G. CANTINO WATAGHIN, Archeologia dei monasteri. L
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G. CANTINO WATAGHIN, Archeologia dei monasteri. L
ARCHEOLOGIA DEI MONASTERI L’ALTOMEDIOEVO di GISELLA CANTINO WATAGHIN Università di Torino Negli ultimi due decenni si sono intensificate le ricerche archeologiche nell’ambito di importanti complessi monastici dell’alto medioevo: Farfa (W HITEHOUSE 1985; MCCLENDON 1986; GILKES-MITCHELL 1995); S. Vincenzo al Volturno (HODGES-MITCHELL 1985; HODGES (ed.) 1993 e 1995); S. Salvatore/S. Giulia di Brescia (BROGIOLO 1991a e 1993); Sirmione (BROGIOLO 1989b); Novalesa (CANTINO WATAGHIN 1995 e 1996b); Sesto al Reghena (TORCELLAN 1988; MENIS 1992; DESTEFANIS 1996 e 1997); ad esse si sono affiancate indagini sistematiche su specifiche aree territoriali (PANI ERMINI 1981, 1983 e 1994; CHERUBINI 1992; SALADINO 1996): ne è risultato sensibilmente arricchito il quadro delle conoscenze su quello che è uno dei fenomeni di maggior portata e più ricchi di valenze del mondo postclassico, sul quale, per contro, l’indagine archeologica, per ragioni diverse, non aveva avuto in passato uno sviluppo adeguato all’importanza del tema (JAMES 1981; CANTINO WATAGHIN 1989 e in c.d.s.; v. anche BONDE-MAINES 1988). I risultati di questi lavori, anche se in parte noti solo da relazioni preliminari, e di altri, che muovono dal patrimonio documentario di singoli enti (fra gli altri GEARY 1985; BALZARETTI 1989), hanno sollecitato la formulazione di alcuni modelli interpretativi (BALZARETTI 1994 e 1996; HODGES 1989 e 1994), stimolanti tanto sotto il profilo teorico quanto per gli spunti che offrono all’ulteriore ricerca sul campo. A fronte dei problemi di metodo che questa presenta (MYTUM 1989) e delle difficoltà oggettive con le quali deve confrontarsi – i limiti che sono posti alle indagini dalle esigenze attuali di funzionalità degli edifici, le stratificazioni particolarmente complesse e frammentate, i conseguenti problemi, spesso insormontabili, di interpretazione dei dati quando questi siano ristretti a sondaggi di limitata estensione – non sembra inutile affrontare in questa sede, sia pure in termini schematici, alcuni dei temi che appaiono maggiormente suscettibili di sviluppi, nella prospettiva di future indagini che non si vogliano limitate all’analisi più o meno occasionale della singola emergenza. L’archeologia dei monasteri si identifica ancora, nella maggior parte dei casi, con quella degli edifici di culto che li caratterizzano. In essi e specificamente nella chiesa abbaziale, l’istituzione esprime la propria identità spirituale, ma al tempo stesso viene tradotto e al caso esaltato il contesto culturale, economico, sociale, politico in cui essa si muove; i termini di questo rapporto non sono tuttavia univoci, né è ovvia la loro lettura, nel momento in cui non sono di fatto definiti parametri sicuri per una valutazione non esclusivamente formale dell’architettura altomedievale, e in cui di questa è in genere riconoscibile la sola ossatura, essendo perduto, tranne in casi del tutto eccezionali, l’insieme dei rivestimenti parietali e degli arredi. Nell’VIII sec., nel quadro di una sostanziale equivalenza di dimensioni delle abbaziali conosciute, si registra l’adozione di schemi architettonici diversi anche in ambiti relativamente prossimi quali quelli dell’Italia settentrionale: a navata unica con presbiterio triabsidato in San Salvatore di Sirmione (BROGIOLO 1989b), sviluppato a “T” a S. Maria di Sesto (TORCELLAN 1988; MENIS 1992); a tre navate e abside unica nella fase desideriana di San Salvatore di Brescia (BROGIOLO 1989a); a navata unica ed abside quadra a Novalesa (CANTINO WATAGHIN 1988), dove è presente oltre che nella chiesa abbaziale, anche nelle cappelle minori. Con i loro nessi con aree diverse – ravennate, altoadriatica, transalpina nelle sue varie articolazioni – queste scelte possono essere