non lo prese affatto come un
romanzo, e infatti al signor Poe giunsero diverse lettere
nelle quali era chiara una convinzione del tutto opposta.
Ne dedussi che, proprio per la loro natura, i fatti da me
narrati sarebbero risultati veritieri e dunque non dovevo
temere l’incredulità dei lettori.
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Ciò premesso, sarà facile capire quali brani, tra quelli
che seguono, possano rivendicare la mia paternità; e si
vedrà anche che nelle prime pagine, scritte dal signor
Poe, niente è stato travisato. Segnalare dove termina la
sua parte e dove inizia la mia sarebbe inutile, anche per
quei lettori che non hanno letto il «Messenger»: le differenze di stile sono evidenti.
A.G. Pym
New York, luglio 1838
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Capitolo 1
Mi chiamo Arthur Gordon Pym, mio padre era un onorato commerciante di forniture navali a Nantucket, dove
sono nato. Mio nonno materno era un avvocato e aveva
una buona clientela. La fortuna l’aveva sempre favorito
e aveva speculato con profitto sui titoli della banca che
allora si chiamava Edgarton New Bank. Con questi
mezzi e con altri era riuscito ad ammassare una piccola
fortuna.
Era affezionato a me, credo, più che a ogni altra persona
al mondo e avevo ragione di sperare che, dopo la sua
morte, avrei ereditato la maggior parte dei suoi beni.
Quando ebbi raggiunto l’età di sei anni, egli m’inviò alla
scuola del vecchio signor Ricketts, un brav’uomo che
aveva un solo braccio, camminava con un’andatura un
po’ eccentrica ed era conosciuto da tutti quelli che avevano visitato New Bedford.
Frequentai dunque la sua scuola fino all’età di sedici
anni, quando dovetti abbandonarla per entrare nell’accademia del signor E. Ronald. Lì divenni molto amico
del figlio del signor Barnard, un capitano di lungo corso
che navigava regolarmente per conto della compagnia
Lloyd & Vredenburg, ed era molto conosciuto anche a
New Bedford. Suo figlio si chiamava Augustus ed era
di circa due anni più grande di me. Era andato a caccia
di balene con suo padre, sulla John Donaldson, e non
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si stancava di narrarmi le prodezze che aveva compiuto
nel sud dell’oceano Pacifico.
Mi recavo spesso da lui e passavamo insieme tutta la
giornata e, a volte, anche la notte. Occupavamo allora
il medesimo letto e, quando voleva tenermi sveglio fino
all’alba, non aveva che da raccontarmi le strane storie
che conosceva intorno agli indigeni dell’isola di Timan
o delle altre contrade che aveva avuto occasione di visitare nei suoi viaggi. A lungo andare, avevo finito per interessarmi molto ai suoi racconti e sentivo un forte
desiderio di prendere il largo e navigare.
Possedevo già una barca a vela chiamata Ariel, del valore
forse di settantacinque dollari, con una cabina al centro
del ponte e simile a uno sloop. Non ricordo più quale
fosse il suo tonnellaggio, ma credo che dieci persone vi
potessero stare comodamente. Su quell’imbarcazione facemmo dei viaggi così audaci che, quando ci penso, mi
sembra di essere vivo solo per miracolo.
Voglio ora raccontare ai miei lettori una di queste scappatelle che servirà d’introduzione a un racconto più importante e ben più lungo.
Un giorno dunque il signor Barnard aveva dato un gran
pranzo e, poco prima che finisse la serata, Augustus e io
eravamo ambedue brilli. Come succedeva quasi sempre
in simili casi, invece di tornare a casa, divisi il letto del
mio amico. Era circa l’una di notte quando gli invitati lasciarono la casa di Barnard, e io, convinto che il mio
amico si fosse addormentato senza uno dei suoi soliti racconti, già mi preparavo a gustare il sonno ristoratore.
Eravamo dunque coricati forse da una mezz’ora, ed ero
quasi sul punto d’assopirmi quando, svegliatosi di soprassalto, egli lanciò un’imprecazione giurando che per
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tutti gli Arthur Pym della cristianità non si sarebbe mai
rassegnato a dormire con una così bella brezza di sudovest. Mai nella mia vita provai una simile sorpresa e non
potevo comprendere ciò che intendeva con tali parole e
non sapevo spiegarmi la sua eccitazione se non come un
effetto dei vini e dei liquori che aveva abbondantemente
tracannato durante la serata. Ma la mia sorpresa si fece
ancora più grande, quando lo vidi discorrere molto tranquillamente assicurandomi che sbagliavo di molto credendolo brillo, perché in realtà mai si era sentito, come
in quell’ora, padrone di se stesso. Era solo stanco – aggiungeva – di dover stare a letto come un cane in una
notte così bella, per cui era deciso ad alzarsi e vestirsi per
andare a fare una piccola uscita in barca.
Non saprei dire cosa pensassi esattamente allora di
quella proposta; sta di fatto che, appena sentite quelle
parole, venni travolto anch’io dall’entusiasmo, considerando quel progetto insensato come la cosa la più deliziosa e sensata da fare. Benché la brezza cui aveva
accennato il mio amico somigliasse molto a una tempesta e la temperatura fosse glaciale (si era allora molto
avanti, in ottobre), cionondimeno saltai dal letto come
in un accesso di delirio, dichiarando al mio compagno
che non mi sentivo meno coraggioso di lui nel dovermene rimanere a letto come un cane e che ero pronto
all’azione non meno di un Augustus Barnard di Nantucket. Ci vestimmo dunque senza perdere un istante e
corremmo ansiosi alla barca.
Ariel era ancorata vicino alla vecchia banchina in rovina,
presso il cantiere di costruzioni di Pankey & Co. e la fiancata strisciava quasi contro le vecchie mura del cantiere.
Augustus saltò dentro, spazzando via con energia l’acqua
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che ingombrava il ponte; issammo poi il fiocco e la randa
e ci lanciammo arditamente e avidamente al largo.
Come già detto, il vento soffiava gelido da sud-ovest e
la notte era molto chiara e fredda.
Augustus aveva impugnato il timone e io stavo in piedi
sul ponte vicino all’albero e alla cabina. Favoriti dal
vento, filavamo a grande velocita, senza sentire il bisogno di rivolgere all’altro una parola da quando avevamo
staccato il battello dalla banchina.
A un certo punto, mi sentii in dovere d’interrogare il
mio compagno intorno alla rotta da tenere; ed egli fischiettò per alcuni minuti, senza rispondermi, poi a un
tratto mi disse, con aria sdegnosa:
«Per quanto mi riguarda, me ne vado in mare; e tu sei
libero di tornare a casa, se il cuore ti consiglia così.»
Stupito da quella risposta, lo guardai e subito, al primo
sguardo, mi resi conto che, malgrado l’aria disinvolta,
era eccitatissimo.
Potevo vederlo distintamente al chiaro di luna che l’illuminava in pieno; il viso era più pallido del marmo, la
mano era agitata da un tale tremito che solo a fatica poteva ancora reggere la barra. Compresi allora quanto la
situazione fosse grave e mi allarmai tanto più perché, a
quell’epoca, avendo scarsissime cognizioni circa la manovra di una barca, ero costretto ad affidarmi interamente
alle cognizioni nautiche del mio amico.
Il vento intanto si era rinforzato così da trascinarci lontano dalla costa ed io, vergognandomi della mia paura,
cercai di mantenere, intrepidamente e per quanto possibile, il silenzio. Ma alla fine, non potendo più trattenermi, feci notare ad Augustus come fosse necessario
pensare al ritorno, ma senza risultato migliore, perché
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egli, dopo essere rimasto muto per alcuni istanti, come
non avesse prestato attenzione alcuna alle mie parole,
disse finalmente:
«Abbiamo tempo... per tornare a casa... è ancora molto
presto...».
Avevo previsto, lo confesso, una risposta simile; eppure,
nel tono con cui furono pronunciate queste parole vi era
qualcosa che mi riempì di un indescrivibile terrore. Lo
guardai dunque con attenzione per la seconda volta; le sue
labbra erano spaventosamente livide, le ginocchia battevano l’una contro l’altra con tale violenza che solo a fatica
poteva mantenersi in equilibrio.
«Per l’amor di Dio, Augustus» gridai questa volta, fortemente spaventato «che hai dunque? che è successo?
che vuoi fare?»
«Che succede?» balbettò con aria di profonda sorpresa,
e pronunciando queste parole abbandonò la barra e
andò a sbattere con forza, col naso, sul fondo del canotto. «Che succede?... che succede?... nulla? che volete
che succeda?... siamo qui vicini... andiamo dove vogliamo... che diamine!... non lo vedi dunque?»
Allora tutta la verità m’apparve come in un lampo e mi
lanciai verso di lui, rialzandolo. Era ubriaco, completamente ubriaco, così da non potersi tenere ad alcun sostegno, né parlare, né vedere. I suoi occhi erano
assolutamente vitrei e quando, al colmo della disperazione e incapace di sorreggerlo, lo lasciai andare, cadde
così pesantemente, come una botte, nell’acqua che riempiva il fondo dell’imbarcazione. Evidentemente nel corso
della serata aveva bevuto più di quanto mi fossi accorto
e il contegno che aveva mostrato nel coricarsi non era che
la conseguenza di un’ubriachezza giunta al suo più alto
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grado, una di quelle sbronze che, simili alla follia, lasciano
spesso, a colui che ne è preda, la capacità d’imitare i modi
e le parole di una persona in possesso di tutte le sue facoltà. Nondimeno, il freddo della notte non aveva tardato
a produrre i suoi effetti e sotto la sua influenza l’energia
mentale di Augustus era ben presto svanita e la confusa
percezione che doveva avere senza dubbio della nostra
pericolosa situazione aveva contribuito, naturalmente, ad
affrettare la catastrofe. In quel momento giaceva completamente inerte nel fondo dell’imbarcazione e nulla poteva
far prevedere che il suo stato dovesse subire qualche modifica prima che fossero trascorse molte ore.
Nessuno può lontanamente immaginare il terrore che
m’invase in quell’istante. I fumi dell’alcool si erano completamente dissipati lasciandomi infinitamente timido e
incerto. Mi sapevo perfettamente incapace di condurre
la barca e ciò che accresceva ancor più il mio terrore era
sentire che il furore del vento e la violenza dei marosi
avrebbero concorso, fra breve, alla nostra rovina. Senza
dubbio un uragano andava addensandosi bruscamente
alle nostre spalle e poiché non avevamo né bussola né
provviste, era chiaro che, proseguendo in quella direzione, avremmo certamente perso di vista la costa prima
del sorgere dell’alba.
Questi pensieri, uniti a un’infinità di altre considerazioni,
l’una più spaventosa dell’altra, turbinavano nella mia
testa con una rapidità travolgente, paralizzando per alcuni minuti ogni mio movimento. Spinta dal vento, la
barca fendeva l’acqua con una velocità terrificante, senza
un terzarolo né al fiocco né alla randa e la prua era interamente avvolta dalla schiuma. Solo per un miracolo
l’Ariel non si ribaltò quando Augustus abbandonò il ti14
mone ed io ero troppo sconvolto per prendere il suo
posto. Fortunatamente la barca non perse l’allineamento
e, a poco a poco, io riacquistai un briciolo di coraggio.
Il vento continuava a rinforzare e ogni volta che ci risollevavamo dopo aver poggiato in avanti, le ondate ci assalivano e investivano da poppa. Ero talmente intirizzito
da perdere coscienza di ciò che mi circondava, ma alla
fine, facendomi forza con la disperazione, mi lanciai ad
ammainare la randa. Come era da attendersi, essa si abbatté sul davanti, riempiendosi d’acqua, e strappando
l’albero che trasportò sotto bordo. L’incidente fu la mia
salvezza e quella del mio compagno, perché col solo
fiocco ero in grado di reggere il vento, imbarcando di
tanto in tanto delle ondate, ma evitando il rischio di una
morte imminente.
Allora afferrai la barra, respirando più sollevato all’idea
che ci fosse ancora qualche speranza di salvezza. Poiché
Augustus giaceva sempre in fondo alla barca e rischiava
di annegare perché l’acqua raggiungeva quasi l’altezza di
un piede nell’angolo in cui era caduto, mi sentii in dovere
di rialzarlo un po’, mantenendolo nella posizione per
mezzo di una corda che passai intorno alla cintura, attaccandolo poi a un anello, sul ponte della cabina. Dopo aver
così preso ogni possibile precauzione e sentendomi tutto
gelato e sconvolto, raccomandai la mia anima a Dio, proponendomi di sopportare ciò che mi fosse stato decretato
dal destino, col coraggio di cui potevo essere capace.
Mi ero dunque appena fermato su questa decisione
quando, a un tratto, un grido lungo e stridente, o piuttosto un urlo che sembrava uscire dalla gola di mille demoni, lacerò l’aria intorno e sotto il battello. Non
dimenticherò mai più, per tutta la vita, l’intensa agonia
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che il terrore mi fece provare in quella notte di desolazione. Sentii i capelli drizzarmisi sulla testa, il sangue
coagularsi nelle vene, il cuore cessare completamente i
suoi battiti e, non sentendo più in me neppure la forza
di levare gli occhi per capire cosa mi provocasse tanto
terrore, mi abbattei, svenuto con la testa in avanti, sul
corpo del mio amico.
Quando ripresi i sensi e volsi lo sguardo intorno, mi vidi
nella cabina di una grande nave baleniera, il Penguin, in
rotta per Nantucket. Molte persone erano chine su di me
e Augustus, più pallido della morte, si dava da fare a frizionarmi le mani. Vedendomi finalmente aprire gli occhi,
uscì in esclamazioni di riconoscenza e di gioia che strapparono lagrime e sorrisi alle persone dall’aria seria che ci
circondavano e ben presto mi vidi spiegato il mistero del
nostro ritorno alla vita.
Eravamo stati travolti da quella veloce nave baleniera che
dirigeva verso Nantucket con tutte le vele spiegate al
vento e che procedeva con rotta quasi perpendicolare
alla nostra. A prua c’erano molti uomini, che videro la
nostra barca solo quando non vi era più modo di evitarla
e le grida d’allarme che avevano lanciato, vedendoci,
erano appunto quelle che mi avevano tanto spaventato.
La grossa nave – mi si disse poi – era passata sopra di
noi con la stessa facilità con cui la nostra piccola imbarcazione sarebbe passata sopra una piuma, senza subire
alcun freno alla sua corsa; al momento dell’impatto con
la chiglia della nave, dal ponte della piccola barca non si
era levato un grido, ma appena un debole scricchiolio
confuso ai rumori prodotti dal vento e dall’acqua – e ciò
era stato tutto. Pensando che la nostra barca, priva dell’albero come il lettore ricorderà, potesse essere la car16
cassa di un relitto abbandonato alla deriva, il comandante, il capitano E.T.V. Block di New London, già si disponeva a proseguire la navigazione senza preoccuparsi
dell’incidente quando, per fortuna, due degli uomini che
stavano sul ponte giurarono sul loro Dio che erano certi
d’aver visto qualcuno alla barra e convinsero il capitano
che si poteva salvare il naufrago.
Ne seguì una breve discussione in cui Block, rosso in
viso per il dispetto, dichiarò che non poteva perdere il
suo tempo a vegliare su dei gusci di noce, che la sua nave
non avrebbe certamente mai virato di bordo per una simile sciocchezza, che se vi era qualcuno nel battello,
quel qualcuno avrebbe dovuto pensare alla propria salvezza senza lasciarne la cura a lui, Block, e che insomma,
se non gli stava bene dovevano ugualmente tacere o andarsene al diavolo.
Ma Henderson, il secondo ufficiale, tornò alla carica con
giusta indignazione, condivisa dall’intero equipaggio, e
lamentò aspramente quelle parole che dimostravano
un’assoluta mancanza di pietà e di cuore. Parlò con sincerità, incoraggiato dall’approvazione di tutto l’equipaggio, e dichiarò al capitano che era deciso a non tenere in
alcun conto i suoi ordini perché se così non avesse fatto,
avrebbe meritato di essere impiccato appena posato
piede a terra; poi – dopo aver respinto il capitano Block,
divenuto pallidissimo pur non osando pronunziare parola
– corse all’indietro e, afferrata la barra, comandò con
voce decisa: «Sottovento!»
I marinai corsero tutti ai loro posti e la nave virò di
bordo con precisione. Tutto ciò era durato forse cinque
minuti e il salvataggio si presentava quindi quasi impossibile, ammesso che vi fosse qualcuno a bordo dell’im17
barcazione naufragata. Pertanto il lettore si può rendere
conto che Augustus ed io eravamo stati strappati per
miracolo alla morte e la nostra salvezza era dovuta solo
a circostanze straordinariamente fortunate, che le persone sagge e pie spiegherebbero con uno speciale intervento dalla Provvidenza.
Quando la nave si arrestò, il secondo fece calare una scialuppa e vi saltò dentro con tre uomini, fra cui quelli che
affermavano di avermi visto al timone. Si erano appena
staccati dalla fiancata e la luna splendeva tutta bianca sul
mare quando, a un tratto, la nave ebbe un pesante rollio
dalla parte del vento. Henderson si rizzò subito sul
banco, gridando ai suoi uomini: «Presto, arretrare!» e
non si muoveva di là, continuando a ripetere con impazienza il comando. Gli uomini facevano del loro meglio
ma, nel frattempo, la nave aveva fatto mezzo giro e si era
spinta in avanti, nonostante a bordo tutte le braccia disponibili fossero occupate ad ammainare le vele.
Con una manovra pericolosa, appena gli fu possibile, il
secondo si aggrappò alle sartie. Un nuovo colpo di vento
fece rollare la nave ed emergere la fiancata a tribordo fin
quasi alla chiglia e si poté vedere ciò che agitava l’ufficiale:
il corpo di un uomo ancorato in modo strano al fondo liscio e lucente del Penguin rivestito di rame; e a ogni movimento della nave quel corpo urtava con violenza lo
scafo. Dopo molti tentativi infruttuosi, approfittando
delle oscillazioni della nave, riuscirono finalmente a liberarmi dalla mia pericolosa situazione e a issarmi a bordo,
perché quel corpo sperduto nell’oscurità del mare era per
l’appunto il mio. Una delle caviglie di legno dell’armatura della nave, a quanto pare, fuoriusciva dal rivestimento in rame dello scafo ed era stata appunto quella
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sporgenza che mi aveva agganciato in modo così insolito
durante la mia escursione sotto la chiglia. La punta aveva
fatto un buco nel colletto della mia giacca di stoffa grezza
e, perforando la parte posteriore della mia nuca, si era
conficcata tra due muscoli, proprio sotto l’orecchio destro. Seppure apparentemente privo di vita, mi avevano
subito disteso su un letto e, non essendoci un medico a
bordo, il capitano mi prodigò le cure più premurose,
forse per far dimenticare, agli occhi dei suoi uomini, la
sua cattiva disposizione all’inizio della vicenda.
Nel frattempo Henderson aveva di nuovo abbandonato
la nave, nonostante il vento soffiasse con la violenza di
un uragano. Dopo poco s’imbatté in alcune travi della
nostra barca e uno dei suoi uomini disse che, nel rumore
della tempesta, gli pareva di udire di tanto in tanto un
lamento. Quei coraggiosi marinai continuarono le loro
ricerche per circa mezz’ora, nonostante i reiterati ordini
del capitano Block di tornare alla nave e nonostante il rischio nell’affrontare la tempesta con la fragile scialuppa.
Difficile immaginare come quella piccola imbarcazione
potesse sfuggire alla distruzione. È vero che era stata costruita per la caccia alle balene ed era provvista, come
potei constatare più tardi, di una camera d’aria, come i
canotti di salvataggio che si usano sulle coste del Galles.
Dopo lunghe e vane ricerche gli uomini avevano appena
deciso di riguadagnare la nave, quando un debole grido
provenne da una macchia scura che le onde trascinavano
rapidamente verso di loro. Si lanciarono per raggiungerlo
e in breve videro che si trattava di un pezzo del ponte dell’Ariel e, aggrappato a quella fragile zattera, scorsero Augustus che si dibatteva, apparentemente in fin di vita.
Ripescandolo, notarono che era legato con una cima alle
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travi in legno. Questa corda, il lettore lo ricorderà, l’avevo
legata io intorno alla sua cintura e fissata a un anello per
mantenere Augustus in posizione eretta ed era a questa
precauzione che egli doveva la sua salvezza.
L’Ariel aveva una struttura leggera e le ondate avevano
fatto a pezzi il fasciame: il ponte, come si può immaginare, era stato sollevato dalla forza dell’acqua e galleggiava sulla superficie con altri relitti, ed essendo
Augustus ancorato a esso, aveva potuto sfuggire a una
morte terribile.
Fu portato svenuto a bordo del Penguin e trascorse una
lunga ora prima che desse segni di vita e capisse la natura dell’incidente occorso alla nostra imbarcazione.
Quando finalmente si svegliò descrisse dettagliatamente
ciò che aveva provato nell’acqua.
Appena resosi conto del pericolo, si era subito trovato
sott’acqua, roteando su se stesso a velocità incredibile,
stretto da una cima avvolta tre o quattro volte intorno al
collo. Un momento dopo, si era sentito tirato rapidamente verso la superfice, ma quasi subito aveva battuto
con violenza contro un oggetto duro e il colpo gli aveva
nuovamente fatto perdere i sensi. Tornato poi in sé, aveva
in parte recuperato la ragione, per quanto ancora molto
debole e confuso. Si era allora reso conto che era stato
vittima di qualche incidente e che si trovava nell’acqua,
anche se poteva respirare liberamente. In quel momento
il relitto filava veloce sotto la spinta del vento, trascinando
il corpo di Augustus che galleggiava sul dorso e che pertanto, finché fosse rimasto in quella posizione, non sarebbe affogato. Un’ondata improvvisa lo aveva riportato
nuovamente sul relitto, e lui aveva fatto di tutto per restarvi attaccato, chiamando di tanto in tanto aiuto.
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Poco prima che Henderson lo scorgesse, l’estrema debolezza l’aveva costretto a lasciare l’appiglio a cui si teneva disperatamente avvinghiato e, cadendo di nuovo
in mare, pensava di essere perduto. Per tutto il tempo
in cui si era dibattuto fra le onde, non aveva avuto il minimo ricordo dell’Ariel, né la minima idea circa le cause
del nostro naufragio; solo una vaga sensazione di terrore
e di prostrazione si era impadronita della sua mente.
Quando lo ripescammo, aveva completamente perso cognizione della realtà e, come già detto prima, fu solamente un’ora dopo essere stato trasportato a bordo del
Penguin che cominciò a prendere lentamente coscienza
della sua situazione.
Per quanto riguarda me, invece, ci vollero più di tre ore
e si dovettero mettere in opera tutti i mezzi e i procedimenti usati in casi simili; potei essere strappato dal mio
stato di coma solo con l’aiuto di numerose frizioni con
panni di lana impregnati di olio caldo, un rimedio suggerito da Augustus.
Il Penguin fece il suo ingresso in porto verso le nove del
mattino, dopo aver sfidato una delle più terribili tempeste mai viste al largo di Nantucket. Augustus ed io facemmo in modo da trovarci dal signor Barnard all’ora
del pranzo che, per fortuna, era stato ritardato a causa
della festa della sera prima. Credo che tutti quelli che
erano a tavola dovessero essere troppo stanchi per far
caso al nostro viso stravolto, perché non ci voleva molto
per accorgersene. Del resto, gli studenti sono capaci di
miracoli quando si tratta di simulare e, quando i marinai
del Penguin si vantarono nelle bettole della città di aver
incrociato un’imbarcazione alla deriva e di aver tratto in
salvo trenta o quaranta poveri diavoli, non credo in verità
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che alcuno dei nostri amici abbia sospettato che quella
terribile storia potesse riguardare l’Ariel, il mio compagno e me.
Da allora abbiamo spesso parlato di questa avventura,
ma mai senza provarne un certo fremito e una volta Augustus mi confessò francamente che in tutta la sua vita
non era mai stato tanto angosciato come quando, sulla
nostra piccola imbarcazione, si era accorto di essere veramente ubriaco, non riuscendo, nonostante gli sforzi,
a vincere la forza dell’alcool.
Capitolo 2
Quando si tratta di valutare il futuro, in favore o contro,
non lo si fa con assoluta certezza, anche se ci si basa su
semplici dati di fatto. Così, ad esempio, si potrebbe pensare che una sventura come quella appena descritta potesse avere l’effetto di una doccia fredda sulla mia
nascente vocazione marittima. Orbene, fu proprio la settimana che seguì al nostro miracoloso salvataggio che io
sentii, con maggiore forza, il desiderio di approfondire
la conoscenza delle strane peripezie che sempre accompagnano la vita di un marinaio. Non ci volle molto per
dimenticare gli aspetti scabrosi della mia avventura e
perché tutti i dettagli più eccitanti o, per meglio dire,
tutto il lato pittoresco della nostra recente e pericolosa
vicenda in alto mare si illuminassero di una luce viva.
Le mie conversazioni con Augustus si moltiplicavano di
giorno in giorno e ci appassionavamo sempre più a
quella che definivo la mia vocazione.
Adesso posso supporre che quelle velleità marinare de22
rivassero in gran parte da varie sensazioni; ma una ve
n’era che non poteva mancare d’influire fortemente sul
mio temperamento entusiasta e sulla mia immaginazione sempre fervida, anche se un po’ tenebrosa. Ed è
strano il fatto che ciò che mi seduceva più nel profondo
e che mi spingeva ad abbracciare la professione di marinaio fossero appunto quelle ore terribili di sofferenza
e disperazione. Provavo invece una modesta attrazione
per gli aspetti positivi e mi pascevo solo di visioni di
naufragi, di fame, di morte e di prigionia in terre selvagge. Fantasticavo insomma una vita di torture e lagrime, in qualche scoglio arido e desolato, in mezzo a
un oceano inaccessibile e sconosciuto; queste fantasie,
questi desideri – poiché si trattava semplicemente di desideri – non sono rari, come mi spiegarono più tardi, in
tutti quelli che appartengono alla numerosa categoria
dei malinconici. Ma, allora io li consideravo niente
meno che segni profetici di un destino che mi sentivo
in qualche modo obbligato a seguire. Quanto ad Augustus, condivideva perfettamente il mio stato d’animo,
perché probabilmente la nostra intimità ci aveva portato
a cambiare certi tratti del nostro rispettivo carattere.
Otto mesi circa dopo il naufragio dell’Ariel, la compagnia Lloyd & Vredenburg, che credo fosse una consociata della banca di Enderby di Liverpool, si impegnò
nella riparazione e nell’equipaggiamento del brigantino
Grampus per la caccia alla balena. Si trattava di una vecchia carretta che poteva a malapena affrontare il mare
anche dopo tutte le riparazioni possibili. Perché la scelta
fosse caduta su quella nave, fra tante altre certamente
migliori appartenenti agli stessi armatori, non mi è dato
sapere. Il comando fu affidato al signor Barnard, che
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avrebbe condotto con sé il figlio e, mentre si provvedeva
all’equipaggiamento del brigantino, quest’ultimo mi invitava ad approfittare dell’occasione per soddisfare al
mio desiderio di viaggiare. Naturalmente la cosa era per
me molto attraente, ma non mancavano le difficoltà.
Mio padre non era ostile all’idea; mia madre invece
aveva crisi di nervi ogni volta che se ne accennava. Il
peggio fu che mio nonno, da cui mi attendevo molto,
giurò che non mi avrebbe lasciato uno scellino se avessi
osato ancora parlargliene. Ma le difficoltà, lungi dall’estinguere il mio desiderio, ebbero solo l’effetto di ravvivare sempre più la fiamma che mi ardeva in cuore.
Decisi quindi di partire a qualunque costo e, comunicatolo ad Augustus, ci preoccupammo solo di creare le
condizioni per mettere il piano in esecuzione. Nel frattempo non tornai sull’argomento con i miei e, fingendo
di dedicarmi interamente ai miei studi, nessuno poté dubitare che non avessi rinunciato al mio disegno. Ripensando a come mi ero comportato in quell’occasione, ho
spesso provato un grande rimorso. L’ipocrisia di cui
detti prova, nelle parole e nei fatti, per raggiungere il
mio scopo era giustificata solo dall’ardente speranza di
realizzare i miei sogni di viaggio, così lungamente accarezzati. Per tenere nascosto il mio piano dovevo necessariamente lasciare i preparativi ad Augustus, che
passava gran parte della giornata a bordo del Grampus,
incaricato dal padre della sistemazione della cabina e
della stiva; ma, giunta la notte, non mancavamo di ritrovarci per progettare insieme il futuro.
Avevamo passato quasi un intero mese in questi discorsi
senza trovare una valida soluzione, quando un bel
giorno Augustus mi disse finalmente che aveva un piano
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a prova di bomba. Io avevo un parente a New Bedford,
un certo signor Ross, presso il quale trascorrevo, di
tanto in tanto, due o tre settimane. Il brigantino doveva
prendere il mare verso la metà di giugno (dell’anno
1827) e concordammo che, due o tre giorni prima della
partenza, mio padre, come spesso accadeva, avrebbe ricevuto un biglietto dal signor Ross, in cui questi lo pregava di mandarmi a passare da lui quindici giorni in
compagnia dei suoi due figli, Robert ed Emmet. Augustus s’incaricò di preparare questo messaggio e di farlo
pervenire a mio padre. Col pretesto di recarmi a New
Bedford, dovevo quindi raggiungere il mio amico che,
nel frattempo, avrebbe preparato un alloggiamento per
me a bordo del Grampus. Mi promise di preparare un
nascondiglio abbastanza comodo perché potessi passarci quei pochi giorni, durante i quali non dovevo rivelare la mia presenza a bordo della baleniera. Quando
il brigantino avesse percorso abbastanza miglia perché
non ci fosse il rischio di essere ricondotto in porto, allora – mi disse Augustus – avrei potuto usufruire di una
camera spaziosa e comoda. Quanto a suo padre,
avrebbe certamente riso della mia fuga e, del resto,
avremmo sicuramente incrociato qualche nave cui affidare una lettera di spiegazioni per i miei parenti.
Si giunse finalmente alla fine della prima quindicina di
giugno e tutto era pronto. Il biglietto venne redatto, spedito; e un lunedì, di buon mattino, potei finalmente
uscire, fingendo di andare a prendere il battello per New
Bedford. In realtà, di lì a poco, trovai Augustus che mi
aspettava all’angolo di una strada. Il nostro piano prevedeva che sarei rimasto nascosto fino al calar della notte,
quando sarei salito di soppiatto a bordo del Grampus.
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Ma poiché c’era una fitta nebbia decidemmo di comune
accordo che non avrei perso tempo a nascondermi. Augustus quindi si avviò verso la banchina e io lo seguii a
breve distanza, avvolto in un pesante mantello da marinaio che mi aveva portato per non essere riconosciuto.
Ma alla seconda svolta, appena oltrepassato il pozzo del
signor Edmund, qualcuno si piantò dritto davanti a me,
come volesse squadrarmi da capo a piedi, e questo qualcuno non era che il vecchio signor Peterson, mio nonno.
«Ah... ma, questo!... bontà divina!... Gordon!...» disse
dopo un lungo silenzio «Ah, ma questo!... Di chi è dunque il vecchio mantello che portate sulle spalle?»
«Signore» replicai, affettando all’uopo un’aria sorpresa
e un tono di voce il più possibile deciso «Certamente vi
sbagliate. Per prima cosa il mio nome non è Gordon e
vi auguro di vederci meglio quando incontrate qualcuno, per evitare di scambiare per vecchio un mantello
assolutamente nuovo.»
Vi assicuro che non so come riuscii a contenermi, per
non scoppiare con una risata in faccia al vecchio uomo,
vedendo il modo curioso con cui ricevette quel rimprovero. Fece due o tre salti all’indietro, divenne pallidissimo, poi rosso, si tolse gli occhiali, se li rimise sul naso
e si slanciò su di me, brandendo il suo ombrello. Poi improvvisamente si fermò nella sua rincorsa, come si fosse
ricordato di qualcosa, e con un rapido dietrofront riprese la sua strada, fremente di collera e borbottando
tra i denti:
«Non è possibile, con degli occhiali nuovi... avrei ben
creduto che fosse proprio Gordon... quel buono a
nulla... quel marinaio d’acqua dolce!... che il diavolo se
lo porti!...».
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L’avevo dunque scampata bella! Continuammo il nostro
cammino facendo più attenzione e giungemmo in breve
a destinazione, senza altri inconvenienti.
A bordo c’erano solo tre o quattro uomini, occupati non
so in quali faccende. Sapevamo che il capitano Barnard
era impegnato da Lloyd & Vredenburg, cosicché non
sarebbe tornato che a sera molto tarda. Non c’era dunque molto da temere; Augustus salì per primo ed io lo
seguii da vicino senza peraltro essere notato dagli uomini che lavoravano sul ponte. Entrammo negli alloggiamenti che trovammo vuoti. Erano sistemati con tutte
le comodità, cosa molto rara su una baleniera. Vi erano
quattro belle cabine per gli ufficiali, provviste di cuccette spaziose e comode. Notai pure un grande tappeto
molto spesso che copriva il pavimento del quadrato e
delle cabine. Il soffitto era a un’altezza di circa sette
piedi e il tutto aveva un aspetto più lussuoso e piacevole
di quanto non avessi immaginato.
Ma Augustus non mi concesse a lungo il piacere di soddisfare la mia curiosità, insistendo sulla necessità di nascondermi al più presto. Mi condusse dunque nella sua
cabina che era situata a tribordo. Appena entrati, chiuse
la porta e tirò il catenaccio e a me parve che in tutta la
mia vita non avessi visto una cameretta più graziosa di
quella. Misurava forse dieci piedi di lunghezza e c’era
solo una spaziosa cuccetta e un quadrato di circa quattro piedi con un tavolino, una sedia e piccoli scaffali carichi di libri che trattavano per lo più di viaggi e
navigazione. Vi erano anche molte altre comodità in
quella piccola e graziosa cabina, fra cui una credenzina
dove Augustus aveva prudentemente stivato una riserva
di ghiottonerie.
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Appoggiò poi le dita su un punto del tappeto, in un angolo del quadrato, e mi fece notare che una parte del pavimento, sei piedi quadrati all’incirca, era stata
accuratamente segata e poi riposizionata. Facendo pressione, quella parte si sollevava quanto bastava per passare
un dito al di sotto. Questa manovra gli permise di aprire
la botola, cui alcuni chiodini tenevano fissato il tappeto,
e constatai che era abbastanza grande per poterci passare.
Con un fiammifero Augustus accese una piccola candela
che introdusse in una lanterna e s’introdusse nell’apertura, invitandomi a seguirlo. Una volta scesi, riportò il coperchio sulla botola e lo fissò con un chiodo, piantato
nella parte superiore. Il tappeto naturalmente riprese il
suo aspetto normale, cosicché l’apertura rimaneva celata.
La candela faceva una luce così debole che solo con
molta fatica riuscivo a farmi strada fra gli oggetti che ci
circondavano. Ma poco a poco i miei occhi si abituarono all’oscurità e potei muovermi più facilmente,
rimanendo aggrappato alla giacca del mio compagno.
Attraverso un dedalo di passaggi stretti, giungemmo finalmente a un grande baule listato di ferro, simile in
tutto a quelli utilizzati per spedire merce di pregio. Era
alto circa quattro piedi e lungo più di sei, ma maledettamente stretto. Vi erano appoggiati sopra due
grandi barili di olio, per il momento vuoti e coperti da
una fila enorme di scatole che saliva fino al soffitto. Intorno a me, in qualunque direzione volgessi lo sguardo,
vedevo provviste di ogni genere, ammassate e confuse,
in un vero ed enorme caos, e una grande quantità di
casse, panieri, scatole, botti, tanto che mi sembrava un
miracolo riuscire a passarci attraverso. Appresi poi
come Augustus avesse organizzato in tutta fretta la si28
stemazione della stiva in modo da assicurarmi un posto
dove rimanere nascosto, aiutato in ciò solo da un uomo
che poi non si sarebbe imbarcato sul Grampus.
Il mio amico mi fece allora notare che una delle pareti
della cassa poteva essere tolta facilmente e, dopo averla
fatta scivolare, mi mostrò la disposizione dell’interno che
m’impressionò molto. Un materasso, preso da uno dei
letti della cabina ne ricopriva interamente il fondo e
c’erano pure tutte le comodità che potevano stare in uno
spazio così angusto. Non mi restava altro da fare che stendermi nel mio giaciglio provvisorio e starmene lì seduto
o coricato, come preferivo. Fra le altre cose, trovai alcuni
libri, poi penne, inchiostro, carta, coperte, una grande
brocca d’acqua, una scatola di gallette, tre o quattro salami bolognesi enormi, uno splendido prosciutto, una coscia fredda di montone arrosto e una mezza dozzina di
bottiglie di cordiali e liquori. Senza indugiare, presi dunque possesso della mia nuova casa, con più soddisfazione
di quella di un re che s’insedia nella sua nuova reggia.
Augustus m’indicò il congegno che permetteva di bloccare la parete mobile della cassa e, avvicinando la candela al soffitto, mi mostrò una cordicella nera che vi era
fissata. Partendo dalla mia cuccetta, mi disse, la cordicella aggirava tutti i materiali ammassati nella stiva, raggiungendo un chiodo fissato sul ponte, subito sotto il
portello che dava accesso alla sua cabina. La corda doveva servirmi a ritrovare con facilità la strada senza la sua
guida, nel caso che un qualche accidente imprevisto mi
obbligasse a raggiungerlo. Prese dunque congedo da me,
lasciandomi, con la lanterna, una copiosa provvista di
candele e fiammiferi e promettendo di venirmi a trovare
tutte le volte che poteva, senza tradire il nostro segreto.
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Era il giorno 17 giugno. Trascorsi dunque nel mio angusto rifugio tre giorni e tre notti – almeno così mi sembrò – e solo due volte mi azzardai a uscire per
distendere le membra intorpidite, restando nascosto in
piedi fra due casse davanti all’apertura. Per tutto questo
tempo Augustus non si fece vivo; ma io non mi preoccupai, sapendo che il brigantino doveva salpare da un
momento all’altro e che nei preparativi della partenza
non doveva essergli facile trovare l’occasione per venire
a trovarmi. Poi finalmente sentii il coperchio della botola aprirsi e rinchiudersi e Augustus chiamarmi a bassa
voce, chiedendomi se andava tutto bene e se avevo bisogno di qualcosa.
«Non ho bisogno di nulla» gli risposi «Va tutto bene.
Quando si parte?»
«Non leveremo l’ancora prima di mezz’ora» mi disse
«Ero venuto apposta per dirtelo e avevo paura che ti allarmassi per non avermi più visto. Dovrà trascorrere
forse molto tempo prima che possa tornare, forse tre o
quattro giorni. A bordo va tutto bene. Appena sarò risalito e la botola si sarà rinchiusa dietro di me, lasciati guidare dalla corda fino al chiodo. Troverai laggiù il mio
orologio, che ti servirà di sicuro, poiché non puoi contare
sulla luce del giorno per misurare il tempo. Mi sa che
non immagini da quanto tempo sei qui: da tre giorni solamente. Oggi è il 21 giugno. Verrei volentieri a portarti
l’orologio, ma ho paura che di sopra abbiano bisogno di
me.» Detto questo, scomparve.
Era forse trascorsa un’ora dalla sua partenza quando
sentii distintamente il brigantino muoversi e mi rallegrai
di poter finalmente iniziare un vero viaggio. Ero così
contento che promisi a me stesso di non agitarmi e di
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attendere con pazienza finché avessi potuto lasciare la
mia cassa stretta per una cabina, certo più spaziosa, ma
non necessariamente molto più comoda.
La prima preoccupazione fu di andare a cercare l’orologio di cui mi aveva parlato Augustus. Lasciando la
candela accesa, mi avviai tastoni nel buio, seguendo la
corda in tutti i suoi giri; ma il percorso era così complicato che dopo molti passi e molte retromarce finivo
sempre per ritrovarmi al punto di partenza. Finalmente
potei raggiungere il famoso chiodo e, preso l’oggetto per
cui mi ero mosso con grande fatica, rientrai senza difficoltà nel mio angusto ricovero.
Passai allora in rassegna i libri che Augustus aveva avuto
la gentilezza di lasciarmi e la mia scelta cadde sulla Spedizione di Lewis e Clarke alla foce del Columbia. Lo lessi
per un po’ e poi, stanco, sentii le palpebre chiudersi e,
dopo aver spento con cura la candela, mi addormentai
in un sonno profondo.
Al risveglio avevo la testa molto confusa e ci volle del
tempo prima di ricordarmi per quali strane circostanze
mi trovavo lì. Pian piano potei ricostruire l’accaduto.
Accesi una candela e guardai l’orologio; era fermo e non
avevo quindi modo di capire per quanto tempo avevo
dormito. Sentivo dei crampi a gambe e braccia e per
farli passare dovetti stare in piedi fra le due casse; avevo
molta fame e subito pensai al montone freddo di cui
avevo mangiato un pezzo prima di dormire e che mi era
parso eccellente; con mia grande sorpresa però vidi che
la carne era in stato di avanzata putrefazione. La scoperta mi agitò molto, perché, unita alla confusione che
avevo provato risvegliandomi, mi faceva supporre che
avessi dormito per un periodo di tempo straordinaria31
mente lungo. L’aria stagnante della stiva poteva, alla
lunga, avere prodotto gli effetti più spiacevoli. Avevo un
gran mal di testa, mi sembrava di respirare male ed ero
oppresso da idee inquietanti. Tuttavia, non potevo ancora avventurarmi ad aprire la botola, né fare altro che
potesse destare l’attenzione dell’equipaggio, e mi rassegnai ad aspettare con pazienza.
Nell’angoscia mortale delle ventiquattro ore che seguirono nessuno mi venne in aiuto e non potei fare a meno
di accusare Augustus d’indifferenza nei miei riguardi;
mi preoccupavo soprattutto perché l’acqua della brocca
era quasi finita; ero terribilmente assetato, avendo mangiato molto del salame bolognese, dopo aver perso il
montone. In preda alla più viva inquietudine, non provavo più alcun interesse per la lettura; avevo una strana
voglia di dormire, ma tremavo all’idea di cedere al
sonno, per timore che l’aria viziata della stiva facesse
qualche brutto scherzo, come quella del carbone in
combustione.
Il rollio del brigantino indicava che eravamo in mare
aperto e un rumore sordo e cupo che sembrava venire da
molto lontano mi faceva pensare che ci fosse una tempesta
in arrivo. Non capivo perché Augustus non si facesse vivo.
