Democrazia Referendaria.
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Democrazia Referendaria.
Democrazia Referendaria. Opinione pubblica e cambiamento politico nell’Italia contemporanea Marcello Fedele (Sapienza - Università degli Studi di Roma) Editore Donzelli 1 "Conchiudo. L'attuale Parlamento non sarà forse più quando questo libro verrà a la luce. Non importa. Il libro resta ugualmente." (F. Petrucelli della Gattina, I moribondi di Palazzo Carignano, 1862) 2 Introduzione(da completare) pag. Parte Prima: cittadini senza istituzioni 1.democrazia dei partiti - un inquadramento storico - il consolidamento bloccato - la svolta degli anni '80 - le due crisi pag. 4 2. La deriva della regolazione - le pretese della cittadinanza - decisioni di bilancio - il deficit di integrazione - convenienze e doveri pag. 29 3.il trionfo dell'opinione pubblica - mutamenti nella rappresentanza - la razionalizzazione del parlamento - l' impatto dei referendum - massmedia e sistema politico pag. 55 Parte seconda: La politica del cambiamento 3 4. Decisioni controverse - i nuovi confini della comunicazione politica - gli indicatori di processo - decisori alla ricerca di problemi - le riforme elettorali pag. 82 5. cambiamento e risentimento - rivoluzione o diaspora? - tangentopoli - il "governo del referendum" - problemi di rendimento pag.116 6.da una repubblica all'altra - il cambio di guardia - coalizioni sulla sabbia - un nuovo sistema politico? - istituzioni al bivio bibliografia generale cap. 1 La democrazia dei partiti 4 pag.148 pag. 174 1. Un inquadramento storico Nel dopoguerra l'Italia repubblicana nacque da uno scontro interno alle elités politiche di allora: da una parte c'erano i gruppi dirigenti legati ancora alla vecchia tradizione risorgimentale, dall'altra i futuri segretari di partito, che rappresentavano invece le nuove realtà popolari. Conclusa l'esperienza del governo Parri, il conflitto esplose già nel 1946, allorché si trattò di sceglierne il successore. Una dopo l'altra caddero le candidature di uomini come Vittorio Emanuele Orlando, Ruini e Sforza, mentre si impose la scelta di De Gasperi. Scoppola ha colto bene il nocciolo di quella discussione, ricostruendola attraverso l'orientamento dei suoi principali protagonisti. Un governo presieduto da De Gasperi, dirà in quella occasione Togliatti senza mezzi termini, "significherebbe, tra l'altro, rompere una volta per sempre quella specie di tradizione reazionaria la quale tende ad escludere dalla direzione di governo...gli uomini di determinati partiti come il partito democristiano o quello comunista o quello socialista". Poiché sono proprio i partiti che hanno maggior seguito nel paese, un governo formato all'infuori di questi ultimi, magari attraverso una personalità indipendente, sarebbe - concluderà perciò Togliatti - "un fantasma, un nome senza soggetto".1 Più chiaro di così! La prima repubblica è nata dunque dall'esigenza di un "ricambio" politico e non diversamente sta succedendo del resto alla seconda, con una differenza: oggi sono i partiti ad aver perso ogni consenso e la leadership del cambiamento è perciò passata in altre mani. La tesi della "continuità" dello stato repubblicano con il passato regime è stata per la verità proposta ripetutamente sia in sede storica, che politica. Più difficile è stato invece accreditarla anche tra i giuristi, perché questi hanno largamente insistito sulla novità democratica della costituzione del '48, contribuendo in tal modo alla legittimazione di tutto quel nuovo "ceto" che con la stessa si sarebbe ben presto affacciato sulla scena. In realtà la scelta di allora fu quella di concentrare tutti i "poteri" nel parlamento sovrano e tutte le "garanzie" nel sistema dei partiti, sottraendo in tal modo il legislatore a quel duplice ordine di vincoli che rappresentano invece 5 l'essenza stessa di ogni democrazia: un potere di indirizzo politico da parte dell'esecutivo; un controllo di legalità da parte della magistratura. Come già era accaduto allo stato liberale, nel 1948 si privilegiò dunque la "unità" della volontà statale, rendendo nei fatti necessaria la "cooperazione", ma non la divisione, tra i diversi organi istituzionali. La repubblica nacque perciò con un esecutivo debole e con una magistratura che fu sin dall'inizio subordinata al "primato" dei partiti. Naturalmente dal '48 ad oggi il quadro istituzionale è in parte cambiato, soprattutto nel caso dei poteri esercitati dalla magistratura2. Non era questo però il solo limite della prima repubblica, nata in nome di un ricambio nei gruppi dirigenti, piuttosto che nelle istituzioni. Né è molto chiaro come quest'ultimo problema verrà risolto in quella che molti già chiamano la seconda repubblica. Eppure, perché ci sia una effettiva rottura nella storia di un paese, è necessario che i rapporti tra i diversi organi di governo mutino non soltanto sul piano politico, ma anche su quello giuridico-istituzionale. Per funzionare, la divisione dei poteri dovrebbe infatti mantenere pur sempre quello che è il vero punto di forza di ogni gioco d'azzardo: nessuno sa se il punteggio altissimo che ha in mano gli darà davvero il diritto di vincere, perché c'é sempre qualche altro giocatore che potrebbe a sua volta impedirlo3. Non ragionando troppo di fino, chi ha in questi anni sostenuto la necessità del cambiamento non sempre ha avuto tempo per occuparsi di simili dettagli. Si è pensato che sarebbe bastato un ricambio ed ecco che le istituzioni avrebbero ripreso a fiorire, magari a colpi di leggi costituzionali o meno, approvate in gran fretta tra un referendum e l'altro. Non fu così nel 1948 e non lo è stato nemmeno nel 1970 allorché - su pressione di un altro tipo di movimenti, quelli del '68 - si decise di avviare il decentramento regionale. Studiandone il "rendimento" istituzionale e cioè il modo effettivo in cui questo ha operato e non solo le funzioni che astrattamente le leggi prevedevano sulla carta, Putnam avanza a questo proposito degli argomenti sui quali sarebbe utile riflettere attentamente, perché hanno una valenza più generale delle vicende da cui prendono le mosse. La ragione principale della diversa capacità di 6 governo regionale che il Nord ha registrato rispetto al Sud, o che la vita politica di una città come Bologna rivela anche a occhio nudo nel confronto con quella di una qualunque città meridionale, ha un nome e dei suoi possibili indicatori empirici. Per descriverla, Putnam parla di civic-ness, utilizzando perciò un termine che nella lingua italiana non trova un suo esatto corrispondente e che solo approssimativamente, anche se abbastanza fedelmente, può esser tradotto con l'espressione di "senso civico". La vita civile e i rapporti tra gli individui sono da tempo più arretrati nelle regioni meridionali, dove una volta c'era il regno normanno; di poco superiori nei territori che per secoli appartennero allo stato pontificio e avanzati soltanto nelle aree toscane o padane, dove è fiorita la tradizione repubblicana dei comuni. "Già all'inizio del trecento, scrive perciò Putnam, l'Italia si ritrovò non con uno ma almeno con due nuovi sistemi di governo, abbinati ad originali caratteristiche sociali e culturali: la celebre autocrazia feudale normanna al sud e il produttivo repubblicanesimo al nord"4. In questa diversa collocazione di storie, tradizioni e fiducia nelle relazioni personali, nasce perciò quel dualismo di fondo che poi si manifesterà anche sul piano del rendimento politico e istituzionale. Da almeno dieci secoli Nord e Sud affrontano infatti in maniera tra loro diametralmente opposta i "dilemmi" posti dalla azione collettiva: ed è per questa ragione che al Nord le norme di reciprocità e le reti di impegno civico hanno permesso di sviluppare livelli di rendimento istituzionale molto più alti che non al Sud, dove le relazioni sociopolitiche erano e restano invece strutturatesu base clientelare5. Esiste dunque una circolarità nel processo che, partendo dall'esistenza di un diffuso senso di appartenenza civica, spinge poi verso la creazione di istituzioni in grado di consolidarne l'impatto e viceversa. Allorché queste ultime si affermano, ne uscirà infatti rafforzato anche il tessuto sociale in cui le stesse si innestano. Che cosa succede però se il circolo virtuoso non riesce ad avviarsi? L'originalità dell'analisi di Putnam risiede proprio nella capacità di offrire una risposta a questo genere di interrogativi, proponendo un legame tra l'Italia dei comuni e quella regionale, che si stende su un arco temporale di circa mille anni! Naturalmente questo legame non è stato né approfondito sul piano temporale come forse 7 avrebbero fatto gli storici, né inquadrato in maniera sincronica con altri indicatori del sistema politico, come generalmente fanno invece i politologi. E tutto ciò ha sollevato comprensibili critiche tra i meridionalisti e tra gli studiosi dei sistemi politici regionali6. Tuttavia questa analisi presenta uno spessore del tutto insolito proprio perché applica un paradigma relativamente nuovo, quello neoistituzionalista7, alla comprensione