gli esiti delle specifiche situazioni culturali e politiche delle diverse fondazioni, dei contesti locali, con le loro risorse e tradizioni costruttive, di altre variabili, non ultima quella cronologica. La casistica è troppo ridotta, e troppo poco si conosce sulla realtà dei singoli cantieri, perché si possa proporre un’opzione fra le diverse ipotesi, che dovrebbe comunque confrontarsi con altre indicazioni, quali quelle offerte dai frammenti di arredi scultorei e dai rivestimenti pittorici, ai quali era affidata in non poca misura la qualificazione dell’edificio. Proprio per Novalesa, fondazione franca, dove responsabile della costruzione della chiesa abbaziale è Walcuno, vescovo probabilmente di Moriana (GEARY 1985; CANTINO WATAGHIN 1988) queste, per la fase iniziale dell’abbazia, rimandano esplicitamente all’ambito longobardo e a botteghe di possibile matrice aulica (CANTINO WATAGHIN-COLONNA DURANDO 1994; CANTINO WATAGHIN 1996a). Questa complessità di riferimenti, mentre conferma i limiti di un concetto rigido di frontiera alpina (GASPARRI 1995), apre una discussione più ampia sul ruolo di mediazione fra realtà locali e sovraregionali al quale i grandi monasteri sono potenzialmente chiamati, in ragione della distribuzione su raggio anche assai vasto delle loro dipendenze e dell’intreccio di rapporti di varia natura – religiosa, culturale, personale – che legano le diverse comunità e i loro abati. Gli schemi planimetrici adottati per le abbaziali sopra ricordate non appaiono comunque esclusivi dell’ambito monastico: le esigenze di ripartizione dello spazio fra la comunità religiosa e i fedeli non sembrano essersi tradotte, almeno a livello di strutture, in formulazioni specifiche, diverse da quelle in uso per gli edifici di culto destinati alla cura d’anime. Al di là degli interrogativi che possono aprirsi sulla valenza del rapporto forma/funzioni, questo fatto, cui si aggiunge la generale difficoltà di ricostruire la disposizione degli arredi liturgici, pone evidentemente dei problemi di interpretazione, là dove tempi e modi di istituzione del monastero non siano sicuri, come è il caso di non poche fondazioni longobarde o presunte tali, ma anche dove esistano strutture precedenti una fondazione conosciuta, la cui identità rimane di necessità ambigua: è quanto avviene, ad esempio, della prima fase di San Salvatore di Brescia, nell’ipotesi verosimile che essa risalga ancora al VII secolo (BROGIOLO 1989a, 1991 e 1993). Il caso del monastero di Torba, di cui l’iconografia della decorazione pittorica attesta l’esistenza nell’VIII secolo (BERTELLI 1988), mentre le fonti ne fanno menzione solo nell’XI (BROGIOLO-GELICHI 1996), è del tutto eccezionale. Anche per questa ragione, e non soltanto per i limiti delle ricerche, la geografia dei monasteri altomedievali continua dunque a rimanere largamente approssimata, rendendo assai ardua, se non vanificando, un’analisi sulla logica – o sulle logiche – della loro distribuzione, al cui riguardo ancora oggi difficilmente si può uscire dal campo delle ipotesi (CANTINO WATAGHIN 1989 e in c.d.s.). Con il passaggio dall’VIII al IX sec. gli impianti delle abbaziali sembrano mettere in evidenza una nuova gerarchia fra le istituzioni monastiche; gli interventi strutturali e decorativi, generalizzati, sugli edifici esistenti, si traducono infatti nella formazione di due “scale di grandezza” (HODGES 1994), che vedono da un lato le grandi abbaziali regie, fra le quali al momento sembra collocarsi solo S. Vincenzo Maggiore, e dall’altro chiese che conservano dimensioni più ridotte; questo non implica peraltro, necessariamente, minor complessità e impegno architettonico. Non sembra quindi giustificata per queste ultime una qualifica di “modestia”, ma rimane comunque da risolvere il problema che esse presentano, nel quadro di situazioni – quali quelle di S. Salvatore/S. Giulia di Brescia o di Novalesa – in cui l’istituzione ha una consistenza economica e un rilievo politico ben precisi, palesati del resto dall’importanza degli edifici monastici. Questa è particolarmente evidente nel monastero bresciano di San Salvatore (BROGIOLO 1993), i cui edifici sembrano proporzionati non tanto alle esigenze della co- ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 1 munità, quanto a quelle del contesto aulico da cui muove la fondazione, in termini analoghi a quanto avviene, ad esempio, nel monastero vescovile di San Giovanni di Müstair (SENNHAUSER 1996c). Su piano dell’organizzazione generale, quanto è noto degli edifici monastici – l’attenzione per i quali è fatto assai recente (Wohn- und Wirtschaftbauten 1996) – permette di seguire l’affermarsi nel corso dell’VIII sec. del tipo di impianto a corpi di fabbrica rettangolari allungati regolarmente disposti a chiudere uno spazio aperto quadrangolare, con il quale si può identificare il concetto stesso di chiostro, indipendentemente dalla presenza o meno dei portici che ne sono una caratteristica distintiva nei secoli successivi. Questo schema si delinea a partire da una componente di base, costituita da un corpo di fabbrica a pianta rettangolare marcatamente allungata, che ha una convergenza solo fenomenologica con le domus dei cenobi pacomiani (HORN 1973); il tipo è infatti presente in modo consistente già dai secoli precedenti e sembra affermarsi, nell’ambito di usi collettivi, contestualmente alla diffusione in età tardoantica di nuove tipologie dell’edilizia privata e di nuovi modi di abitare (per le quali v. Edilizia residenziale 1994; SERENI 1995). Esso si caratterizza per una grande flessibilità in ordine alle destinazioni d’uso, precisabili di volta in volta dall’articolazione interna degli spazi, adattandosi tanto al primo, modesto impianto del monastero di Romainmôtier (SENNHAUSER 1995) e agli edifici in legno delle fasi di VI-VII sec. del cenobium beate Afre di Augsburg (DANNHEIMER 1996) e di quella dell’inizio dell’VIII sec. del monastero della Herreninsel del Chiemsee (DANNHEIMER 1991) quanto al possibile palazzo di SaintDenis, un edificio assai vasto (m 50×14) costruito nel corso dell’VIII sec., completato da un portico in facciata (WYSS 1996). Una planimetria di questo tipo è ipotizzabile anche per il meglio individuato degli edifici più antichi del monastero di Novalesa, da attribuire verosimilmente ad un momento precedente la fondazione dell’abbazia (a. 726), ed è documentata per la fase carolingia (CANTINO WATAGHIN 1996). In ambito civile, nella prima metà del VI secolo il grande edificio di Monte Barro (BROGIOLO 1991 e 1994) è composto da tre unità di questo tipo, con scansioni interne e funzioni diverse, disposte a U intorno ad un ampio cortile. Il rapporto di questo impianto con le soluzioni a cortile centrale dell’architettura romana e tardoantica è forse meno stretto di quanto si voglia in genere, in considerazione della sostanziale autonomia che ciascuno di questi corpi di fabbrica conserva, e del valore del cortile, inteso a una distribuzione e a un raccordo puramente funzionali. Nella fase di VIII secolo di Romainmôtier due di questi corpi di fabbrica sono collegati a L, e disposti ad una certa distanza dalle due chiese allineate del monastero, in modo da racchiudere in qualche misura lo spazio interposto (SENNHAUSER 1995 e 1996a); a Herrenchiemsee invece i corpi di fabbrica sono disposti a U, rimanendo peraltro nettamente indipendenti, così come quelli in muratura che li sostituiscono intorno alla metà dell’VIII sec.; è soltanto all’inizio del IX secolo che questi sono a loro volta sostituiti da un vero e proprio impianto claustrale (DANNHEIMER 1991). Anche a Novalesa questo si definisce sullo scorcio dell’VIII o all’inizio del IX sec., quando gli edifici monastici vengono interamente ricostruiti e allineati sull’orientamento della chiesa abbaziale, mentre in