Avevamo fatto certamente abbastanza miglia perché potessi, senza problemi, fare la mia comparsa sul ponte. Doveva essere successo qualcosa... ma non potevo pensare a
nulla che spiegasse perché egli continuava a prolungare
così la mia prigionia, a meno che non fosse morto improvvisamente o fosse volato fuori bordo. Potevamo anche
avere avuto venti contrari che avevano rallentato la nave
e forse eravamo ancora vicini a Nantucket; ma dovetti ben
presto abbandonare quell’ipotesi perché, se così fosse
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stato, il brigantino avrebbe più di una volta virato di
bordo, mentre la sua inclinazione costante indicava che
non aveva cessato di far vela a un vento di tribordo. Del
resto, ammettendo anche che fossimo ancora in prossimità
dell’isola, come si spiegava che Augustus non fosse venuto
a informarmi di quanto avveniva in coperta?
Meditando tristemente su quella mia sgradevole situazione, mi rassegnai ad attendere ancora per altre ventiquattro ore, dopo di che, se nessuno fosse venuto in mio
aiuto, sarei andato alla botola per avere spiegazioni da Augustus, o per lo meno per respirare un po’ d’aria fresca attraverso l’apertura e trovare una nuova provvista d’acqua.
Preso da questi pensieri, malgrado i miei sforzi per resistere, caddi in una specie di sonno pesante o, per meglio dire, di torpore. Avevo una terribile nausea, mi
sentivo assediato dalle peggiori catastrofi e orrori. Nella
mia mente angosciata passavano strane immagini, esseri
demoniaci dall’aspetto patibolare e feroce. A volte mi
vedevo avvolto da enormi serpenti che mi affascinavano
con le loro pupille luminose. Poi deserti senza luce, contrade desolate e spaventose si susseguivano senza posa
davanti ai miei occhi; tronchi d’albero di altezza smisurata, grigi e spogli, si susseguivano nell’ombra all’infinito, così lontano che il mio sguardo poteva appena
giungervi; le radici penetravano nel fondo di stagni, le
cui acque, scure e opache, si distendevano spaventose e
immobili. E quegli strani alberi sembravano vivere, vivere di una vita umana, gesticolando con le loro braccia
spoglie, implorando le acque silenziose, gridando misericordia con l’accento della disperazione e dell’agonia.
Poi la scena mutava: mi trovavo solo e nudo sulle sabbie
infuocate del Sahara; ai miei piedi era accucciato un fe33
roce leone dei tropici. D’improvviso i suoi occhi furiosi
si aprivano, il suo sguardo si fissava su di me: con uno
scatto convulso si rizzava e scopriva la spaventosa fila
di denti, la gola rossa lanciava un ruggito simile al tuono
e io mi abbattevo pesantemente al suolo. Soffocato
dall’angoscia, mi risvegliai. Ma quel sogno?... non era
dunque un sogno? Almeno adesso ero tornato in me.
Eppure, là davanti, enorme, stava un mostro con le
zampe poggiate sul mio petto, sentivo il suo fiato caldo
nelle orecchie... i denti di una bianchezza sinistra brillavano nelle tenebre.
Anche se fosse bastato un solo movimento per salvarmi,
una sola sillaba, ebbene, non avrei potuto muovermi né
dire una parola. La bestia, chiunque essa fosse, manteneva la stessa posizione, rinviando l’attacco, ed io restavo disteso sotto di lui, assolutamente impotente,
come vicino alla morte. Ogni energia fisica e morale mi
abbandonava e mi sentii morire, veramente morire di
paura. La mia mente vaneggiava, avevo delle nausee
mortali. La mia vista si confondeva, tutto si oscurava ai
miei occhi, anche le pupille di fuoco che stavano fisse
su di me.
Feci allora un ultimo sforzo sovrumano per rivolgere a
Dio una debole preghiera e mi rassegnai alla morte. La
mia voce parve risvegliare la rabbia sopita del mostro,
che si distese su di me in tutta la sua lunghezza. Ma, con
mio grande stupore, emettendo un grugnito sordo e
prolungato si mise a leccare il mio viso e le mie mani,
con grande esuberanza e con folli manifestazioni di gioia
e amicizia! Ero trasecolato, smarrito per la sorpresa: ma
non potevo aver dimenticato il guaito così particolare
del mio terranova, Tigre, e le sue stravaganti carezze mi
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erano ben conosciute. Era lui. Mi parve che il sangue
mi rifluisse di colpo alle tempie e fu una sensazione di
vertigine, come di risurrezione. Mi rizzai sul materasso
e gettandomi al collo del fedele compagno e amico, sfogai la mia lunga angoscia con un pianto dirotto.
Come già mi era già accaduto in precedenza, alzandomi
ero tormentato dal dubbio e dal caos più completo.
Passò del tempo prima di poter concatenare un’idea
all’altra, ma a poco a poco ricuperai le mie facoltà e ricostruii la catena degli avvenimenti in seguito ai quali
mi trovavo laggiù. Quanto a Tigre, non riuscivo a spiegare la sua presenza e, dopo mille congetture, mi rallegrai semplicemente del fatto che fosse venuto ad
alleviare la mia solitudine e a portarmi il conforto del
suo affetto.
Molte persone si affezionano ai loro cani; eppure io ho
amato Tigre di un amore non comune e mai – ne sono
sicuro – alcuna creatura ne fu più degna. Già da sette
anni era il mio compagno inseparabile e aveva dimostrato in più occasioni tutte le nobili qualità che rendono prezioso un animale. Quando era ancora un
cucciolo l’avevo strappato dalle grinfie di un piccolo
mascalzone di Nantucket che lo trascinava in acqua con
una corda al collo; e il terranova, tre anni dopo, aveva
pagato il suo debito di riconoscenza difendendomi
dall’aggressione di un ladro per strada.
Presi allora il mio orologio e, portandomelo all’orecchio,
constatai che le lancette erano ancora immobili, e ciò
non mi stupì perché ero convinto, da come mi sentivo,
di aver dormito come la prima volta molto a lungo.
Quanto tempo? Non avrei potuto dirlo. Bruciavo dalla
febbre e la sete era ormai intollerabile; tastai il mio na35
scondiglio per trovarvi quel poco che restava della provvista d’acqua; non potevo più contare sulla luce perché
la candela si era consumata e non trovavo nemmeno la
scatola dei fiammiferi. Finii per trovare la brocca, che
però era vuota. Certamente Tigre aveva bevuto l’acqua
rimasta, come pure doveva aver mangiato il montone, il
cui osso giaceva accuratamente spolpato accanto alla
cuccetta. Questo accrebbe ancor di più la mia angoscia,
gettandomi in uno stato di profondo sconforto.
Ero di una debolezza estrema, tanto che il minimo movimento, il più leggero sforzo mi faceva tremare in tutte
le membra come per un accesso di febbre. I movimenti
e il rollio del brigantino si erano fatti più violenti e i barili d’olio sopra la mia cassa rischiavano in ogni momento di cadere, bloccando così il solo passaggio che
mi permettesse di uscire o rientrare. Inoltre, soffrivo
spaventosamente di mal di mare e per tutte queste ragioni mi decisi ad avviarmi, come potevo, verso la botola, per chiedere aiuto, mentre me ne restavano ancora
le forze. Avendo preso quella decisione, mi misi a cercare fiammiferi e candele; trovai a fatica i primi, ma non
trovai le candele così presto come speravo, poiché ero
quasi sicuro di ricordarmi il luogo preciso in cui le avevo
messe. Quindi, per il momento, rinunciai e, dopo aver
raccomandato a Tigre di non muoversi, mi avvia senza
esitazione verso la botola.
Nel percorso si rivelò improvvisamente tutta la mia debolezza; facevo una grande fatica a trascinare il peso del mio
corpo e più volte le gambe cedettero; caddi col viso in
avanti e rimasi steso alcuni minuti in uno stato quasi d’incoscienza. Mi sforzavo comunque di avanzare, tremando
per la paura di svenire in quel dedalo stretto e caotico della
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stiva, che avrebbe significato morire. Alla fine, mentre mi
trascinavo con tutte le mie forze, urtai con la fronte contro
l’angolo aguzzo di una cassa armata di ferro. Rimasi solo
leggermente stordito, ma mi accorsi con angoscia che la
violenza del rollio aveva fatto scivolare quel cassone proprio a ostruirmi il passaggio. Tutti gli sforzi più disperati
non riuscirono a smuoverlo neppure di un pollice, perché
era chiuso dalle altre casse vicine e dal materiale di bordo.
Debole com’ero, non mi restava che abbandonare la cordicella che mi serviva da guida e cercare un nuovo passaggio, oppure scavalcare l’ostacolo e continuare dall’altra
parte. La prima soluzione offriva tante difficoltà e pericoli
che ne tremavo al solo pensiero. Nello stato di debolezza
in cui mi trovavo non potevo che esaurirmi in un simile
tentativo e perire miseramente nel labirinto sinistro e ripugnante della stiva. Senza esitare, pensai di fare appello
a quanto mi restava di forza e di coraggio per tentare, se
possibile, di scavalcare la cassa.
Pur essendomi preparato a quello sforzo, mi accorsi che
le difficoltà che mi attendevano erano molto più grandi
di quanto avessi pensato. Ai due lati dello stretto passaggio c’era una vera muraglia, formata da una moltitudine
di pesanti materiali, che il più piccolo movimento poteva
farmi cadere in testa e che, cadendo dietro di me, potevano opporre un insormontabile ostacolo a una mia probabile ritirata. Quanto alla cassa, era alta e pesante, e non
offriva alcuna sporgenza su cui potessi posare il piede.
Tentai invano, con tutti i mezzi possibili, di raggiungere
la parte superiore, sperando d’issarmici a forza di braccia. Se anche avessi potuto sollevarmi abbastanza, era
evidente che sarei stato sempre troppo debole e forse, in
fondo, era meglio che non vi fossi riuscito.
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Finalmente, in uno sforzo disperato per smuovere la
cassa, sentii come una vibrazione nella parte frontale e,
passando la mano negli interstizi, mi accorsi che un’asse,
molto larga, si era smossa. Per fortuna avevo con me il
coltello e col suo aiuto riuscii, non senza fatica, a staccarla completamente; m’introdussi quindi nell’apertura
e con gioia scoprii che non c’era un altro lato! in altre
parole, non aveva coperchio e ne avevo attraversato il
fondo. Proseguii quindi senza grandi difficoltà, lungo la
cordicella per raggiungere il chiodo, e fu con un sobbalzo al cuore, abbastanza giustificato, che mi alzai,
spingendo dolcemente il coperchio della botola. Non si
sollevò così presto come speravo e spinsi più forte, sempre col timore che nella cabina non ci fosse Augustus,
ma un altro. Ma il coperchio faceva resistenza e rimasi
perplesso e inquieto, perché sapevo che prima si sollevava con facilità; ancora una forte spinta, ma niente; cercai di smuoverlo con tutte le mie forze, ma non si mosse.
Lo premetti con rabbia, con furore, con disperazione,
ma resistette a tutti i miei sforzi e pensai allora che ciò
non poteva dipendere che da due ragioni: o la botola
era stata scoperta e il pavimento inchiodato di nuovo,
oppure c’era stato piazzato sopra un peso enorme, cosicché ogni mio tentativo per sollevarlo risultava vano.
Provai allora un senso di terrore estremo e di costernazione. Cercai invano di ragionare su quel mio essere
così murato in quella tomba e, non potendo dare ordine
alle mie idee, mi lasciai andare sul pavimento, senza resistere ai miei lugubri pensieri e prospettando di morire
di sete per sete o di fame, oppure per asfissia.
Alla fine tornai un po’ in me e, alzandomi, cercai con le
dita le fessure intorno alla botola. Quando le trovai, le
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esaminai con attenzione per vedere se un qualche chiarore proveniente dalla cabina filtrasse attraverso le assi,
ma non vidi niente. Vi feci penetrare allora la sottile
lama del coltello finché essa non ebbe trovato un oggetto resistente. Grattando un po’, capii che si trattava
di una pesante massa di ferro e la particolare sensazione
ondulata che mi trasmise la lama scivolando sulla lunghezza dell’apertura, mi fece pensare che si trattasse
della catena dell’ancora.
Non mi rimaneva che tornarmene alla mia cassa e rassegnarmi alla terribile sorte, oppure provare a tranquillizzarmi per trovare un altro modo di salvarmi. Mi rimisi
dunque in marcia senza esitazione e riuscii, a prezzo di
enormi difficoltà, a riguadagnare la mia cuccetta. Mentre
mi lasciavo cadere sul materasso, distrutto dalla fatica,
Tigre si allungò vicino a me, come se avesse voluto con le
sue carezze consolarmi ed esortarmi a sopportare con coraggio. A lungo andare, il suo strano comportamento finì
per attirare la mia attenzione. Dopo avermi leccato il viso
e le mani per alcuni minuti, s’interruppe improvvisamente, lasciando sfuggire dalla gola un sordo guaito;
quando tesi la mano verso di lui, lo trovai disteso immobile sul dorso, con le zampe in aria. Quella posizione mi
parve abbastanza singolare e, per quanto mi sforzassi, non
riuscivo a spiegarmela; l’aria triste del povero terranova
mi fece pensare che avesse ricevuto qualche colpo. Presi
dunque le zampe tra le mani e le esaminai una dopo l’altra,
senza trovare qualcosa di strano. Pensai allora che poteva
aver fame e gli detti una fetta di prosciutto che divorò avidamente.
Ma appena terminato il breve pasto, ricominciò il suo
strano lamento. Pensai allora che poteva essere assetato
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come me, ma poi mi resi conto che avevo controllato
solo le zampe dell’animale, che poteva invece essere ferito alla testa o da qualche altra parte. Tastai con cura
minuziosa la testa e non vi trovai alcuna ferita, ma scorrendo le mani sulla schiena sentii che il pelo era leggermente sollevato lungo una linea per tutta la larghezza.
Sfogliando il pelo col dito, scopersi una piccola corda
avvolta al suo corpo. A un esame più attento, trovai una
strisciolina che, al tocco, mi parve come di carta da lettere che, attraversata dalla corda, era assicurata sotto la
spalla sinistra del cane.
Capitolo 3
Immaginai subito che quel pezzo di carta fosse un biglietto inviatomi da Augustus che, non potendo venire a
liberarmi per un qualche imprevisto che non conoscevo,
usava quel mezzo per tenermi informato sulla situazione.
Tremando d’impazienza, mi misi di nuovo alla caccia
dei fiammiferi e delle candele; ricordavo vagamente di
averli messi con cura in un certo posto poco prima di
addormentarmi e certamente, prima del mio ultimo
viaggio verso la botola, sarei stato ancora capace di ricordare dove esattamente li avevo messi; ma adesso mi
spremevo inutilmente le meningi e trascorsi un’ora nella
vana ricerca. Mai prima, né sono certo, mi ero trovato
più angosciato e insicuro.
Finalmente, tastoni, con la fronte china fin quasi a toccare il pavimento vicino all’apertura della casa e più
avanti, credetti di scorgere una debole luce, nella direzione degli alloggiamenti dei marinai. Molto sorpreso,
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cercai di andare verso quella luce che sembrava a pochi
passi da me. Avevo appena fatto un movimento in quella
direzione, che già l’avevo completamente persa di vista
e, prima di poter scorgerla di nuovo, fui costretto a tornare tentoni lungo la cassa per riprendere la posizione
primitiva. Allora, muovendo la testa di qua e di là, con
precauzione, vidi che, procedendo piano piano con la
massima attenzione nella direzione opposta a quella che
avevo preso la prima volta, avrei potuto avvicinarmi alla
luce senza perderla di vista.
Dopo ripetuti tentativi avanti e indietro finii per cadere
sfinito e mi accorsi che la luce proveniva da alcuni residui di fosforo dei fiammiferi sparsi in fondo a un barile
vuoto rovesciato. Mi stupii di trovarli lì e la mia mano
s’imbatté in due o tre mozziconi di candele, evidentemente masticate dal cane; compresi allora come Tigre
avesse distrutto tutta la mia provvista di candele e persi
ogni speranza di poter leggere il biglietto di Augustus.
I piccoli resti di cera erano così triturati e mescolati coi
detriti del barile, che già disperavo di poter approfittarne ed ero quasi propenso a lasciarli dov’erano.
Quanto al fosforo, di cui restavano al massimo due o tre
frammenti, li raccolsi con la maggior cura possibile e
raggiunsi con molta fatica il mio rifugio, dove Tigre era
rimasto per tutto quel tempo. Non sapevo a cosa appigliarmi. Il buio era così fitto nella stiva che non potevo
vedere la mia mano, anche tenendola davanti al viso.
Quanto alla striscia di carta bianca, solo a fatica potei
distinguerla, non guardandola direttamente, ma volgendo verso di essa la parte esterna della retina o, per
meglio spiegarmi, guardandola in obliquo, per renderla
appena percettibile.
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Da questi dettagli si può facilmente capire quale oscurità
regnasse nella mia prigione e il biglietto del mio amico,
se pur si trattava di un biglietto suo, sembrava non avere
altro effetto che di accrescere la mia angoscia e di torturare ancor più la mia disgraziata mente, già così scossa e
depressa. Invano passai in rassegna mille espedienti assurdi per procurarmi della luce, in tutto simili a quelli che
inventerebbe un uomo immerso nel sonno agitato dell’oppio, che ciascuno di essi appare di volta in volta al
dormiente come la trovata più ragionevole o più inutile,
a seconda se sia trascinato dai bagliori della ragione e
dell’immaginazione.
Finalmente mi venne un’idea, che mi sembrò così logica
che mi stupii, a ragione, di non averla avuta prima. Stesi
quindi la striscia di carta sulla coperta di un libro e, raccolti i frammenti di fosforo dal barile, ve li deposi sopra.
Poi con il palmo della mano sfregai velocemente e con
forza. Ben presto, una luce chiara si sparse su tutta la
superficie, e se qualcosa vi fosse stato scritto, l’avrei certamente letto senza difficoltà. Ma su quel foglio non
c’era altro che un bianco desolante; la luce si spense in
pochi secondi e mi parve che il mio cuore si spegnesse
con lei.
Ho avuto occasione di dire che, per un certo tempo, ero
come instupidito; avevo certamente degli intervalli momentanei di lucidità e anche dei risvegli d’energia, ma
si trattava di rari momenti.
Occorre certamente ricordare che già da più giorni respiravo l’aria pestilenziale di una scatola sepolta nella stiva
di una baleniera e che già da qualche tempo la mia razione d’acqua era insufficiente. Oltretutto non dormiva
da quattordici o quindici ore e avevo mangiato solo cose
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salate da quando avevo perso il mio montone, a parte le
gallette che erano troppo secche e stantie; del resto, la
mia gola, gonfia e arida com’era, non riusciva a mandarle
giù. Avevo la febbre alta ed ero in grave difficoltà, da ogni
punto di vista. Potete capire come passai quelle lunghe
ore di angoscia, dopo la vana ricerca del fosforo, prima
che mi rendessi conto che avevo esaminato solo una parte
del foglio, e che quindi non erano esaurite tutte le possibilità di salvarmi. Non proverò ora a descrivere la rabbia
che mi prese quando improvvisamente capii la mia stupidaggine. In se stessa la cosa non sarebbe stata così grave
se la follia e la mia debolezza non l’avessero accentuata.
Infatti, arrabbiato per non aver letto in quel pezzo di carta
neanche una parola, avevo fatto la sciocchezza di stracciarlo, spargendo i pezzi in ogni direzione.
Ma in quell’occasione fui aiutato dall’istinto di Tigre.
Avendo trovato, dopo faticosa ricerca, un frammento del
biglietto, lo misi sotto il naso del cane per fargli capire che
toccava a lui scovare gli altri. Non l’avevo mai addestrato
a svolgere i compiti di solito assegnati alla sua razza e rimasi quindi sorpreso vedendolo svolgere compiutamente
il mio piano. Vagò per alcuni minuti e presto trovò un secondo frammento abbastanza grande, che mi portò, e
dopo una breve pausa stropicciò il naso contro la mia
mano come aspettasse la mia approvazione. Gli accarezzai
la testa e lui si rimise subito in caccia. Passarono alcuni
minuti senza che tornasse, ma quando s’avvicinò a me,
portava una grande striscia di carta, il resto del biglietto
perduto che, come ricordavo, avevo rotto solo in tre pezzi.
Per fortuna, non penai molto a prendere ciò che restava
del fosforo, guidato dalla tenue luce emanata da un paio
di frammenti.
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I precedenti insuccessi mi avevano insegnato a essere
prudente e questa volta presi tutte le mie precauzioni e
riflettei bene su ciò che dovevo fare. Era probabile –
così pensavo – che vi fosse uno scritto nella parte del foglio che non avevo esaminato; il difficile era sapere quale
fosse quella parte. A questo riguardo, riunire i pezzi non
aiutava in alcun modo, avevo solo la certezza che le parole – se poi di parole si trattava – si trovavano tutte su
quella stessa parte del foglio nell’ordine logico in cui
erano state scritte. Era dunque assolutamente necessario
essere ben sicuro su quel punto, perché ciò che restava
del fosforo era insufficiente per un terzo tentativo, nel
caso avessi fallito anche il secondo.
Disposi dunque la carta su un libro, come la prima
volta, e mi fermai ancora, pensieroso, per alcuni minuti,
esaminando attentamente il problema sotto tutti i suoi
aspetti. In fin dei conti – pensavo – era possibile che la
superfice della parte scritta fosse diversa al tatto rispetto
all’altra. Decisi dunque di provare e passai accuratamente il dito sulla parte che mi si presentò per prima,
senza percepire niente di particolare. Poi, girando la
carta, la posai di nuovo sul libro e ripassai l’indice con
cura su tutta la superfice e distinsi un debolissimo chiarore, appena percettibile, che seguiva quasi il mio dito
nel suo cammino. Capii che quella luce proveniva dalle
piccolissime particelle di fosforo che erano rimaste attaccate alla carta durante il mio primo vano tentativo;
l’altra parte, il rovescio, doveva quindi essere il lato su
cui era lo scritto, ammesso che ci fosse uno scritto. Girai
nuovamente il biglietto e mi misi all’opera, come avevo
già fatto: stropicciai il fosforo e ben presto si produsse
una debole luce, ma questa volta mi apparvero distinta44
mente più righe di una scrittura che dovevano essere
state tracciate con inchiostro rosso.
Il flebile lampo era durato pochissimo e tuttavia, non fosse
stato per l’emozione, avrei avuto il tempo di leggere per
intero le tre frasi che avevo sotto gli occhi – perché si trattava di tre frasi. Così, impaziente di leggere subito tutto,
riuscii a decifrare solo otto ultime parole «...sangue, restate
nascosto, ne va della vostra vita...».
Anche se avessi potuto leggere il biglietto per intero e
capire esattamente il messaggio che il mio amico aveva
cercato di farmi giungere, mettendomi al corrente della
più grave catastrofe, sono certo che ciò non mi avrebbe
sollevato, tanto grande fu l’orrore che provai per quel
frammentario avvertimento, ricevuto in simili condizioni. E quella parola “sangue”, che è sempre così carica di mistero, di sofferenza e di terrore, mi apparve in
tutta la sua potenza minacciosa. Quella parola, isolata
dalle altre che la precedevano per qualificarla e renderla
comprensibile, come cadde, fredda, gelida e pesante,
nel profondo del mio spirito, nella densa oscurità della
mia prigione!
Certamente Augustus aveva le sue buone ragioni per volere che restassi nascosto e io formulai mille ipotesi su
quali fossero quelle ragioni senza trovare una soluzione
soddisfacente. Quando ero tornato dalla mia incursione
verso la botola e prima che mi accorgessi dello strano
comportamento di Tigre, avevo deciso di farmi sentire
dagli uomini dell’equipaggio, o – se non vi fossi riuscito
– di cercare un passaggio sottocoperta. La certezza che
nutrivo di potere alla fine riuscire in una delle due imprese mi aveva fino a quel momento dato il coraggio per
sopportare la mia triste situazione. Le poche parole che
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avevo potuto leggere mi precludevano ora queste ultime
due possibilità e presi coscienza dell’atrocità del mio destino. Nella più profonda disperazione mi lasciai andare
sul materasso e vi rimasi per tutto il giorno e forse la
notte, immerso in una specie di torpore interrotto da
brevi intervalli in cui riprendevo coscienza del mio stato.
Finalmente cercai di ragionare ancora una volta ed esaminai la situazione. Era improbabile che potessi resistere
ancora ventiquattr’ore senz’acqua; era veramente impossibile. All’inizio della prigionia avevo fatto largamente
uso dei cordiali che mi aveva lasciato Augustus, che non
avevano fatto altro che accrescere la mia eccitazione,
senza spegnere in alcun modo la sete che mi divorava.
Adesso non mi restava più che un quarto di pinta di liquore, una bevanda molto alcolica che ripugnava al mio
stomaco. Il salame era ormai finito e del prosciutto non
restava che un piccolo avanzo di pelle; in quanto alle gallette, le aveva mangiate tutte Tigre, tranne una sola. Per
di più, sentivo crescere il mal di testa e con esso quella
specie di delirio che mi aveva preso quando ero assopito.
Già da molte ore facevo un’enorme fatica a respirare e
gli sforzi erano accompagnati da un movimento spasmodico del petto. Ma un’altra inquietudine, di tipo diverso,
mi sollevò dal torpore e mi fece rizzare tremante sul materasso. Nasceva dagli strani movimenti del mio cane.
Avevo già notato il suo comportamento mentre stropicciavo il fosforo sulla carta, durante il mio ultimo tentativo; in quel preciso momento aveva poggiato il naso
contro la mia mano, con un debole guaito, ma io ero
troppo impegnato per riflettere su quel dettaglio. Poco
dopo, come già detto, mi ero lasciato cadere sul materasso e vi ero rimasto a lungo, immerso in una specie di
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letargo. Fu allora che notai uno strano fischio vicinissimo
al mio orecchio e, voltandomi, m’accorsi che proveniva
da Tigre che ansimava e soffiava, visibilmente, in preda
a una grande agitazione, con gli occhi che brillavano
nelle tenebre d’una luce feroce. Ripiombai nel torpore e
fui di nuovo svegliato allo stesso modo. La cosa si ripeté
tre o quattro volte, fino a che non mi svegliai completamente. Il cane era accanto all’apertura della cassa, brontolava rabbioso ma sommesso e digrignava i denti come
in preda a violente convulsioni. Certamente la sete e
l’aria della stiva l’avevano esasperato e non sapevo cosa
fare. L’idea di ucciderlo mi riusciva insopportabile, per
quanto inevitabile al fine di salvarmi. Vedevo distintamente il suo sguardo feroce fisso nei miei occhi e attendevo l’istante in cui si sarebbe scagliato su di me.
Finalmente, non potendo resistere più a lungo in quella
terribile situazione, decisi di uscire dalla cassa a qualunque costo e di sbarazzarmi di lui, se il suo comportamento mi avesse costretto a farlo. Ma per uscire dovevo
passargli sopra e lui sembrava avesse capito, perché già
si era rizzato sulle zampe anteriori, come potei percepire
dalla diversa posizione degli occhi, e scopriva tutta la fila
di denti bianchi, visibili nell’oscurità.
Raccolsi dunque quanto restava della pelle di prosciutto
e la bottiglia di liquore, che strinsi contro il petto, afferrai
anche un grande coltello che Augustus mi aveva lasciato,
poi, avvolgendomi addosso il mantello il più stretto possibile, mi avanzai verso l’apertura della cassa.
Ma appena mi mossi il cane mi saltò alla gola con un latrato rabbioso; il peso del suo corpo si abbatté sulla mia
spalla destra e caddi violentemente sulla sinistra, mentre
l’animale mi passava sopra il corpo. Ero accucciato sulle
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ginocchia, la testa nascosta sotto le coperte e ciò mi
salvò da un secondo attacco della bestia inferocita, di
cui sentii i denti aguzzi piantarsi nella lana che mi avvolgeva il collo, senza che fortunatamente riuscissero ad
attraversarne le pieghe. Ero sotto il cane, che mi aveva
quasi sopraffatto quando, nella disperazione, mi rizzai
coraggiosamente e, spingendo l’animale con violenza e
tirando a me le coperte del materasso, le gettai su di lui;
prima che potesse liberarsene, avevo raggiunto l’apertura della cassa e l’avevo chiusa alle mie spalle, impedendo al cane di seguirmi. Ma nella lotta avevo perso
ciò che restava del prosciutto e avevo come unica provvista la sola bottiglia di liquore. Quell’idea e la disperazione mi spinsero a fare un gesto che avrebbe potuto
fare un giovane vizioso: portai dunque la bottiglia alle
labbra e, dopo averla vuotata tutta, fino all’ultima goccia, la scaglia a infrangersi contro il pavimento.
L’eco prodotta dal vetro rotto si era appena dissolta
quando sentii il mio nome pronunciato da una voce inquieta, ma soffocata, proveniente dalla stiva. La cosa era
così imprevista e tale fu l’emozione che produsse in me,
che non riuscii a rispondere. Mi era impossibile dire una
sola parola e, spaventato all’idea che il mio amico potesse credermi morto e tornare via senza raggiungermi,
rimasi inizialmente nascosto tra le casse vicino al mio rifugio, scosso da un tremito convulso, con la bocca tremante, sforzandomi invano di articolare parola. Una
sola sillaba da parte mia, fosse anche sufficiente a salvare
un migliaio di mondi, ebbene, quella sillaba non avrei
saputo pronunciarla.
Sentii allora come un debole movimento nella stiva, in
qualche parte di fronte a me, ed ecco che il rumore si
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fece meno distinto, più debole, come andasse man mano
affievolendosi. Non potrei mai dimenticare quel rumore. Eccolo che s’allontanava, lui, il mio amico, il mio
compagno, il solo da cui potessi aspettarmi un aiuto!...
si allontanava... mi abbandonava... se n’era andato!...
Voleva dunque lasciarmi morire in quel modo miserabile, soccombere nel più spaventoso, nel più odioso carcere... e una parola, una sillaba sola sarebbe bastata a
salvarmi, e quella piccola sillaba non riuscii ad articolarla!
In quel momento, ne sono sicuro, sentii lo spaventoso
tormento dell’agonia; poi, preso dalle vertigini, caddi
contro l’angolo della cassa in preda a una mortale debolezza. Cadendo, il coltello scivolò dalla cintura e
cadde sul pavimento con un rumore metallico. Mai le
mie orecchie furono accarezzate con tanta soavità da
una nota musicale più deliziosa. Con profonda angoscia
stavo in ascolto per capire se il rumore fosse stato percepito da Augustus, perché ero certo che la persona che
aveva pronunciato il mio nome fosse lui. Dopo qualche
attimo di silenzio, finalmente sentii di nuovo la parola
«Arthur», ripetuta più volte a voce bassa ed esitante. Allora la speranza risuscitata mi sciolse finalmente la lingua, incatenata in fondo alla gola, e gridai disperato:
«Augustus! oh, Augustus!»
«Zitto, per l’amor di Dio!... taci!...» disse con voce tremante per l’emozione. «Tornerò da te fra un istante, appena mi sarò aperto un passaggio attraverso la stiva.»
Lo udii muoversi a lungo nella stiva e ogni istante mi sembrava un’eternità. Finalmente sentii la sua mano posarsi
sulla mia spalla, mentre con l’altra mi avvicinava una bottiglia d’acqua alle labbra. Solo chi è stato strappato im49
provvisamente alla morte o chi ha conosciuto l’insopportabile tormento della sete, aggravato da quanto patito
nella mia orribile prigione, può immaginare l’indicibile
sollievo che produsse in me quel lungo sorso di piacere,
del più potente piacere fisico. Quando ebbi calmato la
sete, Augustus trasse di tasca tre o quattro patate cotte e
fredde che divorai con avidità; aveva portato con sé una
lanterna, la cui luce deliziosa mi dava una grande gioia,
quasi simile direi a quella procuratami dal cibo e dall’acqua. Ma ardevo dal desiderio di conoscere la causa della
sua lunga assenza e lui cominciò subito a raccontarmi ciò
che era accaduto a bordo durante la mia prigionia.
Capitolo 4
Come avevo supposto, il brigantino era salpato un’ora circa
dopo che Augustus mi aveva lasciato il suo orologio. Era il
20 giugno. Se il lettore ricorda, io ero già da tre giorni nella
cassa e a bordo, durante tutto quel tempo, c’era stato un
movimento incessante, un tale va e vieni, in particolare
nelle cabine degli ufficiali, che il mio amico non aveva potuto farmi visita senza correre il rischio di svelare il segreto
della botola. Quando finalmente poté scendere da me, io
stavo bene nel mio nascondiglio e, nei due giorni che seguirono non si preoccupò più di tanto, pur spiando ogni
buona occasione per scendere in stiva. Ma passarono quattro giorni senza che potesse trovare l’occasione propizia.
Più volte aveva pensato di dire tutto a suo padre e farmi
salire in coperta, ma non eravamo ancora abbastanza lontani da Nantucket e poteva temere, da alcune parole sfuggite al signor Barnard, che virasse immediatamente di
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bordo se avesse scoperto la mia presenza sulla nave. D’altra
parte, tutto considerato, Augustus – come mi disse poi –
non poteva immaginare che avessi bisogno di aiuto e pensava che, in caso di necessità, non avrei esitato ad affacciarmi alla botola. Si era quindi rassegnato a lasciarmi
laggiù finché non gli si offrisse l’occasione per scendere in
stiva senza esserne visto e quell’occasione, ripeto, non si
presentò che quattro giorni dopo che mi aveva lasciato il
suo orologio o, per meglio dire, sette giorni dopo la mia sistemazione in fondo alla stiva. Era dunque sceso, senza
portare con sé né acqua né provviste, ma semplicemente
per dirmi di lasciare il mio nascondiglio per venire io stesso
alla botola, mentre lui sarebbe rientrato nella cabina per
passarmi dei viveri. Ma, una volta sceso, si era accorto che
mi ero addormentato e gli parve che russassi sonoramente;
da quanto potei calcolare, ciò accadde precisamente
quando mi ero assopito dopo aver cercato l’orologio vicino
alla botola e avevo quindi dormito tre giorni e tre notti consecutive, se non di più. Avevo già verificato – per esperienza diretta e per assicurazioni di altre persone – le virtù
soporifere dell’aria impregnata dall’odore di olio e di pesce
in un ambiente chiuso e, quando penso alle condizioni
della stiva in cui ero imprigionato e al fatto che il brigantino
era stato per un lungo periodo una baleniera, non mi sembrava strano aver dormito così a lungo, quanto piuttosto
l’essermi risvegliato.
Augustus mi chiamò una prima volta, a voce bassa e
senza chiudere la botola, ma io non gli risposi. Allora,
chiuse la botola e mi chiamò un più forte, ma io continuavo a russare. Restò allora perplesso; che doveva fare?
Raggiungere la mia cassa attraverso quel caos gli
avrebbe richiesto molto tempo e la sua assenza poteva
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essere notata dal capitano Barnard che aveva sempre bisogno di lui per mettere ordine e copiare le carte di navigazione. Dopo averci pensato, decise di risalire e
rimandare la visita a un’altra occasione, tanto più che il
mio sonno gli sembrava tranquillo e nulla faceva supporre che potessi star male. Stava giusto riflettendo a
ciò quando la sua attenzione fu richiamata da uno strano
movimento e dai rumori che sembravano provenire
dalla cabina accanto. Saltò fuori dalla botola più rapidamente possibile e aprì la porta della cabina, ma non
aveva ancora posato il piede sulla soglia che fu raggiunto
da un colpo di pistola al viso e stramazzò a terra.
Una mano forte lo teneva inchiodato al pavimento della
cabina, serrandogli la gola; poteva tuttavia vedere ciò che
accadeva intorno: suo padre, i piedi e le mani legate, giaceva sui gradini di una scala, con la testa in giù; sulla fronte
aveva un profondo taglio da cui il sangue colava a fiotti.
Non parlava e sembrava moribondo. Il secondo ufficiale
era chino su di lui e lo fissava con un’espressione diabolica
mentre gli vuotava tranquillamente le tasche, prendendogli
il portafoglio e il cronometro; sette marinai, fra cui il cuoco
di bordo – un negro – cercavano le armi nella cabina di
babordo e ben presto si armarono di fucili e munizioni.
Senza contare Augustus e il capitano Barnard, in tutto
nella cabina c’erano nove uomini, fra i più brutti ceffi
dell’equipaggio. I banditi uscirono sul ponte trascinando
il mio amico, dopo avergli legato le mani dietro il dorso.
Raggiunsero subito il castello di prua col portello chiusa;
due dei ribelli erano ai lati armati di scure, altri due vicino al boccaporto. Il secondo ordinò ad alta voce:
«Voi laggiù, ascoltatemi bene, fatevi avanti, uno alla
volta, e senza fiatare!»
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Passarono alcuni minuti prima che qualcuno si facesse
vivo. Finalmente, un ragazzo inglese che si era imbarcato come mozzo si fece avanti piagnucolando penosamente e scongiurando il secondo di risparmiargli la vita.
Un colpo d’ascia sulla fronte fu la sola risposta che ricevette: il disgraziato cadde sul ponte senza emettere un
gemito e il cuoco negro, prendendolo in braccio come
fosse un bambino lo gettò in mare senza batter ciglio.
Udendo il colpo prodotto dall’ascia e il tonfo del corpo
in acqua, gli uomini sottocoperta si guardarono bene
dall’avventurarsi sul ponte; a nulla valsero né le promesse, né le minacce, né i consigli, fino a che uno dei rivoltosi propose di soffocarli col fumo nel loro buco.
Davanti a quella terribile minaccia tentarono una sortita
in massa e per un attimo sembrava che stessero per riprendere possesso del brigantino. Ma alla fine gli ammutinati riuscirono a sbarrare il castello di prua: sei soli
dei loro avversari avevano avuto il tempo di passare e
questi sei uomini, privi di armi e in inferiorità numerica,
dovettero arrendersi dopo una breve lotta.
Il secondo si rivolse a loro in modo conciliante, nell’intento di convincere quelli rimasti sotto e indurli alla
resa, perché essi potevano udire bene ciò che si diceva
sul ponte. La sua sagacia e scelleratezza furono premiate, perché subito quelli rimasti nel castello di prua
manifestarono l’intenzione di arrendersi e, saliti sul
ponte uno a uno, furono legati e gettati a far compagnia
agli altri sei sventurati; questa era la parte dell’equipaggio che non aveva partecipato all’ammutinamento, in
tutto ventisette uomini.
Ci fu quindi una scena atroce. I marinai prigionieri vennero trascinati sul ponte, dove il cuoco, con l’ascia in
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mano, abbatteva le vittime con un solo colpo alla testa
man mano che gli altri ammutinati li spingevano a forza
davanti a lui. Ventidue uomini furono uccisi così; Augustus si vedeva perduto anche lui e aspettava che da
un momento all’altro giungesse il suo turno; ma, forse
perché i banditi cominciavano a essere stanchi o perché
nauseati essi stessi dal loro orribile crimine, di fatto cinque prigionieri vennero per il momento risparmiati, fra
cui il mio amico che era stato gettato nel mucchio.
Il secondo mandò qualcuno a cercare del rhum sottocoperta e la banda d’assassini si abbandonò a una disgustosa orgia che si prolungò fino al tramonto del sole,
quando nacque una disputa su ciò che si dovesse fare
dei superstiti, che erano stesi sul ponte a pochi passi e
quindi sentivano tutto.
L’alcool doveva aver avuto un benefico influsso su alcuni
degli ammutinati, perché alcuni proposero di liberare i
prigionieri, a condizione che si unissero a loro, dividendo
il bottino. Ma il cuoco – che era un vero demonio e che
sembrava esercitare un’influenza anche maggiore del secondo, non voleva saperne e accennava a voler riprendere
il suo orribile lavoro. Fortunatamente era così indebolito
dall’alcool che poté facilmente essere tenuto a banda dagli
altri componenti di quella banda sanguinaria, fra i quali
era un individuo conosciuto sotto il nome di Dirk Peters.
Quell’uomo era il figlio di un’indiana della tribù Upsaroka,
che abitano nelle Black Hills, vicino alla sorgente del Missouri. Il padre era un cacciatore di pellicce, almeno credo,
o comunque era in contatto con gli uffici commerciali indiani del fiume Lewis. Peters aveva l’aspetto più feroce che
mai io abbia avuto occasione di osservare in un uomo. Era
basso di statura poiché non superava i quattro piedi e otto
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pollici di altezza, ma era forte come un Ercole. Le mani
erano così smisurate che si faticava a crederle umane. Le
braccia, come le gambe, erano stranamente arcuate e rigide. Anche la testa era mostruosa, enorme e completamente calva ad eccezione di un ciuffo solitario sulla
sommità, come spesso nelle acconciature indiane. Per dissimulare la precoce calvizie, usava portare una specie di
parrucca fatta di pelliccia di vari animali. In quel momento
aveva in testa una pelle d’orso, che accresceva la naturale
espressione feroce tipica degli Upsaroka. La bocca andava
quasi da un orecchio all’altro: le labbra erano sottili e, per
conformazione naturale, apparivano rigide, accentuando
l’espressione autoritaria che non lasciava trasparire alcuna
emozione, qualunque fosse; questa espressione il lettore se
la può figurare immaginando dei denti di una lunghezza
insolita, nascosti solo in parte dalle labbra. A prima vista si
sarebbe potuto credere che fosse in preda a un riso convulso, ma guardandolo meglio e con più attenzione si vedeva, non senza un brivido, che quella fisonomia
esprimeva l’allegria di un demonio. Della forza prodigiosa
di quell’essere bizzarro parlavano molti aneddoti narrati
dai marinai di Nantucket; di quella forza egli dava prova
quando per qualche motivo si esaltava e molti pensavano
che fosse uno squilibrato.
Ma a bordo del Grampus, all’epoca in cui avvenne l’ammutinamento, quell’uomo sembrava più che altro un oggetto di scherno e, se mi sono dilungato a proposito di
Dirk Peters, è perché, malgrado la sua apparenza feroce,
fu in realtà il suo intervento che salvò la vita ad Augustus e anche perché avrò più volte occasione di parlare
di lui nel corso della mia storia.
Dopo lunga incertezza e accese discussioni fu deciso
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che, a eccezione di Augustus – che Peters pretese in
modo curioso che gli fosse assegnato come assistente –
gli altri prigionieri sarebbero stati abbandonati alla deriva in una delle scialuppe.
Il secondo scese poi in cabina per vedere se il capitano
Barnard era ancora in vita e dopo poco riapparvero tutti
e due, il capitano pallido come un morto, ma ripresosi
della ferita ricevuta. Parlò ai marinai con voce insicura,
facendo appello al loro senso del dovere, supplicandoli
di non abbandonarlo così alla deriva, promettendo di
sbarcarli dove volevano e di non consegnarli nelle mani
della giustizia. Ma le sue parole volarono col vento; due
rivoltosi lo afferrarono per le braccia e lo lanciarono fuori
bordo nella scialuppa che era stata calata in mare, mentre
il secondo si recava nelle cabine degli ufficiali. Poi i quattro uomini che giacevano sul ponte vennero sciolti dai legacci e fu loro ordinato di raggiungere il capitano, cosa
che fecero senza opporre resistenza. Augustus invece rimase nella sua penosa posizione, pur dibattendosi e implorando di poter dire addio al padre. Ai disgraziati
venne data una manciata di gallette e una fiasca d’acqua,
ma nessun albero, nessuna vela, nessun remo e nessuna
bussola. La barca fu rimorchiata per alcuni minuti, mentre gli ammutinati prendevano altre decisioni, e finalmente venne abbandonata in balia dei flutti.