delle dinamiche politiche. Cambiata la prospettiva di osservazione, anche il panorama osservato si presenterà dunque diverso. Le istituzioni non si inventano dall'oggi al domani, né nascono solo perché la volontà popolare, oppure il legislatore, ne decretano l'avvio. Presente e passato si intrecciano invece in un unico nodo storico e gli sviluppi del primo sono sempre condizionati dai vincoli tracciati dal secondo. E' una indicazione, questa, che si rivela preziosa sia per riflettere sul nostro passato, sia per guardare ai problemi da questo lasciati in eredità a un futuro ormai prossimo. Le istituzioni non sono infatti figlie di fumose e complicate simbologie, né il ricambio del ceto politico basta ad assicurarne un effettivo funzionamento. L'incertezza che oggi caratterizza ogni tentativo di indicare i possibili profili istituzionali della seconda repubblica, è lì per ricordarci in ogni momento la natura delle difficoltà che si dovranno comunque affrontare. I partiti stanno del resto cambiando simboli, nomi e anche immagine pubblica, ma la cultura politica di un sistema che per tanto tempo è vissuto soltanto su ben circoscritte "appartenenze", è ben più dura a morire. Tangentopoli si è inoltre rivelata una catastrofe della nostra identità nazionale, per un motivo ben diverso e anche più grave di quello che sino ad oggi ha colpito l'immaginazione popolare: se infatti la classe politica ha messo a nudo tutta la propria miseria, dal canto suo il paese ha dovuto prendere atto di esser vissuto per lunghi anni al di fuori di ogni legge. L'elenco di questa profonda mancanza di civic-ness, di appartenenza a una comunità civile, è troppo lungo perché sia possibile riportarlo compiutamente. Si potrebbe cominciare dalle cose minori, ma non per questo meno significative: l'assunzione di massa e al di fuori di ogni concorso, con cui sono stati riempiti i ruoli del pubblico impiego; i falsi invalidi; gli evasori fiscali di 8 professione e così via, sino al mondo inquietante della corruzione8 che giustamente, ma spesso con poco costrutto, tutti si sono affrettati a condannare. Da tempo il "bene pubblico" andava dunque morendo o comunque si andava nascondendo, spaventato dalla diffusione di un linguaggio e di comportamenti politici, al cui interno tutto ciò che coincideva con interessi di tipo negoziale, inevitabilmente veniva considerato anche leggittimo. E' stata questa la vera "macchia cieca"9, la "emergenza catastrofica" che si è sempre più prepotentemente rivelata come il pericolo più grave per la nostra democrazia. Ed è per questa ragione che la "rivoluzione" avrebbe dovuto legare maggiormente il suo destino all'esistenza di un "parametro trascendente", capace di andare oltre l'orizzonte delle utilità individuali o di gruppo. Le cose non sono andate però in questo modo, perché il cambiamento è nato guardando soltanto al presente e si è alimentato in nome degli odi emersi nel passato. Comportandosi come i cattivi prelati dell'alto medioevo che vendevano indulgenze e benefici ecclesiastici, la classe politica della prima repubblica ha naturalmente offerto più di un argomento a questo risentimento, perché la sua azione ha dato vita non a una semplice corruzione, ma a vera e propria simonia10. Se la magistratura aveva il diritto di continuare ad indagare nel passato, le leadership del cambiamento avrebbero però avuto il dovere di guardare al futuro, evitando in tal modo di affidarsi soltanto all'intransigenza della legge. La "politica con altri mezzi"11, è questo il suo nome, indica infatti l'esistenza di limiti anche in chi la promuove, perché si affida alla magistratura una domanda di ricambio che dovrebbe invece maturare in ben altro modo. Se questo è stato però il principale mezzo nel cui nome si è in Italia riusciti ad avviare la "rivoluzione", allora prendiamone atto e tiriamone anche le conclusioni. Chi ha insistito sulla propria "diversità", ha inconsapevolmente approfondito quella esasperata ricerca del nuovo, da tempo avviata grazie ai "guerrieri" di Pontida12. Delegittimatosi in tal modo l'intero sistema politico, l'elettorato si è convinto della necessità di cambiare e in più ci ha aggiunto del suo. Ma non era il "ricambio" il solo problema della prima repubblica, anche se per lungo tempo è stato indicato come 9 tale. Indipendentemente dalle volontà e dalle scelte di ognuno, nel dopoguerra tutti noi siamo diventati cittadini solo grazie ai partiti. Venuti meno questi ultimi, oggi ci rendiamo però conto di non avere ancora le istituzioni necessarie, per stabilizzare la dinamica del cambiamento politico. Le ragioni? Potremo capirle meglio volgendo lo sguardo ad un passato che, in fondo, non è nemmeno troppo lontano. 2.il consolidamento bloccato E' almeno dagli anni settanta che alcune forze politiche cercano di riacquistare consensi, sventolando la bandiera del "partito degli onesti". Di più. E' spesso bastato che si alzasse il "vento del cambiamento" perché, puntualmente, ricomparissero i "tecnici" e i "competenti". Privilegiando l'alleanza con l'etica13, il cambiamento ha dunque fatto sinora a meno di una politica in senso stretto e le stesse istituzioni sono state considerate considerate come un optional, da invocare o meno a seconda dei casi. Si è in tal modo stabilizzata un'interpretazione della democrazia alquanto semplificata. Non è molto diversa da quella proposta per ultimo nella celebre Encyclopaedia Britannica, che nel suo aggiornamento (1993) ha così riassunto il vicolo cieco in cui i "partiti di maggioranza" hanno rinchiuso il paese : " Il loro governo è durato 46 anni, Mussolini e il fascismo resistettero solo 22 anni". Sarà anche vero, ma la democrazia non è soltanto cronologia, con un prima che è "vecchio" e un dopo che è "nuovo", come si è andato invece dicendo per spiegare la "rivoluzione" italiana. Né i governi servono a misurare la durata del tempo, come fanno i calendari. Deboli nello stato unitario prerepublicano, in realtà le istituzioni non sono state rafforzate neanche dopo, durante la repubblica nata dalla resistenza; e tantomeno sono comparse all'orizzonte, nel momento in cui si è affermata la "rivoluzione italiana". La frettolosità con la quale molti osservatori si sono andati inchinando di fronte al "nuovo", non è stato dunque un buon segnale. Il comprensibile senso di liberazione che era nell'aria, si è infatti tirato dietro un rischio che si sarebbe dovuto assolutamente evitare: quello 10 di cancellare con un sereno sospiro di soddisfazione, l'esistenza di problemi che il cambiamento politico in corso aveva solo impostato, senza essere peraltro riuscito a risolverli. Chi non ha perso tempo nel mettere la parola "fine" alla "storia della prima repubblica" oggi paga perciò questa sicurezza iniziale, con lo smarrimento da cui è preso allorché si rivolge con lo sguardo al futuro. "La prima repubblica finiva - dirà ad esempio Lepre con preoccupazione, collocando il suo osservatorio all'interno della fase apertasi dopo le elezioni del 1992 - ma nessuno riusciva a scorgere, nemmeno in maniera vaga e approssimativa, i lineamenti della seconda", perché non c'era partito o gruppo di partiti in grado di guidarla, "per mancanza di progetti lucidi o di autorità morale"14. In nome di quale principio, del resto, il cambiamento si è del resto imposto? Non può considerarsi tale il risentimento verso la classe politica dilagato negli ultimi anni, perché nello stato di diritto le garanzie vengono assicurate dalle leggi e non attraverso gli umori dell'opinone pubblica; non può esserlo soltanto la riforma elettorale, perché questa ha sinora permesso di modificare i rapporti di forza esistenti tra vecchi e nuovi attori politici, ma non basterà da sola a dare stabilità all'azione dell'esecutivo; non c'é traccia di una maggiore statualità dei futuri processi decisionali, perché continuano quelle routinés operative che ne favoriscono la loro deformalizzazione; né tutto ciò che oggi viene proposto come nuovo, può essere ritenuto tale per davvero. Da cosa nasce allora questa seconda repubblica? Si capisce perché Lepre non ne abbia visto i lineamenti: questi non erano infatti per nulla chiari. La stessa ricostruzione che ci viene generalmente proposta sul piano storico è inoltre una interessante passerella dei valori sociali, religiosi e anche politici, che il paese ha maturato tra il 1942 e il 1992. Manca però qualunque traccia della presenza di quei valori statuali in senso proprio che pure vengono generalmente considerati decisivi per l'istituzionalizzazione dei sistemi politici contemporanei. Ma avrebbe potuto esserci una storia di qualcosa che nessuno ha mai voluto e, tantomeno, realizzato? E' stato detto che la verità si trova spesso in quel punto di incrocio, in cui confluiscono prove tra loro indipendenti. Mai quanto 11 nel caso del nostro passato, l'osservatore ha dunque bisogno di puntare su una diversificazione delle fonti. Per venire a capo di quel "compromesso" costituzionale maturato nel '48, è necessario riuscire infatti a vedere in tutta la sua importanza sia ciò che è accaduto, sia ciò