precedenza ne divergevano in misura sensibile. Nel nuovo impianto le diverse ali si dispongono regolarmente intorno allo spazio aperto centrale, pur mantenendo ciascuna la propria autonomia strutturale; mancano finora prove della esistenza di portici, che peraltro le condizioni climatiche renderebbero opportuni e che non è escluso quindi potessero essere in legno (CANTINO WATAGHIN 1996b). L’impianto claustrale è compiutamente delineato a Brescia nel monastero desideriano di S. Salvatore e, in un orizzonte cronologico assai prossimo, in quelli di Lorsch (Vorromanische Kirchenbauten 1966 e Nachtragsband 1991) e di S. Giovanni di Müstair (SENNHAUSER 1996; per un possibile esempio analogo a Feltre, forse identificabile con l’episcopio, v. HUDSON 1989); prima ancora è presenta nel primo impianto del monastero della Reichenau, fondato nel 724, in origine ligneo e poi in muratura (ZETTLER 1988 e 1996). A Brescia esso è anticipato dagli edifici contestuali alla prima fase della chiesa, non è chiaro se collegati o indipendenti, ma palesemente disposti su assi ortogonali intorno ad un cortile (BROGIOLO 1993); è plausibile l’ipotesi che essi avessero una funzione civile, nell’ambito del palazzo regio: una loro funzione monastica sembra infatti improbabile, considerata la loro disposizione in rapporto alla chiesa. Da questa documentazione emerge che il claustrum rappresenta una formulazione maturata nel corso dell’VIII sec. nel quadro di una ricerca di strutturazione organica degli edifici, contestuale all’affermarsi di una più definita articolazione della vita monastica e dei suoi rapporti con l’ordine sociale, che sfocia nella riforma di Benedetto d’Aniane e nelle decisioni del concilio di Aquisgrana (BIARNE 1990): al di fuori dunque di modelli programmatici – quale sarebbe stata secondo molti la pianta di San Gallo, che si è voluto considerare un documento normativo espresso dal concilio (HEITZ 1980; v. anche HORN-BORN 1979 e HECHT 1983), né strettamente subordinata al clima riformatore dell’inizio del IX sec. (LEGLER 1989 e 1996). Con una conoscenza più estesa delle strutture e un’analisi più puntuale delle loro caratteristiche e della loro cronologia – spesso determinata dal riferimento alle fonti scritte, non necessariamente univoco – sarebbe piuttosto da approfondire quale ruolo abbiano sostenuto in questi sviluppi le variabili legate alle singole fondazioni: la consistenza e la coerenza della comunità, il contesto urbano o rurale, le tradizioni costruttive, la committenza. Anche se non autorizza generalizzazioni, la sequenza di Brescia induce a riflettere. Fra gli edifici dei monasteri, ritornano con una certa frequenza le torri, che alla più ovvia funzione difensiva e a quelle legate agli ingressi o agli edifici di culto, spesso uniscono – o sostituiscono – quella abitativa. L’uso di torri romane come residenza di monaci è ricordato da fonti del VI sec. (SENNHAUSER 1996b). Gregorio Magno (Dial. II, 8, 1011: P.L. 66, c. 198) riferisce che a Montecassino Benedetto viveva in una torre, situata nell’area di ingresso del monastero, di cui occupava il piano superiore, mentre quello inferiore era destinato al diacono Servandus; nelle immediate vicinanze sorgeva l’habitaculum dei discepoli; secondo una ricostruzione verosimile (MORIN 1908; v. anche PANTONI 1980) la torre si sarebbe trovate in corrispondenza della cappella dette “dei Dormienti” e avrebbe avuto dimensioni modeste (4×3,50 m), tali da poter ospitare una sola persona per piano, come sottolineato da Gregorio Magno (Dial. II, 35, 2: P.L. 66, c. 236) (per analoghi casi in ambito merovingio v. WEIDEMANN 1982, 2). La modestia dello spazio trova confronto nella cella del monastero di Santa Croce di Poitiers, attribuita alla fondatrice Radegonda (LABANDE MAIFERT 1989) e un precedente significativo nelle residenze del clero addossate al lato settentrionale della cattedrale nord di