Nel frattempo era scesa la notte. Non c’era luna e non
brillava una stella: nonostante un debole vento, il mare
intorno non era rassicurante. In capo a poco la barca
scomparve alla vista, e non si potevano certo nutrire speranze sulla sorte di quegli infelici.
Siccome tutto questo avveniva a 35° 30’ di latitudine
nord, e a 61° 20’ di longitudine ovest, o – per meglio
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spiegare ai nostri lettori – a poca distanza dalle isole Bermude, Augustus tentò di consolarsi dicendosi che forse
la scialuppa avrebbe avuto la fortuna di approdare o di
avvicinarsi abbastanza alla riva da incontrare qualche
imbarcazione costiera.
Furono quindi issate tutte le vele e il brigantino proseguì
la sua rotta verso sud-ovest; gli ammutinati avevano di
sicuro in mente un’azione di pirateria che consisteva –
per quanto aveva capito Augustus – nell’abbordare una
nave in rotta dalle Isole di Capo Verde a Porto-Rico.
Nessuno si curava di Augustus, che era stato liberato e
poteva andare dove voleva. Dirk Peters dimostrava a
suo riguardo una certa benevolenza e una volta lo sottrasse alla violenza brutale del cuoco. La sua situazione
restava tuttavia molto precaria, perché non c’era molto
da fidarsi dell’indifferenza e della benevolenza che gli
avevano fino ad allora dimostrato quei marinai ubriaconi. Mi assicurò poi che, malgrado la paura per se
stesso, la sua maggior preoccupazione riguardava me, e
certamente non avevo ragioni per dubitare della sincerità della sua amicizia. Più volte era stato sul punto di
far rivelare ai rivoltosi la mia presenza a bordo, ma sempre aveva rinunciato, ricordando le atrocità commesse
sotto i suoi occhi e nella speranza di poter trovare presto
un modo per venire in mio aiuto. A questo scopo spiava
tutte le occasioni propizie, ma per quanto attiva fosse la
sua vigilanza, fu solamente tre giorni dopo l’abbandono
della scialuppa che poté trovare il momento opportuno.
La sera del terzo giorno un forte vento si alzò da est e
tutti si dovettero affrettare a ridurre le vele. Approfittando della confusione Augustus poté spingersi inosservato fino alla sua cabina, ma fu preso dall’angoscia
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constatando che era diventata una specie di ripostiglio
per ogni sorta di provviste e materiali di bordo e che,
per far posto a una cassa, molte bracciate di vecchie catene erano state spostate da sotto la scala e poggiate sul
pavimento della cabina, proprio sopra la botola. Non
era neanche immaginabile spostarle, per cui tornò sul
ponte in tutta fretta: ma proprio mentre risaliva, il secondo di bordo lo prese per la gola, chiedendogli perché fosse andato nella cabina e stava per gettarlo in mare
sollevandolo sopra il pavese di babordo, quando per la
seconda volta l’intervento di Peters gli salvò la vita.
Fu ammanettato – a bordo c’erano molte paia di manette – gli vennero legati i piedi e fu trasportato negli
alloggi sottocoperta, dove fu gettato in una cuccetta
sotto il castello di prua, con l’assoluto divieto di rimettere piede sul ponte «finché il brigantino non fosse più
un brigantino». Queste furono le ultime parole del
cuoco di bordo mentre lo gettava sulla cuccetta e ciò
che provava in quel momento è difficile da dire perché
ci sono stati d’animo che nessuna parola può esprimere.
Tuttavia, come il lettore vedrà presto, fu proprio quell’incidente che mi salvò la vita.
Capitolo 5
Quando il cuoco lasciò il castello di prua, per alcuni minuti Augustus si lasciò andare alla disperazione, convinto che non sarebbe uscito vivo da quel luogo. Prese
quindi la decisione di rivelare la mia presenza al primo
marinaio che scendesse nella cabina, pensando che fosse
meglio espormi a dividere la sorte dei ribelli che non la58
sciarmi morire di sete in fondo alla stiva; la mia reclusione infatti durava da dieci giorni, mentre la mia provvista d’acqua era appena sufficiente per quattro. Mentre
pensava a questo, gli venne in mente che forse avrebbe
potuto comunicare con me attraverso la stiva: in altra
occasione, la difficoltà e i rischi dell’impresa l’avrebbero
certamente dissuaso; ma in quel momento non aveva
granché da perdere, per cui destinò ogni sforzo a quell’idea.
Le manette costituivano il primo problema e, poiché non
sapeva come sbarazzarsene, temette di trovarsi paralizzato in partenza. Poteva però farle scivolare, senza grandi
sforzi e senza dolore, contraendo semplicemente le mani;
quel tipo di manette infatti non erano adatte a un giovane con le ossa più tenere, che potevano comprimersi
più facilmente. Con la mano libera poté sciogliere i lacci
dei piedi, disponendo la corda in modo da poterla rimettere a posto nel caso fosse giunto qualcuno. Studiò poi
il tramezzo, nella parte vicina al fondo della cuccetta. In
quel punto era formato da un’asse di abete dello spessore
di un pollice e Augustus pensò che non avrebbe fatto
grande fatica ad aprirvi un passaggio. Non aveva ancora
liberato la mano sinistra quando udì una voce sulla scala
del castello di prua ed ebbe appena il tempo di ricacciare
la mano destra nella manetta e di serrare la corda intorno
alle caviglie fermandole con un nodo posticcio che Dirk
Peters scese giù, seguito da Tigre che si accucciò subito
nel quadrato. Il cane era stato portato a bordo da Augustus che, sapendo quanto ero affezionato all’animale,
aveva pensato che avrei avuto piacere di averlo con me
in navigazione; era dunque andato a prenderlo a casa di
mio padre, dopo che ero stato chiuso in fondo alla stiva,
59
ma non aveva pensato a parlarmene il giorno in cui mi
aveva portato l’orologio.
Dopo l’ammutinamento Augustus non l’aveva più rivisto e aveva immaginato che fosse stato gettato in mare
da qualche delinquente della banda. Si seppe in seguito
che si era nascosto in un buco sotto una scialuppa, da
cui non era più riuscito a districarsi. L’aveva trovato e
liberato Peters che, in un impulso di generosità che il
mio amico seppe apprezzare, glielo portò perché gli tenesse compagnia; gli lasciò anche un pezzo di carne salata e delle patate con una brocca d’acqua, dopodiché
tornò sul ponte promettendo di tornare l’indomani con
altre provviste.
Una volta partito Peters, Augustus si sfilò le manette e
si sciolse i piedi. Sollevò poi il materasso e con l’aiuto
del coltello – dato che i rivoltosi non avevano pensato a
perquisirlo – cominciò a intagliare energicamente una
delle assi del tramezzo, il più vicino possibile al punto
in cui era la cuccetta. Aveva scelto quel punto perché,
se fosse venuto qualcuno, avrebbe potuto facilmente nascondere il lavoro iniziato, lasciando semplicemente ricadere la parte superiore del materasso.
Ma per tutto il giorno nessuno venne a interromperlo,
di modo che, giunta la sera, aveva quasi completamente
tagliato l’asse.
È opportuno spiegare ai lettori che la gente dell’equipaggio non dormiva più nel castello di prua, essendosi tutti,
dopo l’ammutinamento, insediati negli alloggiamenti a
poppa dove gozzovigliavano col vino e le provviste del
capitano Barnard, occupandosi delle manovre del brigantino solo lo stretto necessario. Tutto ciò giocava a favore di Augustus e me, altrimenti non avrebbe potuto
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venirmi in soccorso; quindi, nonostante il pericolo che
giungesse qualcuno, si rimise con fiducia all’esecuzione
del suo piano.
Il giorno stava per spuntare quando terminò la seconda
parte del suo lavoro che consisteva nel praticare nell’asse
del tramezzo un secondo taglio a un piede circa di distanza dal primo, per aprirsi un passaggio sufficiente
verso il corridoio sottocoperta. Una volta passato, s’incamminò senza troppe difficoltà verso il boccaporto, scavalcando dei barili d’olio accatastati fino al ponte
superiore, che lasciavano lo spazio appena sufficiente per
passare. Arrivato al boccaporto, si accorse che Tigre
l’aveva seguito e procedeva tra due file di barili. Ma ormai
era troppo tardi per raggiungermi prima del giorno, dati
gli ostacoli da superare nella stiva. Decise quindi di tornare indietro e aspettare la notte seguente e, a questo
scopo, cominciò a liberare il boccaporto per guadagnare
tempo quando sarebbe tornato. Ma appena liberato,
Tigre si lancio improvvisamente nel varco, soffiò per un
istante e lasciò sfuggire un lungo guaito grattando con le
zampe come se avesse voluto strappare l’assicella. Il comportamento del cane non lasciava dubbi sul fatto che sentisse la mia presenza, per cui Augustus pensò che sarebbe
stato possibile all’animale raggiungermi, se lo avesse lasciato andare. La cosa gli suggerì l’idea di spedirmi un biglietto, ma era necessario innanzitutto che io non tentassi
di uscire dal mio nascondiglio, almeno in quel momento,
perché era ben certo di potermi raggiungere l’indomani,
come aveva progettato. Gli avvenimenti che seguirono
dimostrarono come quell’idea era stata felice, perché se
non avessi ricevuto quel biglietto, avrei cercato disperatamente di segnalare la mia presenza all’equipaggio e il
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risultato del tentativo sarebbe stato certamente la morte
di ambedue.
Decise dunque di scrivermi, ma il difficile era procurarsi gli strumenti per farlo. Da un vecchio stuzzicadenti
ricavò una penna, pur dovendosi affidare solo a tatto
perché nel luogo in cui si trovava era buio pesto. Come
carta adoperò una copia della lettera contraffatta del signor Ross; l’imitazione della scrittura non era venuta
bene e Augustus ne aveva rifatta un’altra, dimenticandosi la prima in tasca, dove ora l’aveva ritrovata. Mancava solo l’inchiostro, ma il mio amico rimediò
facendosi un leggero taglio col coltello alla punta del
dito, proprio di sotto l’unghia; il sangue che uscì fu sufficiente e il biglietto venne così scritto come permesso
dal buio e dalle circostanze. In esso m’informava brevemente che a bordo l’equipaggio si era ammutinato, che
il capitano Barnard era stato abbandonato alla deriva,
che contava di portarmi a breve delle provviste, ma che
non dovevo assolutamente farmi scoprire. Lo strano
messaggio finiva con queste parole:
«Traccio queste righe col sangue, stai nascosto, ne va
della tua vita...».
Attaccò il foglio di carta alla schiena del cane, lo spinse
verso il boccaporto e tornò sui suoi passi al castello di
prua, dove sembrava non fosse arrivato nessuno durante
la sua assenza. Per nascondere l’apertura praticata nel
tramezzo piantò il coltello proprio sopra e vi appese una
camicia che era nella cuccetta; si rimise le manette e arrotolò di nuovo la corda intorno alle caviglie.
Aveva appena finito che Dirk Peters discese, ubriaco
fradicio ma di buon umore, portando al mio amico la
sua razione quotidiana, che consisteva in una dozzina
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di patate d’Irlanda cotte al forno e in una brocca d’acqua. Si sedette per un momento su un baule vicino alla
cuccetta e cominciò a parlare liberamente del secondo
e di ciò che accadeva a bordo. Il suo comportamento
era molto strano, tanto che Augustus a un certo punto
si sentì inquieto. Poi finalmente Peters se ne tornò sul
ponte, borbottando tra i denti che l’indomani avrebbe
portato al prigioniero un pranzo di primo ordine.
Nel corso della giornata scesero anche due marinai fiocinieri e il cuoco, anch’essi completamente ubriachi e
anch’essi parlarono a ruota libera. Sembravano avere
opinioni molto diverse su come finire il viaggio e concordavano su un solo punto, l’abbordaggio della nave
che doveva arrivare da un momento all’altro da Capo
Verde.
Per quanto Augustus poté capire, a spingere all’ammutinamento l’equipaggio era stata l’idea di un ricco bottino,
ma soprattutto la rabbia che il secondo nutriva nei confronti del capitano Barnard. Adesso l’equipaggio era diviso in due fazioni, una faceva capo al secondo e l’altra al
cuoco. La prima aveva stabilito di abbordare la nave più
adatta al loro piano e di riparare in una qualunque isola
delle Antille per approntarla per una scorreria piratesca.
La seconda e più grande, di cui Peters faceva parte, voleva
invece continuare nell’originaria rotta del brigantino verso
il Pacifico meridionale, a caccia di balene e per fare ogni
traffico che potesse capitare. Le ragioni di Peters, che
aveva più volte battuto quei mari, sembravano riscuotere
consenso fra i ribelli, che oscillavano tra molte idee confuse che puntavano sempre al denaro e al divertimento.
Raccontava loro di mondi meravigliosi e sconosciuti nelle
migliaia di isole del Pacifico; parlava dell’assoluta libertà
63
di cui avrebbero goduto e soprattutto del clima delizioso
e delle risorse di quelle terre dove la natura è incredibilmente generosa e le donne straordinariamente belle. Non
era stata presa ancora alcuna decisione definitiva, ma i racconti del mezzosangue avevano colpito l’immaginazione
dei marinai e tutto faceva pensare che alla fine avrebbe
vinto il suo piano.
I tre uomini se ne andarono dopo un’ora e per tutta la
giornata nessuno scese più dov’era il mio amico. Questi
non si mosse fino a notte, quando si liberò dai ferri e
dalla corda e si preparò per il secondo tentativo. Trovata
una bottiglia in una delle cuccette, la riempì con l’acqua
della brocca lasciatagli da Peters e si riempì le tasche di
patate. Fu contento nello scoprire anche una lanterna
con un mozzicone di candela, che poteva accendere al
momento giusto perché aveva con sé una scatola di fiammiferi. Quando fu buio del tutto, s’introdusse nel buco
del tramezzo, dopo aver sistemato la coperta nella cuccetta per simulare una persona addormentata. Appena
passato, appese come la prima volta la camicia al coltello
sulla parete per nascondere il buco e infine rimise al suo
posto l’asse che aveva tagliato. Penetrò così nel corridoio
sottocoperta e si avviò di nuovo tra il ponte superiore e
la barriera di barili d’olio fino al grande boccaporto. Una
volta giunto là, accese il mozzicone di candela e scese, a
fatica e tastoni, attraverso i materiali accatastati nella
stiva. Il sudicio e l’odore insopportabile non tardarono
a preoccuparlo, perché gli sembrava impossibile che
fossi potuto sopravvivere così a lungo in quel posto soffocante. Mi chiamò per nome più volte, ma senza risposta e i suoi timori si confermarono. Il rollio del brigantino
produceva un rumore forte e non poteva certo sentire il
64
mio respiro o il mio russare; aprì dunque la lanterna e,
continuando ad avanzare, la tenne il più possibile in alto,
per quanto gli permetteva lo spazio della stiva, di modo
che la vista della luce, nel caso fossi stato ancora vivo, mi
facesse capire che arrivavano soccorsi.
Trovato però il passaggio bloccato da ostacoli insormontabili, alla fine aveva rinunciato a raggiungermi e con l’angoscia nel cuore era risalito nel castello di prua.
Prima però di condannarlo senza appello, bisogna esaminare con serenità le gravi difficoltà con cui si era confrontato. La notte avanzava rapidamente e nel castello
di prua la sua assenza avrebbe potuto essere scoperta,
cosa che sarebbe sicuramente avvenuta se non avesse riguadagnato il suo posto prima del sorgere del giorno. La
candela stava ormai per spegnersi nella lanterna e
avrebbe avuto problemi a rifare al buio il percorso di ritorno. Bisogna inoltre considerare che pensava fossi
morto e che sarebbe stato del tutto inutile arrivare fino
alla mia cassa correndo mille pericoli. Mi aveva chiamato
a più riprese senza ricevere alcuna risposta; sapeva che
ero già da undici giorni e da undici notti senza altra provvista d’acqua se non quella della brocca che mi aveva lasciato all’inizio; era inoltre molto probabile che io, non
potendo immaginare che la prigionia sarebbe durata così
a lungo, non avessi razionato le provviste fin dall’inizio.
A tutte queste riflessioni va aggiunto che, per lui che veniva dal castello di prua dove l’aria era purissima, quella
della stiva doveva sembrargli pestifera, ben peggiore di
quando mi ero installato laggiù, perché allora i boccaporti erano rimasti aperti per mesi. Se a tutte queste considerazioni si aggiunge ancora la terribile e sanguinosa
scena a cui il mio amico aveva da poco assistito, la sua
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reclusione, le privazioni, la morte sfiorata, il caso equivoco a cui doveva la vita, tutte considerazioni che non
aiutavano certo il suo morale e la sua energia, allora il
lettore potrà capire perché io stesso guardassi l’apparente debolezza della sua amicizia e della sua fedeltà con
più tristezza che indignazione.
Augustus aveva udito distintamente il rumore della bottiglia che s’infrangeva contro il pavimento, ma non era
ben sicuro che quel rumore provenisse dalla cassa; il
dubbio però lo convinse a perseverare nel suo tentativo.
Si arrampicò dunque fin quasi all’altezza del secondo
ponte e, aspettato che la nave fosse un po’ meno coricata sul fianco, mi chiamò a voce più alta possibile,
senza preoccuparsi del rischio che qualcuno dell’equipaggio lo sentisse. Il lettore ricorderà che quella volta
avevo sentito la voce ma, stravolto com’ero, non ero riuscito a rispondere. Convinto allora che le sue paure purtroppo erano fondate, aveva ripreso il percorso indietro
verso il castello di prua, senza perdere più tempo in
vane ricerche. Nella fretta aveva rovesciato alcune piccole casse e anche quel rumore – ricorderete – era
giunto alle mie orecchie; ed era appena tornato indietro
di pochi passi quando la caduta del mio coltello lo fece
nuovamente esitare; fece un altro dietrofront, scavalcò
di nuovo la stiva e gridò i1 mio nome ancora più forte,
approfittando di una tregua del vento. Questa volta trovai il fiato per rispondergli e lui, sconvolto dalla gioia al
pensiero di ritrovarmi ancora vivo, decise di fare qualunque cosa pur di giungere fino a me. Districandosi nel
labirinto della stiva, ebbe la fortuna di trovare un passaggio più praticabile e, dopo molti sforzi, raggiunse la
mia cassa completamente sfinito.
66
Capitolo 6
Mentre eravamo insieme vicino alla cassa, Augustus mi
raccontò questa storia per sommi capi e solo più tardi
poté entrare nei dettagli. Temeva che la sua assenza potesse venire notata ed io, da parte mia, fremevo per lasciare l’odioso luogo della mia prigionia. Decidemmo
quindi muoverci, senza esitazione, verso il varco praticata
nel tramezzo, poiché era là che dovevo installarmi provvisoriamente, mentre Augustus sarebbe andato in ricognizione. Tigre era sempre chiuso nella cassa e non
potevamo sopportare l’idea di abbandonarlo così; d’altra
parte, che avremmo dovuto fare? Non sentivamo alcun
rumore e nemmeno appoggiando l’orecchio contro la
cassa percepivamo il suo respiro. Convinto ormai che
fosse morto, mi decisi ad aprire la porta e lo trovammo
là, disteso, in preda ad un profondo torpore, ma ancora
vivo. Dovevamo sbrigarci, ma non potevo abbandonarlo
laggiù senza tentare di salvare un animale che per ben
due volte mi aveva salvato, per cui cercammo insieme di
trascinarlo come potevamo, con grande fatica. Augustus
era costretto a superare gli ostacoli portando in braccio
l’enorme cane, perché io ero talmente sfinito che non ce
l’avrei mai fatta. Finalmente arrivammo al varco e Augustus passò per primo, poi fu la volta di Tigre. Era andato
tutto bene e ringraziammo Dio dal profondo del cuore
per averci salvato dal pericolo. Decidemmo che per il momento sarei rimasto vicino al varco, attraverso il quale il
mio amico mi avrebbe potuto facilmente passare una
parte delle sue razioni quotidiane, respirando oltretutto
un’aria decisamente migliore.
Perché il lettore possa meglio comprendere alcuni pas67
saggi di questo racconto in cui si parla della sistemazione della stiva e che potrebbero risultare poco chiari
a lettori che non hanno avuto occasione di vedere una
stiva ben sistemata, bisogna riconoscere che il modo in
cui questa importante operazione era stata compiuta a
bordo del Grampus attestava la più imperdonabile negligenza da parte del capitano Barnard, che non era il
marinaio vigile ed esperto che ci si poteva aspettare dal
suo ruolo.
Uno stivaggio ben fatto deve essere effettuato con molta
cura e, per parlare solo della mia esperienza, ho constatato che molti disastrosi incidenti derivano dalla negligenza e dall’ignoranza da parte dei marinai delle norme
che regolano questa parte del loro mestiere. Le navi costiere, stante la fretta e il disordine che accompagnano
sempre il carico o lo scarico, soffrono più delle altre per
il cattivo stivaggio. L’essenziale è impedire al carico e alla
zavorra di muoversi col rollio della nave. A questo scopo,
occorre prestare molta attenzione non solo al carico, ma
anche alla sua natura e se si tratti di un pieno carico o di
un carico parziale. In un carico di tabacco o di farina, per
esempio, i fusti o i barili sono così compressi nella stiva
della nave da deformarsi e, quando escono, ci mettono
molti giorni a riprendere l’aspetto primitivo. Si adotta lo
stivaggio per compressione soprattutto per occupare
meno spazio nella stiva e un carico di sole derrate, come
farina o tabacco, non patirà alcun inconveniente. Certo,
ci sono stati casi in cui questo sistema ha avuto conseguenze incresciose, ma le cause erano in realtà da attribuire ad altro. Accade ad esempio che un carico di
cotone fortemente compresso si dilati in certe condizioni,
facendo letteralmente esplodere una nave in mare e qual68
cosa di simile può avvenire anche col tabacco in fermentazione. Ma è soprattutto il carico parziale quello più pericoloso, per cui occorre prendere tutte le precauzioni
per prevenire una catastrofe. Solo chi ha affrontato una
grande tempesta o, ancora di più, chi ha provato il rollio
di una nave provocato da un’improvvisa raffica di vento,
può farsi un’idea della formidabile potenza delle onde e
della terribile spinta che ricevono, per contraccolpo, i carichi che non si è avuto cura di assicurare bene. E in caso
di carico parziale diventa assolutamente necessario uno
corretto e meticoloso stivaggio; quando una nave è appruata (in particolare con poca vela avanti) e la prua non
è costruita a regola d’arte, può capitare che si verifichi
uno sbandamento, che si può ripetere anche ogni quindici o venti minuti senza gravi inconvenienti, a condizione
che lo stivaggio sia ben fatto. Se così non è, alla prima pesante ondata tutta la massa del carico scivola verso la
parte coricata sull’acqua e la nave, incapace di riprendere
il suo equilibrio, è esposta fatalmente a imbarcare acqua
e ad affondare in pochi secondi. Non è esagerato affermare che la metà dei naufragi durante una tempesta siano
dovuti al movimento del carico o della zavorra.
Quando s’imbarca un carico parziale, dopo essere stato
disposto il più strettamente possibile, il tutto deve essere
coperto da un piano di assi facilmente removibili, che occupino tutta la larghezza della nave e queste assi saranno
intercalate da puntelli che raggiungano in alto l’armatura
del ponte, rendendo il carico stabile.
Per le granaglie invece vanno prese precauzioni supplementari. Una stiva piena di grano quando si abbandona
il porto, all’arrivo a destinazione risulterà piena solo per
tre quarti, e ciò nonostante il carico, misurato staio a staio
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dal consegnatario, sorpassi di molto, in seguito al rigonfiamento del grano, la quantità assegnata. Questo fenomeno deriva dalla compressione del carico durante la
traversata, che varia in ragione delle condizioni del mare
incontrate. Quando si stiva il grano senza prestare attenzione a che sia ben compresso, anche se sistemato con
assi e puntelli, durante una lunga traversata sarà sempre
esposto a forti scosse che possono provocare terribili incidenti. Esistono molti sistemi per comprimere il grano,
fra cui la pratica che consiste nell’immergervi dei cunei.
Ma anche dopo aver preso tutte queste precauzioni e
dopo aver faticato per assicurare le assi mobili, un marinaio che conosca bene il suo mestiere non sarà tranquillo
se deve affrontare una seria burrasca con un carico di
grano, o peggio ancora, con un carico parziale. E tuttavia
si vedono quotidianamente nei nostri porti – e in quelli
europei ancora di più – centinaia d’imbarcazioni che
fanno cabotaggio con carichi parziali, spesso della specie
più pericolosa, senza aver preso tutte precauzioni indispensabili, e solo per miracolo giungono a destinazione.
Uno degli esempi più deplorevoli che conosca di simili
imprudenze è quello del capitano Joël Rice, al comando
della goletta Firefly, che nel 1825 fece rotta da Richmand
(Virginia) a Madeira con un carico di grano. Aveva effettuato diversi viaggi senza gravi incidenti, nonostante non
prestasse grande attenzione allo stivaggio e non usasse
alcun sistema di compressione del carico. Era la prima
volta che trasportava grano e il frumento occupava solo
metà della stiva. Nella prima parte della traversata incontrò solo leggere brezze, ma giunto a circa una giornata da
Madeira si alzò un forte vento da nord-nord ovest, che lo
costrinse a ridurre la velatura. Mise quindi la goletta al
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vento lasciando una mezzana con due terzaroli e la nave
si comportò secondo le aspettative, non imbarcando neppure una goccia d’acqua. Al calare della notte l’uragano
si era un po’ calmato e già la goletta cominciava a riprendere il suo assetto quando, improvvisamente, un’enorme
ondata scaricò a tribordo. Si udì tutto il carico di grano
rotolare con una tale violenza da sfondare il grande boccaporto e in pochi secondi l’imbarcazione colò a picco
come una palla di piombo. Tutto ciò accadeva quasi a
portata di voce di un piccolo sloop di Madeira, che raccolse uno degli uomini dell’equipaggio, il solo che si
salvò; al contrario, lo sloop superò la tempesta in perfetta
sicurezza, diretto da una mano esperta.
Lo stivaggio a bordo del Grampus lasciava molto a desiderare, se pure si può definire stivaggio un insieme
caotico di barili d’olio e di materiali di bordo.
Ho già parlato del modo con cui gli oggetti erano disposti nella stiva: sul ponte inferiore, come ho avuto
modo di dire, c’era uno spazio sufficiente per il mio
corpo tra i barili d’olio e il ponte superiore; ancora spazio era vicino al boccaporto superiore e non erano questi i soli vuoti esistenti. Vicino al buco praticato da
Augustus nel tramezzo del castello di prua vi era posto
per un intero barile, ed era precisamente in questo
luogo che mi trovavo, per il momento, sistemato abbastanza comodamente.
Mentre il mio amico riguadagnava il suo posto e risistemava le manette ai polsi e la corda alle caviglie si era fatto
giorno. A dire il vero, l’avevamo scampata bella perché,
appena prese tutte queste precauzioni, sentimmo il secondo scendere nel castello di prua, seguito da Dirk Peters
e dal cuoco. Vi si trattennero per alcuni minuti parlando
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della nave che doveva arrivare da Capo Verde e sembravano aspettarla con grande impazienza. Alla fine il cuoco
si avvicinò al luogo dov’era Augustus e si sedette. Potevo
udire e vedere tutto dalla mia improvvisata cuccetta, perché il pezzo di asse tagliato non era stato ricollocato e temetti che il negro spostasse il camiciotto appeso per
nascondere l’apertura, nel qual caso avrebbe scoperto tutto
non avremmo avuto scampo. Ma la nostra buona stella ci
aiutò e, pur sfiorando più volte il camiciotto col rollio della
nave, non si appoggiò tanto da scoprire l’inganno. Fortunatamente avevamo fissato la parte inferiore del camiciotto
al tramezzo in modo che non potesse oscillare e scoprire
l’apertura. Per tutto il tempo Tigre era rimasto ai piedi del
letto e sembrava aver recuperato in parte le forze, perche
a intervalli lo vedevo aprire gli occhi e respirare profondamente.
Dopo qualche minuto il secondo e il cuoco si ritirarono,
lasciando nel castello di prua Peters che, subito dopo la
loro partenza, venne a sedersi nel posto poco prima occupato dal secondo. Parlò amichevolmente con Augustus e
ci accorgemmo che aveva fatto finta di essere ubriaco
quando c’erano gli altri due. Rispose tranquillamente a
tutte le domande rivoltegli dal mio amico, gli disse di stare
tranquillo, che suo padre si era certamente salvato, perché
prima del tramonto del sole, il giorno che la scialuppa era
stata abbandonata alla deriva, non vi erano meno di cinque
vele in vista. Insomma, dalle sue parole si capiva che cercava di consolarlo e questo che mi sorprese e mi fece piacere. A dire il vero, cominciavo a nutrire la speranza che
forse, con l’aiuto di Peters, saremmo riusciti a riprendere
possesso del brigantino e comunicai questa mia idea ad
Augustus appena se ne presentò l’occasione. Egli convenne
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con me che la cosa era possibile, ma insistette sulla necessità di fare un simile tentativo solo con la massima attenzione, perché l’atteggiamento del mezzosangue gli
sembrava ispirato solo da un capriccio e continuava a chiedersi se non fosse un po’ fuori di testa. Di lì a un’ora circa
Peters risalì sul ponte e tornò solo a mezzogiorno, portando ad Augustus un bel pezzo di montone salato e del
pudding. Appena se ne andò, io presi con piacere la mia
parte di cibo senza neppure tornare nel mio buco.
Il giorno trascorse senza che nessun altro dell’equipaggio
scendesse nel castello di prua e, calata la notte, andai nella
cuccetta di Augustus e dormii di un sonno profondo quasi
fino all’alba, quando il mio amico mi svegliò perché aveva
sentito dei rumori sul ponte, e tornai di corsa nel mio nascondiglio. Quando venne il giorno, constatammo che
Tigre si era quasi completamente ripreso e non presentava
alcun sintomo d’idrofobia; beveva infatti con grande avidità l’acqua che gli davamo, e, nel corso della giornata,
riacquistò tutte le forze e il suo appetito. Il suo strano comportamento era sicuramente dovuto all’aria malsana della
stiva e non aveva nulla a che fare con l’idrofobia; io non
potevo che gioire al pensiero di averlo tirato fuori dalla
cassa per tenerlo ancora con me. Era il 30 giugno ed erano
ormai trascorsi tredici giorni dalla nostra partenza da Nantucket.
Il 2 luglio scese il secondo, ubriaco come sempre, ma di
buon umore. Si avvicinò alla cuccetta di Augustus, e dandogli una pacca sulla schiena, gli chiese se si sarebbe
comportato bene se lo avesse messo in libertà, a patto
che non avesse più rimesso piede nella camera. Naturalmente il mio amico rispose di sì e allora il manigoldo gli
sciolse i lacci dopo avergli fatto trangugiare un sorso di
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rhum da una bottiglia che aveva tirato fuori dalla tasca.
Poi tutti e due salirono sul ponte e passarono tre ore
senza che rivedessi Augustus; quando scese mi portò
buone notizie: gli era permesso di andare e venire a proprio piacimento sul brigantino, sempre però nella parte
prodiera, e doveva continuare a dormire nel castello di
prua. Inoltre, portò con sé del buon cibo e una bella
provvista d’acqua.
Il brigantino era sempre in attesa della nave che doveva
arrivare da Capo Verde e poiché ce n’era una in vista, si
presumeva che fosse lei.
I fatti che si produssero durante la settimana seguente
sono di poca importanza e non si legano in modo diretto
alla trama di questo racconto, ma siccome non posso
passarli completamente sotto silenzio, li riporterò semplicemente qui, sotto forma di giornale.
3 luglio. Augustus mi ha portato tre coperte che mi sono
servite a organizzarmi nella mia cuccetta un letto abbastanza comodo. Per tutto il giorno nessuno è venuto nel
castello di prua, salvo il mio compagno. Tigre si è piazzato
proprio davanti al buco e ha dormito profondamente,
come non si fosse ancora rimesso completamente del suo
malessere. Verso sera un improvviso colpo di vento ha investito il brigantino prima che avesse tempo di ridurre la
vela e per poco non l’ha fatto capovolgere, ma la raffica
non è durata a lungo e non abbiamo riportato danni, se
non alla vela di trinchetto che si è strappata. Dirk Peters si
è mostrato molto gentile con Augustus per tutto il giorno,
si è trattenuto con lui a lungo a parlare del Pacifico e delle
isole che ha visitato. Gli ha chiesto se non sarebbe stato
contento di fare un viaggio laggiù, ma ha anche aggiunto
che l’equipaggio sembrava propenso a seguire piuttosto la
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volontà del secondo. Augustus gli ha subito detto che sarebbe stato felice di vedere quei posti, che gli sembrava la
cosa migliore e che comunque tutto sarebbe stato meglio
della vita da pirata.
4 luglio. La nave segnalata non era che un piccolo brigantino proveniente da Liverpool, che è lasciato proseguire
senza problemi. Augustus ha passato la maggior parte del
tempo sul ponte per capire cosa volevano fare gli ammutinati; ci sono state violente discussioni e in seguito a una
di queste un fiociniere, Jimm Bonner, è stato gettato in
mare. Il partito del secondo ha guadagnato terreno, perché Bonner stava col cuoco e con Peters.
5 luglio. All’alba si è alzato da ovest un vento che a mezzogiorno è diventato tempesta e il brigantino ha tenuto
solo le vele di senale e trinchetto. Cazzando la vela di gabbia, Simms, uno dei seguaci del cuoco, completamente
sbronzo, è caduto in mare ed è annegato senza nessuno
abbia mosso un dito per salvarlo. A bordo sono rimasti
in tredici: da una parte Dirk Peters, Seymour, il cuoco,
Jones, Greely, Hartmann Rogers e William Allen; dall’altra il secondo, di cui non ho mai saputo il nome, Absalom
Hicks, Wilson, John Hunty e Richard Parker; infine, io e
Augustus.
6 luglio. La tempesta è durata per l’intera giornata, soffiando rabbiosamente, accompagnata da pioggia. Il brigantino ha imbarcato una buona quantità d’acqua e una
delle pompe di sentina ha dovuto lavorare tutto il tempo
e, giunto il suo turno, Augustus ha pompato come gli
altri. Nella nebbia una grande nave ci è passata vicina,
ma quando l’abbiamo avvistata non più a portata di
voce. Si suppone che fosse la nave che gli ammutinati
stavano aspettando; il secondo ha chiamato da lontano,
75
ma il frastuono della tempesta ha impedito di udire la
risposta. Alle undici, un’ondata ha colpito violentemente la murata a babordo danneggiandola. Verso mattina il vento sembrava essersi finalmente calmato.
7 luglio. Per tutto il giorno siamo stati in balia di gigantesche ondate e il brigantino, essendo quasi vuoto, rollava in modo pazzesco: dalla mia cuccetta sentivo
distintamente i movimenti del carico in stiva e io stesso
ho sofferto il mal di mare. Peters si è trattenuto a lungo
con Augustus, informandolo che due uomini della sua
parte, Greely e Allen, erano passati dall’altra, col secondo, e avevano scelto di diventare pirati. Ha fatto ad
Augustus delle proposte che lui non ha capito bene.
Verso sera la nave ha cominciato a imbarcare acqua da
alcune e l’acqua filtrava anche attraverso il fasciame di
prua. Le cose sono migliorate quando abbiamo issato
una vela a prua.
8 luglio. Al sorgere del sole una leggera brezza si è alzata
da est e il secondo ha fatto mettere la prua a sud-ovest
con l’intenzione di raggiungere una delle isole delle Antille, per iniziare il suo piano piratesco. Per quanto ne
sapeva Augustus, Peters e il cuoco non si sono opposti.
L’idea di abbordare la nave di Capo Verde è definitivamente tramontata. Nel corso della giornata sono state
avvistate due piccole golette.
9 luglio. Bel tempo; tutti sono occupati a riparare la murata a babordo. Peters ha fatto di nuovo una lunga
chiacchierata con Augustus ed è stato più esplicito delle
altre volte: ha detto che per niente al mondo avrebbe
mai condiviso le idee del secondo e ha pure lasciato capire che meditava di strappargli il comando del brigantino, anzi ha chiesto al mio amico se in quel caso poteva
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contare su di lui. Senza esitare Augustus ha risposto di
sì e Peters, dopo avergli detto che ne avrebbe parlato
coi suoi uomini, se n’è andato e non si è più visto per
tutto il giorno.
Capitolo 7
10 luglio. Avvistato un brigantino proveniente da Rio,
con destinazione Norfolk. Tempo coperto con una leggera brezza da est. Oggi è morto Hartmann Rogers; alle
otto è stato preso da convulsioni dopo aver bevuto un
grog. Era uno degli uomini dalla parte del cuoco, uno
di quelli su cui Peters contava di più; quest’ultimo ha
detto ad Augustus che sospettava che il secondo l’avesse
avvelenato, e che temeva di fare la stessa fine se non
stava in guardia. Nel suo gruppo erano rimasti solo lui,
Jones e il cuoco, mentre nel partito opposto erano sette.
Aveva parlato a Jones della sua idea di strappare al secondo il comando del brigantino, ma la sua proposta
era stata accolta con freddezza e si era guardato bene
dall’insistere o di farne parola col cuoco. Non se ne dovette pentire, perché nel pomeriggio il cuoco parve determinato a unirsi al partito del secondo, come di fatto
avvenne.
Per parte sua, Jones non mancò di rimproverare Peters,
lasciandogli anzi comprendere che avrebbe potuto rivelare al secondo il suo piano. Occorreva quindi agire al
più presto, e avendo Peters detto ad Augustus che era
deciso a riprendere il controllo della nave a qualunque
costo purché qualcuno lo avesse aiutato, il mio amico lo
rassicurò che lo avrebbe appoggiato in tutto e, rite77
nendo fosse il momento giusto, lo informò della mia
presenza a bordo.
Il mezzosangue si mostrò sorpreso e al tempo stesso
contento, perché non poteva più fare assegnamento su
Jones, che riteneva già guadagnato alla causa avversa.
Scesero subito nel castello di prua, dove Augustus mi
chiamò per nome. In breve tempo Peters e io divenimmo buoni amici. Fu deciso che avremmo tentato di
riprendere la nave alla prima occasione, escludendo
Jones dai nostri piani. In caso di successo, avremmo
condotto il brigantino nel primo porto e consegnato alle
autorità; la sconfitta del suo partito aveva costretto Peters a rinunciare ai suoi progetti sulle isole del Pacifico,
perché la spedizione avrebbe richiesto un equipaggio, e
ora Peters sperava di farsi riconoscere incapace di intendere e di volere – e di fatto confessò la sua demenza
per aver appoggiato gli ammutinati – oppure, nel caso
in cui fosse riconosciuto colpevole, sperava di ottenere
clemenza con l’intercessione di Augustus e me.
Improvvisamente fummo interrotti dal grido: «Tutto
l’equipaggio alle vele!» Peters e Augustus si lanciarono
sul ponte. Come al solito, quasi tutti gli uomini erano
ubriachi e, prima che le vele fossero convenientemente
serrate, una violenta raffica aveva già fatto sbandare il
brigantino su un fianco. Si raddrizzò presto, ma aveva
già imbarcato molta acqua. Appena raddrizzato, una seconda e poi una terza raffica si abbatterono sulla nave
senza causare danni. Sembrava l’inizio di una tempesta,
che infatti non tardò ad arrivare e ben presto si alzò un
violento vento da nord-ovest. Tutto fu serrato come meglio fu possibile.
Al cader della notte il vento rinforzò e il mare s’ingrossò;
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Peters tornò con Augustus al castello di prua e riprendemmo la conversazione interrotta; concordammo che
senza dubbio quello era il momento per mettere in atto
il nostro progetto, perché i nostri nemici non potevano
certo aspettarsi un tale tentativo in quelle condizioni.
Le vele erano tutte ammainate e non c’era necessità di
manovrare finche non tornava il bel tempo e, nel caso
in cui il nostro tentativo avesse avuto successo, avremmo
sempre potuto liberare uno o due degli uomini dell’equipaggio per aiutarci a condurre la nave in un porto.
Ma il problema era la grande sproporzione di forze, poiché eravamo solo in tre, mentre nella cabina c’erano
nove uomini; inoltre, tutte le armi a bordo erano nelle
loro mani, fatta eccezione per un paio di piccole pistole
che Peters portava nascoste in tasca e un lungo coltello
da marinaio che teneva sempre alla cintura dei pantaloni. Alcuni indizi – come, ad esempio, il fatto che qualunque cosa assomigliasse a un’arma o a un’ascia non
fosse al solito posto – facevano supporre che il secondo
avesse dei sospetti, almeno riguardo a Peters, e che apettava l’occasione propizia per liberarsi di lui. Era chiaro
che avremmo dovuto agire al più presto possibile. Le
forze pero erano troppo squilibrate perché potessimo
trascurare la minima precauzione.
Il piano di Peters era il seguente: sarebbe salito sul
ponte e avrebbe attaccato discorso con l’uomo di guardia, William Allen, finché gli si fosse presentata l’occasione per farlo volare fuoribordo senza difficoltà e senza
rumore, dopo di che saremmo saliti anche noi e ci
saremmo impadroniti di tutte le armi e infine saremmo
corsi a sbarrare la porta della cabina prima che opponessero resistenza.
79
Io non ero d’accordo, perché non potevo credere che il
secondo – che, aldilà dei suoi superstiziosi pregiudizi,
era uomo molto astuto – si mostrasse in quell’occasione
così ingenuo da farsi incastrare facilmente. Il fatto stesso
che vi fosse un uomo di guardia sul ponte, secondo me,
provava che il secondo era in allerta, perché – a eccezioni delle navi con una disciplina ferrea – non si usa
mettere un uomo di guardia sul ponte quando la nave è
alla cappa durante una tempesta.
Dovevamo comunque fare qualcosa e nel più breve
tempo possibile, perché non v’era dubbio che, una volta
divenuto sospetto, Peters sarebbe stato soppresso alla
prima occasione, che si sarebbe presentata facilmente
per l’equipaggio quando la tempesta si fosse calmata.
Allora Augustus suggerì che Peters, con un pretesto
qualunque, togliesse le catene ammassate sulla botola
della cabina; questo ci avrebbe permesso di sorprenderli
passando dalla stiva; ma, dopo averci riflettuto, convenimmo che il rollio e il movimento della nave erano
troppo violenti per riuscire nell’impresa.