che invece non si è mai verificato. Nel '48 si gettarono le premesse per creare una nuova cittadinanza repubblicana. Per sviluppare un più profondo senso di appartenenza civica e per tener viva la identità nazionale, nei decenni che seguirono non si andò però oltre l'orizzonte dei valori. Ma le istituzioni non sono soltanto realtà morali. Sono anche regole, organizzazioni e controlli e questi problemi incominceranno a diventare evidenti solo dopo molti anni. Ha invece una opinione diversa Miglio il quale, avendo scoperto "l'altra faccia della luna", ossia l'importanza dei "rapporti interpersonali rispetto al sistema delle norme oggettive", non manca di applicare questo tipo di analisi anche alla vicenda italiana, con conclusioni che colpiscono per la loro disinvoltura. Secondo Miglio la "prima repubblica" non ci sarebbe mai stata e la "seconda" sarebbe invece incominciata nel '48, per una ragione molto semplice. Non avendo preso parte alla sua formazione, De Gasperi "non amava la costituzione" e decise perciò "di lasciarne inapplicate alcune parti"15, favorendo in tal modo un cambiamento "irreversibile" del modello. Oggi poi, saremmo già in cammino verso la "terza repubblica", quella federalista. Chi ha ricostruito con più rispetto per la verità quel periodo, la pensa però in altro modo. Nel '48 la scelta a favore dei partiti fu anche, e in buona misura, determinata dalla difficoltà di assicurare il necessario consenso alla repubblica appena nata16. E' falso affermare dunque che De Gasperi, in fondo, aspirasse solo "a restaurare la vecchia democrazia prefascista". Attraverso la subordinazione delle istituzioni pubbliche ai partiti, la Dc getterà invece le basi di un party government 17, le cui fortune sarebbero tramontate poi insieme a quelle del centrismo. Il consolidamento inizialmente avviato, fu in tal modo bloccato. Da quel momento la prima repubblica andrà avanti, consumando un pò alla volta il suo effettivo asse ereditario: i valori rappresentati dalla partitocrazia, i cui vizi - dirà lucidamente Calise18 che sino all'ultimo ha cercato 12 anche di spiegarla e non soltanto di giudicarla - per lungo tempo hanno continuato a riassumere anche le vere ragioni della sua forza. Tutto ciò risulta peraltro documentato dal carattere "circolare" e non "lineare", che la storia costituzionale ha avuto dal dopoguerra sino ai giorni nostri. Bonelli, che forse con qualche distacco giudica "originale e originaria" questa dinamica, ne propone anche una convincente periodizzazione storica19: è solo la fase che va dal 1948 al 1953 a caratterizzarsi attraverso una forte leadership di governo e un chiaro rapporto tra maggioranza e opposizione. Dopo il 1953 prese corpo invece una tendenza "circolare" in seguito alla quale, in nome di un più diffuso consenso, veniva fortemente limitata l'istituzionalizzazione di quelle regole e di quelle strutture che sono tipiche di un moderno stato di diritto. Perché meravigliarsi allora se anche alcuni provvedimenti approvati negli anni ottanta, dalla riforma degli enti locali alla legge istitutiva della Presidenza del Consiglio, in realtà risultavano essere stati presentati, sia pure con contenuti diversi, già nel corso della prima legislatura? Sepolta dai risultati elettorali di quel lontano 1953, ci sono voluti almeno tre decenni prima che la regola di maggioranza abbia potuto nuovamente affermarsi nella dinamica del sistema politico. Il punto di svolta di questa vicenda assai lunga, è generalmente collocato agli inizi della VII legislatura e cioè nel biennio 19771978. Durante il governo delle "larghe intese" il Pci, che era allora il secondo partito del paese, continuerà infatti ad essere escluso dal governo, anche se verrà incluso nella sua maggioranza parlamentare. Ha detto impietosamente Galli della Loggia20: i comunisti non potevano disporre neppure di un "sottosegretario alle poste" e però continueranno a parlare di "austerità", nuovi modelli di sviluppo e di governo, pur essendo avvolti nelle spire "ipnoticodilatorie" della Democrazia cristiana. Senza mai scomporsi Andreotti, allora Presidente del Consiglio, li lascerà dire e sarà questo l'ultimo "capolavoro" nel cui nome si cercherà di tenere insieme maggioranza e opposizione, governo e parlamento, controllo e consenso. Dopo, per i partiti diverrà infatti difficile non tanto mettersi d' accordo, quanto - trovato l'accordo - riuscire comunque a farlo seguire da una decisione. 13 Naturalmente negli anni ottanta c'é stato anche chi ha cercato di invertire la direzione di marcia sino a quel momento seguita, promettendo una "governabilità" che tuttavia non è poi riuscita a farsi strada. Resterà perciò in vita quella leggenda metropolitana, nel cui nome ancora oggi si spiega la crisi della prima repubblica. Il disprezzo per le forme, l'indifferenza al diritto e la rivendicazione di una ragione basata solo sul potere dei voti, continueranno infatti ad essere imputati ad una ormai fantomatica partitocrazia, di cui da tempo si sono invece perse le traccia. Le novità nasceranno piuttosto in seguito alla debolezza dei partiti. Ricostruendo questo processo, ne troveremo del resto le prove nei mutamenti che interverranno nel processo decisionale. 3. la svolta degli anni '80 Si confondono spesso problemi che in realtà sono ben diversi tra loro e tutto ciò oggi appare tanto evidente, quanto pericoloso. Che tra le forze politiche della prima repubblica non sia facile individuare un simbolico "partito delle istituzioni", non vuol dire anche che dei tentativi in tal senso non ci siano stati. Semmai, si dovrà capire perché sono falliti e tutto ciò ci riporta a due momenti della nostra storia sui quali, sia pure per diverse ragioni, il dissenso è ancora profondo. Per comprendere ciò che è successo negli anni ottanta, sarà meglio comunque guardare alla prima delle due fasi richiamate che, grosso modo, andrà invece dal 1943 al 1948 e si concluderà con una sonora sconfitta per la cultura laica. Nella memoria collettiva del paese, l'8 settembre del '43 è da tempo identificato come il simbolo di una "disfatta". L'annuncio dell'armistizio venne seguito dalla precipitosa fuga del re e del governo, che misero seriamente in pericolo la stessa possibilità di mantenere in vita un'Italia unita. Il paese fu infatti abbandonato alla violenta vendetta dei tedeschi, i quali repressero ogni tentativo di reazione da parte dell'esercito italiano, punendolo con la deportazione e l'internamento in Germania di circa 600000 militari. In una parola, l'Italia si presentava allora come "una nazione allo sbando"21. Chi oggi giudica plausibile la eventualità che il paese 14 cessi nuovamente di "essere una nazione", ritorna naturalmente su questo periodo storico, perché la resistenza avviata nei due anni che seguiranno la disfatta, mantiene un "senso politico fondante"22 per la stessa nascita della prima repubblica. Non tutti concordano però con questa interpretazione e il tempo non è servito a modificare l'opinone di chi la pensa diversamente. E' il caso della cultura azionista, la cui posizione Bobbio riassume in questi termini: "Tu hai l'aria di stupirti che io - osserva infatti Bobbio rivolgendosi a Rusconi - pur avendo considerato la resistenza una esperienza conclusa, abbia poi lodato la Costituzione come un compromesso onorevole. I due giudizi sono invece strettamente connessi. Il momento storico della costituente è stato quello, se pure brevissimo, in cui l'alleanza delle forze unite del comitato di liberazione ha costituito il fondamento di legittimità del nuovo stato. Dal '48 in poi è cominciata una storia diversa che tardivamente e invano si è cercato di correggere col compromesso storico degli anni Settanta ora, dopo la fine del comunismo storico, irripetibile"23. E' questa la tesi, così cara a Bobbio, della "resistenza conclusa" o, anche, della resistenza intesa come "moralità armata", la cui capacità di rinnovamento si esaurirà con la fine del governo Parri, perché a quel punto la parola passerà ai politici che hanno dietro le masse, ossia a DeGasperi e a Togliatti24. Singolare destino del mondo laico: ogni volta che ha cercato di esprimersi come partito delle istituzioni, dello stato e dell'occidente, inevitabilmente si è trovato in una posizione minoritaria rispetto ai cattolici e ai comunisti nel passato; alla cultura che da questi ceppi originari si è poi sviluppata, anche oggi o, quantomeno, sino a ieri. La vera "vulgata" che più di ogni altra è sempre stata la "fonte" di tutti i modi di pensare la Costituzione, non è infatti cambiata. La ha riassunta bene Rebuffa: è "la convinzione che tra il 1946 e il 1948 sia stata rifondata la nazione e siano state per davvero riscritte le regole che presiedono al funzionamento delle istituzioni"25. Guardando alle stesse vicende da una angolatura diversa, Rusconi respinge invece ogni tentativo di separare la formazione della prima repubblica da quelle vicende che ne avrebbero definito poi il "senso politico" principale: l'identità nazionale si costituì infatti, e pur sempre, grazie a quel "vincolo di cittadinanza motivato 