Ginevra, datate sullo scorcio del IV-inizio del V secolo (BONNET 1996). È possibile che queste riflettano modelli di vita eremitici: ma non si può non sottolineare la convergenza con le tendenze dell’edilizia privata, nel cui ambito con il procedere della tarda antichità si affermano tipologie abitative a vano unico polifunzionale, non di rado con un piano superiore, come negli edifici ginevrini, in risposta a modi di abitare e stili di vita nuovi (Edilizia residenziale 1994). La distribuzione delle funzioni fra i due piani, residenziale in quello superiore, più umile, di fatto di servizio in quello inferiore, implicita nel racconto di Gregorio Magno, trova riscontro in quella messa in luce dallo scavo della torre di Monselice, abitata nei primi decenni del VII secolo, dove gli intonaci affrescati provenienti dal crollo del piano superiore ne indicano un uso di livello più elevato rispetto a quello del piano inferiore, chiaramente ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 2 utilitario (BROGIOLO-GELICHI 1996; anche in questo caso le dimensioni sono di circa m 4×5; per ulteriore documentazione sull’uso di torri in età tardoantica e sui problemi relativi v. WILKINSON 1995). Un’articolazione funzionale resa più complessa dalla presenza di più piani – comprende un oratorio e sembra aver avuto al piano inferiore anche uso funerario (HANSELMANN 1990) – si registra nella torre di Torba (MAZZA 1978-79; BROGIOLO-GELICHI 1996). È possibile che anche la struttura quadrangolare presente nel settore sud-occidentale dell’abbazia di Novalesa, privo, secondo le fonti, di apprestamenti difensivi, abbia avuto una funzione abitativa: ad essa si addossa la cappella di S. Salvatore, che è un edificio romanico, ma che è ricordata in connessione con la residenza degli abati fin dalle origini del monastero (CANTINO WATAGHIN 1996b). In questa prospettiva andrebbe riconsiderata la funzione della torre del monastero pavese di S. Maria Teodote (PERONI 1972), così come il possibile inserimento nel monastero di S. Maria d’Aurona di Milano (metà dell’VIII secolo) della torre delle mura romane, alla quale si addossava la chiesa altomedievale (DE CAPITANI 1944). Sembra comunque evidente che la presenza anche precoce nei monasteri altomedievali di torri a destinazione abitativa non è un fatto eccezionale, e solo occasionalmente si può spiegare con una volontà di isolamento eremitico, che troverebbe nelle caratteristiche strutturali della torre un contesto simbolico evidente; anche se può essere stata facilitata dal reimpiego di strutture romane, essa riapre comunque il problema dell’affermazione anche prima del X sec. di questa tipica forma di architettura di potere (SETTIA 1988). L’uso di elementi appartenenti alle fortificazioni antiche è solo un aspetto del più vasto problema del reimpiego di strutture precedenti da parte degli insediamenti monastici. La casistica al riguardo è sufficientemente ampia da esimere da citazioni puntuali (SENNHAUSER 1996c); merita piuttosto richiamare il fatto che il fenomeno, che coinvolge terre fiscali o nelle mani dei fondatori privati, ha delle implicazioni in ordine ai regimi di proprietà e alle loro vicende tra tarda antichità e altomedioevo, ancora in buona parte da approfondire: anche in questa direzione uno studio sistematico si prospetta ricco di risultati. BIBLIOGRAFIA BALZARETTI R. 1989, The Lands of St. Ambrose: the acquisition, organization, and exploitation of landed property in northwestern Lombardy by the monastery of Sant’Ambrogio Milan, ca 780-1000, University of London, PhD. BALZARETTI R. 1994, The Curtis, the archaeology of sites of power, in La storia dell’alto medioevo italiano, pp. 99-108. BALZARETTI R. 1996, Cities, Emporia and Monasteries: Local Economies in the Po Valley c. AD 700-875, in CHRISTIE N., LOSEBY S.T. (edd.), Towns in Transition. 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