Fortunatamente mi venne l’idea di giocare sulla superstizione e la cattiva coscienza del secondo. Il lettore ricorderà che uno dei marinai, Hartman Rogers, era
morto quel mattino stesso in preda alle convulsioni,
dopo aver bevuto alcool misto ad acqua. Peters ci aveva
detto che per lui quella morte era dovuta all’avvelenamento da parte del secondo, anzi affermava che le sue
deduzioni erano fondate su degli indizi certi che non
riuscimmo a strappargli di bocca; il categorico silenzio
in cui si chiuse in quell’occasione dà, in qualche modo,
l’idea del personaggio. Ma noi, senza sapere se i suoi sospetti fossero più o meno fondati, ci lasciammo facil80
mente convincere e ci muovemmo di conseguenza.
Rogers era morto verso le undici del mattino dopo violente convulsioni e, pochi minuti dopo la morte, il corpo
aveva l’aspetto più spaventoso e disgustoso che mi ricordi. La pancia si era gonfiata oltre misura, come quella
di un annegato che fosse rimasto in acqua per più settimane. Le mani erano ugualmente gonfie mentre la pelle
del viso era tutta cosparsa di una sottile peluria, segnata
da rughe e con uno strano colore biancastro, con qua e
là larghe chiazze di un colore rosso vivo, simili a quelle
che produce la psoriasi. Una di queste chiazze gli attraversava la faccia in diagonale e copriva per intero uno
degli occhi, come una striscia di velluto rosato, ed era
in questo stato ripugnante che il corpo era stato deposto
nella cabina, prima di essere gettato in mare. Quando il
secondo vide il cadavere fu certamente assalito da rimorsi o rimase spaventato davanti a quell’orribile spettacolo, perché ordinò subito ai suoi uomini di cucire il
morto in un sacco e di fargli un funerale come si usa in
mare. Impartiti questi ordini, tornò giù in cabina, come
se non sopportasse la vista della sua vittima. Mentre gli
uomini si preparavano a ubbidirgli, la tempesta aveva
raddoppiato d’intensità e il funerale dovette essere rimandato. Il corpo, abbandonato a se stesso, fu sballottato qua e là sul ponte, dov’è ancora adesso mentre sto
scrivendo, scosso dai violenti movimenti del brigantino.
Avendo elaborato il nostro piano di battaglia, ci sentimmo in dovere di eseguirlo al più presto. Peters salì
dunque sul ponte e, come si aspettava, fu immediatamente accostato da Allen che sembrava essere stato
messo lì per spiare i suoi movimenti. Il bandito venne
liquidato in silenzio e nel modo più spiccio. Peters gli si
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avvicinò con aria disinvolta, come per fare una chiacchierata, poi all’improvviso, afferratolo per la gola, lo
scaraventò fuori bordo prima che avesse il tempo di lanciare un grido. Noi lo raggiungemmo subito. Nostra
prima preoccupazione fu cercare delle armi; ma dovevamo muoverci con molta prudenza per evitare di urtare
gli oggetti sul ponte, mentre furiose ondate si abbattevano sul brigantino che beccheggiava paurosamente. Ci
aspettavamo inoltre, a ogni istante, di vedere il secondo
salire per mettere in moto le pompe, perché era chiaro
che il brigantino stava imbarcando molta acqua. Dopo
qualche tempo trascorso alla ricerca di armi, avevamo
trovato solo due barre delle pompe. Augustus ne prese
una e io l’altra, poi dopo avergli tolto la camicia gettammo in mare il cadavere di Rogers.
Peters e io scendemmo giù, mentre Augustus restò di
guardia sul ponte, bello stesso punto occupato prima da
Allen, ma volgendo le spalle all’accesso della cabina, in
modo che, se uno dei banditi fosse salito, potesse credere che vi era sempre laggiù il loro uomo di guardia.
Appena giunto in basso, m’affrettai a travestirmi in
modo da rassomigliare, in tutto e per tutto, al cadavere
di Rogers. La camicia che gli avevamo tolto ci fu molto
utile, perché di taglio particolare e facilmente riconoscibile; somigliava, per spiegarmi meglio, a una specie di
camiciotto che si usava portare sulle altre vesti; era, in
tricot blu, a grandi righe bianche. L’indossai quindi
dopo essermi sistemato una pancia posticcia, in modo
da imitare la mostruosa deformazione del cadavere rigonfio; per questo utilizzai delle coperte, mentre con
dei mezzi guanti bianchi, pieni di pezzi di stoffa, detti
alle mie mani l’aspetto gonfio di quelle del morto. Fatto
82
ciò, Peters mi truccò, fregandomi il viso con del gesso e
macchiandolo con del sangue ricavato facendosi un taglio sulla punta del dito. Non dimenticammo la grande
chiazza rossa che attraversava l’occhio, cosicché il mio
viso era veramente terrificante.
Capitolo 8
Quando mi potei vedere a uno specchio appeso in cabina, alla debole luce di una torcia nautica, la mia fìsionomia e il ricordo della terribile realtà che incarnavo mi
fecero una tale impressione che mi prese un violento tremito e fece una gran fatica a riacquistare il sangue
freddo indispensabile per svolgere la parte che mi ero
assunto. Non c’era tempo da perdere, così io e Peters
salimmo sul ponte. Lì era tutto tranquillo e, scivolando
lungo il bordo, raggiungemmo tutti e tre il portello della
cabina. Era solo socchiuso e si era fatto in modo che
non potesse essere spinto improvvisamente da fuori,
mettendo sul gradino superiore dei ceppi che bloccavano la chiusura. Ci fu facile quindi vedere all’interno
attraverso le fessure dei cardini. Per fortuna non avevamo provato a prenderli di sorpresa, perché erano ben
attenti. Solo uno era addormentato proprio in fondo alla
scala con accanto un fucile, mentre gli altri erano seduti
su alcuni materassi che erano stati tolti dalle cuccette e
gettati sul pavimento. Erano assorti in una seria conversazione e, pur avendo fatto bisboccia, come testimoniavano le brocche vuote e i boccali di stagno sparsi qua e
là, non erano del tutto ubriachi come al solito. Avevano
tutti i loro coltelli, alcuni avevano pure delle pistole e
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numerosi fucili erano su una cuccetta a portata di mano.
Per un po’ ascoltammo la conversazione prima di muoverci, perché non avevamo ancora ben deciso se far
comparire lo pseudo Rogers al momento dell’attacco,
per bloccare la loro reazione. I discorsi vertevano sui
loro piani di pirateria, ma non riuscimmo a capire
molto, se non che volevano fare combutta con i marinai
della goletta Hornet e, se possibile, impadronirsi anche
di quella nave per fare progetti ancora più grandi. A un
certo punto uno ha fatto il nome di Peters e il secondo
gli ha risposto a voce bassa, così non abbiamo potuto
capire. Aggiunse poi, a voce più alta, che non capiva
cosa complottasse nel castello di prua con quel moccioso del figlio del comandante e che, per lui, quei due
prima volavano in mare e meglio era. Nessuno rispose,
ma era facile capire che le sue parole avevano il consenso di tutta la banda e in particolare di Jones.
In quel momento io ero in preda a un tremito violentissimo, tanto più che né Augustus ne Peters – come potei
rendermi conto – non sapevano che pesci prendere. Decisi comunque di vendere cara la mia pelle e di non lasciarmi vincere dalla paura. Il frastuono spaventoso
prodotto dal vento e dalle ondate che investivano il
ponte ci impediva di capire quel che dicevano; in uno
dei rari momenti di calma, tuttavia, udimmo distintamente il secondo dare ordine a uno dei marinai di andare nel castello di prua a controllare cosa facevano quei
due, perché non tollerava congiure a bordo del brigantino. Per fortuna il rollio della nave in quel momento
era così forte che l’ordine non poté essere eseguito immediatamente. A un certo punto il cuoco si era alzato
dal suo pagliericcio per venirci a cercare, ma era arrivata
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un’ondata così spaventosa che avevo paura che troncasse gli alberi, e lo mandò a sbattere la testa contro la
porta di una delle cabine a babordo, con tanta forza da
sfondarla.
Per fortuna nessuno di noi era stato travolto dall’ondata,
cosicché avemmo il tempo di ripiegare precipitosamente
sul castello di prua e accordarci in tutta fretta, prima
che arrivasse il cuoco, o piuttosto prima che la sua testa
emergesse dalla scaletta, perché non salì sul ponte. Da
dove si trovava non poteva vedere che Allen non era più
al suo posto, per cui, credendolo sempre lì, si mise a ripetere a squarciagola ciò che il secondo gli aveva ordinato. E Peters gli rispose: «Sì!... sì!...» camuffando la
voce, e il cuoco ridiscese quasi subito senza sospettare
nulla.
I miei compagni allora arretrarono con cautela ed entrarono nella cabina. Peters chiuse la porta alle sue
spalle, come l’aveva trovata. Il secondo li accolse con
finta cordialità e disse ad Augustus che, in ragione della
sua buona condotta negli ultimi tempi, gli avrebbe potuto, d’allora in avanti, installarsi nella cabina e considerarsi come uno dei loro. Gli porse un bicchiere di
rhum e glielo fece bere.
Io vedevo e sentivo tutto, perché avevo seguito i miei
amici verso la cabina appena la porta era stata chiusa ed
ero tornato al mio posto d’osservazione. Avevo le due
barre delle pompe e ne avevo nascosta una vicino alla
scaletta per averla sotto mano nel caso ne avessi avuto
bisogno.
Facevo appello a tutto il mio sangue freddo per non perdere nulla di ciò che accadeva nella camera e cercavo di
concentrarmi per poter compiere bene la mia parte che
85
consisteva nell’apparire ai ribelli appena Peters me ne
avesse dato il segnale, come era stato fin da principio
convenuto. In quel momento lui stava portando la conversazione sui particolari più raccapriccianti dell’ammutinamento e sulle mille superstizioni che corrono nel
mondo dei marinai. Non riuscivo ad afferrare tutte le sue
parole ma, dalle facce di chi ascoltava, potevo facilmente
rendermi conto dell’effetto prodotto da quella conversazione. Il secondo era visibilmente agitato e quando, un
momento dopo, uno degli uomini fece allusione all’aspetto spaventoso del cadavere di Rogers, mi chiesi se
non stesse per svenire.
Peters gli chiese allora se non gli sembrava giunto il momento di gettarlo in mare, aggiungendo che era uno
spettacolo orribile vederlo dimenarsi così, seguendo i
movimenti della nave. A queste parole, il delinquente
respirò in modo convulso e volse lentamente la testa
verso i suoi compagni come per supplicare qualcuno di
salire su per compiere quel lugubre servizio. Ma nessuno si mosse, ed era evidente che tutta la banda era terrorizzata. In quel preciso momento Peters mi diede il
segnale ed io aprii subito la porta della scaletta e, scendendo senza dire una parola, piombai improvvisamente
in mezzo ai banditi.
L’effetto prodotto da quell’apparizione non deve meravigliare se si pensa alle circostanze in cui avveniva. Generalmente, in casi simili, lo spettatore conserva un
fondo di dubbio sulla realtà della visione che si presenta
ai suoi occhi; coltiva un po’ la speranza, per quanto debole, di essere vittima di un trucco e che l’apparizione
non sia in realtà una visita dall’oltretomba. Questi fenomeni si accompagnano quasi sempre a un misto di dub86
bio e di terrore, a una paura improvvisa che le apparizioni possano essere reali.
Ma in questo caso si può immaginare come nella testa
di quei miserabili non potesse sussistere alcun dubbio
che l’apparizione di Rogers fosse realmente il suo cadavere risuscitato o, per lo meno, il suo fantasma.
L’isolamento del brigantino dopo l’ammutinamento, accentuato dal mare in burrasca, rendevano inverosimile
l’ipotesi di un qualche trucco, che comunque avevano
escluso fin dall’inizio. Eravamo in mare da ventiquattro
giorni e non avevamo comunicato con una sola nave, a
parte qualche richiamo da lontano. Del resto la totalità
dell’equipaggio – o per lo meno ciò che essi consideravano la totalità dell’equipaggio, non avendo alcuna ragione di sospettare la presenza di un clandestino a bordo
– era riunita nella cabina, a eccezione di Allen, l’uomo
di guardia, e per ciò che concerneva quest’ultimo, la sua
taglia gigantesca – misurava sei piedi e sei pollici – era
troppo famigliare perché venisse loro l’idea di identificarlo con l’apparizione. Se si aggiunge a queste considerazioni la tempesta spaventosa, la conversazione
condotta da Peters, la profonda impressione prodotta il
mattino stesso su quegli uomini dall’aspetto ripugnante
del vero cadavere, la perfezione del mio travestimento,
la luce tremula della lanterna che oscillando violentemente di qua e di là proiettava su di me ombre strane e
fantastiche, si capirà insomma come l’effetto prodotto
dalla nostra trovata fosse oltre le nostre aspettative.
Il secondo si rizzò sul pagliericcio e, senza dire una parola, cadde all’indietro stecchito sul pavimento della cabina e una forte ondata lo fece rotolare come un ciocco
di legno. Dei sette che restavano, tre soli conservarono
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all’inizio un po’ di presenza di spirito: gli altri quattro
restarono come inchiodati al pavimento dove erano seduti e mai vidi nella mia vita persone più terrorizzate e
angosciate. I soli a resistere furono il cuoco, John Hunt
e Richard Parker, anche se la loro difesa fu debole e tardiva. I primi due furono fatti fuori con un colpo di pistola da Peters; io invece colpii Parker alla testa con la
barra che avevo portato con me. Nel frattempo Augustus aveva afferrato uno dei fucili sul pavimento e
l’aveva scaricato su uno dei rivoltosi, Wilson. Ne restavano quindi solo tre, che però avevano avuto il tempo
di riprendersi dalla sorpresa e cominciavano sicuramente a capire che si era trattato di un trucco, perché si
difesero con molta più rabbia e decisione e, non fosse
stato per la forza erculea di Peters, avrebbero finito per
avere il sopravvento. I tre erano Jones, Greehly e Absolom Hicks. Il primo aveva atterrato Augustus, immobilizzandogli il braccio, e certamente avrebbe avuto
ragione di lui, giacché né Peters né io potevamo liberarci
subito dei nostri rispettivi avversari, quando molto opportunamente un amico intervenne, un amico che non
ci aspettavamo di veder giungere così alla riscossa.
Quell’amico non era altri che Tigre.
Con un ringhio sordo, si lanciò nella cabina nel momento stesso in cui Augustus stava per soccombere e,
gettatosi su Jones, lo inchiodò al pavimento. Il mio amico
era troppo provato per poterci aiutare e io stesso ero così
impacciato del travestimento da non potermi difendere
bene. Fortunatamente il cane non abbandonò la gola di
Jones e Peters, per parte sua, era capace di resistere ai
due uomini rimasti ed è molto probabile che li avrebbe
finiti prima se non fosse stato impedito dallo spazio ri88
stretto e dai violenti movimenti della nave. Alla fine afferrò uno dei pesanti sgabelli rovesciati al suolo e spaccò
il cranio di Greehly, che stava per scaricare il suo fucile
su di me; poi, quando il rollio lo fece cadere su Hicks, lo
afferrò alla gola e in un attimo lo strangolò. Così, in
meno tempo di quanto ne abbia impiegato io a raccontare la scena, eravamo diventati padroni del brigantino.
L’unico dei nostri avversari ancora in vita era Richard
Parker, che, se il lettore ricorda, era stato abbattuto da
me con un colpo di barra all’inizio del combattimento
e ora giaceva immobile vicino alla porta della cabina
sfondata; ma, quando Peters lo scosse col piede, ci supplicò di risparmiarlo. Aveva una leggera ferita alla testa
e nessun altro danno, perché il colpo che gli avevo dato
l’aveva solo stordito. Si alzò in piedi e, per il momento,
non trovammo di meglio che legargli le mani dietro la
schiena. Il cane continuava a ringhiare senza allontanarsi
da Jones, che dopo un rapido esame risultò morto e il
sangue colava a fiotti da una profonda ferita alla gola,
prodotta, senza dubbio, dai denti aguzzi dell’animale.
Era circa l’una del mattino e il vento soffiava sempre
con spaventosa violenza. Il brigantino faticava più del
solito a reggere il mare ed era necessario alleggerirlo.
Quasi a ogni rollio sottovento imbarcava molta acqua
che aveva inondato anche la cabina durante la nostra
battaglia, perché io non avevo potuto chiudere il boccaporto quando ero sceso. Il parapetto a babordo era
stato spazzato via e anche la cambusa. L’albero di maestra, duramente provato, scricchiolava ed era evidente
che non avrebbe tardato molto a crollare. Per lasciare
più spazio nella stiva il piede era stato fissato nel corridoio sotto il ponte – pratica assolutamente deplorevole,
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cui purtroppo ricorrono i costruttori inesperti – rischiando di essere strappato dalla base.
Per colmo di sfortuna, scandagliando la sentina trovammo non meno di sette piedi d’acqua. Lasciando i cadaveri dei ribelli sul pavimento della cabina, corremmo
alle pompe, dopo avere naturalmente liberato Parker
perché partecipasse anche lui al lavoro. Il braccio di Augustus fu bendato alla meglio, dopo di che ci aiutò come
poteva. Avevamo capito che, manovrando una delle
pompe ininterrottamente, avremmo potuto impedire al
livello dell’acqua di crescere ulteriormente. Poiché eravamo solo in quattro, il lavoro era molto faticoso, ma,
senza lasciarci scoraggiare, attendemmo l’alba con ansia,
sperando di riuscire allora ad alleggerire il brigantino
abbattendo l’albero di maestra. Passammo così una
notte d’angoscia e di fatica immensa e, quando il giorno
riapparve finalmente, la tempesta non si era ancora calmata, anzi sembrava rinforzare. Trascinammo allora i
corpi dei ribelli sul ponte per gettarli in mare, poi nostra
prima cura fu di liberarci dell’albero di maestra. Prendemmo tutte le precauzioni e Peters, che aveva trovato
le asce nella cabina, attaccò l’albero mentre noi, da parte
nostra, sorvegliavamo i puntelli e gli appoggi. Nel momento in cui il brigantino prendeva una grande ondata
sottovento, fu dato il segnale di tagliare gli appoggi e subito, tutta questa la massa di legno e di attrezzature
cadde, scuotendo tutta l’imbarcazione, ma senza tuttavia causare nessun danno serio.
Costatammo allora che, se il bastimento reggeva meglio
il mare, la situazione restava comunque precaria, perché
nonostante gli sforzi non riuscivamo a bloccare l’acqua
senza ricorrere alle pompe.
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Potevamo rallegrarci per non aver perso ancora la scialuppa, rimasta intatta nonostante le ondate. Ma dovemmo darci da fare perché, una volta partito l’albero
di maestra, oltre al trinchetto che assicurava al brigantino
una relativa stabilità, ogni colpo di mare si scaricava su
di noi e in pochi minuti il ponte fu battuto da un capo
all’altro, la scialuppa spazzata via, il parapetto di tribordo
distrutto e l’argano ridotto a pezzi ed era difficile immaginare una situazione peggiore.
A mezzogiorno parve che la tempesta si calmasse un po’,
ma la speranza fu crudelmente delusa perché la calma
non durò che qualche minuto e l’uragano tornò ancora
più violento. Verso le quattro del pomeriggio era letteralmente impossibile reggerci in piedi, tanto la tempesta
infuriava con rabbia.
La sera non speravamo più che la nave reggesse fino al
mattino e a mezzanotte eravamo immersi nell’acqua che
era salita fino al ponte inferiore. Poco dopo si spezzò il
timone e l’ondata che lo sradicò sollevò la poppa del
brigantino letteralmente fuori dell’acqua cosicché, ricadendo, ondeggiò con una scossa simile a quella di una
nave che s’incaglia. Avevamo sempre sperato che il timone reggesse, perché era di una solidità eccezionale e
costruito come non ne avevo mai visti e come non ebbi
più occasione di vedere. Lungo l’asse principale era disposta una serie di robusti ganci di ferro e altri, identici,
lungo la ruota di poppa. Una grossa asta di ferro attraversava questi arpioni di modo che il timone era assicurato alla ruota di poppa, ma si muoveva liberamente sul
fusto. Si può avere un’idea della potenza spaventosa dell’ondata che lo portò considerando che i ganci della
ruota di poppa che erano disposti su tutta la sua lun91
ghezza e sul lato interiore furono completamente strappati, senza alcuna eccezione, dalla massa di legno. Avevamo appena avuto il tempo di respirare dopo questo
terribile urto, che una delle più spaventose ondate che
mi sia capitato di vedere si abbatté perpendicolarmente
sul ponte, spazzando via la cabina, sfondando i boccaporti e non lasciando niente della nostra imbarcazione
che non fosse sommerso.
Capitolo 9
Per fortuna, prima che facesse notte, ci eravamo assicurati con delle cime a ciò che restava dell’argano ed era
stata proprio questa manovra a salvarci. Ce ne stavamo
distesi tutti e quattro, aderendo il più possibile alle assi
del ponte, più o meno storditi dalla spaventosa massa
d’acqua che si abbatteva su di noi; e quando l’acqua si
ritirò eravamo quasi soffocati. Appena ebbi ripreso a respirare normalmente, chiamai ad alta voce i miei compagni. Uno solo, Augustus, poté rispondermi:
«Siamo perduti!... Che Dio abbia pietà delle nostre
anime!»
Poi, poco a poco, anche gli altri recuperarono la parola e
ci esortarono a riprendere coraggio, dicendo che non bisognava perdere la speranza, che, data la natura del carico, la nave non poteva affondare e che c’erano speranze
che l’uragano si calmasse al mattino. E queste parole
m’infusero una nuova vita perché era evidente che con
un carico di barili vuoti una nave non può colare a picco;
e tuttavia, per quanto la cosa possa sembrare strana, ero
talmente sconvolto che quel fatto mi era completamente
92
sfuggito e, fino a quel momento, era proprio il pericolo
di affondare che mi aveva più spaventato. Rinasceva
quindi in me la speranza e cercai di consolidare le cime
che mi legavano all’argano distrutto. La notte era buia
più di quanto non si possa immaginare e nessuna penna
può descrivere il frastuono assordante e il caos che ci circondavano. Il ponte era al livello del mare o, per meglio
dire, eravamo accerchiati da una cresta di spuma alta
come una muraglia, di cui una parte si rovesciava continuamente su di noi. Le teste – e non sto esagerando – non
riuscivano a emergere dall’acqua che un secondo su tre,
e, quantunque fossimo stretti gli uni agli altri, nessuno di
noi poteva vedere il suo vicino né alcuna parte del brigantino sul quale eravamo così violentemente sbattuti. Di
tanto in tanto ci chiamavamo l’un l’altro, sforzandoci di
ravvivare la speranza in quello di noi che ne aveva più bisogno e di dargli un po’ di conforto. Ci preoccupava la
debolezza di Augustus; le ferite del braccio destro dovevano impedirgli di reggersi abbastanza forte agli appigli
e temevamo che da un momento all’altro cadesse in mare
perché ci sarebbe stato impossibile aiutarlo. Per fortuna
era nel posto più sicuro della nave e aveva la parte superiore del corpo protetta dall’argano, che attenuava la violenza delle ondate che si abbattevano su di lui. Era finito
lì solo per caso, dopo aver cercato di raggiungere un
punto che certamente sarebbe stato molto pericoloso per
lui e dove sicuramente sarebbe morto prima dell’alba. Lo
sbandamento del brigantino a babordo faceva sì che fossimo meno esposti alla furia del mare. Ho già detto come
la nave e la metà del ponte fossero costantemente sommerse e le ondate che ci arrivavano da tribordo erano, in
larga misura, attenuate dal fianco della nave; stando di93
stesi, il viso contro il ponte, ci bagnavano soltanto, mentre
le onde che venivano da babordo erano semplici rigurgiti
e, data la posizione, non potevano esercitare su di noi una
forza tale da farci mollare gli appigli. Restammo dunque
coricati in quelle spaventose condizioni fino all’apparire
del giorno che ci rivelò, ancora più manifesto, l’orrore
che ci circondava. La tempesta infatti continuava a crescere, divenendo un vero e proprio uragano e ci sembrava
impossibile sopravvivere.
Passammo molte ore così, in silenzio, temendo a ogni
istante di perdere i nostri appigli e di vedere i resti dell’argano volare in mare e una delle enormi ondate che
provenivano da tutte le direzioni spingere il ponte così
profondamente sott’acqua da farci annegare prima di risalire alla superficie. Con l’aiuto di Dio riuscimmo a
sfuggire tutti questi pericoli e a mezzogiorno avemmo la
gioia di vedere la luce benedetta del sole. Poco dopo il
vento calò sensibilmente e, per la prima volta dalla sera
precedente, Augustus prese la parola per chiedere a Peters, che era disteso vicino a lui, se pensava che ci restasse
ancora qualche possibilità di salvezza. Inizialmente il
mezzosangue non rispose e pensammo che fosse annegato; poi finalmente, con nostra grande gioia, riuscì a
parlare, pur con voce debolissima, e ci disse che stava
malissimo, che le cime strette intorno alla pancia gli tagliavano la carne e che doveva assolutamente scioglierle,
a costo di morire, perché non poteva più sopportare il
dolore. Questo ci addolorò perché non potevamo aiutarlo in alcun modo, finché il mare non si fosse calmato.
L’incoraggiammo dunque a stringere i denti, promettendogli di aiutarlo appena fosse stato possibile e lui rispose
che ogni momento poteva essergli fatale, che tutto sa94
rebbe finito prima che avessimo il tempo di soccorrerlo
e, detto ciò, si lamento per alcuni istanti ancora e poi tacque, cosicché pensammo che fosse morto.
Con l’avvicinarsi della sera il mare si era calmato al
punto che soltanto ogni tanto una striscia d’acqua veniva a urtare contro lo scafo dalla parte del vento, che a
sua volta aveva ridotto l’intensità. Erano già trascorse
molte ore senza che udissi la voce dei miei compagni:
preoccupato, provai a chiamare Augustus, che mi rispose con una voce così debole che non potei comprendere cosa diceva. Mi rivolsi poi a Peters e a Parker, ma
nessuno dei due rispose alla mia domanda.
Poco dopo caddi in uno stato di semincoscienza durante
la quale mi si presentarono le più soavi visioni: alberi
verdi, pianure ondeggianti di grano maturo, cortei di
ballerine, schiere di cavalieri e altre simili fantasmagorie.
Ora mi rendo conto che tutto ciò che si presentava alla
mia mente era dominato dal movimento: i soggetti dei
miei sogni non erano mai cose immobili come una casa,
una montagna; erano, al contrario, mulini a vento, vascelli, grandi uccellacci, persone a cavallo, carrozze lanciate a folle velocità e altri oggetti mobili che si offrivano
alla mia vista in una sequenza interminabile.
Quando mi svegliai il sole si era già levato da un’ora e
fu con grande difficoltà che potei rendermi conto della
mia situazione; per un po’ credevo di essere sempre in
fondo alla stiva, nella mia cassa, e che il corpo di Parker
fosse quello di Tigre. Quando tornai pienamente in me,
mi accorsi che il vento non era più che una brezza molto
moderata e che il mare era relativamente calmo, cosicché il brigantino imbarcava acqua solo da una parte. Il
mio braccio sinistro non era più legato ed era molto
95
scorticato all’altezza del gomito; quello destro era ancora intorpidito, mentre la mano e il pugno erano molto
gonfi per la stretta della cima. Anche la corda che avevo
stretto alla vita mi dava molta noia e non riuscivo a sopportarla.
Cercai con lo sguardo i miei compagni e vidi che Peters
era ancora vivo, pur avendo le reni così spaventosamente
serrate da una cima da sembrare tagliato in due; appena
potei fare un movimento, mi fece un debole gesto con la
mano, per mostrarmi la sua corda. Augustus non dava più
segno di vita: era ripiegato su se stesso intorno a un pezzo
dell’argano. Vedendo che mi movevo, Parker mi chiese se
ce la facevo a liberarlo perché – diceva – se avessi potuto
stringere i denti e liberarlo, avremmo avuto ancora qualche speranza di salvezza; in caso contrario, saremmo stati
tutti inevitabilmente condannati. Lo invitai a farsi coraggio, assicurandolo che avrei fatto di tutto per liberarlo; difatti, esplorando la tasca dei pantaloni trovai un temperino
e, dopo molti tentativi infruttuosi, riuscii ad aprirlo. Con
la mano sinistra riuscii a liberarmi il braccio e questo mi
permise di tagliare tutti gli altri lacci; ma, quando volli
cambiare posizione, sentii che le gambe mi mancavano e
che non avrei potuto più rialzarmi o muovere il braccio
in nessun modo. Lo feci allora notare a Parker, che mi
consigliò di starmene fermo per alcuni istanti, aggrappandomi con la mano sinistra all’argano per permettere al sangue di riprendere la sua circolazione. Così feci e lo strano
intorpidimento pian piano scomparve e potei muovere
una gamba, poi l’altra e finalmente, recuperare in una
certa misura l’uso del braccio destro. Mi trascinai allora
verso Parker con la più grande prudenza, senza drizzarmi
sulle gambe, tagliai tutte le cime che l’avvolgevano e presto
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poté recuperare l’uso degli arti. Senza perdere un istante,
tagliammo poi la corda di Peters, che si era conficcata profondamente nella carne attraverso la cintura dei pantaloni
di lana e la camicia che, quando la togliemmo, il sangue
sgorgò in abbondanza. Ma appena liberato, Peters poté
parlare, mostrandosi molto sollevato, e fu ben presto in
condizioni di muoversi con molta più facilità di Parker e
me, cosa da attribuire senza dubbio al copioso salasso che
aveva appena subito.
Avevamo poca speranza di vedere Augustus tornare in
sé, perché non dava alcun segno di vita. Ma, avvicinandoci a lui, capimmo che era solo svenuto per un’emorragia, dato che le bende con cui avevamo fasciato il
braccio ferito erano state strappate con violenza dall’acqua. Dopo averlo sciolto e sbarazzato dai resti dell’argano, lo mettemmo al sicuro dalla parte del vento, in un
luogo asciutto, con la testa china sul corpo e ci demmo
da fare tutti e tre a frizionargli gli arti. Dopo circa una
mezz’ora di questi sforzi, riprese i sensi, ma fu solamente
all’indomani mattina che sembrò riconoscerci e che ricuperò la parola.
Nel frattempo, mentre eravamo intenti a liberarci, era
scesa la notte; il cielo cominciava a coprirsi di nuovo e
avevamo una terribile paura che il vento aumentasse,
perché in quel caso nulla più avrebbe potuto strapparci
alla morte, deboli come eravamo. Fortunatamente il
vento restò moderato per tutta la notte e il mare si calmò,
e questo che ci fece nutrire la speranza di cavarcela.
Una piacevole brezza soffiava sempre da nord-ovest e
non faceva affatto freddo. Augustus fu assicurato all’argano con la massima attenzione, per evitare che cadesse
in mare per il rollio della nave; era ancora troppo debole
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per reggersi da solo. Quanto a noi, non era affatto necessario: ci stringemmo gli uni contro gli altri, legandoci
con le corde recuperate dall’argano e ci consultammo
sul modo per uscire da quella deplorevole situazione.
C’eravamo tolti i vestiti e li avevamo strizzati, traendone
grande vantaggio, perché così divennero più caldi e comodi, contribuendo pian piano a rimetterci completamente in forze; aiutammo Augustus a fare altrettanto,
strizzammo i suoi vestiti e anch’egli ne ebbe lo stesso
beneficio.
Adesso soffrivamo molto la fame e la sete e, quando
pensavamo a cosa fare per rimediarvi, ci mancava il coraggio e rimpiangevamo quasi di essere sfuggiti alle
onde, al confronto molto meno pericolose. Cercammo
conforto nella speranza di essere strappati dalla nostra
situazione da qualche nave di passaggio ed esortandoci
a sopportare con forza le calamità che ancora ci aspettavano.
Giunse finalmente il mattino del 14 luglio e il tempo si
conservava bello e gradevole, con una brezza che si soffiava da nord-ovest, ma molto dolce. Il mare si era completamente calmato e il brigantino, qualunque fosse la
causa, che non potevamo conoscere, non era più sbandato
e il ponte era un po’ più asciutto, così potevamo andare e
venire liberamente. Erano ormai trascorsi tre giorni e tre
notti senza bere e mangiare e volevamo ispezionare la neve
per trovare qualcosa. Ma era completamente allagata e ci
mettemmo al lavoro senza grandi speranze: costruimmo
una specie di draga con due assi ove avevamo piantato dei
chiodi strappati ai resti di un portello; le assi erano disposte perpendicolari e, dopo averle assicurate all’estremità
di una cima, le gettammo nella cabina, tirandole da una
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parte all’altra nella speranza di raccogliere qualcosa da
mangiare, o almeno che ci aiutassero a trovarne. Passammo gran parte della mattinata in questa pesca, ma
senza successo, non avendo trovato che alcune coperte
che i chiodi avevano agganciato, e convenimmo che la nostra invenzione era troppo rudimentale per essere utile a
qualcosa.
Facemmo la stessa prova nel castello di prua, senza migliori risultati e già cominciavamo a disperarci, quando
Peters propose di legarsi a una cima per entrare nella
cabina e provare a pescare qualcosa e la proposta fu accolta con l’entusiasmo che può ispirare una nuova speranza. Cominciò quindi a spogliarsi, restando con i soli
pantaloni, e gli venne passata intorno alla cintura una
corda solida e assicurata sopra le spalle perché non scivolasse. L’operazione non era facile perché non potevamo sperare di trovare molte provviste in cabina,
ammesso che ve ne fossero; bisognava dunque che
l’esploratore, per così dire, dopo esser sceso, girasse a
destra e facesse sott’acqua un tragitto di dieci o dodici
piedi attraverso uno stretto corridoio, per raggiungere
la cambusa e tornare indietro, sempre senza respirare.
Quando tutto fu pronto, Peters scese nella cabina attraverso la scaletta e, quando l’acqua gli arrivò al mento
s’immerse del tutto e girò a destra, cercando di raggiungere la cambusa; ma il primo tentativo andò a vuoto.
Mezzo minuto dopo la sua sparizione, sentimmo una
scossa alla corda che lo tratteneva; era quello il segnale
perché lo tirassimo su. Lo issammo dunque in tutta
fretta, tanto che si procurò delle contusioni lungo la
scala, e tornò a mani vuote perché aveva potuto muovere solo qualche passo nel corridoio per gli sforzi che
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doveva fare per evitare di risalire e andare a battere contro il ponte; riemerso dall’acqua, era allo stremo delle
forze e dovette fare una pausa di un buon quarto d’ora,
prima di arrischiarsi a ridiscendere.
Il secondo tentativo fu anche più sfortunato. Restò a
lungo sott’acqua senza dare il segnale e noi, temendo
per la sua sorte, lo tirammo su di nostra iniziativa; se
avessimo tardato ancora un po’, sarebbe rimasto asfissiato. A quanto pare, aveva dato più strattoni alla corda
senza che ce ne fossimo accorti, probabilmente perché
una parte della corda si era attorcigliata al passamano,
all’estremità della scaletta. Quel passamano ci ostacolava a tal punto che decidemmo di strapparlo prima di
ricominciare le operazioni e, poiché per far quello potevamo contare solo sulle nostre braccia, dovemmo
scendere tutti insieme in acqua, spingendoci più avanti
possibile, tirando con tutte le forze per demolirlo.
Anche il terzo tentativo non ebbe più successo dei precedenti e fu chiaro che non saremmo arrivati a nulla se
chi s’immergeva non si fosse munito di un peso che gli
permettesse in basso sul pavimento della cabina. Cercammo invano e a lungo qualche oggetto utile a questo
scopo e finalmente trovammo una delle catene di mezzana e, poiché dondolava già, ci fu facile strapparla per
intero.
Peters quindi la legò solidamente a una delle caviglie ed
effettuò la sua quarta esplorazione nella cabina: stavolta
riuscì a raggiungere la cambusa, ma con disappunto la
trovò chiusa e fu costretto a tornare indietro perché, nonostante gli sforzi, non avrebbe potuto restare sott’acqua un minuto di più. La nostra situazione si faceva
sempre più tragica e Augustus ed io non riuscivamo a
100
trattenere le lacrime all’idea delle difficoltà e delle poche
probabilità di salvezza che ci restavano. Ci inginocchiammo quindi per pregare Dio e implorare il suo soccorso e, rialzandoci dopo quella breve preghiera, ci
sentimmo rinvigoriti e pronti a cercare nuovi modi per
sopravvivere.
Capitolo 10
Poco dopo successe qualcosa che, anche ora, a distanza
di tempo, provoca in me un’emozione perché, se all’inizio
fu una grande gioia, poi si rivelò fonte di grande paura.
Eravamo sul ponte, vicino al portello della cabina, discutendo su come raggiungere la cambusa, quando, alzando gli occhi su Augustus, di fronte a me, vidi che era
improvvisamente impallidito e che le labbra tremavano
in modo strano. Gli rivolsi la parola fortemente preoccupato, ma non rispose e già cominciavo a immaginare
qualche nuova disgrazia, quando mi accorsi della strana
luce dei suoi occhi, che fissavano un oggetto alle mie
spalle. Guardai da quella parte e non dimenticherò mai
l’euforia che mi prese quando scorsi un grande brigantino che si dirigeva verso di noi e che non era a più di
due miglia! Mi alzai e, tendendo le braccia verso la nave,
rimasi immobile in quella posizione senza articolare parola. Anche Peters e Parker avevano avuto una reazione
analoga, anche se la manifestavano in modo diverso:il
primo danzava sul ponte come un pazzo, proferendo le
più stravaganti sciocchezze, intercalate via via a urla e
imprecazioni; l’altro invece scoppiò in lacrime e per un
pezzo continuo a singhiozzare come un bambino.
101
La nave avvistata era in un grande brigantino-goletta, di
costruzione olandese, dipinto di nero e con una polena
dorata. Aveva evidentemente affrontato una tempesta e
immaginammo che si trattasse dello stesso l’uragano che
avevamo incontrato noi, perché il piccolo albero di coffa
era stato strappato, come pure una parte della murata
di tribordo. Quando l’avvistammo era a circa due miglia
sopravvento, diretto verso di noi, e poiché la brezza era
molto leggera, ci meravigliammo che avesse spiegato
solo la piccola vela prodiera e la randa; era molto lento
e la nostra impazienza si trasformò in vera e propria frenesia. Nonostante l’emozione, non potemmo fare a
meno di notare il modo maldestro in cui era condotto:
i suoi movimenti facevano pensare che non ci avesse
visto, oppure che, non scorgendo persone a bordo, fosse
sul punto di virare in tutt’altra direzione. Quando noi,
presi dalla paura, ci mettevamo a urlare a squarciagola
la strana nave sembrava per un momento cambiare idea
e dirigere di nuovo verso di noi. Questa manovra si ripeté due o tre volte e alla fine avevamo concluso che il
timoniere doveva essere pazzo.
Fino a che la nave non fu a un quarto di miglio da noi,
non potemmo scorgere nessuno sul ponte e solo allora
vedemmo tre marinai che, a giudicare dal loro costume,
dovevano essere olandesi: due erano distesi su vecchie
vele vicino il castello di prua; il terzo invece era chino a
tribordo, vicino al bompresso, e sembrava studiarci con
molta curiosità. Era un uomo alto e ben proporzionato,
dalla pelle molto scura; sembrava volerci incoraggiare,
facendo cenni con la testa in modo gioviale anche se
strano, senza cessare per un istante di sorridere, come
per mostrare in tutto il loro splendore la fila di denti
102
bianchi. Mentre la nave si avvicinava, vedemmo il suo
berretto rosso cadere in mare, ma lui non parve preoccuparsene più di tanto e continuò coi sorrisi e la strana
mimica. Il lettore mi perdoni questi dettagli, ma sono
necessari perché si comprendano bene i fatti.
Adesso il brigantino procedeva lento, ma con una direzione più sicura. Ancora oggi non riesco a rievocare
questo episodio senza una forte emozione: sentivamo i
cuori sobbalzare freneticamente ed emettevamo grida
di gioia e ringraziamenti a Dio per l’insperata salvezza
che si prospettava ai nostri occhi. Ma d’un tratto, portato dal vento, ci giunse dalla misteriosa imbarcazione
ormai vicina un odore, un fetore tale che non so trovare
parole per definirlo: infernale, soffocante, intollerabile,
per dare l’idea. Per respirare mi voltai verso i miei compagni e vidi che erano bianchi come il marmo, ma non
avevamo tempo da perdere in discussioni o congetture:
il brigantino era solo a una cinquantina di piedi da noi
e sembrava volersi accostare per farci salire a bordo
senza mettere in acqua una scialuppa. Ci slanciammo a
poppa, ma una forte ondata lo deviò di cinque o sei
gradi dalla rotta e, quando fu a circa venti piedi di distanza, potemmo gettare un occhio sul ponte. Non dimenticherò mai l’orrore di quello spettacolo!
Venticinque o trenta cadaveri, fra cui alcune donne, giacevano sull’assito nel più ripugnante stato di putrefazione. Nessuno – lo vedemmo con certezza – nessuno
era vivo in quella maledetta nave e tuttavia non potemmo fare a meno di chiedere aiuto a quei cadaveri.
Sì, per lungo tempo e con intensità, nell’agonia della nostra condizione, abbiamo supplicato quegli spettri taciturni e ripugnanti di arrestarsi per prenderci a bordo,
103
di non lasciarci diventare come loro, di accordarci la
loro generosa ospitalità. L’orrore, la disperazione ci facevano delirare, l’angoscia della nostra spaventosa delusione ci rendeva completamente pazzi.
Al nostro primo urlo di terrore rispose qualcosa che sembrava partire dal bompresso del brigantino, qualcosa di
perfettamente simile a un grido umano, che anche l’orecchio più esercitato si sarebbe ingannato. Una nuova e
improvvisa ondata riportò per alcuni minuti sotto i nostri
occhi il castello di prua e avemmo la spiegazione di quel
grido. Ci apparve di nuovo la figura alta e robusta, che
si sporgeva dal parapetto oscillando sempre la testa, ma
col viso adesso rivolto verso di noi in modo che potevamo vederlo bene. Le braccia erano allungate, i palmi
penzolavano rivolti all’indietro; la camicia era strappata
sulla schiena e si vedeva la carne; accanto, sulla schiena,
era posato un enorme gabbiano, impegnato a cibarsi dell’orribile cibo, il becco e le zampe affondate quasi per
intero nel corpo del cadavere, mentre le penne bianche
erano macchiate di sangue.
Il brigantino continuava a bordeggiare intorno a noi
come se avesse voluto vederci più da vicino: allora l’uccello, dopo aver distolto con uno sforzo la testa rossa
dall’orrido banchetto e averci guardato un momento
con aria stupida, si alzò in volo lentamente dal cadavere
e prese a volteggiare sopra il nostro ponte, tenendo nel
becco un lembo di carne sanguinolenta che alla fine
cadde e si spiaccicò con un rumore flaccido e sinistro
proprio ai piedi di Parker. Dio mi perdoni! In un primo
momento ebbi allora un pensiero che non oso formulare
e mi sorpresi a muovere un passo verso quella macchia
sanguinolenta.