15 da lealtà e memorie comuni", che in Italia prese corpo dopo l'8 settembre26. E' una osservazione importante, ma richiede di essere anche circoscritta. La Resistenza riuscì infatti a dar vita alla nuova forma di stato. Non bastò però ad assicurare il consolidamento delle necessarie istituzioni, che avrebbero in seguito potuto garantire la continuità del vincolo nazionale. Non sarebbe stato del resto possibile. Quand'anche non fossero intervenute la successive e ben note "degenerazioni" consociative, con la loro cultura delle "appartenenze", i partiti non ne avrebbero avuto comunque né la volontà, né la forza. Ciò risulterà del resto molto chiaro dopo il 1953, allorché la dinamica elettorale determinerà un crescente rafforzamento di forze politiche presenti in parlamento ("area della rappresentanza") e tuttavia non legittimate a governare. Sabatucci, che per primo ha avanzato questa interpretazione offrendo in tal modo una convincente ricostruzione della dinamica del "centro", ne ha tirato anche le prevedibili conclusioni: facendo coincidere la maggioranza reale con quella dei partiti di governo ("area della leggittimità"), la "soluzione trasformista" trasferì in tal modo all'interno dell'esecutivo tutta la conflittualità esistente tra le diverse forze politiche27. Una volta raggiunto il punto più alto della sua capacità espansiva con il "governo delle larghe intese", la partitocrazia inizierà però la sua parabola discendente, rivelando in tal modo la sua profonda povertà istituzionale. Che il sistema politico fosse una "bicicletta" oppure un "triciclo", che fosse cioè a due "poli" oppure a tre "poli", come dirà Sartori riassumendo le differenze tra la tesi di Galli sul "bipartitismo imperfetto" e le sue preoccupazioni per il "pluralismo polarizzato"28, negli anni ottanta è risultato del resto meno importante del fatto che, dopo l'uscita del Pci dalla maggioranza, sia le "biciclette" che i "tricicli" sono stati stretti nell'angolo dai continui ricorsi all'istituto referendario, grazie al quale la democrazia rappresentativa ha continuato a mantenere una propria leggittimità. E' così che è iniziato il tramonto dei partiti. Altro che consociativismo. Altro che conflittualità esasperata. Sino agli anni settanta i partiti erano infatti riusciti a svolgere una importante 16 funzione, perché capaci di garantire dei vincoli di obbligazione politica. Nel momento in cui il conflitto è approdato però alla sua ultima spiaggia, rendendo chiaro che nemmeno il consenso di tutti sarebbe più stato sufficiente ad assicurare l'esistenza del governo inteso come istituzione, allora l'obbligazione politica basata su i valori ha cominciato necessariamente a segnare il passo, di fronte alla penetrazione del rapporto clientelare. A partire dagli anni ottanta, la "fiducia generalizzata" 29 nei confronti dei portatori di un "progetto", verrà perciò un pò alla volta sostituita dalla "fiducia specifica" nel singolo uomo politico. La mancanza di istituzioni impone infatti un ruolo crescente alle relazioni di tipo informale, che diventano perciò l'estrema risorsa attraverso la quale, sia pure a costi sempre più alti, risulterà ancora possibile assicurare una qualche forma di regolazione politica. Poiché il protetto doveva a sua volta svolgere un ruolo di protettore nei confronti di coloro che a lui facevano riferimento, la relazione tra cliente e patrono attiverà inoltre una catena di "macrostrutture" a carattere piramidale, che opereranno trasversalmente rispetto all'intero sistema sociale, perché la perdita di credibilità delle istituzioni verrà a quel punto sostituita dalla maggiore autorevolezza individuale di quanti le impersoneranno. La parte sporca di questa tendenza alla personalizzazione è emersa solo negli anni novanta, grazie a Tangentopoli. Per avere una conferma del versante - per così dire - pulito di questo tipo di regolazione basato sulla "fiducia personale", basta invece sfogliare le cronache di quegli anni: nascerà il "modello Pertini", si avrà il primo governo laico con Spadolini; e soprattutto, attraverso la "mossa del cavallo" su cui ritorneremo, comparirà anche il leader più agressivo della prima repubblica: Bettino Craxi. Consociativismo, dunque? Oppure: necessità dell'alternanza per assicurare la funzionalità del sistema? O ancora: onnipotenza della partitocrazia? Onestamente, non si può dire che questi termini significhino oggi qualcosa. Ha detto ad esempio Pizzorno: la partitocrazia poteva ancora dipingere fedelmente la realtà del sistema politico allorché i partiti agivano in quanto soggetti collettivi, guidati da segreterie potenti e responsabili nei confronti dei loro iscritti e delle ristrette leadership politiche. Da tempo la 17 realtà è però diversa, perché si è invece stabilizzato un sistema di "relazioni politiche coperte". Con il senno di poi, oggi possiamo dire che queste erano anche illegali. Allora, più semplicemente, si trattava soprattutto di relazioni trasversali che operavano al di sotto dei livelli di visibilità, con i quali i diversi attori si presentavano davanti all'opinione pubblica30. E' chiaro che il passaggio dalla democrazia dei partiti a quella delle tangenti, era già scritto nell'ordine delle cose possibili. Sarebbe però sbagliato pensare che questo esito sia stato, sin da allora, anche inevitabile. Per incapacità o per interesse, nessuno fu tuttavia in grado di impedire che la deriva della prima repubblica si sviluppasse sino al punto di diventare irresistibile. Eppure, le istituzioni nascono proprio nel momento in cui si manifesta un disaccordo tra le forze politiche, il quale impone il graduale sviluppo di procedimenti e di strumenti organizzativi, capaci di offrire delle soluzioni integrative31. Non se ne era sentito un particolare bisogno sino agli anni settanta. Il consolidamento delle stesse si rivelerà poi un disegno impossibile durante gli anni ottanta, perché anche il sostenitore più significativo della governabilità e cioè Craxi, dimostrerà ben presto di essere uno statista "senza anima"32 e dunque non molto diverso dal resto della classe politica che lo aveva preceduto. E' curioso come, nonostante il moltiplicarsi dei saggi sulla "Italia contemporanea", manchi ancora un giudizio storico compiuto, e anche convincente, sulla figura di Craxi. Naturalmente non mancano le "biografie" del capo, ma non è per quella via che ci si può fare realmente una idea del ruolo svolto da quest'uomo politico durante gli anni ottanta e anche, cosa non meno importante, delle ragioni del suo così fulmineo declino. Cafagna giustamente segnala come le grandi manovre che ne anticipano l'ingresso quale primo attore destinato poi a dominare la scena nazionale, coincidono con la "occupazione" di uno spazio politico lasciato libero da tutti, in occasione del caso Moro. Non necessariamente per moralità, più verosimilmente per estrema spregiudicatezza, in quella occasione Craxi fu l'unico leader nazionale il quale assunse la posizione della trattativa umanitaria con i terroristi, opponendosi in tal modo al fronte della fermezza, in cui era riassunta la linea ufficiale 18 dell'intero sistema politico. E fu una fortuna , dirà Cafagna, che la posizione del leader socialista non ebbe alla fine il sopravvento, perché al paese sarebbero potute derivare "solo altre sventure33". La "mossa del cavallo" più sostanziosa fu però quella successiva allorché, alla fine degli anni settanta, Craxi innalzò la bandiera della governabiltà, sventolandola in ogni occasione prima e imponendola poi con forza tanto alla Dc quanto al Pci, nel momento in cui andrà al governo. Colpisce come gli storici tendano sostanzialmente ad escludere che quella scelta abbia potuto corrispondere non soltanto agli interessi del Psi, ma anche a un più profondo bisogno del paese. Lepre ad esempio, ricostruisce tutto il periodo degli anni ottanta in un capitolo che, sin dal suo titolo, viene in realtà dedicato alla "crisi della egemonia della Dc". A esser franchi, una scelta del genere risulta quantomeno strana. Nel 1981 nasce il primo governo laico della repubblica; nel 1983 Craxi dà vita ad un governo che non solo è il primo a guida socialista, ma sarà anche il più stabile sia tra i tanti che lo hanno preceduto, sia tra quelli che lo seguiranno. E tutto ciò non ha alcun significato sul piano storico? In verità ben pochi ancora oggi si rendono conto dell'importanza che quelle vicende hanno avuto per il paese, innanzitutto sotto il profilo istituzionale. Ginsborg considera ad esempio gli anni ottanta addirittura meno significativi del precedente decennio e più simili semmai agli anni sessanta, quantomeno sul piano del "riformismo" mancato. Grazie allo sviluppo economico, in entrambi i periodi erano infatti esistite, afferma Ginsborg, le basi materiali per delle riforme che in realtà poi non vennero realizzate. Il primo a perdere l'occasione fu perciò il centrosinistra e poi, a ruota, Craxi, il quale "non seppe elaborare una vera strategia riformista", anche perché non subì "la pressione di movimenti sociali analoghi a quelli esistenti tra il 1968 