104
Alzando gli occhi, vidi lo sguardo di Augustus carico di
un rimprovero così intenso e così perentorio che presi
immediatamente coscienza di ciò che stavo facendo; feci
un balzo in avanti e, tremando, lanciai la cosa spaventosa
in mare. Il corpo da cui proveniva quel lembo di carne,
in equilibrio sul parapetto, si muoveva in qua e là sotto
le beccate del gabbiano e per quello in un primo momento l’avevamo creduto vivo. Liberato dal peso del gabbiano, girò in parte su se stesso, permettendoci di vederlo
in viso. Mai, mai, ebbi occasione di vedere uno spettacolo
più terrificante! Gli occhi erano scomparsi e la carne intorno alla bocca era stata divorata lasciando i denti completamente scoperti. Era dunque questo il sorriso che ci
aveva fatto rinascere alla speranza! era dunque questo...
Ma qui mi fermo. Il brigantino, come già detto, passò a
poppavia e proseguì il suo cammino lento e regolare sotto
il vento, e con esso e con il suo equipaggio terrificante
scomparvero le nostre visioni salvifiche. Data la sua rotta
esitante, avremmo potuto anche abbordarlo in un modo
o nell’altro, ma la delusione e l’orrore di quanto avevamo
intravisto ci avevano completamente paralizzato. Avevamo visto e sentito, ma non fummo, ahimè, in grado di
agire e pensare, se non quando era troppo tardi. Il lettore
capirà quanto la nostra testa fosse indebolita da questo
semplice particolare: la nave era già molto lontana e restava visibile solo metà dello scafo, quando ci venne l’idea
di gettarci a nuoto per raggiungerla e per poco non la
mettemmo in pratica.
Da allora ho cercato di sciogliere il terrificante mistero
di quel brigantino sconosciuto. Le sue dimensioni e il
profilo ci fecero supporre, come ho già detto, che fosse
un mercantile olandese e il costume degli uomini del105
l’equipaggio accreditava questa nostra ipotesi. Ci sarebbe stato facile di leggere il suo nome a poppa e di
cogliere altri dettagli che ci avrebbero permesso di identificarlo, ma la forte emozione ci fece perdere di vista
tutto quanto avrebbe potuto illuminarci. Il colore giallastro di alcuni dei cadaveri che non erano ancora completamente putrefatti ci fece pensare che tutti a bordo
fossero morti per la febbre gialla o qualche altra analoga
epidemia. Se così era stato – e non vedo possibile altra
ipotesi – la morte era avvenuta con una fulminante rapidità, a giudicare dalla posizione dei corpi, senza alcun
analogo precedente nella storia delle pestilenze di cui
l’umanità abbia conservato il ricordo.
È anche possibile che un veleno introdotto accidentalmente nelle provviste di bordo sia all’origine della tragedia; può darsi infine che quegli infelici avessero
mangiato qualche pesce di una specie sconosciuta e velenosa, un animale o un uccello marino. Ma non ha
alcun senso imbastire delle ipotesi su un fatto che è e rimarrà per sempre ignoto, un terrificante e insondabile
mistero.
Capitolo 11
Passammo il resto della giornata in una specie di letargo
instupidito, scrutando il mare alla ricerca di possibili navi
finché l’oscurità, nascondendolo ai nostri occhi, ci riportò alla realtà. I morsi della fame e della sete ci assalirono ancora più forti, passando in secondo piano le altre
preoccupazione. Non potendo fare nulla fino al mattino,
ci sistemammo alla meglio, cercando di riposarci un po’.
106
Aldilà di quanto potessi sperare, io dormii fino all’alba,
quando i miei compagni – che non erano altrettanto comodi – mi svegliarono per fare altri tentativi di raggiungere i viveri nella cambusa.
Il tempo era bellissimo; non avevo mai visto un mare
così calmo; la temperatura era gradevole e il brigantino
olandese ormai fuori di vista. La prima preoccupazione
fu di scardinare due delle catene a prua, che vennero
agganciate ai piedi di Peters; fatto ciò, lui cercò ancora
una volta di raggiungere nel minor tempo possibile il
portello della cambusa, tentando di sfondarlo, e contava
di riuscirci, perché il brigantino era molto più stabile di
prima. Raggiunse così abbastanza rapidamente il portello e, strappando dalla sua caviglia una delle catene,
se ne servì per forzarlo, ma inutilmente, perché il legno
era molto più solido di quanto si potesse immaginare.
Risalì dunque completamente sfinito per la lunga immersione e si presentò la necessità di sostituirlo in quella
pericolosa missione. Parker si propose subito, ma dopo
tre discese dovette tornare indietro senza aver potuto
raggiungere il portello. Data la ferita al braccio, Augustus era impossibilitato a tentare una discesa poiché,
quand’anche fosse riuscito a raggiungere il portello, non
sarebbe mai riuscito a sfondarlo. Toccava dunque a me
impegnarmi per la salvezza comune.
Peters aveva lasciato una delle catene nel corridoio e appena mi fui immerso, mi resi conto di non essere abbastanza zavorrato per procedere nell’acqua. Decisi
dunque, come primo tentativo, di cercare la seconda catena. Procedendo tastoni in lungo e in largo sul pavimento del corridoio, sentii un oggetto duro che afferrai
subito, non avendo il tempo di verificare cosa fosse, do107
podiché mi girai e tornai in superficie. Avevo trovato una
bottiglia e il lettore può immaginare con quale gioia costatammo che era piena di vino di Porto! Dopo aver reso
grazie a Dio per quell’aiuto opportuno e prezioso, la
aprimmo subito servendoci del mio temperino e un piccolo sorso bastò a darci un conforto indicibile conforto
e calore. La bottiglia fu poi richiusa con cura e appesa
in modo che non si rompesse.
Riposatomi in attimo, scesi di nuovo e incappai nella seconda catena, risalii subito e l’attaccai alla caviglia per effettuare una terza discesa, ma questa volta convinto che
non sarei mai giunto alla porta della cambusa. Tornai su
scoraggiato; dovevamo ormai abbandonare ogni speranza, e potei leggere sul viso dei miei compagni l’ombra
della morte. Il sorso di vino aveva prodotto in loro una
specie di delirio da cui io ero rimasto indenne grazie all’immersione. Facevano discorsi sconclusionati, su argomenti che non avevano nulla a che vedere con la nostra
situazione. Peters, ad esempio, mi fece una serie di domande su Nantucket; anche Augustus – ricordo – si avvicinò a me con la massima serietà chiedendomi un
pettinino perché aveva i capelli pieni di scaglie di pesce e
voleva sbarazzarsene prima di sbarcare. Parker sembrava
un po’ meno sconvolto e m’incoraggiava a immergermi
ancora una volta per riportare tutto ciò che c’era in cabina. Acconsentii e al primo colpo, dopo un’apnea di
oltre un minuto, recuperai una valigetta di cuoio che apparteneva al capitano Barnard; l’aprimmo subito con la
debole speranza di trovarvi qualcosa da bere o da mangiare, ma purtroppo conteneva solo un completo per radersi e due camicie di tela. Scesi ancora una volta di, ma
tornai a mani vuote e, appena misi la testa fuori dall’ac108
qua, sentii un rumore come se qualcosa si fosse rotto sul
ponte e una volta risalito, costatai che i miei compagni
erano stati così ingrati da approfittare della mia assenza
per bere il vino rimasto nella bottiglia, che avevano poi
fatto cadere e cercato di rimettere al suo posto prima che
riemergessi. Feci loro rilevare l’egoismo di tale condotta
e Augustus scoppiò a piangere: quanto agli altri, si sforzarono di prendere la cosa a ridere, ma a Dio non piaccia
che io possa rivedere nella mia vita una tale risata; le loro
smorfie erano assolutamente terrificanti; nelle loro pance
vuote il vino aveva prodotto un effetto violento e istantaneo. Feci una gran fatica a convincerli a distendersi e, appena lo fecero, caddero in un sonno pesante.
Mi trovai dunque solo sul brigantino e si potrà facilmente immaginare di quale natura fossero i miei pensieri.
Non vedevo altra prospettiva che morire lentamente di
fame o, nell’ipotesi migliore, di essere inghiottito dalla
prima tempesta che fosse sopraggiunta, perché, nello
stato di sfinimento in cui ci trovavamo, non potevamo
sperare di resistere a un nuovo assalto. La fame era intollerabile e avrei fatto qualsiasi cosa per placarla. Con
l’aiuto del coltello, tagliai un pezzetto della valigia di
cuoio e provai a masticarlo, ma non potei inghiottire
neppure la minima parte.
Al calar della notte i miei compagni si svegliarono, uno
dopo l’altro, in uno stato di depressione indescrivibile
prodotto dal vino, i cui fumi erano svaniti. Erano scossi
come da una febbre violenta e chiedevano dell’acqua
con grida snervanti. Mi ispiravano la più profonda pietà,
ma al contempo mi rallegravo per non aver bevuto come
gli altri, risparmiandomi le sinistre e desolanti sensazioni.
109
Il loro atteggiamento mi preoccupava perché era evidente
che, se non fosse mutato, non avrei potuto contare su di
loro per tentare di salvarci. Non avevo ancora abbandonato ogni speranza di recuperare qualcosa, ma non potevo ripetere il tentativo se uno di loro non fosse stato in
grado di aiutarmi reggendo la corda mentre scendevo.
Parker mi sembrava meno debole degli altri e cercai
quindi di rianimarlo in qualche modo. Pensando che
un’immersione nell’acqua di mare avrebbe potuto essere
utile allo scopo, gli legai una corda intorno al corpo, lo
condussi fino alla scala – lui mi lasciò fare sino alla fine –
e da lì lo spinsi nell’acqua ripescandolo subito. L’esperimento mi dette ragione, perché sembrò riprendere vita
e, quando lo distesi sul ponte, mi chiese con aria più ragionevole perché avessi fatto ciò. Quando glie lo spiegai
mi ringraziò, mi disse che si sentiva molto meglio ed esaminò la nostra situazione con lucidità. Decidemmo allora
di fare ad Augustus e Peters lo stesso trattamento; lo facemmo senza indugi e con risultati sensibili. L’idea mi era
stata suggerita da una lontana reminiscenza di non so più
quale opera di medicina, che parlava dell’efficacia di una
doccia nei casi di depressione da alcolismo.
Vedendo che potevo di nuovo contare sui miei compagni per reggere la corda, feci tre o quattro immersioni
in cabina, anche se era già notte e un leggero vento da
nord-ovest faceva muovere il nostro relitto. Queste
nuove esplorazioni fruttarono due coltelli da tavola, una
brocca da tre galloni vuota e una coperta, ma nulla da
mangiare. Raccolti questi oggetti, continuai finché mi
sentii allo stremo delle forze, ma senza miglior risultato.
Nella notte anche Parker e Peters si spinsero sott’acqua,
uno dopo l’altro, ma anche loro senza successo. Sta110
vamo chiaramente sprecando energie inutilmente e rinunciammo, passando il resto della nottata nella depressione più profonda.
Finalmente giunse l’alba 16 luglio e scrutammo avidamente l’orizzonte in ogni direzione, ma invano. Il mare
era sempre molto calmo, nonostante la solita brezza da
nord. Per sei giorni non avevamo né mangiato né bevuto,
ad eccezione della bottiglia di Porto, ed era chiaro che
non avremmo potuto reggere più a lungo, a meno di qualche fortunata scoperta. Non ho mai visto – e spero di non
aver più occasione di vedere – esseri umani ridotti come
Peters e Augustus, talmente magri che, se li avessi incontrati a terra, non li avrei mai riconosciuti. La loro fisionomia era cambiata a tal punto che non mi capacitavo che
fossero gli stessi di qualche giorno prima. Anche Parker
era molto dimagrito e debole da non riuscire a tenere ritta
la testa, ma non era ancora nelle condizioni drammatiche
degli altri; non si lamentava e cercava di incoraggiarci in
ogni modo. Quanto a me, pur avendo molto sofferto fin
dall’inizio di questo mio pericoloso viaggio e nonostante
il mio fisico delicato, ero quello che soffriva di meno, perché ero meno dimagrito di loro e restavo padrone di tutte
le mie facoltà, mentre gli altri sembravano tornati bambini, ridendo alle mie domande con espressione idiota e
dicendo le più assurde sciocchezze.
Ogni tanto comunque sembravano riprendere vita,
come avessero di nuovo coscienza della situazione, e allora si alzavano d’improvviso, in un sussulto di energia,
e riprendevano a parlare in modo ragionevole, seppure
con aria depressa. Del resto, è possibile che io facessi
loro la stessa impressione e che facessi le stesse cose stravaganti e stupide, non saprei dirlo.
111
Verso mezzogiorno, Parker disse che vedeva terra a babordo e io durai non poca fatica a dissuaderlo dal gettarsi in mare per raggiungere a nuoto la riva. Peters e
Augustus non si curavano di lui, sembravano sprofondati entrambi in una cupa contemplazione. Guardai
verso la direzione indicatami e non vidi niente; d’altronde, sapevo fin troppo bene quanto fossimo ancora
lontani da qualsiasi terra per farmi illusioni e ci volle
molto tempo per convincere Parker. E lui scoppiò in lagrime come un bambino, gridando e singhiozzando per
due o tre ore; dopodiché, stanco e sfinito, si addormentò.
Peters e Augustus fecero alcuni vani tentativi di masticare dei pezzi di cuoio: li consigliai di ammollarli prima,
ma erano troppo sfiniti e indeboliti per seguire i miei
consigli. Quanto a me, cercai di masticare anch’io di
tanto in tanto per calmare i morsi della fame, ma ciò che
più mi angosciava era la mancanza d’acqua e la sola cosa
che mi trattenne dal bere l’acqua di mare fu il ricordo
delle terribili conseguenze patite da altri nelle mie stesse
condizioni.
Eravamo quasi al tramonto quando improvvisamente
scorsi una vela a est, davanti a noi, dalla parte di babordo, e mi parve che fosse una grande nave che avanzava proprio verso di noi, a una probabile distanza di
dodici o quindici miglia. Nessuno dei miei compagni
l’aveva ancora vista e mi astenni dal segnalarlo subito
nel timore di una nuova delusione. Ma quando vidi distintamente che si avvicinava sempre di più e che puntava dritta su di noi, non potei contenermi più a lungo
e la indicai ai miei compagni di sventura, che si alzarono
in piedi e si abbandonarono, ancora una volta, a mani112
festazione di gioia, piangendo, ridendo come idioti, saltando, trascinandosi sul ponte, strappandosi i capelli,
pregando e bestemmiando a un tempo. Il loro entusiasmo era così contagioso e la salvezza sembrava così vicina, che non potei impedirmi di partecipare alla loro
follia e di dare libero sfogo a tutta l’esuberanza della mia
gratitudine e della mia felicità. Facevo le capriole, mi
trascinavo sul ponte, battevo le mani, gridavo, facevo
tutte le sciocchezze possibili, finché improvvisamente
fui richiamato alla realtà e rigettato nella più cupa disperazione quando vidi la nave virare bruscamente e
fare rotta in direzione quasi opposta.
Mi occorse non poco tempo per convincere del nuovo
crollo delle nostre speranze i miei poveri compagni, che
a ogni mia affermazione replicavano con sguardi e sorrisini increduli. Ma fu la condotta di Augustus che più mi
stupì; avevo un bel dire e un bel fare per persuaderlo;
s’incaponiva a sostenere che la nave veniva verso di noi a
vele spiegate e già si preparava per salire a bordo. Pretendeva che delle alghe che fluttuavano intorno al brigantino fossero la scialuppa del vascello e voleva lanciarvisi
sopra, e urlava, si sgolava da straziarmi il cuore; dovetti
usare la forza per impedirgli di gettarsi in mare.
Quando l’emozione si fu un poco placata, continuammo
a seguire con lo sguardo la nave finché non scomparve
nella nebbia che nel frattempo era sopraggiunta. Allora
Parker si volse verso di me con un’espressione che mi
fece rabbrividire. Sembrava avere una lucidità che non
avevo mai notato in lui e, prima ancora che aprisse la
bocca, avevo già immaginato cosa avrebbe detto. In
poche parole, proponeva che uno di noi si sacrificasse
per permettere agli altri di salvarsi.
113
Capitolo 12
Già da tempo avevo idea che forse saremmo giunti a
quel punto estremo, il più orribile fra tutti, e in cuor mio
avevo giurato di volere morire, in qualunque modo
fosse, piuttosto che ricorrere, per sopravvivere, a quella
soluzione. E la mia determinazione non era stata scalfita
dalle torture della fame. La proposta di Parker non era
arrivata alle orecchie di Peters e Augustus, così lo presi
da parte e, pregando con tutte le mie forze Dio perché
mi desse la forza necessaria per distoglierlo dal suo
odioso piano, lo scongiurai in nome di ciò che aveva di
più sacro e con tutta l’eloquenza che mi ispirava l’orrore
della situazione, di rinunciare alla sua idea e di non comunicarla agli altri.
Lui mi ascoltò senza fare la minima obiezione ai miei argomenti e già cominciavo a sperare di averlo convinto,
quando, terminato il mio discorso, prese a sua volta la
parola dicendo che riconosceva che avevo ragione, che
il pensare a quella cosa era certamente l’idea più terribile che potesse partorire la mente di un uomo, ma che
aveva sofferto tutto ciò che si può umanamente soffrire
e che non era necessario che tutti morissero quando era
possibile, anzi probabile, che la morte di uno assicurasse
la salvezza degli altri; aggiunse inoltre che sarebbe stata
fatica sprecata tentare di dissuaderlo, perché era giunto
a quella conclusione prima che avvistassero la nave e che
solo per quello aveva aspettato ad avanzare la sua proposta. Io allora lo supplicai, se anche non riuscivo a farlo
desistere dalla sua idea, che almeno la rimandasse di un
giorno, perché era possibile che un’altra nave venisse in
soccorso e ripetei le considerazioni che mi parevano più
114
adatte al caso, che potessero far presa su un uomo dalla
natura selvaggia. E lui mi rispose che aveva atteso fino
all’ultimo, che non poteva più vivere senza mangiare
qualcosa e che, se si rinviava l’esecuzione del suo piano,
sarebbe stato troppo tardi, almeno per quanto riguardava lui.
Compresi allora che non avrei potuto ottenere nulla con
la persuasione e gli parlai con un altro tono. Gli dissi
che avevo sofferto meno di loro per le comuni sventure,
che in quel momento ero molto più forte, non solo di
lui, ma anche di Peters e Augustus; in breve, che ero
perfettamente in grado di ricorrere alla forza e che, se
avesse fatto il minimo tentativo di comunicare agli altri
il suo selvaggio progetto di cannibalismo, non avrei esitato a gettarlo in mare. A queste parole, mi prese per la
gola ed estraendo un coltello cercò a più riprese di colpirmi allo stomaco e solo la sua debolezza gli impedì di
riuscire nell’impresa. Da parte mia, preso dalla disperazione, lo spinsi contro la murata, deciso a gettarlo in
mare, e sfuggì alla morte solo per l’intervento di Peters,
che si avvicinò a noi e ci separò, chiedendoci quale fosse
il motivo del nostro diverbio, cosicché Parker ebbe il
tempo di informarlo di tutto, prima che potessi impedirglielo.
L’effetto delle sue parole fu ancora più terribile. Certamente Augustus e Peters, senza dir nulla, nutrivano già
da tempo lo stesso spaventoso pensiero di Parker e costui l’aveva solo formulato per primo; condivisero dunque completamente la sua idea e manifestarono la
volontà di metterla in pratica senza più indugi. Fino a
quel momento avevo sperato che almeno uno di loro
avesse il coraggio da stare dalla mia parte e opporsi al115
l’ignobile progetto; con l’appoggio di uno dei miei compagni mi sarei sentito capace di impedirne la realizzazione, ma, abbandonata quella speranza, non mi restava
che vegliare sulla mia stessa sicurezza, perché continuare a oppormi voleva dire offrire a quegli uomini,
nella loro spaventosa situazione, un pretesto sufficiente
per negarmi la possibilità di giocare le mie carte nella
tragedia che si sarebbe svolta fra breve.
Dissi dunque che acconsentivo alla loro proposta e che
chiedevo solamente una dilazione di un’ora per lasciare
che la nebbia si diradasse e controllare se la nave che
avevamo avvistato si ripresentasse. Con grande difficoltà
ottenni alla fine la promessa che avrebbero aspettato e,
grazie al vento che si era alzato, la nebbia si dissolse
prima che un’ora fosse trascorsa; ma non si vedeva nessuna nave e ci apprestammo a tirare a sorte.
È con estrema riluttanza che darò qui il resoconto della
spaventosa scena che seguì e di cui nessun avvenimento
successivo poté cancellare dalla mia memoria anche il più
insignificante dettaglio; il ricordo avvelenerà inesorabilmente tutti gli istanti che mi restano ancora a vivere. Passerò su questa parte della mia storia il più rapidamente
possibile, in considerazione degli avvenimenti di cui tratta.
Il solo modo che avessimo a disposizione per quella terribile lotteria, in cui giocavamo tutti il nostro turno mortale, era quello delle paglie. Piccoli bastoncini di legno
più o meno lunghi potevano svolgerne la funzione e fu
stabilito che sarei stato io a reggerli in mano. Fra tutte le
tragedie in cui un uomo può incappare, rare sono quelle
in cui non faccia ricorso all’istinto di sopravvivenza, un
istinto che cresce tanto più è fragile il filo che lo lega alla
vita. Ma la faccenda che mi era toccata, così diversa dal
116
tumulto e i pericoli della tempesta o dalla tortura crescente della fame, quella faccenda – ripeto – m’indusse
a pensare alle poche probabilità che mi si risparmiasse
la più terribile delle morti, terribile per lo scopo stesso
cui doveva servire; e ogni particella della forza che mi
aveva sostenuto per così lungo tempo si involava rapidamente come piuma in balìa del vento, lasciandomi il miserabile trastullo del più abbietto e miserabile terrore.
All’inizio non avevo la forza per spezzare e raccogliere insieme i pezzetti di legno, perché le mie dita rifiutavano quel
compito e le ginocchia tremavano convulsamente. Passai
velocemente in rassegna i modi più assurdi per evitare di
essere complice di quell’odiosa speculazione. Pensai di gettarmi ai piedi dei miei compagni e scongiurarli di risparmiarmi questo triste compito, di scagliarmi su di loro
all’improvviso e ucciderne uno perché fosse inutile tirare
a sorte; in una parola, pensai a tutto fuorché a compiere
ciò che dovevo fare. Finalmente, dopo aver perso non poco
tempo in quelle folli considerazioni, fui richiamato a me
stesso dalla voce di Peters che mi invitava a toglierli al più
presto dalla terribile ansia; ma anche allora non potevo risolvermi a estrarre i pezzetti di legno e indugiai immaginando ogni astuzia per far estrarre quello più corto a uno
dei miei compagni di miseria, perché era convenuto che
quello cui fosse toccato sarebbe morto per salvare gli altri.
Prima però di condannarmi per questa malvagia idea, il
lettore provi a mettersi al mio posto.
Alla fine, non potendo più differire la cosa e col cuore
che mi batteva in petto fino a scoppiare, avanzai verso
il castello di prua dove mi aspettavano i miei compagni,
tesi una mano e Peters estrasse subito il suo. Il bastoncino non era il più corto, era salvo, e dunque una spe117
ranza in meno per me, una probabilità di salvarmi che
svaniva. Cercando di raccogliere il coraggio, porsi i bastoncini ad Augustus, che estrasse immediatamente il
suo. Anch’egli era salvo! E poiché ora le probabilità di
vita o di morte si bilanciavano perfettamente, sentii crescere in me la ferocia della tigre, l’odio peggiore, più demoniaco contro il mio povero compagno Parker.
Ma questo sentimento non durò a lungo e, con un tremito convulso e gli occhi chiusi, gli tesi i due bastoncini
rimanenti. Trascorsero forse cinque minuti prima che si
risolvesse a scegliere e in quei momenti di angoscia che
sembrava spezzarmi il cuore, non aprii mai gli occhi. Finalmente estrasse uno dei bastoncini, ma ignoravo ancora quale fosse; nessuno parlava e io restavo immobile,
smarrito, senza osare di scoprire il mio destino alzando
gli occhi sul legnetto rimasto. Quando Peters mi toccò
la mano, alzai lo sguardo su Parker e mi accorsi subito
dalla sua espressione che ero salvo e che egli era il condannato. Rimasi senza fiato e caddi svenuto sul ponte.
Ripresi conoscenza in tempo per assistere all’epilogo del
dramma, cioè alla morte di colui che ne era stato il protagonista, poiché aveva suggerito l’idea. Non oppose la
minima resistenza e, colpito alla schiena da Peters,
cadde subito morto. Non descriverò qui l’orrendo banchetto che seguì, né ciò che avvenne nei giorni seguenti
perché simili cose si possono soltanto immaginare e le
parole non avrebbero mai la forza sufficiente a imprimere nella mente l’orrore della realtà. Dirò soltanto che,
avendo calmato la spaventosa sete bevendo il suo sangue e, sbarazzatisi di comune accordo di mani, gambe e
testa gettandoli in acqua, facemmo a pezzi e divorammo
il resto nei quattro giorni che seguirono.
118
Il 19 luglio venne una pioggia che durò quindici o venti
minuti e ci permise di raccogliere un po’ d’acqua con
l’aiuto degli stracci che avevamo recuperato con la rudimentale draga dopo la tempesta. Era appena mezzo
gallone, ma quella provvista, per quanto modesta, bastò
a infonderci energie e speranza, anche se in capo a due
giorni eravamo di nuovo allo stremo: il tempo era caldo
e gradevole, con nebbie passeggere e delle leggere
brezze provenienti da nord o da ovest.
Il 22 luglio, mentre eravamo seduti uno di fronte all’altro meditando sulla nostra sorte, improvvisamente
un’idea balenò nella mia mente e accese un barlume di
speranza. Mi ricordai che, quando avevamo tagliato l’albero di trinchetto, Peters mi aveva passato un’ascia dicendomi di metterla in un luogo sicuro e ricordavo
anche che alcuni istanti prima che le ondate scuotessero
e sommergessero il brigantino, io l’avevo deposta nel castello di prua, su uno dei quadrati di babordo. Ora pensavo che, se l’avessimo trovata, avremmo potuto praticare
un’apertura nel ponte sopra la cambusa e recuperare
delle provviste.
Quando comunicai il piano ai miei compagni, emisero
un debole grido di gioia e, rianimati da quella speranza,
ci lanciammo tutti e tre verso il castello di prua. Lì la discesa era più difficile che nella cabina, perché il portello
era molto più stretto e il lettore ricorderà che il passamano della scaletta della cabina era stato scardinato,
mentre il passaggio al castello di prua era ancora intatto.
Quel passaggio non era che un semplice boccaporto di
forse tre piedi quadrati, per cui io non esitai a tentare la
discesa e, legata una cima intorno alla vita come la prima
volta, m’immersi subito. Andai dritto al quadrato e, al
119
primo colpo, riuscii ad afferrare l’ascia, accolta con
grida di giubilo dai miei compagni, che vedevano in
quel rapido ritrovamento un buon auspicio. Iniziammo
quindi a sfondare il ponte con tutta l’energia infusa dalla
nuova speranza, alternandoci, Peters e io, perché il braccio ferito impediva ad Augustus di dare mano. Eravamo
ancora troppo deboli per lavorare senza prendere fiato
e apparve evidente che sarebbero occorse molte ore per
aprire un passaggio che permettesse di scendere fino alla
cambusa; ma non ci scoraggiammo e, dopo aver lavorato tutta la notte alla luce della luna, il 23 di luglio, all’alba, i nostri sforzi furono finalmente coronati da
successo.
Peters si offrì di andare per primo e, prese tutte le precauzioni, scese e tornò quasi subito con un vasetto che,
con nostra grande gioia, trovammo pieno di olive che furono subito divise tra noi e divorate con avidità. Poi Peters effettuò una nuova immersione che superò di molto
le nostre speranze, perché tornò un istante dopo portando un grosso prosciutto e una bottiglia di vino di Madeira. Facemmo attenzione a non berne che un sorso a
testa, avendo imparato a nostre spese quali potessero essere gli effetti dell’alcool; il prosciutto era guastato dall’acqua e non si poteva mangiare, tranne una parte di
circa due libbre vicina all’osso, che fu suddivisa in tre
parti. Peters e Augustus non seppero resistere e ingoiarono in un solo boccone la loro porzione; io invece fui
più saggio e, pensando che mi avrebbe aumentato la sete,
ne mangiai solo un pezzettino; dopodiché ci riposammo
da quella sfibrante fatica.
A mezzogiorno ci sentivamo un poco più riposati e in
forze e riprendemmo la pesca alle provviste, alternandoci,
120
Peters e io, con più o meno successo, fino al tramonto del
sole. In quel lasso di tempo avemmo la fortuna di trovare
quattro altri vasetti di olive, un secondo prosciutto, una
damigiana con quasi tre galloni di vino di Madeira e, cosa
particolarmente gradita, una piccola tartaruga delle Galapagos; alla partenza del Grampus infatti, il capitano
Barnard ne aveva portate alcune a bordo, prese dalla goletta Mary Pitts che tornava allora da una caccia alle foche
nel Pacifico. Avrò spesso, in seguito, occasione di parlare
di questa specie di tartaruga; come il lettore saprà, si trova
soprattutto nel gruppo delle omonime isole del Pacifico
– così chiamate certamente dal nome locale dell’animale,
Gallipago, che significa appunto tartaruga d’acqua dolce.
La carne di questo rettile è un alimento eccellente e molto
nutritivo e spesso ha garantito la sopravvivenza a migliaia
di marinai occupati nella caccia alla balena e in altre spedizioni nel Pacifico.
Quella che avevamo avuto la buona fortuna di pescare
nella cambusa non era di grandi dimensioni e pesava
forse dalle sessantacinque alle settanta libbre. Era una
femmina in buone condizioni, abbastanza in carne e la
sua sacca conteneva più di due pinte d’acqua limpida e
molto dolce. Era per noi un vero tesoro e, inginocchiatici
contemporaneamente, ringraziammo ardentemente Dio
per questo regalo giunto così a proposito. Durammo
molta fatica a far passare l’animale dall’apertura, perché
opponeva una strenua e sorprendente resistenza; ci
mancò poco che sfuggisse dalle mani di Peters e ricadesse in acqua. Augustus gli passò intorno al collo una
cima munita di un nodo scorsoio, riuscendo così a tenerla ferma mentre io saltavo nel buco per aiutare Peters
a issare la bestia sul ponte.
121
L’acqua contenuta nella tasca dell’animale fu vuotata
con ogni cura nella brocca che, come il lettore ricorda,
era stata portata sul ponte in seguito a una scoperta precedente. Fatto ciò, rompemmo il collo di una bottiglia,
lasciandovi il tappo, per ricavarne una specie di bicchiere di un po’ meno di un quarto di pinta. Ognuno di
noi ne bevve un sorso e fu deciso che quella sarebbe
stata la nostra razione quotidiana.
Nei tre giorni precedenti il tempo era stato bello e secco,
così le coperte che avevamo ripescato nella cabina erano
completamente asciutte, come pure i nostri vestiti, e
questo ci permise di passare la notte del 23 luglio abbastanza comodi e di dormire tranquillamente, dopo aver
cenato con olive, prosciutto e un sorso di vino. Per
paura che una parte delle provviste cadesse in mare
nella notte, le assicurammo alla meglio intorno a ciò che
restava dell’argano. Quanto alla nostra tartaruga, che
avevamo cura di conservare viva più a lungo possibile,
venne rovesciata sul dorso e assicurata in qualche modo.
Capitolo 13
24 luglio. Al mattino ci sentivamo forti e rinfrancati. La
situazione rimaneva sempre molto precaria, perché non
sapevamo dove ci trovassimo – certamente molto lontani da terra – non avevamo viveri che per una quindicina di giorni, anche razionandoli drasticamente, e
l’acqua ci mancava completamente. Ma le sventure che
avevamo passato erano talmente orribili che quelle attuali ci sembravano ben piccola cosa.
All’alba ci preparammo a riprendere le nostre esplora122
zioni nella cambusa quando iniziò a piovere forte con
qualche fulmine e nostra prima preoccupazione fu di
raccogliere quell’acqua. Usando il solito straccio la facemmo colare nella brocca e quella era già quasi piena
quando un forte vento da nord ci costrinse a smettere.
Ci portammo allora a prua e li, legati ai resti dell’albero
di trinchetto, attendemmo gli eventi con sangue freddo.
A mezzogiorno il vento si era calmato, ma a sera rinforzò e la nave riprese a rollare con violenza. L’esperienza ci aveva però insegnato cosa fare in quella
situazione, per cui notte passò relativamente tranquilla,
pur essendo investiti da ondate furiose.
25 luglio. Al mattino la tempesta si era molto calmata e
trasformata in una leggera brezza, ma avemmo la brutta
sorpresa che due vasetti di olive e il nostro prosciutto
erano stati spazzati via dalle onde. Decidemmo però di
non uccidere ancora la tartaruga e, per pranzo, ci accontentammo di alcune ulive e acqua mescolata a un po’ di
vino, trovando così ristoro ed energie, senza intossicarsi
con l’alcool, come avvenuto in precedenza. A mezzogiorno il sole ci apparve allo zenith e avemmo la certezza
che i venti che avevano spirato a lungo da nord e da nordovest ci avevano spinto verso l’equatore. Verso sera avvistammo molti pescecani, uno dei quali enorme; a un certo
punto, quando un’ondata sommerse il relitto, ce lo trovammo quasi in faccia e addirittura Peters fu colpito dalla
sua coda. Alla fine un’ondata lo allontanò, con nostro
grande sollievo; col mare più tranquillo l’avremmo potuto
catturare facilmente.
26 luglio. Essendosi calmato il vento calmato, abbiamo
deciso di ricominciare le nostre ricerche nella cambusa,
ma dopo tutta quella fatica e con grande disperazione,
123
capimmo che da lì non c’era molto d’aspettarsi, perché
il portello della cambusa era sfondato e tutto era filato
giù in stiva.
27 luglio. Mare quasi piatto, con un po’ di vento, sempre
da nord-ovest. Il sole è divenuto molto caldo dopo mezzogiorno e abbiamo provato un vivo sollievo tuffandoci
in mare. Ma occorre fare molta attenzione, perché i pescecani sono sempre nei paraggi.
28 luglio. Sempre bel tempo. Il brigantino continua a
essere sbandato in modo inquietante e temiamo che a
un certo punto si capovolga completamente. Prendiamo
tutte le precauzioni possibili e mettiamo al sicuro la tartaruga, la brocca e le poche olive rimaste. Mare molto
piatto per tutto il giorno.
29 luglio. Sempre lo stesso tempo. Il braccio di Augustus comincia a presentare sintomi di cancrena; il malato
è preso da sonnolenza e la sua sete è eccessiva. Non possiamo che sfregare il suo viso con un po’ d’aceto tolto
dalle olive, e sembra provare molto sollievo. Non potendo far nulla di meglio, triplichiamo la sua razione
d’acqua.
30 luglio. Giornata eccessivamente calda, non un alito di
vento. Un gigantesco pescecane ha montato la guardia
tutta la notte vicino allo scafo. Abbiamo cercato invano
di catturarlo con un nodo scorsoio. Augustus è molto
peggiorato, tanto per le ferite quanto per la mancanza di
cibo appropriato. Ci supplica continuamente di liberarlo
da quel supplizio, vuole solo morire. A sera abbiamo cenato con ciò che rimaneva delle olive, ma l’acqua dalla
brocca era talmente putrida che abbiamo potuto berla
senza mischiandola col vino, dopodiché abbiamo deciso
di uccidere la tartaruga l’indomani.
124
31 luglio. Dopo una notte d’ansia e di stress, causate
dallo sbandamento della nave, siamo costretti a uccidere
e fare a pezzi la tartaruga, che ci sembra più piccola di
quanto immaginato, anche se in buone condizioni. Ne
abbiamo ricavato non più di dieci libbre di carne e, perché durasse il più a lungo possibile, l’abbiamo tagliata a
strisce sottilissime che abbiamo messo nei vasetti e nella
bottiglia che avevamo conservato e vi abbiamo versato
sopra l’aceto delle olive. Facendo un calcolo approssimativo, abbiamo da parte tre libbre di carne di tartaruga
e siamo ben decisi a non toccare questa provvista prima
d’aver consumato il resto; poiché la nostra razione giornaliera è quattro once circa di carne, dovremmo avere
da mangiare per almeno dodici giorni.
Verso sera è venuta una forte pioggia accompagnata da
lampi e da violenti colpi di tuono; ma è durata poco e
abbiamo potuto raccogliere solo mezza pinta d’acqua
che abbiamo lasciato, di comune accordo, ad Augustus,
che sembra ormai giunto agli estremi. Man mano che
raccoglievamo l’acqua lui la beveva attraverso il telo che
avevamo disteso su di lui in modo che l’acqua gli colasse
in bocca; infatti non avevamo più un recipiente disponibile, a meno di vuotare il vino della damigiana, o l’acqua marcia della brocca, cosa che avremmo fatto se
continuava a piovere.
Il malato non sembra aver provato grande sollievo: il
braccio è diventato tutto nero, dal pugno fino alla spalla,
i piedi sono ghiacci e temiamo di vederlo esalare l’ultimo
respiro da un momento all’altro. È dimagrito in modo incredibile; lui che pesava centoventisette libbre alla partenza da Nantucket, ora non ne pesa più di quaranta o
cinquanta al massimo. Gli occhi sono profondamente in125
cavati nelle orbite e appena visibili, la pelle delle gote è
talmente tesa che non può masticare niente e nemmeno
buttar giù un liquido se non con grande difficoltà.
1 agosto. Il tempo si mantiene molto calmo, il sole è soffocante e soffriamo atrocemente per la sete, perché l’acqua della brocca è ormai imbevibile, tutta mangiata dai
vermi: tuttavia, con grande ripugnanza, siamo riusciti a
ingoiarne un po’ mischiandola al vino, ma non per questo
la sete si è calmata. Proviamo solo un po’ di sollievo tuffandoci in mare, ma non possiamo abusare di questo
espediente per la costante presenza di pescecani. Augustus è chiaramente agonizzante; non possiamo far nulla
per salvarlo e non sappiamo cosa fare per rendere meno
atroci i suoi tormenti. A mezzogiorno spira fra violente
convulsioni, dopo essere rimasto muto e immobile per
parecchie ore; la sua morte ci ha portato i più cupi presentimenti e prodotto su di noi un’impressione così forte
che siamo rimasti tutto il giorno vicino al cadavere senza
fare un movimento, senza scambiarci una parola, se non
a voce molto bassa. Solo al calar della notte ci siamo decisi
finalmente ad alzarci e a gettare il cadavere fuoribordo.
Il suo aspetto era così ripugnante e la decomposizione già
così avanzata che quando Peters lo sollevò una gamba del
morto gli restò in mano. Quando tutta quella carne putrefatta fu gettata in mare, il chiarore fosforescente che
circondava la nave illuminò sette o otto enormi pescecani
e, quando s’impadronirono della miserabile preda, lo
scricchiolio di quei denti formidabili si sarebbe potuto
udire alla distanza di un miglio. A quel rumore ci sentimmo stringere il cuore da un orrore indicibile.
2 agosto. La stessa calma spaventosa, lo stesso caldo;
l’alba ci trova in uno stato di grande depressione e de126
bolezza fisica, perché l’acqua della brocca è inutilizzabile; non è che una spessa massa di gelatina, un miscuglio
ributtante di vermi e melma, che abbiamo gettato in
mare, e, dopo averla risciacquata ben bene nell’acqua
marina, vi abbiamo versato un po’ d’aceto prelevato dai
nostri vasetti con la carne di tartaruga.
La sete è diventata quasi intollerabile: abbiamo cercato
di spegnerla col vino, ma era come gettare olio sul fuoco
e ci siamo pesantemente ubriacati; abbiamo pure tentato
di alleviare la sofferenza mescolando al vino dell’acqua
di mare, ma quel miscuglio ci ha provocato nausee così
spaventose che non abbiamo più provato. La giornata è
trascorsa a spiare con ansia il momento in cui potevamo
bagnarci, ma invano, perché il relitto del brigantino era
circondato da ogni lato da una schiera di pescecani, gli
stessi senza dubbio che la sera precedente avevano divorato il nostro povero amico, e che attendevano, da un
momento all’altro, venisse offerto loro un nuovo banchetto. Questa constatazione ci ripiombò nel peggiore
sconforto, perché non potevamo rinunciare a quell’unico
conforto in quelle condizioni così spaventose. Del resto,
anche sul ponte non eravamo più sicuri, poiché il più
piccolo passo falso, il più imprudente movimento potevano abbandonarci in balìa di questi mostri voraci, che
si avvicinavano sotto vento e che le nostre grida e i nostri
gesti non sembravano spaventare. Peters aveva assestato
un colpo d’ascia a uno dei più grossi, ferendolo seriamente, ma questo continuava la sua caccia. Al tramonto
il cielo si è annuvolato, ma con nostra disperazione le nuvole sono passate senza scaricare pioggia e il tormento
della sete e la paura dei pescecani ci hanno portato una
lunga notte d’insonnia.
127
3 agosto. Nessuna speranza di sollievo. Il brigantino è
sempre più sbandato e non possiamo più stare in piedi.
Abbiamo sistemato in un unico punto il vino e i vasetti
con la tartaruga, in modo da non perderli nel caso la
nave facesse altri bruschi movimenti, e a questo scopo
abbiamo recuperato due grossi chiodi e li abbiamo piantati con l’ascia nella chiglia sotto vento, appendendoci
le provviste. La sete continua a tormentarci e non troviamo sollievo, tanto più che non possiamo bagnarci per
via dei pescecani che non ci hanno lasciato mai in pace.
4 agosto. Poco prima dell’alba ci siamo accorti che il brigantino cominciava a volgere la chiglia in alto e abbiamo
cercato di evitare di essere travolti. La rotazione si è
svolta prima lentamente e gradualmente, permettendoci
di risalire dalla parte del vento, perché ci eravamo premurati di assicurare delle cime ai chiodi cui erano appese le nostre provviste. Ma non avevamo previsto
l’accelerazione del movimento, che in breve ci scaraventò in mare, lasciandoci a dibatterci sotto l’enorme
chiglia, rovesciata su di noi.
Cadendo ero stato costretto ad abbandonare la cima e,
vedendomi immerso sotto il brigantino, completamente
sfinito, persi ogni speranza e mi rassegnai a morire. Ma
la nave continuava e oscillare muovendo l’acqua, che mi
riportò in superficie e mi trascinò a circa venti yard. Peters era scomparso. Ad alcuni passi da me galleggiava
un barile d’olio e vicino altri oggetti, provenienti dal brigantino.
Temevo soprattutto i pescecani, perché sapevo che dovevano essere vicini e, per allontanarli da me, battevo
l’acqua coi piedi e le mani, producendo molta schiuma,
cercando al contempo di raggiungere il relitto. Ed è a
128
quest’espediente, così semplice e naturale, che certamente devo la mia salvezza, perché il mare intorno al brigantino era talmente infestato da questi mostri prima che
cadessimo in acqua, che avrei dovuto essere attaccato.
Ebbi invece la fortuna di arrivare incolume, ma, privo di
forze, non avrei mai potuto scalare la chiglia senza il
provvidenziale intervento di Peters che, aggrappato dalla
parte opposta, mi lanciò una di quelle cime che avevamo
assicurato ai chiodi.
Appena sfuggiti agli squali, un altro pericolo ci si prospettò, non meno imminente e spaventoso, quello di morire di fame, perché le provviste erano state strappate dalla
furia dell’acqua, malgrado i nostri sforzi per assicurarle.
Di fronte a quell’ennesima sventura, demmo libero sfogo
alla nostra disperazione, piangendo come bambini, senza
trovare la forza di consolarci l’un l’altro. Una tale debolezza parrà forse inverosimile a quelli fra i nostri lettori che
non si sono mai trovati in simili circostanze, ma bisogna
pensare alle tante disgrazie che avevamo dovuto sopportare e che ci avevano fatto perdere il lume della ragione.
Io ho affrontato in seguito pericoli altrettanto gravi, e ho
sempre resistito con coraggio alle avversità; quanto a Peters, il lettore dovrà facilmente convenire che aveva dato
prova di uno stoicismo incredibile, che compensava e giustificava la depressione e la debolezza presente.
Il capovolgimento del brigantino e la perdita del vino e
della tartaruga – ripeto ancora una volta – ci avevano
sprofondato in una tremenda angoscia, tanto più che con
essi era scomparso il telo che ci serviva a raccogliere la
pioggia, come pure la brocca in cui la conservavamo. Trovammo però lo scafo e la chiglia della nave rivestiti da
uno spesso strato di conchiglie, che si rivelarono un ali129
mento saporito e di grandi qualità nutritive. Così la sventura che ci aveva tanto angosciato si traduceva per noi in
un bene, perché ci forniva cibo a sufficienza per un mese,
a condizione che ne facessimo uso moderato; adesso,
inoltre, stavamo in una posizione più comoda e meno pericolosa rispetto a prima.
L’impossibilità di bagnarci però ci faceva dimenticare i
vantaggi dalla nostra nuova situazione; volendo sfruttare
la prima pioggia che fosse caduta, ci togliemmo le camicie per usarle come avevamo fatto col telo, sperando
di raccoglierne almeno una mezza brocca per volta. Ma
la giornata trascorse senza che una nuvola facesse la sua
comparsa e la tortura della sete divenne presto intollerabile. Nel giro di un’ora Peters riuscì ad addormentarsi, seppure di un sonno agitato, ma per mela
sofferenza era tale che non potei mai chiudere occhio.
5 agosto. Quel giorno si alzò una leggera brezza che ci
spinse verso un grande banco di alghe, dove avemmo la
fortuna di pescare undici piccoli granchi che ci procurarono pasti davvero deliziosi. La loro testa era tenerissima, cosicché potevamo mangiarli tutti interi; inoltre,
stimolavano la sete molto meno delle conchiglie che avevamo trovato nella chiglia. Fra quelle alghe non si vedevano squali, così potemmo fare un bagno rinfrescante
che portò sollievo alla sete. La sera eravamo più tranquilli e potemmo dormire un po’.
6 agosto. Il cielo fu veramente benevolo con noi quel
giorno, con una pioggia che durò senza interruzione da
mezzogiorno fino a notte e, davanti a quell’insperata fortuna, rimpiangemmo amaramente la perdita della brocca
e della damigiana, perché avremmo potuto riempire uno
o anche due recipienti. Ma almeno potemmo finalmente
130
soddisfare la sete che ci tormentava e, rianimati e contenti, lasciammo che le nostre camicie s’impregnassero
d’acqua, per poi torcerle in modo da far scivolare in
bocca quel benedetto liquido. Tutta la giornata trascorse
in quest’occupazione.
7 agosto. Appena spuntata l’alba avvistammo, tutti e due
contemporaneamente, una vela che avanzava verso di
noi da est e salutammo la prodigiosa apparizione con
un lungo, ma debole grido di gioia; poi cercammo di
fare tutti i segnali possibili, agitando le camicie, saltando
per quanto ci permettesse lo sfinimento, gridando anche
con tutta la forza dei nostri polmoni, sebbene la nave
fosse a non meno di quindici miglia. Continuava ad avvicinarsi e presto ci rendemmo conto che se avesse tenuto la stessa rotta, sarebbe passata abbastanza vicino
da poterci vedere e venire a salvarci. Infatti, un’ora dopo
la grandiosa scoperta, potemmo scorgere distintamente
gli uomini dritti sul ponte; si trattava di una lunga e
bassa goletta che sembrava tuttavia contare un equipaggio molto numeroso. Eravamo molto agitati perché temevamo che non ci vedessero, o che avessero deciso
lasciarci morire sul nostro relitto. Sarebbe stato certamente un diabolico crimine; ma per quanto possa sembrare inverosimile e inumano, una tale scelleratezza è
stata compiuta tante volte in mare, da esseri appartenenti a pieno titolo alla razza umana; io stesso potrei citare numerosi esempi, se non temessi di allontanarmi
troppo dal soggetto del mio racconto.
Grazie a Dio, in quell’occasione i nostri timori furono
smentiti e presto vedemmo gli uomini agitarsi sul ponte
della nave, che subito issò la bandiera britannica e, stringendo il vento, virò dritta verso di noi. Mezz’ora dopo
131
eravamo nella cabina della goletta Jane Guy, di Liverpool, comandata dal capitano Guy e partita per la caccia
alla foca e per ragione di commercio verso i mari del sud
e le isole del Pacifico.
Capitolo 14
La Jane Guy era una piccola goletta di forse centottanta
tonnellate di stazza. Con la prua particolarmente filante,
mi sembrò il veliero più veloce che avessi mai visto, a
vele spiegate e con vento moderato. Le sue caratteristiche, in particolare il modesto pescaggio, non erano
molto adatte all’uso cui era stata destinata. Per quel tipo
di spedizione sarebbe stata più adatta un’imbarcazione
più grande, con un tonnellaggio dalle trecento alle cinquecento tonnellate. Avrebbe dovuto avere la struttura
di un brigantino, diversa da quella delle navi dei mari
del sud. Avrebbe dovuto contare su un altro armamento, ancore e cavi molto più robusti e, soprattutto,
cinquanta o sessanta marinai robusti ed esperti. L’equipaggio della Jane Guy, al contrario, si componeva di
trenta-trentacinque uomini, più il capitano e il secondo,
tutti senza dubbio bravi marinai, ma non era – ripeto –
né bene armata né bene equipaggiata come avrebbe dovuto esigere un comandante esperto dei rischi di quel
mestiere.
Il capitano Guy era uomo molto gentile e affabile, con
grande esperienza di navigazione nei mari del sud, dove
aveva passato gran parte della sua vita. Gli mancavano
però l’energia e l’intraprendenza necessarie in quel genere di viaggi. Era comproprietario della nave e aveva
132
poteri discrezionali per caricare tutte le merci che ritenesse opportuno. Aveva a bordo specchietti, fiammiferi,
asce, martelli, forbici, lime, rasoi, chiodi e una congerie
di altri strumenti e gingilli che si usava portare, come
merce di scambio in quelle spedizioni.
La goletta era partita da Liverpool il 10 luglio, aveva attraversato il tropico del Cancro il 25, a 20° di longitudine ovest e il 29 luglio era approdata all’isola di Sal
(una delle isole di Capo Verde), dove aveva imbarcato
sale e altre provviste necessarie alla spedizione. Il 3 agosto era ripartita, facendo rotta a sud-ovest in direzione
del Brasile, passando l’equatore tra i 28 e i 30° di longitudine ovest. Questa è la rotta normalmente seguita
dalle navi che dall’Europa vanno verso il Capo di Buona
Speranza, o da quelle che si dirigono, per questa via, alle
Indie Orientali, perché ciò permette di evitare le correnti contrarie molto forti lungo la costa della Guinea.
È la rotta migliore perché si trovano sempre venti da
ovest col favore dei quali si raggiunge velocemente il
capo. L’intenzione del capitano Guy era di fare il primo
scalo alla terra di Kerguelen, ignoro per quale ragione.
Il giorno in cui la goletta ci raccolse era al traverso di
Capo San Rocco, a 31° di longitudine ovest, e di conseguenza noi avevamo probabilmente percorso, da nord
a sud, non meno di venti gradi.
A bordo della Jane Guy venimmo accolti con tutta
l’umanità che necessitava la nostra drammatica situazione e in capo a una quindicina di giorni, durante i
quali tenemmo rotta costante verso sud-est, con un
buon vento e bel tempo, io e Peters ci riprendemmo
completamente dalle sventure e dalle orribili sofferenze
patite, cosicché il loro ricordo ci apparve presto come
133
un brutto incubo da cui ci eravamo finalmente svegliati,
piuttosto che fatti realmente accaduti.
Il viaggio continuò per più settimane senza fatti di rilievo, se non per l’incontro di qualche baleniera, o, più
spesso, di balene o capodogli. Il 16 settembre, vicino al
Capo di Buona Speranza, la goletta incontrò le prime
serie difficoltà dalla partenza da Liverpool. In quel
tratto di mare, ma ancora di più a sud e a est del capo –
noi invece ci trovavamo ancora a ovest – i naviganti sono
spesso travolti da tempeste da nord, di una violenza spaventosa, tempeste che generano ondate enormi e caratterizzate da colpi di vento improvvisi e di una violenza
incredibile.
Erano quasi le sei del mattino quando giunse il vento da
nord, come di consueto, annunciando una forte burrasca; alle otto si alzò il mare peggiore che avessi mai visto;
fu necessario ridurre quanto più possibile le vele, ma la
goletta avanzava a fatica, rivelandosi poco adatta a reggere quelle condizioni. Prima del tramonto, il nero che
spiavamo con inquietudine si allargò a sud-ovest e
un’ora dopo vedemmo il fiocco a prua abbattersi e penzolare a ridosso dell’albero di maestra. Non erano passati neanche due minuti che, nonostante tutte le
precauzioni, ci trovammo improvvisamente sbandati su
un fianco e un finimondo di acqua e schiuma si rovesciò
su di noi. La raffica da sud-ovest durò poco e per fortuna ci raddrizzammo senza gravi danni. Il capitano
Guy disse, a ragione, che avevamo evitato un disastro
solo per un miracolo.
Il 13 ottobre avvistammo l’isola del Principe Edoardo, a
46° 53’ di latitudine sud e a 37° 46’ di longitudine est; due
giorni dopo giungemmo nei pressi dell’isola della Posses134
sione e doppiammo le isole Crozet, a 42° 59’ di latitudine
sud e a 48° di longitudine est; il 18 ottobre raggiungemmo
l’isola di Kerguelen o della Desolazione, nell’Oceano Indiano meridionale e gettammo l’ancora nel porto di Christmas, in quattro braccia d’acqua.
Quest’isola, o piuttosto quest’arcipelago, a ottocento
leghe circa dal Capo di Buona Speranza, fu scoperta nel
1772 dal barone di Kerguelen, un francese che s’immaginò che quella terra facesse parte di un vasto continente
australe e pubblicò nel suo paese un memoriale che sollevò all’epoca grande curiosità. L’anno dopo il governo
francese, interessato a quella scoperta, incaricò il barone
di tornare da quelle parti per approfondire le sue ricerche e fu allora che l’errore venne accertato. Nel 1777 il
capitano Cook raggiunse lo stesso arcipelago e battezzò
l’isola più grande col nome di isola della Desolazione,
nome perfettamente azzeccato. Appena sbarcato, il viaggiatore è quasi tentato di supporre il contrario perché,
da settembre a marzo, le colline dell’isola sono coperte
da una lussureggiante vegetazione dovuta in gran parte
a una piccola pianta simile alla sassifraga che si propaga
con facilità a queste latitudini. A parte questa pianta, non
si trovano altre specie vegetali in tutta l’isola e solo vicino
al porto si può vedere un po’ d’erba rinsecchita, mista a
licheni, che danno al paesaggio il desolante aspetto di un
luogo montagnoso, sebbene i rilievi siano solo colline.
Le cime sono coperte di neve, dal principio alla fine
dell’anno, e la costa presenta parecchi porti, di cui il migliore è quello di Christmas. È questo il primo porto che
s’incontra nella parte nord orientale dell’isola, dopo aver
passato il Capo François, la cui profilo caratteristico contrassegna il porto.
135
Procedendo verso est si trova Wasp Bay, una piccola
baia circondata da ogni parte. In fondo a Wasp-Bay si
trova un piccolo ruscello, in cui è facile fare provvista
di un’acqua buonissima.
Nell’isola di Kerguelen si trovano alcune specie di foche
a pelo lungo e abbondano anche gli elefanti marini; anche
i pinguini sono numerosi, specialmente il pinguino reale,
così chiamato in ragione delle sue dimensioni e del suo
bel piumaggio. I pinguini reali che avemmo occasione di
vedere a Kerguelen erano un po’ più grossi delle oche.
Le altre specie sono il pinguino macaoni, il jackass, e il
rookerg. Oltre al pinguino, si trovano anche molti altri
uccelli, fra cui la procellaria azzurra, l’alzavola, la gallina
di Port Egmont, la rondine di mare, la procellaria della
tempesta, la grande procellaria, l’albatros, e così via.
Il mattino stesso del nostro arrivo al porto di Christmas,
il signor Patterson fece calare in mare le barche e, sebbene non fosse ancora la stagione giusta, partimmo per
la caccia alle foche, lasciando il comandante e un suo
giovane parente in un punto della costa occidentale, da
dove dovevano partire per una missione all’interno dell’isola, di cui non conoscevo la natura. Il capitano Guy
aveva con sé una bottiglia con una lettera sigillata e s’incamminò dalla spiaggia verso una delle alture. Appena
lo perdemmo di vista, Peters e io, nella barca con il secondo, ci mettemmo alla ricerca delle foche, e restammo
in quella zona per circa tre settimane, durante le quali
esplorammo tutta la costa, non solo dell’isola di Kerguelen, ma anche delle altre piccole isole vicine.
I nostri sforzi, tuttavia, non dettero grandi risultati: incontrammo, è vero, molte foche, ma con grande fatica
riuscimmo a mettere insieme solo trecentocinquanta
136
pelli. Gli elefanti di mare erano molto numerosi, particolarmente sulla costa occidentale dell’isola principale,
ma non si riuscimmo a ucciderne più di una ventina. Il
21 ottobre tornammo a bordo della goletta, dove trovammo il capitano Guy e suo nipote che ci fecero un
quadro ben poco seducente dell’interno dell’isola, che
descrissero come una delle più cupe e sterili regioni della
terra. Avevano trascorso due notti nell’isola per un malinteso col secondo, che non aveva inviato in tempo una
scialuppa per riportarli a bordo.
Capitolo 15
Il 12 novembre noi salpammo da Christmas e tornammo verso ovest, lasciando a babordo l’isola Marion,
una delle isole dell’arcipelago di Crozet. Dopo aver doppiato l’isola del Principe Edoardo, mettemmo la prua a
nord e giungemmo, quindici giorni dopo, all’arcipelago
di Tristan d’Acunha. La più grande delle isole, che porta
questo nome, ha una circonferenza di quindici miglia
ed è così alta che può essere avvistata da una distanza
di ottanta-novanta miglia. Un grande altipiano si
estende fin verso il centro dell’isola, su cui si erge un altissimo cono vulcanico, simile al picco di Tenerife. La
base di questo cono è coperta dalla vegetazione, ma la
parte superiore è costituita da roccia brulla e coperta di
neve per gran parte dell’anno. Sulla costa nord-occidentale si trova una baia, con una spiaggia di sabbia nera
dove le navi possono facilmente approdare. Qui è facile
procurarsi dell’acqua e pescare merluzzi e altri pesci.
L’altra isola più grande, e la più occidentale dell’arcipe137
lago, si chiama Inaccessibile; le coordinate sono 37° 17’
di latitudine sud e 12° 24’ di longitudine ovest; conta sette
o otto miglia di circonferenza e la costa è arida e brulla
da ogni lato. L’isola di Nightingale, la più piccola e la più
meridionale, si trova a 37° 26’ di latitudine sud e a 12°
12’ di longitudine ovest; il territorio è accidentato e sterile, attraversato da una profonda vallata. Le coste di quest’isola, durante la stagione, abbondano di leoni ed
elefanti marini e di foche, oltre a una grande varietà di
uccelli oceanici. Nelle sue acque incrociano molte balene.
Il 20 novembre, con tempo variabile, riprendemmo
quindi la nostra rotta in direzione sud-ovest, dove si doveva trovare la più meridionale delle isole dell’arcipelago;
non scorgendo intorno a noi alcuna terra, continuammo
verso ovest, seguendo il parallelo a 53° sud fino a 50° di
longitudine, ovest. Mettemmo poi la prua a nord fino al
52° di latitudine sud, poi verso est fino alla costa di Georgia, seguendo questo meridiano fino alla latitudine da
cui eravamo partiti. Facemmo allora più diagonali attraverso l’area di mare che avevamo circoscritto, effettuando minuziosi rilevamenti per la durata di tre
settimane con un tempo sereno e piacevole. Ci convincemmo così che, se in epoche precedenti erano esistite
terre da quelle parti, adesso non ne restava più traccia
Capitolo 16
In origine il capitano Guy, dopo aver soddisfatto la sua
curiosità sulle isole Auroras, intendeva doppiare lo
stretto di Magellano e risalire lungo la costa occidentale
della Patagonia, ma certe informazioni ottenute a Tristan
138
d’Acunha lo convinsero a fare rotta verso sud, nella speranza di imbattersi in alcuni isolotti che dovevano trovarsi a 60° di latitudine sud, 41° 20’ di longitudine ovest.
Se non avessimo scoperto quelle terre e se il tempo fosse
stato favorevole, si riprometteva di puntare verso il Polo
sud. Così il 12 dicembre salpammo in quella direzione.
Il diciotto raggiungemmo il punto indicato da Glass e
incrociammo per tre giorni nella zona, senza scorger
traccia delle isole di cui aveva parlato. Ripartiti il 21, visto
il tempo eccezionalmente sereno, riprendemmo il viaggio verso sud, decisi a spingerci il più possibile lungo
quella rotta. Prima di inoltrarmi in questa parte del racconto ritengo opportuno, per quei lettori che hanno prestato scarsa attenzione al susseguirsi delle scoperte in
quelle regioni, dare un breve resoconto dei rarissimi tentativi finora compiuti per raggiungere il Polo sud.
Quello del capitano Cook è il primo del quale si abbia
una relazione dettagliata. Nel 1772 salpò sul Resolution
verso sud, accompagnato dall’Adventure, sotto il comando del tenente Furneaux. In dicembre era giunto a
55° di latitudine sud e 26° 57’ di longitudine est. Da lì
in poi cominciò a incontrare banchi di ghiaccio di piccole dimensioni, spessi da otto a dieci pollici, che si
muovevano da nord-ovest verso sud-est. Il ghiaccio si
presentava anche in grandi blocchi, attraverso i quali le
navi faticavano ad aprirsi un varco. Dati i moltissimi uccelli che vennero avvistati e grazie anche ad altri indizi,
il capitano Cook credette di essere nelle immediate vicinanze della terraferma. Con un freddo intenso continuò verso sud, fino a raggiungere il 64mo parallelo, a
38° 14’ di longitudine est. I venti erano ora moderati e
il clima si mantenne mite per cinque giorni, con il ter139
mometro fermo sui 2°F. Nel gennaio 1773 le navi superarono il Circolo polare antartico, ma non poterono
spingersi più a sud; infatti, una volta raggiunta la latitudine di 67° 15’, la strada era sbarrata senza rimedio da
un’enorme distesa di ghiaccio, che si estendeva su tutto
l’orizzonte meridionale, a perdita d’occhio. Il ghiaccio
era ovunque. Enormi banchi, che si estendevano per miglia e miglia, formavano una massa compatta che s’innalzava di diciotto o venti piedi sul livello del mare. La
stagione inoltrata e l’assoluta impossibilità di aggirare
questi ostacoli costrinsero il capitano Cook, sia pure
controvoglia, a riprendere la rotta verso nord.
Nel novembre successivo riprese comunque l’esplorazione dell’Antartico. A 59° 40’ di latitudine s’imbatté in
una forte corrente che portava a sud. A dicembre,
quando le navi avevano raggiunto 67° 31’ di latitudine
e 142° 54’ di longitudine ovest, il freddo si fece più intenso, accompagnato da nebbia e da temporali. Anche
qui c’erano tantissimi uccelli: albatros, pinguini e soprattutto procellarie. A 70° 23’ di latitudine le navi incontrarono alcuni enormi isole di ghiaccio e poco dopo,
verso sud, furono avvistate nuvole bianche come la
neve, segno che la banchisa era vicina. A 71° 10’ di latitudine, 106° 54’ di longitudine ovest, gli esploratori trovarono il cammino sbarrato da un immenso mare di
ghiaccio, che si estendeva per tutto l’orizzonte meridionale. A sud, quella distesa continuava per un miglio
circa; a nord era tutta frastagliata, ma talmente compatta
da risultare invalicabile. Oltre questa fascia, la superficie
ghiacciata continuava a essere relativamente liscia ancora per un buon tratto, innalzandosi poi all’orizzonte
estremo in gigantesche catene di montagne di ghiaccio,
140
che s’innalzavano una sull’altra. Secondo il capitano
Cook questa distesa così vasta raggiungeva il Polo sud,
o forse si trovava collegata a un continente. J.N. Reynolds, che con grandi sforzi e perseveranza riuscì a organizzare una spedizione nazionale per esplorare anche
quelle regioni, parlando del tentativo del Resolution
disse: «Non ci sorprende che il capitano Cook non sia
riuscito a oltrepassare i 71° 10’, mentre siamo stupiti che
abbia raggiunto quel punto a 106° 54’ di longitudine
ovest. La penisola di Palmer, che si trova a sud delle
Shetland, a 64° di latitudine, a sud e a ovest si estende
ben oltre i limiti raggiunti da qualunque navigatore.
Cook puntava su questa terra, quando la sua avanzata
venne fermata dal ghiaccio; riteniamo ciò inevitabile, a
quella latitudine, anche al 6 di gennaio, e dunque
quando la stagione è all’inizio; né ci sorprenderebbe che
una parte delle montagne ghiacciate descritte fosse unita
alla parte continentale della penisola di Palmer, o a qualche altro territorio situato più avanti a sud-ovest».
Nel 1803 i comandanti Kreutzenstern e Lisiausky ricevettero l’incarico dallo zar Alessandro di Russia di circumnavigare il globo. Nei loro tentativi di spingersi a
sud arrivarono fino ai 59° 58’, 70° 15’ di longitudine
ovest, dove trovarono delle forti correnti che li spingevano a est. Di balene ce n’erano in quantità, ma di ghiaccio non ne videro affatto. Reynolds, a proposito di
questo viaggio, fa notare che se Kreutzenstern fosse arrivato in quella zona a stagione meno tarda, avrebbe
senza dubbio trovato del ghiaccio, ma quando toccò la
latitudine sopra citata era marzo. I venti più forti, che
soffiano in quel periodo da sud-ovest, con l’aiuto delle
correnti avevano spinto i lastroni di ghiaccio nella re141
gione glaciale delimitata a nord dalla Georgia, a est dalla
Terra di Sandwich e dalle Orcadi australi, e a ovest dalle
Shetland australi.
Con due piccole navi, nel 1822 il capitano James Weddell della Marina Britannica riuscì ad andare più a sud
di qualsiasi altro navigatore in precedenza, senza incontrare particolari difficoltà. Riferisce che, pur trovandosi
in più occasioni prigioniero del ghiaccio prima del 72mo
parallelo, una volta raggiuntolo non ne vide più nemmeno un cristallo; arrivato a 74° 15’ di latitudine era
sparita anche la banchisa e restavano soltanto tre isole
di ghiaccio. Per quanto comparissero numerosi stormi
di uccelli e altri segni, che di norma indicano la presenza
di terraferma, e per quanto l’uomo di guardia in coffa
avesse avvistato coste sconosciute a sud delle Shetland,
Weddell stranamente si mostrò scettico sull’esistenza di
terre nelle regioni antartiche.
L’11 gennaio 1823 il capitano Benjamin Morrell, al comando della goletta americana Wasp, salpò dalla Terra di
Kerguelen con l’intenzione di spingersi a sud quanto più
possibile. Il primo febbraio raggiungeva i 64° 52’ di latitudine sud e i 118° 27’ di longitudine est. Il brano che segue
è tratto dal suo diario, in quella data: «Poiché ben presto
la brezza rinfrescò in un vento da undici nodi, sfruttammo
questa possibilità per dirigerci verso ovest; convinti però
che, avanzando verso sud oltre i 64° di latitudine, avremmo
trovato quantità di ghiaccio sempre minore, puntammo in
quella direzione, superando così il Circolo Antartico a 69°
15’ est. A questa latitudine non c’era banchisa, e di isole di
ghiaccio se ne vedevano pochissime».
In data 14 marzo si legge poi: «Il mare era ormai completamente libero dalla banchisa e si vedevano non più
142
di una dozzina di isole di ghiaccio. La temperatura dell’aria e dell’acqua intanto era di almeno tredici gradi superiore alla massima (dunque più mite) che avessimo
mai registrato tra il 60mo e il 62mo parallelo sud. Ci trovavamo allora a 70° 14’ di latitudine sud; la temperatura
dell’aria era di otto gradi, quella dell’acqua di sei. In
quel punto calcolai una variazione di 14° 27’ verso est
per azimut. Ho superato il Circolo Antartico diverse
volte, all’altezza di vari meridiani, verificando nelle varie
misurazioni che sia la temperatura dell’aria sia quella
dell’acqua aumentavano gradualmente man mano che
procedevo oltre il 65° di latitudine sud, e che la variazione diminuiva nella medesima proporzione. A nord
di questa latitudine invece, più o meno tra il 60° e il 65°
sud, eravamo spesso in gran difficoltà a trovare un varco
per la nave tra le immense e numerosissime isole di
ghiaccio, alcune delle quali misuravano uno e forse due
miglia di circonferenza, e più di cinquecento piedi di altezza sul livello del mare».
A bordo, il capitano Morrell aveva quasi terminato l’acqua
e il combustibile; trovandosi anche senza gli strumenti
adatti, e in una stagione avanzata, nell’impossibilità di
spingersi ancora verso ovest fu costretto a tornare indietro,
anche se davanti a lui il mare si stendeva aperto. A suo parere, se quelle cause di forza maggiore non l’avessero costretto al rientro, avrebbe potuto arrivare, se non proprio
fino al Polo, almeno sino all’85mo parallelo. Ho riportato
le sue opinioni in merito, dando loro un certo spazio, in
modo che il lettore possa giudicare fino a che punto saranno confermate dalle mie esperienze future.
Il capitano Briscoe, al servizio degli Enderby, armatori
londinesi di baleniere, nel 1831 salpò con il brigantino
143
Lively alla volta dei mari del sud, avendo come scorta il
cutter Tula. Il 28 febbraio, a 66° 30’ di latitudine sud e
47° 13’ di longitudine est, avvistò terra, «distinguendo in
modo chiaro tra le nevi le vette nere di una catena di
montagne che andava in direzione est-sud-est». Rimase
in quei paraggi per l’intero mese seguente, ma il maltempo gli impedì di avvicinarsi a meno di dieci leghe dalla
costa. Data la stagione, non potendo fare altre scoperte,
tornò a nord, per svernare nella Terra di Van Diemen.
All’inizio del 1832 si spinse ancora a sud, avvistando terra
a sud-est il 4 febbraio, a 67° 15’ di latitudine e 69° 29’ di
longitudine ovest. Si accorse presto che si trattava di
un’isola vicina al corpo principale della terra da lui stesso
scoperta e, riuscito a sbarcare il ventuno del mese, ne
prese possesso in nome di Guglielmo IV, chiamandola
isola Adelaide in onore della regina d’Inghilterra. La
Royal Geographical Society di Londra, non appena ottenute le informazioni sui particolari della scoperta, giunse
alla conclusione che «un tratto ininterrotto di terra si
estende da 47° 30’ di longitudine est fino a 69° 29’ di longitudine ovest, tra il 66mo e il 67mo parallelo di latitudine
sud». Intorno a queste conclusioni, Reynolds osserva:
«Non concordiamo sulla loro esattezza, né le scoperte di
Briscoe consentono di arrivare a simili conclusioni. Fu
proprio entro tali limiti che Weddell avanzò verso sud,
lungo un meridiano a est della Georgia, della Terra di
Sandwich, delle Orcadi australi e delle isole Shetland».
La mia esperienza diretta darà ulteriori prove dell’infondatezza delle conclusioni raggiunte dalla Society.
A partire da questo resoconto, nel quale sono stati citati
i principali tentativi di giungere fino alle più estreme latitudini meridionali, si capirà che prima del viaggio della
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Jane Guy rimanevano quasi trecento gradi di longitudine
lungo i quali il Circolo Antartico non era mai stato percorso. Un ampio territorio attendeva dunque che noi lo
esplorassimo e ascoltai quindi con profondo interesse il
capitano Guy dichiarare le sue intenzioni di puntare, coraggiosamente, verso sud.
Capitolo 17
Dopo aver dunque rinunciato alla scoperta delle isole,
per la durata di quattro giorni ci spingemmo verso sud,
senza incontrare ghiacci: il 26 dicembre a mezzogiorno,
a 63° 23’ di latitudine sud e a 41° 25’ di longitudine ovest,
scorgemmo alcune grandi isole e una distesa di ghiaccio
di media estensione; il vento soffiava da sud-ovest o da
nord-est, ma molto debole; i venti da ovest erano rari e
sempre accompagnati da pioggia; avevamo tutti i giorni
la neve e il 27 dicembre il termometro segnava 35°F.
1° gennaio 1828. Oggi siamo completamente circondati
dai ghiacci e le prospettive non sono per niente rassicuranti: una violenta tempesta ha soffiato dal nord-est per
tutta la mattina, spingendo grossi blocchi di ghiaccio
contro il timone e la poppa con tanta violenza, da farci
temere conseguenze fatali. Verso sera la tempesta infuriava ancora, ma a un certo punto l’enorme massa di
ghiaccio che ostruiva il paesaggio si è aperta in due; spiegando tutte le vele, siamo riusciti ad aprirci un varco attraverso iceberg di dimensioni minori, fino al mare
libero; man mano che ci avvicinavamo, riducevamo le
vele e, una volta oltrepassato l’ostacolo, siamo rimasti
con la vela di trinchetto e una sola mano di terzaroli.
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2 gennaio. Tempo accettabile. A mezzogiorno eravamo
a 60° 10’ di latitudine sud e a 42° 20’ longitudine ovest,
avendo attraversato il Circolo polare antartico. Pochissimo ghiaccio in vista nella costa del sud, benché vi fossero grandi banchi alle nostre spalle. Abbiamo
fabbricato una specie di scandaglio usando un vaso di
ferro della capacità di venti galloni circa. Abbiamo trovato una corrente da nord di una velocità di un quarto
di miglia all’ora. Temperatura 33°F.
5 gennaio. Avanziamo sempre verso sud senza ostacoli
seri. Al mattino tuttavia ci siamo trovati di nuovo davanti
a una distesa di ghiaccio; al di là un tratto di mare libero
che disperavamo di raggiungere. Abbiamo virato a est,
costeggiando la banchisa e abbiamo finito per scoprire
un varco di quasi un miglio di larghezza ove ci siamo addentrati al calar del sole. Il mare in cui ci troviamo è disseminato di iceberg, ma non è più banchisa compatta,
per cui osiamo spingerci avanti.
7 gennaio. Il mare si mantiene abbastanza libero e proseguiamo la navigazione senza ostacoli; abbiamo scorto
a ovest alcuni enormi iceberg e a mezzogiorno siamo
passati molto vicini a uno di essi; nel punto più alto doveva misurare almeno cento braccia sopra il livello del
mare, aveva forse tre quarti di lega di circonferenza, e i
fianchi erano disseminati di cascate. Siamo rimasti a ridosso di quell’isola di ghiaccio per due giorni, dopo di
che è sparita in una densa nebbia.
10 gennaio. Al mattino, molto presto, abbiamo avuto la
sventura di perdere un uomo che è caduto in mare. Era
un americano, Peters Vredenburgh, di New York, ed era
considerato come uno dei migliori marinai di bordo. Era
a prua, quando un piede gli è scivolato ed è caduto fra
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due blocchi di ghiaccio senza più riemergere. Fa molto
freddo e siamo continuamente investiti da raffiche di
vento e ghiaccio provenienti dal nord e da est. Incontriamo enormi iceberg, l’orizzonte sembra un muro di
ghiaccio. La sera abbiamo incrociato delle assi di legno
portate dalla corrente e in alto volava una grande quantità
d’uccelli, fra i cui procellarie, albatros e un grosso uccello
dalle penne azzurre e lucide.
12 gennaio. Avanzare verso sud-est è ancora molto difficile, perché da qualunque parte volgiamo lo sguardo
vediamo una distesa infinita di ghiaccio, sormontata da
vere montagne dai picchi disposti degradanti uno sull’altro. Facciamo rotta a ovest nella speranza di scoprire
un passaggio.
14 gennaio. Stamani abbiamo raggiunto la punta della
distesa di ghiaccio che impediva il passaggio e, dopo
averla doppiata, ci siamo trovati in mare aperto, senza
più ostacoli. Abbiamo calato uno scandaglio di duecento braccia e misurato una corrente in direzione sud
di mezzo miglio all’ora. La deviazione per azimut è
scesa, la temperatura atmosferica è più dolce, nessuna
traccia di ghiaccio intorno a noi. A bordo tutti sono convinti che siamo vicini al polo.
17 gennaio. Giornata piena d’incidenti. Stormi di uccelli
volavano sopra di noi; ad alcuni abbiamo sparato dal
ponte della nave, fra cui una specie di pellicano, le cui
carni si sono rivelate commestibili. Poiché il tempo era
buono, il capitano Guy ha fatto calare due imbarcazioni
per esplorare un blocco di ghiaccio che sembrava occupato da un enorme animale. Dirk Peters e io accompagnavamo il secondo in una delle due scialuppe e,
avvicinandoci all’isolotto di ghiaccio, vedemmo che
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l’animale era un orso bianco di dimensione superiori
alla norma. Poiché eravamo bene armati, non abbiamo
esitato ad attaccarlo e gli abbiamo scaricato addosso i
nostri fucili. Ma l’orso apparentemente non ne ha risentito e, abbandonando il blocco di ghiaccio, si è lanciato
a nuoto con la bocca spalancata in direzione della barca
dove eravamo io e Peters. Restammo sorpresi da quella
reazione e, prima che avessimo il tempo di difenderci,
l’orso era già riuscito a montare per metà col suo corpo
massiccio nell’imbarcazione e ad afferrare uno dei nostri
uomini alla schiena senza che avessimo trovato il modo
di respingerlo. Fu la forza e l’agilità di Peters a salvarci,
altrimenti non saremmo scampati alla morte. Appoggiandosi sul dorso dell’enorme bestia, gli conficcò il coltello nella nuca, fino al cervello. L’orso sprofondò
nell’acqua, fulminato, senza neppure dibattersi, trascinando nella caduta Peters, che però riemerse subito e,
con una cima che gli avevamo lanciato, legò il corpo dell’animale. Tornammo a bordo trionfanti, rimorchiando
il nostro trofeo. Lo misurammo e contava più di quindici piedi di lunghezza; la sua pelliccia era perfettamente
bianca, con un pelo molto ruvido e crespo; gli occhi
erano colore rosso sangue, più grossi di quelli dell’orso
artico, e il muso più rotondo. La carne era tenera, ma
molto rancida e sapeva di pesce, il che non impedì agli
uomini dell’equipaggio di divorarla con grande appetito
e di dire che era buona.
Ci stavano godendo il nostro successo, quando udimmo
le grida di gioia dell’uomo di vedetta. Terra a tribordo!
Tutto l’equipaggio si mise in movimento... e, col favore
di un vento a favore da nord-est, in breve ci avvicinammo alla costa. Era un isolotto basso e roccioso, di
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circa una lega di larghezza, e del tutto privo di vegetazione, fatta eccezione di una specie di fico selvatico. Avvicinandoci da nord, scorgemmo una roccia di forma
bizzarra che si protendeva sul mare e che somigliava, in
modo strano, a una balla di cotone cardato. All’estremità meridionale raccogliemmo vicino alla riva, sepolta
per metà sotto un mucchio di pietre, un pezzo di legno
che sembrava una polena.
A parte quel frammento di prua, ammesso che fosse veramente una polena, nessun altro indizio faceva supporre che degli esseri umani avessero mai vissuto in
quell’isola; intorno, lontani, galleggiavano alcuni piccoli
blocchi di ghiaccio; l’isolotto, che il capitano Guy battezzò col nome di Bennet, in onore del suo socio, comproprietario della goletta, è situato a 82° 50’ di latitudine
sud e 42° 20’ di longitudine ovest.
Nella nostra rotta verso sud avevamo quindi superato di
otto gradi i punti raggiunti da tutti i navigatori che ci avevano preceduto e il mare davanti a noi si presentava completamente libero; costatammo, al contempo, che la
deviazione decresceva uniformemente, a misura che ci
spingevamo avanti, cosa più sorprendente ancora, tanto
più che, oltre alla temperatura atmosferica, anche quella
dell’acqua andava crescendo. Il tempo, infatti, era molto
gradevole e usufruivamo di un vento costante, ma debole.
Avevamo solo due problemi: il carburante che stava per
esaurirsi e dei sintomi di scorbuto manifestatisi tra gli uomini dell’equipaggio. Queste cose iniziavano a preoccupare il capitano Guy, che riteneva opportuno tornare
indietro e ne parlava continuamente. Quanto a me, ero
convinto che proseguendo su quella rotta non avremmo
tardato a incontrare una terra qualunque, e avevo ragione
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di credere che non vi avremmo trovato la desolazione
delle latitudini artiche. Lo consigliai vivamente di proseguire, almeno per alcuni giorni, nella rotta che avevamo
seguito fino ad allora, perché mai più avremmo avuto migliore occasione per risolvere il grande problema dell’esistenza di un continente antartico e confesso che ero molto
indignato di fronte alle obiezioni timide e intempestive
del nostro comandante. Non dubitavo che, alla fine, i
rimproveri che gli rivolgevo in continuazione l’avrebbero
incoraggiato a proseguire oltre. Così, pur deplorando i
drammatici e sanguinosi episodi, successi a seguito di
quei miei consigli, credo di potere essere a buon diritto
orgoglioso di aver contribuito, in una certa misura, a svelare agli occhi della scienza uno dei segreti più meravigliosi che mai abbiano attirato la sua attenzione.
Capitolo 18
18 gennaio. La mattina abbiamo proseguito la nostra rotta
verso sud, con un tempo molto bello e il mare completamente piatto. La temperatura dell’acqua era 53°F. Abbiamo calato in acqua il nostro scandaglio e abbiamo
verificato una corrente nella direzione del polo di un miglio l’ora. Questo costante concorso del vento e della corrente a spingere verso sud preoccupava non poco il
capitano Guy. Durante la giornata abbiamo avvistato diverse balene e molti stormi di albatros in volo sopra la
nave. Abbiamo anche ripescato un arbusto con delle bacche simili a quelle del biancospino, come pure la carcassa
di uno strano animale terrestre; misurava circa tre piedi
di lunghezza e sei soli pollici di altezza, con quattro
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gambe molto corte e piedi muniti di lunghi unghioli rossi
e brillanti, di una sostanza simile al corallo. Il corpo era
ricoperto di un pelo morbido e bianchissimo, la coda era
lunga quasi un piede e mezzo e fine come quella di un
topo. La testa somigliava a quella di un gatto, fatta eccezione per le orecchie, pendenti come quelle di un cane. I
denti erano dello stesso colore scarlatto delle unghie.
19 gennaio. Oggi, a 83° 20’ di latitudine sud e 43° 5’ di
longitudine ovest, con un mare molto cupo, l’uomo di
vedetta ha avvistato terra e, avvicinandoci, abbiamo costatato che si trattava di tre grandi isole. La costa era a
strapiombo e l’interno appariva molto boscoso e ce ne
rallegrammo. Quattro ore circa dopo la scoperta, gettammo l’ancora a una profondità di dieci braccia su un
fondo sabbioso a una lega dalla riva, perché gli alti frangenti rendevano pericoloso avvicinarsi troppo. Calammo in acqua le due imbarcazioni più grosse e un
plotone bene armato – di cui facevamo parte io e Peters
– si mise alla ricerca di un passaggio nella cintura di roccia che circondava le isole. Dopo lunghe esplorazioni,
scoprimmo finalmente un canale e stavamo per addentrandoci, quando vedemmo staccarsi dalla riva quattro
piroghe piene di uomini che sembravano armati fino ai
denti. Lasciammo che si avvicinassero e, poiché procedevano abbastanza veloci, si trovarono presto a portata
di voce. Il capitano Guy issò allora un fazzoletto bianco
all’estremità di un ramo e, vedendolo, gli indigeni si arrestarono subito, pronunciando frasi incomprensibili,
miste a grida fra cui si potevano distinguere le parole
Anamoo-moo e Lama-lama. Questa sceneggiata durò per
una buona mezz’ora, durante la quale avemmo tutto il
tempo di studiare la loro fisionomia.
151
Le quattro piroghe, che potevano misurare cinquanta
piedi di lunghezza e cinque piedi di larghezza, contenevano in tutto centodieci indigeni. La loro statura era simile a quella degli europei, i muscoli erano però più
vigorosi e sodi. La pelle era nera come la pece, i capelli
spessi, lunghi e crespi. Le vesti consistevano semplicemente in una pelle di un animale sconosciuto, nero, dal
pelo liscio e morbido, modellata intorno al corpo con
una certa cura. Le loro armi erano principalmente delle
mazze dì legno nero, in apparenza molto pesanti; potemmo però notare molte lance e anche delle frecce. Il
fondo delle piroghe era tutto disseminato di pietre nere
della dimensione di un grosso uovo.