e il 1978"34. Altre interpretazioni parleranno di "alternanza al governo" senza "alternativa di governo"35. Avendola ormai superata, oggi diventa però possibile mettere a fuoco anche aspetti diversi di quella fase politica. Dissoltosi già una volta dopo il "compromesso del '48", negli anni ottanta ricompare infatti quel partito delle istituzioni, di cui in Italia si era ormai perso il ricordo. L'erosione del principio maggioritario culminata nella solidarietà nazionale, aveva di- 19 mostrato la improduttività del consociativismo, ormai incapace sia di produrre potere politico, sia di assicurare nuove forme di legittimazione all'azione del governo. Craxi avvertirà ben presto la stanchezza del paese deluso dalle tante promesse di cambiamento non mantenute e anche spaventato dall'esplosione del terrorismo, con il quale si era chiuso il precedente decennio. Scattata "l'ora dei laici"36, il problema della "governabilità" si imporrà perciò agli occhi di tutte le forze politiche. Spadolini inserirà ad esempio nel programma del suo secondo esecutivo il famoso "decalogo istituzionale" considerato come il punto di avvio del processo di riforma che poi seguirà, con alterne vicende, durante tutto il decennio. E lo stesso Craxi farà capire bene cosa intende per "governo", perlomeno in due occasioni: allorché taglierà i famosi tre punti di scala mobile e allorché rivendicherà la autonomia nazionale nei confronti degli Usa, in seguito al sequestro della Achille Lauro. Tutto ciò era forse poco? Niente affatto. Ciò che ancora ci resta degli anni ottanta ha per la storia istituzionale del paese un'importanza e una attualità di gran lunga maggiore della legislazione degli anni settanta comprensiva, in questo caso, anche delle allora tanto magnificate riforme sociali. La riforma dei regolamenti parlamentari fu infatti posta al centro della VIII legislatura (1979-1983); sia pure senza grandi esiti, nella IX (19831987) fu costituita una apposita Commissione parlamentare, che affronterà i problemi delle riforme istituzionali e di quelle elettorali; questi troveranno infine delle prime soluzioni nella X (1987-1992) allorché, ormai negli anni novanta, avrà luogo il referendum abrogativo (1991) da cui nascerà la preferenza unica. Una svolta c'é dunque stata. Piuttosto, e oggi lo possiamo dire di certo con una consapevolezza maggiore di ieri, si è rivelata insufficiente, perché non sono maturate quelle condizioni politiche che avrebbero permesso di procedere sia più decisamente, sia più efficacemente sulla strada del rinnovamento istituzionale. E queste condizioni erano di due tipi: la prima, sulla quale ritorneremo presto, riguardava la logica del processo decisionale e, dunque, soprattutto la Dc e il Pci precedente al 1989. La seconda riguardava invece lo stesso Craxi e, più in generale l'area laica, la quale sceglierà di tenere in vita "biciclette" o "tricicli" ormai scassati. 20 Fuor di metafora, quel sistema dei partiti si rivelerà infatti ben presto incapace di "trasportare" alcun tipo di riforma istituzionale. E' stato detto che il progetto di Craxi non è mai stato caratterizzato da una vera strategia, essendo l'uomo soprattutto un grande "tattico", capace di cogliere le opportunità man mano che queste si presentavano. La scelta maturata sin dall'inizio della sua segreteria di costruirsi un "partito parallelo" composto solo da amici fidati, fu però l'esito di una valutazione forse prudente, ma comunque realistica. Craxi sapeva bene, infatti, di esser seduto su di un ramo marcio e, sinché gli fu possibile, cercò dunque di mettere al riparo la sua azione politica dai possibili condizionamenti imputabili alla vita interna di partito. In che modo? Forse nel peggiore dei modi e cioè restituendo ad una struttura clientelare ormai burocratizzata e già a quei tempi corrotta, "l'orgoglio di esser socialisti" e soprattutto, aggiungerà chi il Psi lo ha conosciuto bene, garantendo "la certezza di tornare al governo con forte grinta e alte pretese"37. La corte dei "nani" e delle "ballerine" ripagherà perciò con la più assoluta obbedienza politica, i privilegi di cui potrà comunque continuare a godere. Anche se il Psi ristagnerà sul piano elettorale, la popolarità di Craxi continuerà comunque a crescere. Sbagliata si rivelerà invece la convinzione che, pur essendo marcio il ramo su cui era seduto, non così fosse invece il resto dell'albero e cioè il sistema dei partiti. C'è una critica che in questi anni è stata del resto spesso avanzata nei confronti del Psi: quella di aver usato in maniera spregiudicata il suo "potere di coalizione" o, anche, di aver operato come una sorta di "partito-ricatto"38. E' una critica fondata, ma forse per ragioni diverse da quelle nel cui nome è stata generalmente avanzata. Non è stata infatti soltanto la "spregiudicatezza" o la mancanza di "moralità pubblica" il suo limite maggiore, quanto la sua stessa impotenza politica. Craxi minaccerà infatti avversari sempre meno in grado di assicurargli un "riscatto" perché l'albero era ormai marcio, come del resto si erano rivelati già alcuni suoi singoli rami. Sia pur lentamente, la governabilità perderà perciò la propria visibilità politica, e gli anni ottanta si riveleranno decisivi anche sotto un altro profilo: ricattatori e ricattati non riusciranno infatti ad impedire una 21 crescente deriva dei processi istituzionali e le conseguenze si vedranno in seguito, in occasione del referendum sulla preferenza unica (1991). Al di là della sua opportunità o meno, i risultati suoneranno infatti come una vera e propria mozione di sfiducia, nei confronti dell'intero sistema dei partiti. 4. Le due crisi Coloro i quali vivono nei sistemi politici democratici, spesso non comprendono appieno l'importanza delle regole. Aspirando ad ottenere dei risultati immediati, in alcuni momenti la vita politica tende infatti ad essere ostile alle "forme" perché queste ritardano sistematicamente, o addirittura impediscono, la realizzazione dei possibili obiettivi. Paradossalmente, è ciò che - in nome della governabilità - si è verificato in Italia a partire dagli anni ottanta, allorché si è cercato di invertire il trend del precedente decennio. Sia pure indirettamente e - in alcuni casi - anche inconsapevolmente, gli esiti più duraturi del nuovo indirizzo istituzionale, alla fine si sono infatti rivelati ben diversi dalle intenzioni di chi li aveva inizialmente promossi. Ne sono usciti stravolti sia il processo attraverso il quale si è cercato di avviare una diversa regolazione della cittadinanza e, quindi, dello stato sociale; sia le stesse forme della rappresentanza, che hanno visto un crescente ricorso all'istituto referendario. E sono state queste le due tendenze di crisi, che hanno reso definitivamente obsoleta la funzione sino a quel momento svolta dai partiti. Sotto il primo profilo, gli aspetti più significativi non riguardano soltanto la divaricazione frequentemente segnalata, tra le prestazioni che attraverso la cittadinanza sono state assicurate alla collettività e il fondamento sempre più strumentale delle aspettative, nel cui nome le prime verranno rivendicate. La cittadinanza nata negli anni settanta è infatti entrata in crisi non solo per la sua crescita patologica o, anche, per la perdita di ogni riferimento ai valori comunitari che avrebbero potuto giustificarla39. Piuttosto, la cittadinanza è entrata in crisi perché è fallita la strategia istituzionale attraverso la quale si riteneva di poterne governare lo sviluppo e ciò ha sua volta 22 favorito la diffusione di un deficit di integrazione,40 che ben presto minaccerà la stessa unità nazionale. La conferma più indicativa di questo fallimento la si ritrova del resto nella storia della "decisione di bilancio", che riassume da sempre la più importante scelta di qualunque governo. Per ovviare ad una crescita incontrollata della spesa, da questione tecnica che coinvolgeva pochi addetti ai lavori, il processo di bilancio è stato ben presto trasformato in un problema politico centrale che, a partire dagli anni settanta, ruoterà essenzialmente intorno ad una soluzione: una rinnovata centralizzazione del processo decisionale, in funzione di una rigorosa politica di controllo della spesa, realizzata annualmente attraverso la manovra di bilancio e la legge finanziaria. Una volta posta in essere, questa strategia ha dovuto però necessariamente fare i conti con la struttura profondamente policentrica delle relazioni tra governo e parlamento, andando incontro ad un fallimento che Fichera, a suo tempo, ha efficacemente sintetizzato in questi termini. Innanzitutto la manovra non si è rivelata in grado di "tenere". Avendo una latitudine operativa praticamente infinita, da una parte questa non riuscirà a controllare le continue richieste di modifiche e/o di integrazioni, presenti nello stesso governo e nel parlamento ; dall'altra, e come conseguenza, diventerà invece sempre più incoerente sotto il profilo normativo e ipertrofica sul piano puramente quantitativo, mettendo in tal modo sistematicamente in discussione l'equazione tra "crisi fiscale" e "politiche di bilancio restrittive". In secondo luogo, la manovra è risultata sia inidonea a favorire la individuazione di criteri "selettivi" della spesa, sia "inefficace" rispetto al suo obiettivo primario rappresentato dalla riduzione del deficit pubblico, che perciò crescerà puntualmente di anno in anno. Le difficoltà saranno in questi casi legate soprattutto al rapporto che si stabilirà tra il processo di bilancio e la amministrazione pubblica, le cui prestazioni erano e sono ancora oggi in gran parte legate a trasferimenti, a diritti del cittadino ormai dati per acquisiti o, più in generale, ad automatismi di vario tipo. Perché i "tagli" avessero potuto avere una loro logica politica, sarebbe stato del resto necessario disporre di controlli di spesa 23 attendibili nei singoli settori di policy; avere la capacità di seguire nelle loro diverse fasi i processi di implementazione delle decisioni assunte; e, soprattutto, avere la capacità di individuare i nodi della spesa, là dove questi effettivamente si determinavano. Mancando tutto ciò, la selettività verrà invece sempre più ad identificarsi con la debolezza politica degli interessi di volta in volta colpiti, così come la efficacia delle diverse manovre si rivelerà sempre più problematica. Una riprova? Non ci sarà un solo governo che negli anni successivi non dovrà ritoccare i principali provvedimenti assunti negli anni precedenti. Infine, e questo aspetto riassume tutti gli altri, di sicuro non si è realizzato alcun miglioramento della governabilità dal "centro', come invece era stato tante volte auspicato. Anziché ridurre i processi di negoziazione politica, questi cominceranno invece ad istituzionalizzarsi: con l'Anci e Upi per la finanza locale; con la Conferenza delle regioni istituita presso la Presidenza del consiglio, nel caso della finanza regionale; con i sindacati allorché verranno prese in esame le politiche sociali; con le rappresentanze dei medici, nel caso della sanità e così via. Nella speranza di porre un argine a questa deriva, ben presto ci si orienterà perciò verso una nuova regolazione legislativa del processo di bilancio (Legge 362/1988). E tuttavia parlamento e governo continueranno a non trovare alcun accordo, su i reali criteri di ridefinizione dello stato sociale. Alla fine, l'inversione di tendenza verrà realizzata solo grazie all'inserimento di provvedimenti di riforma nelle varie decisioni di bilancio, perché queste diverranno ormai il solo atto legislativo che il parlamento non potrà veramente rifiutarsi di approvare. E' così che si è governato nel decennio dei "laici"; ed è così che si è governato anche dopo l'avvio della "rivoluzione italiana" allorché, sia pure accettando dei rischi politici altissimi, Amato e Ciampi sono riusciti comunque ad avviare un rinnovamento del vecchio stato sociale. Intesa tanto come un complesso di diritti, quanto come un simbolo culturale, la "cittadinanza" non si lascia tuttavia seppellire con facilità perché, quando anche non vi si oppongano i partiti, ci sono sempre i cittadini che debbono esser convinti della opportunità delle misure adottate. Un mutamento nelle preferenze di tale portata 24 può infatti concludersi anche autoritativamente al "centro", ma deve nascere comunque già all'interno delle rappresentanze politiche o delle stesse istituzioni. Diversamente, a farne le spese delle inevitabili proteste sarà lo stesso governo o, anche, il provvedimento di volta in volta adottato. E' ciò che è successo al governo Amato, nel primo caso. E' quello che si è verificato con la minimum tax, nel secondo. Ciampi dovrà infatti modificare la decisione assunta dal precedente esecutivo per fronteggiare le proteste - in piccola parte comprensibili, ma in larga misura ingiustificabili - che nasceranno tra i lavoratori autonomi. Si capisce dunque perché molti osservatori da tempo denunciano sia la crisi di solidarietà sociale in cui vive il paese, sia gli stessi pericoli da cui è minacciata l'unità nazionale. Ma per creare nuove appartenenze, non poteva bastare la messa in circolazione di quei "santini" che in questi anni si sono costruiti grazie all'alleanza con l'etica e che sono diventati il più efficace lasciapassare per il ricorso ai governi istituzionali; al ruolo dei tecnici; ai richiami sempre più frequenti alla unità della nazione; ed, anche, al ruolo di "garante" della volontà popolare che, con sempre più decisione, è stato ormai assunto dal presiedente Scalfaro. Sarebbero servite invece istituzioni capaci di restituire all'intero processo decisonale quella linearità di cui era privo, anche in seguito al generalizzarsi della seconda crisi, maturata parallelamente nel corso del passato decennio e che riassume l'altra dimensione della governabilità. Pensiamo, lo si è già detto, al crescente e improprio ricorso all'istituto del referendum. Dei due aspetti sinora segnalati, quest'ultimo è forse il più difficile da inquadrare, perché per troppo tempo è stato legittimato in nome di una avversione alla presunta forza della partitocrazia. Questa tesi era forse ancora vera agli inizi degli anni ottanta. Grazie ai regolamenti parlamentari del 1971, il governo in quegli anni non riusciva ad imporre nemmeno una propria "agenda" di discussione, perché i "gruppi" potevano a loro volta esercitare significativi poteri di veto. Non è comunque più vera oggi, perché quei regolamenti sono stati nel loro insieme modificati, riducendo alla fine la stessa possibilità di ricorrere al voto segreto (1988), che del sistema dei partiti è sempre stato il più efficace alleato. 25 I frutti dati dalla governabilità sono stati però, anche in questa occasione, avvelenati dagli equivoci su cui questa strategia si è in passato basata. Si ritenne infatti che sarebbe bastato razionalizzare la presenza dei partiti-pigliatutto in parlamento e non ci si accorse invece che stava crollando la stessa capacità di integrazione dei partiti-istituzione. Come al solito, si pensò insomma che sarebbe stato sufficiente potare i rami più invadenti, per rafforzare in tal modo il "tronco" della rappresentanza. E invece era marcia anche la pianta. I partiti se ne accorgeranno soltanto dopo il referendum sulla preferenza unica, ma il passaggio dalla "democrazia rappresentativa" alla "democrazia referendaria" in realtà era iniziato molto prima. L'assalto alle forme che accompagna negli anni ottanta la decisione di bilancio, troverà perciò il suo corrispettivo nella torsione applicativa che ha accompagnato il successo di un istituto come quello referendario. Il principio della rappresentanza si intreccerà infatti in maniera non più separabile con quello della democrazia diretta, stravolgendo ogni confine nella già debole architettura istituzionale, prevista dai costituenti. L'arma dei referendum verrà inoltre imbracciata negli anni ottanta non solo da chi non si sentirà rappresentato, ma anche da quello forze politiche che pur essendolo, non accetteranno di essere subordinate alla volontà della maggioranza. E' ciò che fece a suo tempo il Pci nel caso della scala mobile; è la ragione di fondo per cui nascerà poi il referendum sui giudici; e, infine, sarà la minaccia che Craxi continuamente utilizzerà contro il parlamento, pur di ottenere la approvazione della legge sulle tossicodipendenze. Va detto che la sfrenata utilizzazione dell'istituto referendario a cui si è negli ultimi anni fatto ricorso su questioni non sempre decisive, non ha soltanto influito sulla natura dei temi di volta in volta affrontati, ma anche sullo stesso equilibrio dei poteri costituzionali, coinvolgendo nel conflitto politico anche chi avrebbe dovuto esserne tenuto invece il più possibile al riparo. Nel vuoto lasciato dai partiti non più in grado di fare maggioranze o governi, il Capo dello Stato, pur essendo "costituzionalmente" irresponsabile, si è trovato perciò a dover esercitare dei poteri i quali non sono 26 forse previsti neanche nel regime semipresidenziale francese, che pure è ad elezione popolare diretta. Rotelli, per dimostrarlo, ne ha elencati alcuni41: è stato Scalfaro a decidere in quale momento il governo Amato, allora in carica, si sarebbe dovuto dimettere; a stabilire il tipo di "tutela" che doveva essere accordata alla "volontà popolare" manifestatasi in occasione del referendum sulla abrogazione della legge elettorale; a "esternare" pubblicamente i compiti programmatici del successivo Governo Ciampi, indicandone per lettera scritta anche i tempi possibili; a comporre poi in sua presenza un conflitto di competenze tra due ministri senza portafoglio ( Elia e Barbera), che peraltro rispecchiava un conflitto di merito e non soltanto tecnico tra i due maggiori partiti, sul tema prioritario della riforma elettorale; a indicare la data ultimativa (21 dicembre), a partire dalla quale sarebbe diventato possibile indire nuove elezioni politiche; e, infine, a chiedere garanzie a Berlusconi, prima di conferirgli l'incarico di formare il governo. Si dirà che questa deformalizzazione di ruoli, poteri, regole costituzionali e relazioni politiche ha probabilmente aiutato la "rivoluzione italiana" e forse è vero. Di certo non ha favorito però un migliore radicamento delle istituzioni, perché queste incarnano modelli di comportamento che vengono generalmente accettati solo in quanto risultano ricorrenti e non improvvisati, a seconda degli orientamenti che di volta in volta maturano all'interno dell'opinione pubblica. Diciamolo dunque chiaramente: l'opinone pubblica riesce a svolgere una sua funzione importante solo allorché si innesta in una rete di poteri istituzionali che a loro volta risultano almeno in parte indipendenti da quest'ultima. Se invece l'opinone pubblica e le istituzioni avanzano a braccetto per sostenersi reciprocamente, nessuno potrà impedire che i mutamenti intevenuti nella prima non determino delle conseguenze impreviste anche nella vita delle seconde. E' successo così per il governo Amato; e qualcuno ha puntato ad ottenere lo stesso risultato, anche nel caso Capo dello Stato. Ricostruendo la vicenda degli ultimi due decenni, Pizzorno ha recentemente proposto di distinguere tre stili politici prevalenti: lo stile ideologico, quello civile e quello consumatorio. Il primo, 27 dominante negli anni settanta, trovava il suo riconoscimento in una comunità di fedeli, fossero questi appartenenti ad un partito, un movimento oppure a una chiesa, i quali valutavano l'adeguatezza della condotta politica sulla base della sua aderenza o meno all'ideologia prescelta. Il secondo, pur richiamandosi ai cittadini, di fatto tendeva a rispecchiare quei valori di buon governo, generalmente presenti nella classe politica e amministrativa. L'ultimo stile, quello consumatorio, sarebbe diventato invece dominante negli anni ottanta e non avrebbe avuto bisogno di una particolare cerchia di riconoscimento perché, manifestandosi attraverso il denaro e le apparenze, di fatto ha coinciso con l'intera area del mercato e cioè di tutti coloro che questi valori sono abituati ad accettare. Concluderà perciò Pizzorno42, non senza malinconia: "in Italia lo stile ideologico si è esaurito lungo gli anni settanta. E, superati i momenti drammatici, ha lasciato posto allo stile consumatorio. Occorrerebbero indagine occhiute per accertare in quali recessi fuori mano della società italiana lo stile civile è sopravvissuto alle tentazioni e agli attentati". E' doloroso ammetterlo, ma è anche inevitabile. Lo stile civile è sempre stato una risorsa assai scarsa e, inoltre, oggi sembrerebbe essere a sua volta sostituito dallo "stile referendario", grazie al quale le istituzioni verrebbero difese soprattutto, ma sarebbe meglio dire soltanto, dalla opinione pubblica. E' ciò che è accaduto per la magistratura nei confronti di Craxi, non diversamente da quello che si più volte manifestato a sostegno del Capo dello Stato, per difenderlo dai numerosi attacchi a cui questo è stato sottoposto. Ed è anche il modo con si è arrivati ad ottenere una nuova legge elettorale, che ha forzato lo stallo decisionale dei partiti. La "rivoluzione italiana" si è sviluppata infatti a cerchi concentrici. Nata inizialmente come forma di protesta verso singoli partiti, si è subito orientata sull'intera classe politica; ha coinvolto il sistema di imprese sin nei suoi più alti vertici; non si è fermata davanti alle porte dei palazzi di giustizia; e, infine, ha coinvolto nella sua azione sia coloro che avrebbero dovuto essere i garanti dell'opinione pubblica, ossia il potere dell'informazione, sia gli 28 stessi servizi segreti, che avrebbero dovuto invece assicurare la legalità dello stato democratico. Non è un male che il processo si sia diffuso in tal modo perché quanto maggiore è risultata la sua estensione, tanto più credibile è diventata anche l'esigenza di un rinnovamento. Le istituzioni però cambiano non soltanto attraverso una nuova legge elettorale, quanto anche - e soprattutto - attraverso la modifica delle procedure organizzative o delle relazioni tra i diversi organi decisionali. In una sola parola, le istituzioni cambiano allorché la vita politica si sviluppa attraverso nuove "forme". Per come si è affermata la "rivoluzione italiana", è facile prevedere invece che più di un seme della prima repubblica continuerà a fiorire anche in quello che è stato presentato come il giardino della seconda e cioè la riforma in senso maggioritario del sistema elettorale. Il cambiamento non si costruisce infatti seguendo la logica del gioco d'azzardo, dove ogni colpo può esser quello vincente. E ciò è vero anche per le istituzioni che non si improvvisano tra un referendum e l'altro, perché lo sviluppo politico ha una logica e dei tempi propri, che difficilmente possono essere forzati, senza che poi se ne debbano pagare anche i relativi costi. Lo vedremo bene, del resto, allorché ricostruiremo le modalità attraverso le quali è stata in questi anni portata avanti la "politica del cambiamento". 1 L'intervista di Togliatti è riportata - ed anche efficacemente inquadrata sul piano storico - da P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 88-89 2 L'emancipazione della magistratura dagli altri poteri istituzionali maturerà solo in seguito. Le diverse vicende al riguardo sono ricostruite fa F. Zannotti, La magistratura. Un gruppo di pressione istituzionale, Cedam, Padova 1989 e, più recentemente, da C. Guarnieri, Magistratura e politica, Il Mulino, Bologna 1992 3 La metafora del "gioco di azzardo" applicata al principio della divisione dei poteri è suggerita da G. Rebuffa, Mutamento istituzionale e consapevolezza storica, in Il Mulino, n. 348, 1933, p. 651 4 R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane (Princeton 1993), Il Mulino, Bologna 1993, p. 151 5 In questa chiave la ricostruzione più recente è quella di P. Fantozzi, Politica clientela e regolazione sociale. Il mezzogirono nella questione politica italiana, Rubbettino, Cosenza 1993 29 6 Si vedano, ad esempio, le osservazioni critiche di A.Mutti, I sentieri dello sviluppo, in Rassegna Italiana di Sociologia, n.1 1994,pp.109-120 7 Il riferimento è ai lavori di J. March e J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica (New York 1989), Il Mulino, Bologna 1992 8 Su questo tema si vedano le prime ricerche di F. Cazzola, Della Corruzione. Fisiologia e patologia di un sistema politico, Il Mulino, Bologna 1988 e, più recentemente, F. Cazzola, L'Italia del pizzo. Fenomenologia della tangente quotidiana, Eiunaudi, Torino 1992; D. Della Porta, Lo scambio occulto, Il Mulino, Bologna 1992 9 F. Cassano, La secolarizzazione infinita. Note sulla morte dei beni pubblici, in Rassegna Italiana di Sociologia, n. 1, 1990, p. 24 10 Il paragone è sviluppato in S. Romano, L'Italia scappata di mano, Longanesi, Milano 1993, p. 16 11 B. Ginsberg - M. Schefter, Politics by other means. The declining importance of elections in America, Basic Books, New York 1990 12 M. Gilbert, Warriors of the New Pontida: The challenge of the Lega Nord to the italian party system, Political Quarterly, n.1, 1993; G. Pasquino, Meno partiti più Lega, in Polis, n.3 1991 13 Le coseguenze di questa tendenza sono state, da ultimo, prese in esame da A.Panebianco, Fare a meno della politica? e R. Bodei, Mani sporche, mani pulite. Calcolo politico e responsabilità etica , in Il Mulino, n. 3,1993 14 Sono le conclusioni alle quali arriva A. Lepre, Storia della prima repubblica, Il Mulino, Bologna 1993, p. 341 15 G. Miglio, Una costituzione per i prossimi trent'anni, a cura di M. Staglieno, Laterza, Bari 1990, p. 4 e p. 37 16 E' la tesi di fondo proposta da S. Colarizi, Storia dei partiti nell'Italia repubblicana, Laterza, Bari 1994 17 L. Morlino, La relazione tra partiti e gruppi. Conclusioni, in Costruire la democrazia. Gruppi e partiti in Italia, , a cura di L. Morlino, Il Mulino, Bologna 1991, p. 483-484 18 M. Calise, Dopo la partitocrazia, Einaudi, Torino 1994; le premesse e gli approfondimenti istituzionali di questo tipo di analisi, si ritrovano in M. Calise (a cura di), Come cambiano i partiti, Il Mulino, Bologan, 1992 19 F. Bonelli, Storia costituzionale della repubblica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, pp. 45-46 20 E. Galli della Loggia, La crisi del politico, in AA.VV., Il trionfo del privato, Laterza, Bari 1980, p. 34 21 E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 7 22 Questo tema è stato sollevato con forza da G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993, p. 45 23 N. Bobbio, Lettere sull'azionismo, in Il Mulino, n. 344, 1992, p.1025; sull' attualità dell'azionismo, P. Flores d'Arcais, L'alternativa azionista, Micromega, n.3 1991; su i suoi limiti, E. Galli della Loggia, La democrazia immaginaria. L'azionismo e l'ideologia italiana, Il Mulino, n.346 1993 30 24 E' la tesi riproposta recentemente con grande finezza da Pavone, il quale ricostruisce il clima della conferenza stampa che avrà luogo dopo le dimissioni del governo, prendendo a prestito da Carlo Levi una splendida pagina: «allorché Parri comparve schiacciato " tra i due visi teologici e cardinalizi dei due illustri capi della destra e della sinistra e dal brillare simmetrico dei loro occhiali", gli uscieri