Quando ebbero finito la loro arringa – perché si trattava
certamente di un’arringa ufficiale nel loro linguaggio –
uno di essi, che aveva tutta l’aria di essere il capo, si alzo
sulla prua della piroga facendoci segno di avvicinare le
imbarcazioni alle loro. Fingemmo di non capire l’invito,
ritenendo più prudente mantenere per quanto possibile
una certa distanza, perché era ben quattro volte più di
noi. Il capo indovinò senza dubbio ciò che passava per
la nostra testa, per cui ordinò alle altre tre piroghe di arrestarsi mentre lui proseguiva verso di noi. Appena accostato, saltò a bordo della più grande delle nostre
scialuppe e, sedendosi a fianco del capitano Guy, indicò
col dito la goletta, ripetendo: Anamoo-moo e Lamalama. Tornammo allora verso la Jane Guy, seguiti da vicino dalle quattro piroghe. Avvicinandoci a bordo, il
capo manifestò uno stupore e una gioia estrema: batteva
le mani, si percuoteva le cosce e il petto, saltellava. Gli
altri condividevano la sua ilarità e in capo a pochi minuti, fu un baccano davvero assordante.
152
Una volta tornata la quiete, il capitano Guy, fece issare
le scialuppe per precauzione, dopo di che cercò di spiegare al capo – il cui nome, come apprendemmo dopo,
era Too-Wit – che non poteva ammettere a bordo più di
venti uomini alla volta. Il capo parve capire subito la proposta e diede istruzioni ai suoi uomini, facendo avvicinare una sola piroga, mentre le altre restavano a distanza.
Venti selvaggi salirono così a bordo e si mi misero a perlustrare il ponte, arrampicandosi da ogni parte, comportandosi assolutamente come fossero in casa propria, ed
esaminando tutto con la più viva curiosità.
Era chiaro che vedevano gli uomini bianchi per la prima
volta e il colore della nostra pelle sembrava provocar loro
un profondo disgusto. Pensavano che la Jane Guy fosse
una creatura vivente, sembrava anzi che temessero di ferirla con la punta delle loro lance, che poggiavano con
delicatezza. A un certo punto, il nostro equipaggio si divertì molto per i modi strani di Too-Wit. Il cuoco di
bordo era intento a spaccare la legna vicino alla cucina,
e, senza pensarci, piantò l’ascia sul legno del ponte incidendolo a fondo; subito il capo si precipitò sul cuoco,
scuotendolo brutalmente, poi emise una specie di lamento, simile quasi a un grido di dolore, per mostrare
che compativa la sofferenza della goletta e si mise a spianare con la mano, ad accarezzare la ferita, a ripulirla con
l’acqua di mare contenuta in un secchio che si trovava lì
vicina. Era un’ingenuità a cui non eravamo preparati, ma
– per quanto mi riguarda – pensai che la scena fosse un
po’ simulata.
Quando i nostri ospiti esaurirono – nel bene e nel male –
la loro curiosità per la struttura della nave, vennero condotti sottocoperta e il loro stupore non ebbe più limiti:
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sembravano talmente sorpresi da non articolare parola;
andavano da una parte all’altra in un silenzio rotto solo
ogni tanto da sorde esclamazioni. Le armi, che permettemmo loro di maneggiare liberamente, furono per loro
oggetto delle più svariate supposizioni. Credo che non
avessero la minima idea a cosa servissero, e che le giudicassero piuttosto per degli idoli, nel vedere la cura che
avevamo nel maneggiarle e il modo con cui sorvegliavamo
ogni loro movimento quando le toccavano. Alla vista dei
grossi cannoni, il loro stupore, raddoppiò; si avvicinarono
con i segni del più profondo rispetto e del più profondo
timore, ma si rifiutarono di esaminarne i minimi dettagli.
Nella cabina c’erano due grandi specchi e vedendoli restarono di stucco. Too-Wit si avvicinò per primo, camminando di fronte all’uno e volgendo la schiena all’altro
prima di essersene accorto. Ma quando, alzando gli occhi,
il selvaggio vide la sua immagine riflessa nello specchio,
sembrò impazzire. Fece bruscamente dietrofront per
scappare, ma quando si vide di nuovo sull’altro specchio,
credetti veramente che stramazzasse al suolo. Non riuscimmo in alcun modo a indurlo a guardarsi un’altra volta
nello specchio e, inginocchiatosi sul pavimento col viso
tra le mani, non si mosse più, cosicché dovemmo trascinarlo a forza sul ponte.
L’intera tribù indigena fu ricevuta a bordo in questo modo,
a gruppi di venti. A Too-Wit fu concesso di restare per
tutto il tempo in cui durò la processione e a noi non parve
che avessero intenzione di portare via niente; dopo la loro
partenza infatti costatammo che non mancava nulla. Durante la visita mantennero un atteggiamento amichevole;
nelle loro maniere vi erano tuttavia alcuni dettagli che restavano per noi inspiegabili; ad esempio, non c’era modo
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di farli avvicinare a cose assolutamente inoffensive, come
le vele della goletta, un uovo, un libro aperto, una scodella
di farina. Cercammo di sapere da loro se avevano qualcosa
da barattare, ma durammo un’enorme fatica a farci capire.
Scoprimmo poi con nostra grande sorpresa che in quelle
isole c’erano molte tartarughe giganti e una l’avevamo vista
nella piroga di Too-Wit. Vedemmo anche delle oloturie in
mano agli indigeni, che le mangiavano crude.
Queste stranezze, o per meglio dire ciò che noi consideravamo come stranezze, spinsero il capitano Guy a
intraprendere un’esplorazione, nella speranza di trarre
qualche vantaggio dalla scoperta. Quanto a me, ero curioso certamente di conoscere queste isole più a fondo,
ma ero ancora più desideroso di proseguire, senza indugio, il nostro viaggio. Il tempo era bello, ma non sapevamo quanto sarebbe durato e, avendo già raggiunto
l’84° parallelo, col mare aperto davanti a noi e una corrente che trascinava veloce verso sud, mi spazientivo
sentendo parlare di una sosta in quelle isole più lunga
di quanto sarebbe stato necessario per la salute dell’equipaggio e per approvvigionarsi a sufficienza di combustibili e viveri. Dimostrai dunque al capitano Guy che
sarebbe stato assai ragionevole far sosta in quelle isole
al ritorno, per svernarvi nel caso che il passaggio fosse
bloccato dai ghiacci, ed egli finì per arrendersi alla mia
decisione, perché avevo acquistato, non so io stesso
come, un singolare ascendente su di lui, e fu deciso che
saremmo rimasti una settimana per ristabilirsi e poi
avremmo proseguito la navigazione verso sud, quando
era ancora possibile.
Facemmo quindi tutti i preparativi e, con la guida di
Too-Wit, la Jane Guy manovrò senza difficoltà attra155
verso gli scogli per gettare finalmente l’ancora a forse a
un miglio dal litorale, in una bella baia circondata da
ogni parte dalla terra, sulla costa sud-est dell’isola principale, su un fondo di sabbia nera.
Ci fecero capire che in fondo a quella baia sfociavano
quattro limpidi ruscelli d’acqua fresca e che la vegetazione all’interno era lussureggiante. Le quattro piroghe
ci scortavano sempre, seppure a rispettosa distanza, e
Too-Wit, che era a bordo con noi, dopo l’operazione di
ancoraggio, ci invitò ad accompagnarlo a terra per visitare il villaggio. Il capitano Guy accettò l’invito; dieci
indigeni vennero custoditi a bordo come ostaggi, e un
piccolo gruppo, composto di dodici dei nostri, si affrettò a seguire il capo.
Avemmo cura di armarci bene, ma in modo da non
creare diffidenza, non conoscendo ancora a fondo l’indole di questi selvaggi e non volendo, d’altra parte, destare sospetti che avrebbero potuto provocarci serie
conseguenze. Oltre a mettere in posizione i cannoni e
sollevare le reti sulle murate, prendemmo altre precauzioni per evitare sorprese alla goletta. Al secondo fu
dato ordine di non lasciar salire a bordo nessuno durante la nostra assenza e di mandare una barca armata
di spingarda a cercarci lungo l’isola se entro dodici ore
non fossimo tornati.
Man mano che ci addentravamo all’interno, ci convincevamo sempre più di trovarci in un paese molto diverso
da quelli finora esplorati da uomini civili. Nulla di quanto
vedevamo ci era familiare. Le piante non somigliavano
alla vegetazione che cresce nelle zone torride, in quelle
temperate o in quelle gelide del nord, e diverse anche da
quelle delle basse latitudini da noi appena attraversate.
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Anche le rocce erano strane, nella forma, nel colore e
nella struttura; i ruscelli, per quanto incredibile, avevano
così poco in comune con quelli che scorrono altrove che
esitammo a berne l’acqua, perché ci sembrava impossibile
che avesse qualità naturali. Arrivati a un ruscello che ci
attraversava il cammino (il primo che incontravamo),
Too-Wit e il seguito si fermarono a bere. L’aspetto di
quell’acqua ci lasciava sospettosi, per paura che fosse contaminata e passò un po’ di tempo prima che ci rendessimo conto che, in quell’arcipelago, tutti i corsi d’acqua
erano così. Non sono in grado di descrivere precisamente
la natura di quel liquido, né posso farlo in due parole.
Anche se scorreva rapida lungo i declivi come una qualsiasi acqua, non possedeva – se non quando precipitava
a cascata – la normale trasparenza, anche se era del tutto
limpida, come ogni altra acqua calcarea. A prima vista, e
soprattutto dove la pendenza era meno pronunciata, sembrava avere la consistenza di una densa soluzione di
gomma arabica disciolta in acqua. Ma di tutte le sue straordinarie caratteristiche, questa era quella che sorprendeva meno. Non era incolore, né possedeva un colore
uniforme; scorrendo, presentava ogni possibile sfumatura
purpurea, come le tinte di una seta cangiante. Il modo in
cui si creavano queste variazioni di tono causò in noi uno
stupore profondo simile a quello che lo specchio aveva
suscitato in Too-Wit. Riempito un secchio e lasciata depositare bene l’acqua, scoprimmo che il liquido aveva diverse venature distinte, ognuna di un colore diverso, e
queste venature non si mescolavano tra loro; la perfetta
coesione tra le singole particelle di ognuna era altrettanto
imperfetta tra una venatura e l’altra. Facendo passare la
lama di un coltello attraverso le venature, l’acqua vi si ri157
chiudeva subito sopra, e una volta ritirato il coltello non
restava traccia del suo passaggio. Se invece la lama veniva
fatta passare attentamente tra una vena e l’altra, la separazione era perfetta, e la forza di coesione non riusciva
subito ad annullare l’effetto. I curiosi fenomeni relativi a
quell’acqua costituirono il primo anello di una lunga catena di scoperte, apparentemente miracolose, che mi riservava il destino.
Capitolo 19
Ci vollero circa tre ore di cammino in un sentiero molto
impervio per raggiungere il villaggio, che si trovava a
non meno di nove miglia all’interno. Come ci avvicinammo con Too-Wit e il suo seguito, una moltitudine
d’indigeni si lanciò verso di noi, con grida fra cui distinguemmo il solito ritornello Anamoo-moo! e Lama-lama!,
e la nostra sorpresa fu molto grande quando vedemmo
che, fatta qualche eccezione, erano completamente nudi
e che le vesti di pelliccia erano privilegio esclusivo degli
uomini che componevano l’equipaggio delle piroghe.
Pareva che questi ultimi si fossero accaparrati tutte le
armi del paese, perché non vedemmo un’arma tra le
mani degli abitanti del villaggio; c’erano molti bambini
e donne non prive di bellezza, alte, slanciate, snelle, con
una certa grazia nel passo e nell’andamento come è raro
vedere nella nostra società civilizzata. Disgraziatamente
le labbra, come anche quelle degli uomini, erano grosse
e sgraziate, cosicché, anche quando ridevano, non scoprivano mai i denti; la capigliatura era invece molto più
fine di quella degli uomini.
158
Fra questi indigeni nudi, si potevano vedere dieci o forse
dodici uomini, vestiti di pelli nere, come quelli che accompagnavano Too-Wit, armati di lance e di mazze pesanti, e
sembravano possedere un grande ascendente sul resto
della popolazione che, quando si rivolgeva a loro, usava
sempre il titolo di Wampoo. Erano loro i custodi di una
capanna dal tetto in pelle nera. Quella di Too-Wit era situata al centro del villaggio ed era molto più spazioso e di
costruzione molto più accurata degli altri. L’albero cui era
appoggiato era stato tagliato all’altezza di dodici piedi
circa dalla radice ed erano stati lasciati numerosi rami
sotto il punto tagliato, in modo da mantenere la copertura
del tetto ben stesa e impedirle di battere contro il tronco;
questa copertura, formata da quattro pelli molto grandi
attaccate le une alle altre con dei rinforzi di legno, era assicurata alle estremità per mezzo di tiranti fissati a terra; il
suolo era coperto di grandi foglie a guisa di tappeto.
Venimmo dunque condotti con gran pompa a quella residenza, mentre dietro di noi si accalcava una folla di selvaggi, quanti la capanna poteva contenerne. Too-Wit si
sedette sulle foglie facendoci segno di seguire il suo
esempio e ci trovammo così in una posizione molto scomoda e pericolosa. Eravamo dodici, seduti a terra, circondati da circa quaranta indigeni seduti sui calcagni e
così strettamente addossati a noi che, nel caso fosse successo qualcosa, ci saremmo trovati nell’impossibilità non
solo di servirci delle nostre armi, ma anche di estrarle
dalle tasche. Il resto della tribù – presumibilmente tutti
gli abitanti dell’isola – non poteva naturalmente essere
contenuta sotto la tenda, per cui si stipava fuori, e se non
fummo schiacciati lo dovemmo solo ai gesti e alle grida
ripetute di Too-Wit. Era soprattutto la sua presenza in
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mezzo a noi che garantiva la nostra sicurezza, per cui decidemmo di stringerci ancor più intorno a lui, pensando
che fosse quello il mezzo migliore per trarci da quell’imbarazzante situazione e decisi a ucciderlo subito al primo
segno di ostilità. Dopo qualche protesta, il capo riuscì a
ottenere il silenzio e ci rivolse un discorso abbastanza
lungo, simile a quello con cui ci aveva omaggiato dall’alto
della sua piroga, con la differenza che gli Anamoo-moo!
erano questa volta pronunciati con più enfasi rispetto ai
Lama-lama! Noi ascoltammo la nuova arringa con profondo rispetto e il capitano Guy rispose con dichiarazioni d’amicizia e simpatia nei confronti di Too-Wit, cui
fece dono, terminando il breve discorso, di alcune collane di vetro azzurro e di un coltello.
Con nostra grande sorpresa e storcendo il naso, il re mostrò di non gradire molto le collane, mentre accettò con
grande soddisfazione il coltello, dopodiché Too-Wit ordinò immediatamente il pranzo, che venne servito sotto
la tenda e dove i piatti venivano fatti passare sopra la
testa degli indigeni che assistevano. Unico cibo erano i
visceri ancora palpitanti di uno di quei maialini dalle
gambe gracili che avevamo visto giungendo al villaggio
e, vedendo che non sapevamo come servircene, il capo
ce ne diede l’esempio inghiottendo alcuni bocconi di
quel cibo disgustoso; davanti a tale insopportabile spettacolo, il nostro stomaco non tardò a dare dei segni manifesti di rivolta, ciò che provocò presso il sovrano uno
stupore analogo – per intenderci – a quello che gli aveva
fatto provare la vista dei nostri specchi. Ma non riuscì
in alcun modo a convincerci a prendere la nostra parte
di quelle delicate leccornie, perché declinammo di cuore
quell’onore, facendogli capire che ci eravamo appena
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alzati da un pranzo molto abbondante e che questo ci
impediva di fare onore alla sua tavola.
Alla fine del pranzo sottoponemmo al re una serie di domande, usando i mezzi più ingegnosi che il lettore può
immaginare, per conoscere quali fossero i prodotti di
quella terra della contrada e se ce ne fosse qualcuno da
cui potessimo trarre profitto. Finalmente parve capire,
in qualche modo, dove volevamo arrivare e si offrì di
condurci a un certo punto del litorale dove, così ci assicurò, pullulavano le oloturie. Questa per noi era un’eccellente occasione per sfuggire alla folla che ci pressava,
per cui manifestammo il nostro impaziente desiderio di
togliere la seduta; uscimmo infatti dalla tenda e, scortati
da tutta la popolazione del villaggio, seguimmo il capo
fino alla punta sud-est dell’isola, non molto lontano da
dove la nostra nave aveva gettato l’ancora.
Per circa un’ora restammo in quel luogo aspettando le
quattro piroghe, su cui prendemmo posto e fummo velocemente portati attraverso gli scogli a uno più grande
e più al largo, dove scoprimmo una quantità di oloturie,
quante non ne aveva mai viste neanche il più vecchio dei
nostri marinai, negli arcipelaghi delle basse latitudini. Ma
restammo laggiù solo il tempo necessario per capire che
laggiù ce n’era da caricare almeno dodici navi, dopo di
che risalimmo a bordo della goletta e ci separammo da
Too-Wit non senza aver ottenuto la promessa che ci sarebbero state portate tante tartarughe e anitre quanto le
sue piroghe avessero potuto contenerne. Durante tutta
quest’avventura, non notammo nel comportamento degli
indigeni alcun indizio che potesse destare sospetto, se
non il fatto che il loro numero si era considerevolmente
accresciuto durante il tragitto dalla goletta al villaggio.
161
Capitolo 20
Il capo mantenne la sua parola e fummo ben presto forniti di provviste fresche in abbondanza: le tartarughe
erano particolarmente squisite, e le anitre molto superiori alle nostre migliori specie di volatili selvatici, estremamente tenere, succulente e di un sapore delizioso.
Quando gli facemmo capire cosa avremmo desiderato,
gli indigeni ci portarono inoltre una gran quantità di sedano e un’erba efficace contro lo scorbuto, insieme a un
carico di pesce fresco o seccato. Il sedano era per noi
un regalo molto gradito: quanto all’erba contro lo scorbuto, fu una risorsa veramente insperata, perché guarì
tutti gli uomini dell’equipaggio coi sintomi di quella malattia; in breve non avemmo più un solo malato a bordo.
In cambio di quei doni e del pesce di cui ci avevano fornito in abbondanza, regalammo agli indigeni collane di
vetro azzurro, oggetti di rame, chiodi, coltelli, pezze di
stoffa rossa, ed essi si mostravano molto soddisfatti dello
scambio. Stabilimmo quindi sulla costa un mercato,
protetto dai cannoni della goletta, e il commercio si svolgeva in modo leale e regolare quale non avremmo mai
osato sperare da parte di quei selvaggi, dato il modo con
cui si erano comportati nel villaggio di Klock-Klock.
Per più giorni tutto si svolse così nel modo più amichevole; gli indigeni venivano spesso a gruppi a bordo della
goletta e spesso alcuni dei nostri si recavano a terra,
spingendosi in lunghe incursioni all’interno, senza essere disturbati in alcun modo dagli abitanti. Considerando la facilità con cui si poteva caricare la nave di
oloturie grazie alla buona disposizione degli indigeni, il
capitano Guy decise di trattare con Too-Wit perché con
162
la sua gente si occupasse della raccolta del prodotto e
costruisse apposite capanne per immagazzinarne il più
possibile, mentre noi avremmo approfittato del tempo
favorevole per continuare la nostra esplorazione verso
sud.
Quando comunicò la proposta al capo, questi si mostrò
ben disposto a concludere l’accordo, per cui fu convenuto che, dopo aver fatto i preparativi necessari, dopo
aver scelto la zona, iniziato la costruzione dei magazzini
ed effettuato altri lavori per cui era richiesto l’intero
equipaggio, la goletta avrebbe proseguito la sua navigazione, lasciando tre dei suoi uomini nell’isola per sorvegliare l’esecuzione dell’opera e insegnare agli indigeni i
procedimenti per essiccare le oloturie.
Per quei lettori che lo ignorano, l’oloturia – o cetriolo
di mare – è un mollusco oblungo, di taglia che varia da
3 a 18 pollici, ma alcune misurano fino a due piedi di
lunghezza; il corpo è di forma quasi rotonda, con una
leggera incavatura nella parte che posa sul fondo del
mare. Questo mollusco si raccoglie a una profondità di
tre o quattro piedi e, con un coltello, gli viene praticata
un’incisione di un pollice o più, secondo le dimensioni,
e per questa incisione vengono estratte le interiora che
somigliano a quelle di altri abitanti del mare; poi viene
lavato, bollito a una certa temperatura che non deve essere né troppo elevata né troppo bassa, dopo di che
viene sotterrato nel suolo, per la durata di quattro ore,
poi fatto bollire nuovamente per un certo tempo e infine
fatto seccare tanto al sole che al fuoco. I cinesi considerano l’oloturia un cibo prelibatissimo e anche come ricostituente per un organismo malato o indebolito dagli
eccessi, così questo mollusco raggiunge presso di loro
163
un prezzo molto elevato che può variare da 4 dollari fino
a 90 dollari al picul [circa 60 kg], secondo la qualità.
Conclusi dunque gli accordi a questo riguardo, furono date
tutte le disposizioni necessarie per preparare il terreno e
costruire lo stabilimento. Venne scelta un vasta area pianeggiante vicino alla costa orientale della baia, dove c’erano
in abbondanza acqua e il legname necessario per la costruzione; tutti si misero all’opera con entusiasmo, con grande
stupore degli indigeni; dopo aver abbattuto un numero di
alberi sufficiente, li lavorammo per costruire la struttura.
In due o tre giorni il lavoro era abbastanza avanti per poterlo affidare, in tutta sicurezza, ai tre uomini dell’equipaggio che avevamo deciso di lasciare lì. Si trattava di John
Carson, Alfred Harris e Patterson, tutti e tre non sbaglio,
originari di Londra, che si erano offerti volontari.
Alla fine del mese eravamo pronti per partire, ma avevamo promesso di andare al villaggio per una solenne
visita di commiato e Too-Wit aveva tanto insistito perché tenessimo fede all’impegno che non potemmo rifiutarci. Credo che, fino a quel momento, nessuno di noi
nutrisse il minimo dubbio sulle buone intenzioni di quei
selvaggi, che avevano sempre dimostrato una grande
cordialità, che ci aiutavano col massimo impegno nel
nostro lavoro, che ci offrivano spesso le loro provviste,
senza mai derubarci del più piccolo oggetto, pur apprezzando moltissimo tutto ciò che ci apparteneva, a
giudicare dalle loro manifestazioni di gioia a ogni dono
che facevamo loro. In particolare le donne si mostravano riconoscenti in ogni modo e, insomma, bisognava
essere ben scontrosi e sospettosi di carattere per nutrire
il minimo dubbio sulle intenzioni di un popolo che si
era dimostrato così amichevole.
164
Ma non trascorse molto tempo che dovemmo accorgerci
che quella buona disposizione apparente faceva parte
di un piano preordinato e che quei selvaggi che ci avevano riservato un’accoglienza così benevola erano, in realtà, fra i più barbari, ipocriti e sanguinari mostri che
abbiano disonorato la superficie del globo.
Il primo febbraio quindi scendemmo a terra per fare visita al villaggio e, pur non nutrendo – lo ripeto ancora –
il minimo sospetto, avevamo preso le debite precauzioni. Sei uomini restavano a bordo della goletta con
l’ordine di non fare avvicinare alcun indigeno durante
la nostra assenza, per nessuna ragione, e di restare costantemente di guardia sul ponte. Furono issate le difese
alle murate, e i cannoni pronti con una doppia carica.
La goletta era ancorata a un miglio circa dalla costa e
nessuna piroga poteva abbordarla senza essere scorta e
cadere subito sotto il tiro dei nostri cannoni.
Considerati i sei uomini rimasti a bordo, a terra eravamo
scesi in trentadue, tutti armati fino ai denti, muniti di
fucili, coltelli, pistole, senza contare il lungo coltello che
ogni marinaio porta sempre con sé, analogo al bownieknife che è ora in uso nelle nostre regioni dell’ovest e
del sud.
Appena scesi a terra un centinaio di guerrieri coperti di
pelli nere si unì a noi per farci da scorta e con sorpresa
costatammo che non avevano armi. Interrogato in proposito, Too-Wit, ci rispose semplicemente «Mette non we
pa pa si», che voleva dire «Non servono armi quando
siamo tutti fratelli». Prendemmo per buone quelle parole
e proseguimmo il nostro cammino. Avevamo già oltrepassato la sorgente e il ruscello di cui ho parlato ed entravamo in una stretta gola incassata tra le colline in cui
165
si trovava il villaggio; quella gola era rocciosa e così accidentata che avevamo durato grande fatica a superarla
nella prima visita a Klock-Klock. Era lunga circa un miglio e mezzo, forse anche due, e si snodava attraverso le
colline, mutando spesso direzione con gomiti e curve improvvise. Tutto il percorso era fiancheggiato da pareti di
roccia a picco che raggiungevano i 70-80 piedi, e in certi
punti ancora di più. La larghezza era di circa 40 piedi per
gran parte del tragitto, ma in alcuni punti si restringeva
tanto da permettere il passaggio di cinque o sei uomini al
massimo. Insomma, non c’era luogo più adatto per
un’imboscata ed era naturale che tenessimo pronte le nostre armi entrando nella gola scortati da quei selvaggi.
Quando penso alla nostra folle imprudenza, ciò che mi
stupisce di più è come abbiamo potuto affidarci, qualunque siano state le circostanze, in balia di quei selvaggi, al punto da permetter loro di camminare davanti
e dietro di noi, durante il percorso in quella gola pericolosa. Confidavamo ciecamente nella forza dei nostri
uomini, nell’efficacia delle nostre armi da fuoco, la cui
potenza era ancora sconosciuta agli indigeni, e sopratutto nell’amicizia che quegli infami scellerati ci avevano
fino ad allora dimostrato. Cinque o sei di loro ci precedevano come per aprirci il cammino, affrettandosi, con
evidente ostentazione, a spostare le grosse pietre che ingombravano la strada, e dietro di loro avanzava il nostro
gruppo; camminavamo a ranghi serrati, senza altra preoccupazione che restare uniti, e dietro veniva gli altri indigeni, con un ordine e una compostezza mai notata
prima.
Dirk Peters, un marinaio chiamato Wilson Allen ed io,
camminavamo alla destra dei nostri compagni, osser166
vando le strane stratificazioni della parete che cadeva a
strapiombo sopra di noi. A un certo punto una fessura
nella roccia attirò la nostra attenzione; era abbastanza
larga per far passare un uomo senza difficoltà e penetrava nella collina per una lunghezza da 8 a 10 piedi in
linea retta, per poi curvare a sinistra. La fessura e la gola,
per quanto potevamo giudicare, erano alte da sessanta
a settanta piedi; nelle crepe della parete crescevano alcuni arbusti stentati ed ebbi la curiosità di esaminarli da
vicino per cui penetrai nella fessura e ne staccai alcune
nocciole, ma subito mi ritrassi in tutta fretta. Girandomi, mi accorsi che Peters e Allen mi avevano seguito
e li pregai di tornare indietro, facendogli osservare che
quel buco era troppo stretto per passare in due, promettendo di dar loro alcune delle mie nocciole. Stavamo
dunque tornando sui nostri passi verso l’uscita e Allen
era quasi arrivato, quando sentii improvvisamente una
scossa che non somigliava a niente di quanto avessi mai
provato prima e che mi fece pensare – se anche ero in
grado di pensare in quella circostanza – che la terra
stesse per dissolversi e che fosse arrivato il giorno della
distruzione universale.
Capitolo 21
Appena ripresi i sensi, mi sentii come soffocato, mi dibattevo in mezzo alle tenebre, in una massa di terra friabile che gravava pesante su di me da ogni parte,
minacciando di seppellirmi interamente.
Spaventato, feci ogni sforzo per tirarmi su e vi riuscii finalmente; rimasi allora per alcuni istanti immobile, cer167
cando di spiegarmi cosa fosse successo e dove mi trovassi. In quel momento sentii come un lamento vicino
al mio orecchio e quasi subito distinsi la voce di Peters
che, in nome di Dio, chiedeva aiuto. Avanzai di due o
tre passi, aiutandomi con mani e piedi, inciampai e
caddi addosso al mio compagno, che era sepolto per
metà sotto un mucchio di terra e lottava disperatamente
per liberarsi. Scavai a mani nude la terra che lo immobilizzava con l’energia di cui disponevo e riuscii, dopo
molti sforzi, a liberarlo dalla sua scomoda prigione.
Ripresici dalla fatica e dalla sorpresa, ci scambiammo alcune considerazioni e giungemmo alla conclusione che le
pareti del crepaccio in cui ci eravamo addentrati dovevano essere crollati a seguito di qualche fenomeno naturale, o più verosimilmente in ragione del proprio peso, e
che di conseguenza eravamo sepolti vivi e irrimediabilmente perduti. Per un momento fummo presi dalla disperazione, ma alla fine Peters disse che avremmo dovuto
cercare di capire le dimensioni del crollo, esplorando la
nostra prigione per trovare una possibile via di fuga.
Mi aggrappai avidamente a quella speranza e, facendo
appello a tutte le mie forze, cercai di aprirmi un varco
attraverso la terra friabile e avevo appena mosso qualche
passo, quando mi apparve un raggio di luce, appena
percettibile ma sufficiente per convincerci che almeno
non saremmo morti asfissiati. Ci aggrappammo dunque
a un masso che ostruiva il passaggio dalla parte da cui
veniva la luce, e potemmo avanzare più facilmente e respirando meglio. Eravamo ora in grado di distinguere
ciò che ci circondava e costatammo che eravamo quasi
in fondo al crepaccio, vicino al punto in cui svoltava a
sinistra. Ancora uno sforzo e raggiungemmo la svolta,
168
da cui, con nostra grande gioia, scorgemmo una larga
spaccatura che saliva molto in l’alto formando un angolo
di circa quarantacinque gradi; non potevamo valutare
quanto fosse lunga quella breccia, ma, poiché la luce vi
filtrava abbastanza liberamente, non disperavamo di
raggiungere la sommità e quindi la via di uscita.
Solo allora mi ricordai che eravamo tre ad avere deviato
per addentrarci in quella spaccatura e che non avevamo
più rivisto il nostro compagno Allen, per cui decidemmo di tornare indietro per cercarlo. Dopo lunghe
ricerche, rese pericolose dalla terra friabile a strapiombo
su di noi, Peters mi gridò finalmente che aveva trovato
il piede del nostro compagno, ma che il resto del corpo
era sepolto così in profondità che sarebbe stato impossibile liberarlo; era purtroppo vero, come potei costatare, e il povero Allen era morto. Col cuore stretto
dall’angoscia, abbandonammo il corpo al suo destino,
dirigendoci verso l’imbocco della galleria.
La larghezza dell’apertura era appena sufficiente per
passare e, dopo uno o due infruttuosi tentativi di scalata,
fummo presi di nuovo dalla disperazione. Ho già detto
che le colline in cui era incavata la gola erano composte
di una roccia friabile molto simile al talco. Le pareti del
crepaccio che cercavamo di scalare avevano la stessa
composizione ed erano molto sdrucciolevoli e i nostri
piedi potevano a malapena far presa nei punti meno ripidi mentre, quando il pendio si faceva più verticale,
non c’era assolutamente modo di procedere. Ma la disperazione raddoppiò il nostro coraggio e coi nostri
bowie-knives scavammo dei gradini nella terra friabile,
poi, a rischio di romperci il collo, ci aggrappammo ai
piccoli appigli di una specie di ardesia un po’ più resi169
stente che, qua e là, formava come una prominenza nella
massa di terra e così raggiungemmo finalmente una piattaforma naturale, da cui si poteva distinguere un lembo
di cielo azzurro al limitare di una gola coperta dal verde.
Volgendo indietro lo sguardo per vedere il crepaccio da
dove eravamo emersi e l’aspetto delle sue pareti, ci accorgemmo che si era formato di recente; il cataclisma
che ci aveva presi alla sprovvista, qualunque fosse la sua
natura, ci aveva quindi aperto la via di salvezza. Eravamo così sfiniti dalle fatiche sopportate, così deboli,
che potevamo appena stare in piedi e articolare qualche
parola, e Peters si sforzava inutilmente di farmi capire
che dovevamo chiamare i nostri compagni in aiuto, sparando dei colpi con le pistole che portavamo ancora alla
cintura; quanto ai fucili e ai coltelli, li avevamo perduti
sotto il crollo ed erano rimasti certamente laggiù; il seguito della vicenda ce ne avrebbe fatto pentire amaramente. Per fortuna avevo come un vago sospetto
dell’abominevole tranello che ci era stato teso e fu questa la ragione per cui evitammo di far conoscere ai selvaggi dove ci trovavamo.
Dopo un riposo di circa un’ora ci stavamo incamminando
lentamente verso la parte superiore della gola, quando
udimmo un frastuono confuso di grida spaventose; giungemmo affannati fino a quella che si poteva pensare fosse
la sommità, perché da quando avevamo lasciato la piattaforma, eravamo sprofondati sotto alte rocce e arbusti ricadente strapiombo, a una grande altezza sopra le nostre
teste. Con infinite precauzioni, scivolammo verso una
stretta apertura da cui potevamo spingere lo sguardo intorno e, in un attimo, lo spaventoso mistero del terremoto
si svelò ai nostri occhi.
170
Il nostro posto d’osservazione era quasi in cima alla più
alta di quelle colline di steatite e la gola in cui il nostro
gruppo di trentadue uomini era penetrato si snodava
sulla sinistra a circa cinquanta piedi da noi. Ma su una
lunghezza di almeno cento yards, il passaggio era interamente ostruito dai detriti di più di un milione di tonnellate di terra e rocce, il cui crollo era stato provocato
in modo artificiale. Il modo usato per far crollare quella
massa enorme era tanto semplice quanto evidente, perché c’erano ancora tracce visibili dell’opera criminale;
in vari punti, sul lato est della gola – noi invece ci trovavamo in quello a ovest – erano piantati dei pioli nel
suolo; in quei punti il terreno non si era mosso, ma per
tutta la lunghezza del precipizio dove era sprofondata
la massa di roccia, era evidente – a giudicare dalle tracce
lasciate sul terreno, che somigliavano a quelle lasciate
da una zappa – che erano stati piantati dei pioli del tutto
simili a quelli davanti ai nostri occhi, piantati con un intervallo di una yard, su una linea di trecento piedi circa,
ad alcune decine di passi dall’abisso. I pioli rimasti in
piedi erano uniti da solidi legacci ed era evidente che
anche gli altri dovevano essere uniti allo stesso modo.
Ho già segnalato la particolare conformazione di queste
colline di steatite e la descrizione che ho fatto della
stretta e profonda fessura, che ci aveva permesso di
sfuggire a un mortale seppellimento, servirà a farne più
nettamente conoscere la natura. La formazione del terreno era tale che la minima scossa naturale doveva fendere il suolo in strati verticali, in linee parallele, e che
una modesta spinta artificiale poteva avere un effetto
catastrofico. Non c’era quindi alcun dubbio che, usando
quella fila di pioli, fosse stata operata una frattura nel
171
suolo, alla profondità di uno o due piedi, con le corde
agganciate ai pali e tese lungo il bordo della collina; uno
solo di quei selvaggi, tirando con tutte le sue forze ciascuna di quelle corde, disponeva così di una forza di
leva enorme, che bastava a far precipitare, a un segnale
dato, l’intera parete della collina sul fondo del precipizio. La sorte dei nostri poveri compagni non poteva
dunque lasciare alcun dubbio: noi eravamo i soli sfuggiti
al disastro, i soli che non erano rimasti sotto le macerie.
Eravamo quindi i soli bianchi rimasti vivi in quell’isola.
Capitolo 22
La nostra situazione, quale ci appariva allora, non era
certo più rassicurante di quando eravamo sepolti sotto
le macerie; ora non avevamo altre alternative che di essere messi a morte dai selvaggi o trascinare in mezzo a
loro una vita miserabile di schiavitù. Potevamo certo nasconderci in qualche posto sui fianchi delle colline, o,
in mancanza di meglio, nel crepaccio da cui eravamo
appena usciti; così facendo, però, saremmo stati in balia
del freddo e della fame durante il lungo inverno polare;
e, quando fossimo stati costretti a cercare da mangiare,
avremmo certamente tradito la nostra presenza. Tutta
l’area intorno brulicava di quei selvaggi e ne scorgemmo
nuovi gruppi arrivare dall’isola meridionale su delle zattere piatte, certamente per aiutare nella conquista e nel
saccheggio della Jane Guy.
La goletta se ne stava sempre tranquillamente ancorata
nella baia e gli uomini rimasti a bordo dovevano essere
del tutto ignari del pericolo che li minacciava. Come rim172
piangemmo allora di non essere rimasti al loro fianco,
per aiutarli a fuggire o per morire con essi cercando di
difenderci. Non vedevamo alcuna possibilità di informarli del pericolo senza attirare, immediatamente, la rovina sulle nostre teste; del resto – se anche ci fossimo
riusciti – non potevamo pensare di esser loro utili in
qualche modo. Un colpo di pistola poteva forse bastare
a far capire loro che era successo qualcosa, ma non poteva comunicare che l’unica loro speranza di salvezza era
di abbandonare immediatamente la baia e filare lontano,
e che nessun senso del dovere o dell’onore li obbligava
più a rimanere lì, dal momento che i loro compagni
erano ridotti ai due ancora vivi e dato che il colpo di pistola non li avrebbe messi in guardia più di quanto non
fossero già contro l’attacco che il nemico preparava.
Dare l’allarme con un colpo di pistola non avrebbe portato vantaggi, ma solo danno, per cui, dopo un’attenta
valutazione, decidemmo di non farne di nulla.
Pensammo anche di precipitarci verso la costa, impadronirci di una delle piroghe ferme in fondo alla baia e
cercare di tornare a bordo, ma riconoscemmo subito
che quel piano disperato era assolutamente irrealizzabile. Tutta l’area intorno – ripeto – brulicava di selvaggi
che scivolavano guardinghi dietro i cespugli e i fianchi
delle colline per non essere scorti dalla goletta. Molto
vicini a noi, il gruppo dei guerrieri vestiti con le pelli
nere, con Too-Wit alla testa, bloccavano l’unico passaggio da cui potevamo sperare di riguadagnare la costa,
evidentemente in attesa dei rinforzi per procedere all’attacco della Jane Guy. Infine, nelle piroghe in fondo
alla baia c’erano indigeni in apparenza disarmati, ma
che certamente avevano armi a portata di mano, per cui
173
dovemmo con grande amarezza restarcene nel nostro
nascondiglio, come semplici spettatori del terribile
dramma che si sarebbe svolto a breve.
In capo a circa mezz’ora circa, vedemmo infatti cinquanta o sessanta imbarcazioni col fondo piatto, piene
d’indigeni spuntare dalla punta a sud della baia; i selvaggi sembravano non avere altre armi che delle corte
mazze e delle pietre ammassate in fondo alle imbarcazioni. Subito dopo, un altro gruppo, ancor più numeroso, giunse dalla parte opposta, armato allo stesso
modo; anche le quattro piroghe si riempirono d’indigeni
che sbucavano dei cespugli in cima alla baia per unirsi
agli altri due gruppi. Così, in men che non si dica, la
Jane Guy si vide circondata da una gran moltitudine di
selvaggi inferociti, visibilmente pronti a dare l’assalto.
Non c’era alcun dubbio sul fatto che sarebbero riusciti
nel loro tentativo: i sei uomini rimasti sulla nave, seppur
decisi a vender cara la loro pelle, non erano certo in numero sufficiente per manovrare i cannoni né per sostenere una lotta così impari. Facevo fatica a immaginare
che si sarebbero difesi, e invece mi sbagliavo, perché li
vidi accorrere a poppa per fronteggiare l’assalto delle
piroghe, che erano a portata di tiro, mentre le zattere si
trovavano ancora a un quarto di miglio. Pe ragioni che
ignoro – o forse per la sorpresa e lo spavento dei nostri
poveri compagni nel vedersi in quella situazione disperata – i colpi andarono tutti a vuoto. Non una piroga
venne colpita, non un selvaggio ucciso; il tiro era troppo
corto e la scarica aveva appena sfiorato le loro teste. Il
solo effetto che produsse su di loro la detonazione e il
fumo fu un grande stupore, così forte che per un istante
mi domandai se non stessero per rinunciare completa174
mente all’impresa e riguadagnare la riva, cosa che avrebbero certamente fatto se i nostri avessero fatto seguire
ai colpi di cannone una scarica di moschetto; le piroghe
infatti erano molto vicine e la scarica avrebbe certamente avuto qualche effetto, se non altro avrebbe arrestato l’assalto, guadagnando il tempo necessario per
inviare un’altra bordata col cannone. Disgraziatamente,
i marinai non pensarono a questa tattica e corsero a babordo per far fronte alle zattere e questo permise a due
delle piroghe di riprendersi dalla paura, di guardarsi intorno e costatare che non avevano subito danni.
La scarica di babordo invece produsse gli effetti più devastanti: i colpi di cannone fecero a pezzi sette o otto zattere, uccisero trenta o quaranta selvaggi e molti furono
scaraventati in mare, in gran parte feriti gravemente. Gli
altri, completamente terrorizzato, batterono ina una precipitosa ritirata, senza neppure ripescare i compagni che
si vedevano galleggiare qua e là, implorando soccorso
con urla disperate. Ma il successo giungeva troppo tardi
per salvare i nostri valorosi compagni: il gruppo delle piroghe, più di centocinquanta uomini, si era già arrampicato a bordo della goletta, attaccandosi alle sartie e
scavalcando il parapetto; nessun ostacolo poteva più arrestare l’avanzata di quelle bestie inferocite; i nostri marinai furono colpiti e fatti a pezzi in un batter d’occhio;
a questa vista, i selvaggi delle zattere si ripresero dalla
paura e si precipitarono in massa per saccheggiare la
nave. In cinque minuti la Jane Guy subì il più feroce assalto e la più spaventosa devastazione che si fosse mai
vista; il ponte venne distrutto, demolito; le cime, le vele,
tutto ciò che poteva essere tolto dal ponte, ridotto in
brandelli; nel frattempo, trainandola con le piroghe e
175
spingendola a poppa e ai lati, le migliaia di indigeni spinsero la nave, riuscendo a portarla a riva dove fu consegnata a Too-Wit che, nella posizione di capo assoluto,
per tutta la durata dell’attacco non si era mai mosso dal
suo posto d’osservazione sulla collina, ma che, ottenuta
la vittoria, si degnava di scendere coi suoi guerrieri con
la pelle nera e prendere la sua parte di bottino.
La partenza di Too-Wit ci permise di uscire dal nostro
rifugio e di andare a esplorare la collina; vicino al torrente e a cinquanta yards circa dall’entrata, scorgemmo
una piccola fonte e questo ci permise di calmare un
poco la sete. Non lontano erano parecchi cespugli simili
a quelli di cui avevo parlato: le nocciole ci parvero
molto buone, il loro gusto ricordava quello della nostra
comune nocciola. Ne riempimmo subito i cappelli, le
depositammo nel crepaccio e tornammo a cercarne
altre. Mentre cercavamo di raccoglierne il più possibile,
un movimento nei cespugli ci allarmò e stavamo per
sgusciare nuovamente nel nostro nascondiglio quando
un grosso uccello nero, un tarabuso, emerse faticosamente da un cespuglio di nocciolo. Ero così sorpreso
che non sapevo cosa fare, ma Peters ebbe abbastanza
presenza di spirito da lanciarsi sull’uccello e afferrarlo
per il collo prima che potesse volar via. Gli sforzi che
faceva per sottrarsi alla cattura e le grida che lanciava
erano così terribili che fummo quasi sul punto di lasciarlo andare, temendo che il rumore allertasse qualcuno di quei selvaggi, che potevano ancora trovarsi
nelle vicinanze. Alla fine, un colpo di bowie-knife ebbe
ragione di lui e lo trascinammo nel crepaccio, soddisfatti di avere, comunque andasse, una provvista di cibo
per una settimana.
176
Uscimmo poi nuovamente per esplorare i dintorni e ci
spingemmo abbastanza lontano sul fianco meridionale
della collina, ma senza trovare altro in fatto di viveri. Ci
accontentammo quindi di raccogliere una provvista di
legna secca e ripartimmo, dopo aver scorto due o tre
gruppi d’indigeni che s’incamminavano verso il loro villaggio, carichi del bottino preso sulla nave, e che – di
questo avevamo grande paura – potevano vederci passando vicino alla collina.
Nostra prima preoccupazione fu dunque quella di rendere il più sicuro possibile il nostro nascondiglio e, a
questo scopo, disponemmo alcuni arbusti sopra la breccia attraverso cui avevamo visto lo squarcio di cielo azzurro quando eravamo usciti dal crepaccio, e vi
praticammo una stretta apertura, larga abbastanza da
permetterci di poter osservare tutta la baia, senza
esporci al pericolo di essere visti dal basso. Fatto ciò, ci
rallegrammo della sicurezza del nostro rifugio, perché
lì eravamo assolutamente invisibili finché non ci fossimo
avventurati sulla collina. Nulla poteva lasciarci supporre
che i selvaggi un giorno avrebbero provato a entrare
anche in quel buco.
Quando però pensammo che quell’apertura che ci aveva
permesso di fuggire era stata originata con ogni probabilità dal crollo recente del versante opposto e che era
la sola via per raggiungerlo, la gioia che ci dava l’idea di
avere un posto sicuro lasciò il posto al pensiero che
scendere di lì era assolutamente impossibile. Decidemmo quindi di esplorare attentamente la cima della
collina, appena possibile, e, nell’attesa, sorvegliavamo
tutte le gesta e i movimenti dei selvaggi attraverso il nostro osservatorio. Quelli avevano interamente saccheg177
giato la goletta e si preparavano ad appiccarle fuoco; infatti, poco dopo, vedemmo le fiamme levarsi dal grande
boccaporto con un fumo denso, e altre fiamme dal castello di prua. Le attrezzature, gli alberi, i brandelli di
vela sfuggiti al saccheggio e alla distruzione, s’infiammarono quasi subito e il fuoco aggredì ben presto il
ponte. A bordo c’erano ancora molti indigeni intenti a
staccare a colpi pietra, d’ascia e con le palle di cannone
le serrature e tutte le altre finiture in ferro e rame. A
terra, nelle piroghe e nelle zattere, c’erano non meno di
diecimila indigeni, nelle immediate vicinanze della goletta, senza contare quelli che, carichi di bottino, riprendevano a gruppi il cammino dell’interno o delle isole
vicine.
Presentimmo allora il disastro, che infatti si verificò proprio come speravamo. Dapprima, fu come una grande
scossa, di cui sentimmo distintamente il contraccolpo,
ma senza il rumore dell’esplosione, come quello di una
leggera scarica elettrica; i selvaggi ne parvero stupiti e
interruppero, per un istante, il loro lavoro e le loro urla;
ma, mentre stavano per rimettersi all’opera, un’enorme
nube di fumo si alzò improvvisamente, carica di elettricità; poi, come sprigionata dalle viscere stesse della nave,
sgorgò un’enorme fiammata, che ci parve innalzarsi all’altezza di un quarto di miglio, e immediatamente le
fiamme si estesero tutt’intorno e, in una confusione indescrivibile, ci fu come una violenta mitragliata di pezzi
di legno, di metallo, di membra umane; infine l’esplosione si produsse in tutta la sua violenza, arrivando fino
a noi, mentre le colline intorno rimbombavano, moltiplicando l’eco della detonazione, e i detriti polverizzati
si abbattevano ovunque.
178
La strage prodotta fra gli isolani oltrepassò le nostre più
vive speranze ed essi raccolsero, perfettamente maturo,
il frutto del loro tradimento; l’esplosione ne uccise un
migliaio e un altro migliaio rimase spaventosamente mutilato. Tutta la baia era disseminata di quei miserabili
che si dibattevano cercando di stare a galla e sulla riva
lo spettacolo era ancora più spaventoso. Sembravano
completamente paralizzati da questa inaspettata disfatta
e non facevano niente per soccorrersi l’un l’altro. Finalmente, il loro atteggiamento mutò poco a poco e dallo
stupore passarono, per reazione, al delirio dell’eccitazione, correndo da tutte le parti, lanciandosi verso un
punto della baia per scappare quasi subito, con volti in
cui si poteva leggere, di volta in volta, le più allucinanti
espressioni di orrore, rabbia e d’intensa curiosità, e gridando a squarciagola: «Tekeli-li! Tekeli-li!»
Più tardi vedemmo un gruppo numeroso spingersi verso
l’interno delle colline, per uscirne poco dopo con un carico di pioli di legno che portarono nel punto in cui la
ressa era più fitta e quasi subito la folla si fece da parte,
come per rivelare ai nostri occhi l’oggetto di quella agitazione. Scorgemmo allora qualche cosa di bianco steso
per terra, ma non potevamo distinguere di che si trattasse; finalmente, riconoscemmo in quella cosa informe
il corpo del bizzarro animale dai denti e dagli artigli
scarlatti che la goletta aveva pescato in mare il 18 gennaio. Il capitano Guy l’aveva fatto conservare per impagliarlo e portarlo in Inghilterra e mi ricordavo che aveva
dato delle istruzioni al riguardo prima d’arrivare all’isola
e che l’aveva fatto trasportare in cabina, chiuso in una
delle casse. Quello strano animale era stato senza dubbio scagliato sulla riva dall’esplosione, ma quello che
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non potevamo comprendere era perché avesse generato
una tale eccitazione fra i selvaggi. Gli indigeni si affollavano a breve distanza dal corpo, ma nessuno sembrava
volersi avvicinare di più; quelli che avevano portato dei
pioli si affrettavano a piantarli in cerchio intorno alla
bestia, ma questo lavoro non era ancora finito che tutta
l’orda si precipitò verso l’interno dell’isola, senza smettere di gridare: «Tekeli-li! Tekeli-li!»
Capitolo 23
Nei sei o sette giorni seguenti, restammo nel nostro nascondiglio, non facendo che rare sortite e sempre con
la massima prudenza, per andare in cerca di acqua e
nocciole. Avevamo costruito una specie di capanna sulla
piattaforma e vi avevamo piazzato un letto di foglie secche e tre grosse pietre piatte che ci servivano contemporaneamente da camino e da tavola. Potevamo
facilmente accendere un fuoco, sfregando uno contro
l’altro due pezzi di legno secco, l’uno di legno tenero,
l’altro di legno duro. L’uccello così opportunamente catturato ci offrì un nutrimento eccellente, anche se un
poco coriaceo; non era un uccello oceanico ma una specie di tarabuso, dalle piume di un nero lucido, picchiettate di grigio, con ali molto piccole in rapporto alla
taglia. In seguito ne vedemmo tre uguali vicino al crepaccio, che sembravano cercare quello che avevamo catturato, ma non si posarono a terra neppure una volta e
non riuscimmo a prenderli.
Così, per tutto il tempo che durò la carne di quell’uccello, la situazione era sopportabile; ma quando finì fu
180
necessario procurarci altri viveri; le nocciole da sole
non bastavano al nostro sostentamento, anche perché,
quando ne abusavamo troppo, ci procuravano violente
coliche e forti emicranie. Avevamo visto molte tartarughe vicino alla costa, a est della collina, e pensavamo
che avremmo potuto catturarle facilmente se avessimo
potuto scendere senza venir visti dagli indigeni dell’isola.
Decidemmo quindi di tentare una sortita e cercammo
prima di scendere lungo il versante meridionale che sembrava offrire meno difficoltà, ma non avevamo ancora
percorso cento yards che trovammo il sentiero interrotto
improvvisamente da una propaggine della frana in cui i
nostri compagni avevano trovato la morte. Percorremmo
la cresta di questa gola per un quarto di miglio, finché
non fummo di nuovo bloccati da un profondo precipizio, la cui parete non offriva alcuna possibilità di discesa,
e fummo obbligati a tornare sui nostri passi, per il canale
principale.
Una nuova ricognizione dalla parte est ebbe il medesimo risultato e, dopo un’ora di fatica, in cui corremmo
mille volte il rischio di romperci il collo, scoprimmo che
non avevamo fatto che scendere in una grande fossa di
granito nero, il cui fondo era coperto da una polvere
fine e la cui sola uscita era lo stesso sentiero accidentato
che avevamo preso per giungere fin là.
Fu dunque necessario rifare il penoso tragitto per raggiungere la parte nord della collina, e là dovemmo fare
la massima attenzione, perché alla minima imprudenza
rischiavamo di essere facilmente visti dal villaggio. Ci
trascinammo dunque a quattro zampe lungo il pendio
e talvolta eravamo costretti a strisciare al suolo e nascon181
derci così, aggrappandoci agli arbusti. Con tutte queste
precauzioni non eravamo ancora molto lontani dal nostro punto di partenza, quando sbucammo su un precipizio ancora più profondo dei precedenti, che dava
direttamente sulla gola principale. Le nostre paure
erano dunque confermate: non c’era alcuna possibilità
di scendere da quella collina. Estenuati, tornammo alla
meglio alla piattaforma e, gettatici sul nostro letto di foglie, ci riposammo per alcune ore.
Dopo quella spedizione infruttuosa, passammo molti
giorni a esplorare attentamente la collina per renderci
conto di quali alternative disponessimo. Ci fu impossibile trovare del cibo, a eccezione delle solite nocciole e
di una specie di coclearia che cresceva in abbondanza
in un piccolo spiazzo di quattro piedi di lato e che ci
credemmo in diritto di spogliare. Il 15 febbraio – se ho
buona memoria – non ne restava più e, quanto alle nocciole, erano sempre più rare, cosicché la nostra situazione divenne alquanto precaria. Il 16 febbraio
facemmo di nuovo il giro della nostra prigione, sperando di scoprire qualche via d’uscita, ma anche questa
volta la speranza fu vana. Esplorammo pure il crepaccio
in cui eravamo rimasti sepolti, con la debole illusione di
trovare un passaggio per raggiungere la gola principale.
Anche questa volta fummo completamente delusi, ma
trovammo un fucile che portammo con noi. Il 17 febbraio una nuova sortita per esplorare più da vicino la
fossa di granito nero che avevamo raggiunto nelle prime
esplorazioni; ricordavamo di aver trascurato uno degli
spiragli che si aprivano nella parete della fossa e lo volevamo esplorare più a fondo, anche se non speravamo
più di trovare una via d’uscita.
182
Ci fu abbastanza facile raggiungere il fondo della fossa,
come già avevamo fatto, e questa volta avemmo la pazienza di controllare con attenzione. In verità era uno
dei luoghi più straordinari che avessi mai visto e a stento
si poteva credere che fosse esclusivamente opera della
natura. La fossa misurava dall’estremità est fino a quella
ovest cinquanta yards di lunghezza, tenendo conto di
tutte le curve: la distanza dall’est all’ovest in linea retta
non superava quaranta o cinquanta yards, da quanto io
potei supporre, perché non avevo alcun mezzo per misurarla in modo preciso.
Al principio della nostra discesa in quell’abisso, cioè su
un tragitto di un centinaio di piedi a contare dalla sommità della collina, le due pareti presentavano ben poca
somiglianza fra loro e non sembravano essere state mai
coerenti, essendo una composta di steatite e l’altra di
marmo con venature di un materiale metallico. A tratti
l’intervallo compreso fra le due pareti occupava una larghezza minima di sessanta piedi circa e non aveva una
struttura regolare. Ma, al di sotto del limite indicato,
l’intervallo si restringeva subito e le pareti presentavano
di nuovo per un pezzo differenze di composizione geologica, di colore e d’aspetto superficiale. Solo a partire
da una cinquantina di piedi prima del fondo, cominciava la simmetria perfetta; le pareti erano allora interamente uniformi dal punto di vista della struttura, del
colore e della direzione, il materiale era un granito molto
nero e molto brillante e la distanza fra le due facce opposte era regolarmente di venti yards. La configurazione
precisa dell’abisso sarà resa più intelligibile dal disegno
che qui è riprodotto, perché portavo fortunatamente
con me un taccuino e una matita che ho sempre conser183
vato con la più grande cura durante tutte le mie avventure, cosicché ho potuto ricostruire una specie di promemoria per tutta una filza di piccoli dettagli di cui non
avrei saputo, certamente, conservare il ricordo.
Figure che rappresentano il contorno
generale delle gole e delle fosse.
Questa figura riproduce il profilo generale della fossa,
senza le cavità più piccole a lato – e ve ne erano parecchie – ciascuna con una corrispondente protuberanza
dal lato opposto. Il fondo della fossa era ricoperto per
uno spessore di tre o quattro pollici da uno strato di polvere quasi impalpabile, al di sotto della quale riprendeva
il granito nero.
Sulla destra, all’estremità inferiore, si nota il segno di
una stretta apertura ed è la fessura di cui ho parlato,
quella che la nostra seconda visita aveva per scopo di
esplorare con più attenzione. Vi penetrammo con decisione, recidendo un ammasso di rovi che impedivano il
passaggio e rimuovendo della silice aguzza che somigliava a punte di freccia. Una debole luce proveniente
dall’estremità opposta ci incoraggiò a perseverare nel
nostro tentativo; stretti come in una morsa avanzammo
ancora di trenta piedi e vedemmo che l’apertura da cui
proveniva la luce era una volta bassa, di forma regolare,
184
coperta della stessa polvere impalpabile della fossa principale. Una pioggia di luce si rovesciò su di noi e, voltandoci bruscamente, sbucammo in una nuova camera
alta, assolutamente identica alla prima, non fosse stato
per la sua forma allungata.
La larghezza totale di questo secondo fossa, a partire
dall’apertura A, girando la curva B, fino all’estremità D,
era di centocinquanta yards. Al punto C scoprimmo una
piccola apertura simile a quella che ci aveva permesso
di uscire dal primo abisso, anch’essa ingombra di rovi e
silici dalla punta acuminata. L’attraversammo e costatammo che, dopo un tragitto di quaranta piedi, il corridoio dava accesso a una terza fossa, anche questa
identica alla prima. La lunghezza totale di questa terza
fossa era di 320 yards. Al punto superiore, si apriva una
fenditura larga circa 6 piedi, che penetrava fino a una
profondità di 15 piedi nella roccia, dopo di che finiva
con uno strato di marmo.
Strani segni impressi nella muraglia marnosa.
Eravamo sul punto di uscire da quell’abisso ove la luce
penetrava appena, quando Peter richiamò la mia attenzione su una serie di strani segni impressi nella muraglia
marnosa, che qui formava il fondo dell’imbuto. Con un
leggero sforzo d’immaginazione si poteva vedere la
prima incisione sulla sinistra – o per meglio dire, verso
nord – come il profilo grossolano di un uomo col braccio teso. Gli altri segni sembravano caratteri alfabetici
185
e Peters ne sembrava persuaso. Riuscii tuttavia a convincerlo che si sbagliava richiamando la sua attenzione
sul terreno, dove, frammisti alla polvere, individuammo
dei grossi frammenti di marna, che erano stati indubbiamente proiettati laggiù da qualche evento naturale,
provenienti della superficie dove avevamo scoperto gli
intagli; notammo infine che alcuni dei frammenti combaciavano perfettamente coi buchi sulla parete; questo
dimostrava che tutto quello era opera della natura.
Una volta accertato che le strane incisioni non aiutavano
a sfuggire dalla nostra prigione, ci rimettemmo in cammino, abbattuti e disperati, verso la sommità della collina. Nulla di notevole avvenne nelle ventiquattr’ore che
seguirono, se si eccettua, durante un’esplorazione a est
del terzo abisso, la scoperta di altre due fosse triangolari
di grande profondità, con pareti di granito nero come
le altre. Non ci parve opportuno scendere in quegli
abissi, che sembravano dei semplici pozzi naturali, senza
alcuna uscita, e che misuravano ciascuno forse venti
yards di circonferenza.
Capitolo 24
Il 20 di febbraio, vedendo che ci sarebbe stato completamente impossibile sostentarci più a lungo con le nocciole, che ci provocavano crudeli sofferenze,
prendemmo la decisione di tentare uno sforzo disperato
per scendere il fianco meridionale della collina. In quel
punto la parete del precipizio era composta di steatite
molto tenera ed era quasi verticale in tutta la sua estensione (una profondità di centocinquanta piedi almeno)
186
e in certi punti strapiombante. Dopo lunghe ricerche
scoprimmo una stretta sporgenza, venti piedi circa al di
sotto dell’orlo dell’abisso; Peters riuscì a saltarvi, mentre
io lo reggevo con l’aiuto dei nostri fazzoletti giuntati insieme. Anch’io riuscii a saltare con maggior fatica e ci
parve possibile scendere tutta la parete nello stesso
modo in cui eravamo usciti dalla gola in cui eravamo rimasti sepolti dal violento terremoto. Il tentativo era più
temerario di quanto l’immaginazione possa concepire,
ma non avevamo altra scelta ci dovemmo decidere.
Sulla piattaforma in cui ci trovavamo crescevano alcuni
arbusti di nocciolo e a uno di questi legai un capo della
corda formata coi nostri fazzoletti. Assicurai l’altra
estremità alla vita di Peters e lo calai nel precipizio finché i fazzoletti non rimasero tesi; lui allora praticò un
foro profondo da otto a dieci pollici nella steatite, scavando obliquamente la roccia al di sotto di lui a un’altezza di un piede circa e piantò un piolo col calcio della
pistola, creandosi così un solido appiglio. Poi io lo issai
di quattro piedi circa, e lì scavò un secondo buco identico al primo, assicurandosi così un punto d’appoggio
per piedi e mani. Slegai allora la corda di fazzoletti dall’arbusto e gliene gettai l’estremità che lui legò al piolo
superiore, dopo di che si lasciò cadere dolcemente a tre
piedi circa della sua prima stazione, cioè su tutta la lunghezza della corda. Arrivato lì, praticò un altro foro
dove piantò un altro piolo, poi si sollevò con tutte le sue
forze in modo da poter posare i piedi nel terzo buco, afferrando al contempo con le mani il piolo superiore.
Malgrado tutto, dopo uno o due tentativi a vuoto, che
non per questo erano meno pericolosi – perché, mentre
tentava con la mano destra di sciogliere la corda, doveva
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contemporaneamente tenersi con la sinistra — si rassegnò a tagliare la corda lasciando pendere dal piolo un
pezzo di sei pollici; poté così attaccare i fazzoletti al secondo piolo e scendere di un gradino al di sotto del
terzo, badando bene questa volta di non cadere troppo
in basso. Con questo procedimento, che io non avrei
mai saputo immaginare per mio conto, e di cui tutto
l’onore deve essere attribuito alla sicurezza e all’audacia
di Peters, il mio compagno, aggrappandosi qua e là alle
asperità della parete, giunse finalmente in fondo senza
incidenti.
Rimasi immobile per un istante, non sentendomi sicuro
di poterlo seguire, poi finalmente mi decisi anch’io.
Prima di scendere Peters si era tolto la camicia, che ora,
unita alla mia, mi forniva la corda necessaria all’impresa.
Gettai dunque nel precipizio il fucile che avevamo trovato, legai la corda al cespuglio di nocciolo e mi lasciai
subito scivolare, cercando di dimenticare, con i movimenti stessi, la paura che altrimenti non avrei saputo dominare. Il trucco funzionò abbastanza bene all’inizio,
ma presto mi sentii sconvolto all’idea del precipizio che
dovevo ancora scendere, col solo aiuto dei gradini molto
precari e dei fori nella steatite. Mi sforzavo invano di allontanare da me quel pensiero e di non staccare lo
sguardo dalla parete liscia che avevo davanti; più lottavo
disperatamente per non pensarci, più la mia testa si fissava su quell’idea. Alla fine la mia mente entrò in crisi,
quella crisi spaventosa in cui si cominciano ad anticipare
le sensazioni più adatte a provocare la caduta, in cui si
prova la nausea, le vertigini, l’ultimo sforzo e l’orrore finale di una caduta a capofitto. Vivevo quelle allucinazioni come una realtà, sentivo tutte quelle cose orribili
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piombarmi addosso, divenire reali, sentivo le ginocchia
tremare forte, le dita indebolirsi poco a poco sull’appiglio. Qualcosa ronzava nelle mie orecchie e pensavo:
«Ecco il gelo della morte!». E allora mi prese un desiderio irrefrenabile, quello di guardare in basso. Non potevo più, non volevo più tenere lo sguardo fisso sulla
roccia e, con una selvaggia, inesprimibile sensazione in
cui l’orrore si mescolava al sollievo, spinsi il mio sguardo
fino in fondo all’abisso. Per un attimo ancora le mie dita
s’aggrapparono convulsamente al loro appiglio e quello
sforzo accompagnava in me l’idea indebolita della salvezza finale – qualche cosa come un’ombra fluttuante
attraverso la mia mente – e quasi subito sentii la mia
testa presa dall’impulso di cadere, un desiderio, un fascino, una passione assolutamente invincibile. Mollai la
presa e, piegato su me stesso lungo la parete, oscillai,
per un secondo ancora, contro quella nuda superficie.
Ma ecco che uno schianto si produsse improvvisamente
nel mio cervello: una voce acutissima, la voce di un fantasma, mi gridava nelle orecchie; un viso nero, satanico,
avvolto dall’ombra, si levò immediatamente sotto di me;
mi lasciai sfuggire un sospiro e, come se il cuore mi si
spezzasse, caddi tra le braccia del fantasma.
Avevo perduti i sensi e Peters mi aveva afferrato in
tempo nel momento in cui stavo per cadere. Dal fondo
della parete aveva seguito i miei movimenti e, intuendo
il pericolo che mi minacciava, aveva cercato d’incoraggiarmi con tutti i mezzi che aveva potuto immaginare;
ma la mia mente era così stravolta che non avevo sentito
nulla di ciò che mi diceva e non mi ero neanche accorto
che parlasse. Alla fine, vedendomi vacillare, si era affrettato ad arrampicarsi per soccorrermi ed era arrivato ap189
pena in tempo. Se fossi caduto con tutto il mio peso, la
debole corda si sarebbe spezzata e sarei inevitabilmente
sprofondato nell’abisso; ma il mio compagno arrestò la
mia caduta e potei restare sospeso nel vuoto finché non
ebbi ripreso coscienza, cosa che richiese un buon quarto
d’ora. Una volta tornato in me, la vertigine era sparita;
ero come rinato e, sempre con l’aiuto di Peters, raggiunsi sano e salvo la base del precipizio.
Non eravamo molto lontani dalla gola in cui i nostri
amici avevano perso la vita, a sud del punto in cui la collina era crollata. L’aspetto del luogo era stranamente desolato, simile alle descrizioni che i viaggiatori fanno delle
tristi contrade della vecchia Babilonia; per non parlare
delle rovine delle colline sprofondate che sbarravano
l’orizzonte a nord. Il terreno era disseminato di enormi
tumuli che sembravano i resti di gigantesche architetture,
ma a guardare più da vicino non vi si riconosceva la
mano dell’uomo. C’erano solo detriti e grossi blocchi di
granito, informi e neri, si alternavano qua e là a blocchi
di marna, e i due materiali avevano ricche incrostazioni
metalliche; scorgemmo anche enormi scorpioni e rettili
che normalmente non si trovano a quelle latitudini.
Nostra prima preoccupazioni era di procurarci qualcosa
da mangiare, per cui decidemmo di dirigersi verso il litorale, distante non più di mezzo miglio, per catturare
delle tartarughe che avevamo visto dall’alto del nostro
nascondiglio sulle colline. Avevamo fatto appena cento
yards, scivolando con prudenza dietro i grossi blocchi e
i tumuli, e stavamo per girare un angolo, quando cinque
indigeni balzarono fuori da una piccola caverna e abbatterono Peters con un colpo di mazza; lui cadde e gli
assalitori si lanciarono nuovamente su di lui per finirlo
190
e io ebbi il tempo di riavermi dalla sorpresa. Avevo ancora con me il fucile, ma il grilletto era stato danneggiato
per la caduta dall’alto del precipizio e pensai che fosse
inutilizzabile; così lo gettai, preferendo affidarmi alle pistole, che invece avevo conservato con grande cura.
Avanzai verso gli aggressori e feci fuoco; due selvaggi
caddero e un altro che stava per trafiggere Peters con la
lancia, fece un balzo indietro senza mettere in opera il
suo triste disegno. Liberato il mio amico, il peggio era
passato. Anche Peters aveva le sue pistole di cui però
non fece uso, preferendo contare sulla sua forza, veramente superiore a qualunque altro uomo. Impugnò
quindi la mazza di uno dei selvaggi stesi a terra e spappolo la testa ai tre che restavano, spedendoli istantaneamente all’altro mondo, con un colpo solo. In breve
restammo padroni del terreno.
Tutto questo si era svolto in un batter d’occhio e, non
credendo ai nostri occhi, ce ne stavamo attoniti, accanto
a quei cadaveri, immersi in una sorta di ebete contemplazione, quando dei clamori lontani ci richiamarono
alla realtà. Evidentemente le esplosioni avevano messo
in allarme gli indigeni e ci avrebbero sicuramente scoperti. Per tornare alla collina saremmo dovuti andare
nella direzione da cui provenivano le grida e, ammesso
che fossimo riusciti a raggiungerla, era impossibile che
non ci vedessero. La situazione era delle peggiori e non
sapevamo dove andare, quando uno dei selvaggi che
avevo colpito e che credevo morto si alzò improvvisamente, cercando di scappare. Lo bloccammo subito
prima che potesse fare un passo e stavamo per ucciderlo, quando Peters suggerì che sarebbe stato meglio
portarlo con noi. Lo trascinammo dunque, facendogli
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capire che se avesse resistito lo avremmo ucciso; bastò
poco per renderlo docile e ci seguì nella nostra corsa
precipitosa attraverso le rocce in direzione della costa.
Il terreno era così accidentato che vedevamo il mare
solo a tratti e quando ci apparve per intero eravamo alla
distanza di sole duecento yards. Sbucando allo scoperto
sulla sabbia, vedemmo, con nostra grande costernazione, che una moltitudine di isolani si riversava dal villaggio e da resto dell’isola correndo verso di noi con
gesti furiosi e con urla bestiali. Stavamo per fare dietrofront per nasconderci negli anfratti del terreno quando
scorgemmo la prua di due piroghe dietro una grossa
roccia. Corremmo alla massima velocità consentita dalle
nostre gambe e, raggiungendole scoprimmo che non
c’era nessuno, ma solo tre grosse tartarughe e remi sufficienti per un equipaggio di sessanta persone; spingemmo il prigioniero a bordo e mettemmo la piroga in
acqua con tutta l’energia che ci rimaneva.
Eravamo appena a cinquanta yards della spiaggia quando
ci rendemmo conto che avevamo commesso una grande
sciocchezza lasciando la seconda piroga in mano ai selvaggi, che erano giunti a cento yards dalla riva e acceleravano la corsa. Non c’era tempo da perdere, avevamo
un’unica speranza, a costo di enormi sforzi dovevamo
tornare indietro e raggiungere l’altra piroga prima che
se ne impadronissero gli indigeni. Era l’unico modo per
salvarci, altrimenti eravamo condannati.
La piroga era costruita con prua e poppa identiche, cosicché non occorreva fare una virata, ma bastò cambiare
posizione ai remi per invertire la rotta. Appena i selvaggi
si accorsero dei nostri movimenti, raddoppiarono le loro
grida come la foga e si avvicinavano a gande velocità.
192
Dal canto nostro, remavamo con la forza della disperazione e, quando giungemmo alla piroga, uno solo degli
indigeni ci aveva raggiunto e pagò cara la sua velocità,
perché Peters gli bruciò le cervella nel momento stesso
in cui toccava il bordo. Il gruppo degli isolani era all’incirca a venti o trenta passi da noi saltammo nella piroga:
prima tentammo di trascinarla al largo, fuori di portata
dei selvaggi, ma vedendo che era troppo pesante e che
non c’era tempo, con uno o due colpi col calcio del fucile Peters la sfondò a prua e ai lati. Fatto ciò, riguadagnammo il largo; due indigeni avevano fatto in tempo
ad aggrapparsi alla nostra imbarcazione e non volevano
mollare, cosicché ci vedemmo costretti a liberarcene a
colpi di coltello.
Questa volta ce l’avevamo fatta... filavamo veloci in
mare e il grosso dei selvaggi, raggiunta la piroga demolita, lanciò urla di rabbia e di vendetta. In verità, quanto
ho potuto conoscere sul conto di quegli scellerati, me li
ha rivelati come la razza la più perversa, più astuta, più
vendicativa, più sanguinaria e, sotto tutti i punti di vista,
più diabolica che si sia vista sulla faccia della terra. Ci
avrebbero certamente massacrati se fossimo caduti nelle
loro mani. Cercavano ancora con sforzi disperati di
spingere la piroga squarciata, ma presto dovettero convincersi che non era utilizzabile e, dopo avere di nuovo
lanciato grida spaventose, si lanciarono verso le colline.
Non c’erano pericoli immediati, ma la situazione non
era comunque rosea: pensavamo che i selvaggi avessero
altre quattro piroghe simili alla nostra, perché non eravamo ancora stati informati – il nostro prigioniero ce lo
disse più tardi – che due di esse erano state distrutte dall’esplosione della Jane Guy. Calcolammo quindi che sa193
remmo stati inseguiti dai nostri nemici appena avessero
potuto raggiungere l’altro lato della baia, distante circa
tre miglia, dove di solito stavano le piroghe, e con quel
timore cercavamo di allontanarci il più possibile dall’isola, scivolando velocissimi sull’acqua, dopo aver costretto il prigioniero a prendere anche lui il remo. Circa
mezz’ora dopo, percorse almeno cinque o sei miglia
verso sud, ci apparve una moltitudine d’imbarcazioni a
fondo piatto e di zattere, provenienti dal fondo della
baia, con l’evidente intenzione d’inseguirci, ma ben presto li vedemmo tornare indietro, forse giudicando disperato e vano il tentativo.
Capitolo 25
Eccoci dunque in mezzo all’immenso e lugubre Oceano
Antartico, sotto una latitudine che superava gli 84°, in
una fragile piroga, senza altri viveri che tre tartarughe.
Doveva inoltre essere ormai vicino il lungo inverno polare, per cui dovevamo decidere con urgenza il da farsi.
C’erano sei o sette isole in vista, appartenenti al medesimo arcipelago e distanti cinque o sei leghe le une dalle
altre, ma non avevamo nessuna voglia di avventurarci
su alcuna di esse. La Jane Guy era arrivata nord e si era
lasciata alle spalle zone glaciali spaventose, anche se ciò
non concorda con le comuni nozioni sull’Oceano Antartico, ma che la nostra esperienza personale non metteva in dubbio. Di conseguenza, cercare di tornare da
quella parte sarebbe stata una vera follia, soprattutto
con la stagione così avanzata. Sola una strada ci sembrava offrire speranze, e fu dunque deciso di spingersi
194
coraggiosamente verso sud, dove almeno avremmo potuto scoprire altre terre e dove il clima forse era più clemente.
Fino ad allora avevamo osservato che nell’Oceano Antartico, come in quello Artico, non si scatenavano mai
tempeste violente né ondate esagerate; la nostra piroga
era grande ma fragilissima e pensammo di renderla più
solida, per quanto ci consentivano le nostre limitatissime
risorse. L’imbarcazione era costituita dalla corteccia di
un albero sconosciuto e misurava circa cinquanta piedi
da poppa a prua, da quattro a cinque piedi in larghezza
e quattro e mezzo di profondità; era quindi sostanzialmente diversa dalle imbarcazioni di altri indigeni dell’Oceano del sud coi quali le nazioni civilizzate sono
entrate in contatto. Noi non avevamo mai pensato che
quelle piroghe potessero essere opera di quei selvaggi
primitivi che le possedevano; più tardi infatti, interrogando il nostro prigioniero, venimmo a sapere che erano
state costruite dagli indigeni di un arcipelago situato a
sud-ovest delle isole in cui le avevano trovate e che, per
nostra fortuna, erano cadute nelle mani dei nostri nemici. Coi numerosi remi che non ci servivano costruimmo una specie di armatura a prua per rinforzarla
contro le ondate e piantammo inoltre due remi in guisa
di alberi, fissandoli ai due bordi, uno di fronte all’altro,
e agganciammo a questi alberi improvvisati una vela formata dalle nostre due camicie; e questo lavoro ci richiese
non poco tempo perché non ottenemmo aiuto dal prigioniero. L’aspetto della vela sembrava spaventarlo e
non c’era modo di convincerlo a toccarla; quando tentavamo di forzarlo o di avvicinarlo a essa, si metteva a
tremare, gridando: «Tekeli! Tekeli!».
195
Dopo aver sistemato in quel modo la piroga, doppiammo l’ultima isola dell’arcipelago e puntammo decisamente verso sud. La temperatura era gradevole,
soffiava una dolce brezza da sud, il mare era calmo e le
giornate erano lunghissime. Non c’era ghiaccio in vista
e non avevamo neppure scorto un iceberg, passato il traverso dell’Isola di Bennet. Evidentemente la temperatura dell’acqua era molto elevata. Uccidemmo la più
grossa delle nostre tartarughe, che ci fornì contemporaneamente carne e acqua in abbondanza, poi proseguimmo la navigazione senza incidenti per sette o otto
giorni, col vento costantemente favorevole e la corrente
che ci spingeva nella direzione scelta; così potemmo fare
un tragitto considerevole verso sud.
1° marzo.1 Molti fenomeni insoliti ci fecero pensare che
stavamo entrando in una regione di grandi scoperte e
di meraviglie. L’orizzonte a sud era costantemente velato
da una vasta cortina di vapore grigio e impalpabile, incendiata a tratti da banderuole di fuoco ondeggianti da
ovest a est o viceversa e uniforme in basso e in alto: in
poche parole un fenomeno con tutte le violente variazioni di un’aurora boreale. L’altezza media di quella cortina, come ci appariva dal punto in cui ci trovavamo, era
di circa 25°; la temperatura del mare sembrava momentaneamente salita e se ne percepiva il calore.
3 marzo. Quel giorno, tempestando di domande il nostro prigioniero, ottenemmo alcune spiegazioni sull’isola
del massacro, sui suoi abitanti e sui suoi costumi; il let1
Per motivi che il lettore comprenderà facilmente, non posso garantire l’esattezza dei dati che seguono. Li riporto solo per dare più
chiarezza al mio racconto, nel modo in cui li ho annotati sul taccuino per mezzo della mia matita.
196
tore potrebbe ancora interessarsi a questi dettagli. Dirò
solamente che l’arcipelago era composto di otto isole,
con un unico re, chiamato Tsalamon o Tsalamoun che
risiedeva in una delle più piccole; dirò anche che le pelli
che costituivano l’uniforme dei guerrieri provenivano
da un animale di taglia enorme, che viveva esclusivamente in una vallata vicina alla residenza reale; che gli
isolani non costruivano altre imbarcazioni che delle zattere a fondo piatto, e che le quattro piroghe, le uniche
che avessero di quel tipo, erano venute loro per caso da
una grande isola sud-ovest; che il nome del nostro prigioniero era Nu-mu, che non conosceva affatto l’Isola
Bennet; e infine, che l’isola da cui eravamo fuggiti si
chiamava Tsalal. La sillaba iniziale della parola Tsalaman
o Tsal, si pronunziava con un fischio prolungato che ci
fu impossibile riprodurre, anche dopo ripetuti sforzi, e
che era esattamente identico a quello del tarabuso nero
che avevamo mangiato in cima alla collina.
3 marzo. Il colore dell’acqua era veramente strano: la colorazione si era rapidamente alterata; aveva perduto
tutta la trasparenza per prendere la tinta e la consistenza
del latte. Nelle nostre immediate vicinanze il mare normalmente era calmo e la nostra imbarcazione non correva alcun pericolo. Spesso però vedevamo alla nostra
destra o a sinistra, più o meno lontane, delle improvvise
increspature della superficie e notammo che erano sempre precedute da strane ondulazioni del mare nella regione a sud.
4 marzo. Quel giorno, visto che il vento da nord calava
sensibilmente, tolsi dalla tasca un fazzoletto bianco per
aumentare la superficie esposta al vento. Nu-mu era seduto al mio fianco e, come il fazzoletto gli sfiorò il viso,
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ebbe delle convulsioni violente. A queste crisi seguirono
una profonda depressione e torpore, e sempre il grido
soffocato: «Tekeli! Tekeli! ».
5 marzo. Il vento è cessato del tutto, ma siamo sempre
trascinati verso il sud da una forte corrente. A dire il
vero, avevamo tutte le ragioni per essere allarmati dalla
piega degli avvenimenti, eppure niente ci turbava; il viso
di Peters non tradiva alcun timore e solamente in certi
momenti assumeva un’espressione che non saprei definire. L’inverno polare si avvicinava, ma non sembrava
così terribile, e io mi sentivo come intorpidito nel corpo
e nella mente, in una sensibilità di sogno, e ciò era tutto!
6 marzo. Il vapore grigio si era alzato di più gradi al di
sopra dell’orizzonte e la colorazione grigiastra spariva a
poco a poco. L’acqua era molto calda, quasi bruciava a
toccarla e il colore era lattiginoso. Quel giorno, improvvisamente, l’acqua si agitò vicino alla piroga e, come
sempre, il fenomeno coincise con una particolare fiammata alla sommità della cortina di vapore e con uno
strappo leggero alla sua base; quando il vapore si arrestò
e il mare si calmò una fine polvere bianca cadde sulla
piroga e su un esteso braccio di mare. Nu-mu crollò allora sul fondo dell’imbarcazione, nascondendo il viso
tra le mani e niente poté deciderlo ad alzarsi.
7 marzo. Abbiamo interrogato Nu-mu sul motivo che
aveva spinto la sua tribù a massacrare i nostri compagni,
ma era troppo terrorizzato per risponderci in modo ragionevole; rimaneva steso in fondo all’imbarcazione e di
fronte alle nostre insistenze nel porgli la domanda, faceva
gesti strani, come sollevare il labbro superiore coll’indice
per scoprire i denti. Erano neri ed era la prima volta che
osservavamo i denti di un indigeno di Tsalal.
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8 marzo. Uno di quegli animali bianchi che, al suo apparire nella baia di Tsalal, aveva causato un’emozione
così forte fra i selvaggi, nuotava a fianco della nostra piroga. Ho pensato per un momento di catturarlo ma poi,
preso da un improvviso timore, ho lasciato perdere. Il
calore dell’acqua andava sempre crescendo, non si poteva resistere a lungo immergendo la mano. Peters non
apriva bocca e non sapevo spiegarmi la sua apatia.
Guardai Nu-mu: respirava appena.
9 marzo. Intorno a noi è caduta continuamente una
pioggia di cenere in grande quantità; il nastro di vapore
al sud si è alzato in cielo in modo prodigioso e comincia
ad assumere una forma ben definita. Non saprei trovare
definizione migliore che paragonandola a un’infinita cataratta, che rotola silenziosa in mare da un lontanissimo
bastione. La gigantesca copriva in tutta la sua estensione
l’orizzonte a sud
21 marzo. Le tenebre incombevano su di noi, ma dall’oceano color latte si alzava un raggio di luce che sembrava sfiorare i bordi dell’imbarcazione. Eravamo quasi
sepolti da quella valanga di cenere bianca che si ammonticchiava sempre più sulla piroga, ma che fondeva al
contatto dell’acqua. Il fondo della cateratta era inghiottito dalle tenebre in lontananza, tuttavia ci avvicinavamo
a essa con una spaventosa velocità. A momenti vi si potevano distinguere come degli enormi strappi momentanei, e attraverso questi strappi si vedevano agitarsi
immagini fuggevoli e nebulose; vi convergevano, venti
possenti, ma silenziosi, il cui volo fendeva l’oceano incendiato.
22 marzo. Le tenebre si erano fatte ancora più opache,
attenuate solamente dalla luce delle acque che si riflet199
tevano nella cortina bianca che si spiegava davanti a noi.
Intanto, delle vere orde di uccelli giganteschi, di un
bianco livido, volavano continuamente dietro la nostra
strana vela e il grido che lanciavano, sfuggendo ai nostri
occhi, era l’eterno ritornello: «Tekeli-li!». Nu-mu ha
fatto uno strano movimento in fondo all’imbarcazione
e, toccandolo, abbiamo capito che non era più nel
mondo dei vivi. E allora siamo accorsi nell’abbraccio
della cataratta, in cui si era aperto una fenditura, quasi
per inghiottirci. Ma nel nostro cammino si levò a un
tratto una figura umana, ricoperta da un velo e molto
più grande del comune. E il colore della pelle dello
strano fantasma era il bianco perfetto della neve.
FINE
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NOTA
La stampa quotidiana ha già dato notizia al pubblico
delle circostanze collegate alla recente, dolorosa e improvvisa scomparsa del signor Pym. I pochi capitoli finali che, mentre gli altri erano già in corso di stampa,
furono trattenuti per una revisione, temiamo che siano
andati irrimediabilmente perduti nell’incidente che ha
visto la morte del loro autore. In caso contrario, se mai
verranno ritrovate, anche queste pagine saranno rese
note al pubblico.
Niente è stato lasciato d’intentato per rimediare alla lacuna. La persona che viene citata nell’introduzione, che
da quanto dice potrebbe ritenersi in grado di colmare
questo vuoto, ha declinato il compito con valide obiezioni, sia per i pochi precisi particolari di cui dispone,
sia per avere dubbi sull’autenticità dell’ultima parte del
racconto. Da Peters, che è vivo e abita in Illinois, qualche
informazione potrebbe forse essere possibile ottenerla,
ma fino a oggi è stato impossibile rintracciarlo. Se in futuro lo si potrà incontrare, saprà sicuramente fornire gli
elementi utili a completare la storia del signor Pym.
La perdita degli ultimi due o tre capitoli (infatti erano
soltanto due o tre) è tanto più irrimediabile in quanto
contenevano con sicurezza materiale relativo al Polo, o
perlomeno alle zone più vicine a esso, e anche perché le
rivelazioni che l’autore ha fatto su quelle regioni potrebbero venire confermate oppure smentite, in tempi non
lontani, dalla spedizione governativa in corso di allestimento nei mari dell’Antartico.
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Stampato nel dicembre 2015
da Tipografia ABC - Sesto Fiorentino (Fi)