del Viminale si illuminarono nel volto, soddisfatti. In quel momento, qualcosa finiva davvero per sempre, perché gli intrusi venivano finalmente cacciati».C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza, Boringhieri, Torino 1992, pp. 591-592 25 G. Rebuffa, Mutamento istituzionale e consapevolezza storica, cit., p. 647 26 Una semplificazione di questo presunto rapporto tra il "patto di Salerno" ed il "compromesso storico" la si trova in R. Gobbi, Il mito della resistenza, Rizzoli, Milano 1992, p. 105 27 G. Sabatucci, La soluzione trasformista. Appunti sulla vicenda del sistema politico italiano, in Il Mulino, n. 328, 1990, p. 172 28 G. Sartori, Salvare il pluralismo e superare la polarizzazione ora in Teoria dei partiti e caso italiano, Sugar, Milano 1982, p. 218; l'intervento di Sartori si inserisce nella discussione avviata da L. Pellicani, Verso il superamento del pluralismo polarizzato? in Rivista Italiana di Scienza Politica, n.3 1974; la prima formulazione della tesi sul bipartitismo imperfetto è in G. Galli, Il biaprtitismo imperfetto, Il Mulino, Bologna 1966 29 Una applicazione interessante di questa tematica in chiave comparativa, la si trova in L. Roninger, La fiducia nelle società moderne, Rubbettino, Cosenza, 1992 30 A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano 1993, p. 306 31 S. Huntignton, Ordinamento politico e mutamento sociale ( New Haven 1968) , Angeli, Milano 1975, p.24). 32 Dirà M. Walzer: «noi non vogliamo essere governati da uomini che hanno perso le loro anime». E' stato R. Bodei a richiamare l'attenzione sulle implicazioni presenti in questa prospettiva di Walzer. Ora in R. Bodei, Mani sporche, mani pulite. Calcolo politico e responsabilità etica, cit. 33 L. Cafagna, La grande slavina, Marsilio, Venezia 1992, p. 100 34 Questa tesi è avanzata da P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra oggi, Einaudi, Torino 1989, p. 568 35 M. Salvadori, Storia d'Italia e crisi di regime, Il Mulino, Bologna 1994, pp.8590 36 L'espressione è di G. Mammarella, L'Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 485-516 37 E' la risposta che darà Tamburrano ad una domanda di Padellaro; A. Padellaro G. Tamburrano, Processo a Craxi. Ascesa e declino di un leader, Sperling & Kupfer, Milano 1993, p. 27 38 La prima analisi è sviluppata da P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 397; la seconda è proposta da L. Cafagna, La grande slavina, cit. 31 39 E' questo il problema discusso da C. Mongardini, Le trasformazioni della cittadinanza, in , Due dimensioni della società. L'utile e la morale, a cura di C. Mongardini , Bulzoni, Roma 1991, pp. 181-186 40 Significativamente, e non senza ironia, L. Gallino ha perciò proposto la bozza di un contratto da sottoscrivere nella sua interezza, pena la nullità dello stesso: L. Gallino, Un patto di cittadinanza, Il Mulino, n. 4, 1990; una diversa prospettiva per uscire da questa crisi, andando oltre sia le "reti economiche" che quelle "statali", è stata avanzata da P. Donati, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari 1993 41 E. Rotelli, Una democrazia per gli italiani, Anabasi, Milano 1993, p. XII 42 A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, cit., p. 311 32 cap. 2. La deriva della regolazione 33 1. Le pretese della cittadinanza Per offrire una spiegazione al caso italiano e per individuare delle possibili vie di uscita, generalmente ricorriamo ad una modellistica di tipo dicotomico, la cui chiarezza analitica spesso non basta a compensare quel che si perde in profondità sul piano storico1. Le istituzioni dovrebbero essere maggioritarie o consensuali, la dinamica politica sarebbe racchiusa nella coppia governo-opposizione e la regolazione - si dice - generalmente avviene ora attraverso lo stato, ora attraverso il mercato. In Italia però il modello di governo "consensuale"2 è stato ormai abbandonato, senza che per questo si sia realizzata una trasformazione istituzionale in senso maggioritario; l'alternanza con l'opposizione non c'è mai stata ed, infine, il welfare state che si è affermato negli anni settanta non è stato il punto di arrivo di un modello statale di tipo socialdemocratico, bensì l'esito politico di coalizioni centriste che hanno sfidato le opposizioni sui loro stessi temi e problemi. Giudicando ormai impossibile "riformare la politica", da tempo numerosi osservatori puntavano dunque l'indice contro "questo" stato di cose. Di fronte al desolante spettacolo offerto da istituzioni sempre meno amate qualcuno, c'è chi si è affidato ad esempio alle "minoranze morali", sperando che queste avrebbero meglio potuto imporsi contro coloro che "per ignavia, per stupidità o per opportunismo"3 hanno in passato rinunciato a contrastare l'attuale degrado. Tanta fiducia su una presunta purezza delle "minoranze", suscita però non poca meraviglia. La storia del sistema nazionale di welfare si incrocia infatti con continue richieste di nuovi diritti che hanno visto come protagonisti sia gruppi sociali deboli, sia gruppi che tali non erano. Il degrado ha dunque molte cause. A volte gli individui hanno corrotto le istituzioni; in altri casi sono invece state queste ultime che hanno favorito la disgregazione. Esistono inoltre situazioni e aspetti della vita individuale che sono risultati tutelati, perché mettevano capo a una qualità o a un modo di essere specifico di cui si compone la "maschera giuridica" 34 di ogni individuo: il consumatore, il risparmiatore, il fruitore dell'ambiente, l'anziano, il malato e così via. Trovando legittimo questo modo di procedere in nome di quell'unicum irripetibile che è la "persona", Alpa almeno non si è fatto illusioni. Questo "ballo in maschera" a cui da secoli partecipano i giuristi, "deve essere preso per quello che è": serve solo a distinguere l'individuo dal gruppo, pur assicurandone nello stesso tempo la necessaria integrazione4. Si ammetterà però che, oltre all'esistenza di risorse da distribuire, la valorizzazione della persona presuppone pur sempre dei criteri e delle regole che dovrebbero esser rispettati. E' questa del resto la principale linea di divisione, che ha sinora distinto il solidarismo cattolico dal clientelismo democristiano. Nell'assenza di istituzioni capaci di rappresentare l'interesse generale, è legittimo sospettare dunque che anche queste richieste possano a loro volta essere state fondate su una malintesa interpretazione dei compiti dell'autorità statale. E la ragione è semplice. L'incontro che nel '48 maturò tra le due principali culture politiche, quella cattolica e quella comunista, avvenne infatti intorno ad alcuni "valori" e non sulle modalità di funzionamento del futuro stato sociale, che poi avrebbe dovuto farsi carico di realizzarli. Dirà perciò solennemente Togliatti, nella sua prosa essenziale: "c'é stata una confluenza di due grandi correnti: da parte nostra - scusate il termine barbaro - un solidarismo umano e sociale; dall'altra parte un solidarismo di ispirazione ideologica e diversa il quale però arrivava...a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi"5. Con una stretta di mano tra segretari di partito, verrà in tal modo cancellato un universo di problemi che rappresentano invece il vero asse portante delle moderne democrazie. Scoppola ne presenta le prove. Pur essendo stato diretto da apprezzati studiosi come Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino, anche nella seconda edizione (1983) del ben noto "Dizionario di Politica"6, vi sono esaurienti riferimenti alle minoranze, al ruolo delle opposizioni, dei partiti e così via, ma non vi è traccia di alcune voci importanti, come ad esempio quella di cittadinanza. E' il segno di un vuoto reale. Non a caso nell'Italia della prima repubblica il senso di appartenenza comunitario, è sempre stato "fragile e limitato"7. 35 Sarebbe sbagliato pensare che ciò sia dipeso soltanto da una insufficiente sensibilità delle scienze sociali. Queste ultime si sono in realtà impegnate a ricostruire soprattutto quei processi storici che effettivamente si manifestavano: maggioranze che "occupavano" lo stato e opposizioni impegnate in una discussione senza fine sul come diventare una forza di governo. Che le istituzioni dovessero essere in buona misura indipendenti dalla logica dei partiti, resterà invece - per lungo tempo - soltanto un'eresia, circoscritta al dibattito di pochi intellettuali. Nei fatti, tutti hanno invece accettato che i partiti svolgessero le proprie funzioni, assicurando appartenenza e mobilità ad aree sociali sempre più ampie. Per questa via si è del resto arrivati all'idea-limite che - in Italia più che altrove - ha reso sempre più fragile la regolazione istituzionale. Dalla tendenziale abolizione delle differenze in nome dell'eguaglianza, alla rivendicazione dell' uguaglianza di tutte le differenze, il passo sarà infatti breve e nessuna forza politica eviterà di farlo. In questo modo, tutti gli interessi privati risulteranno prima o poi meritevoli di una tutela pubblica, perché ci sarà sempre qualcuno disposto a rappresentarli8. Naturalmente un simile degrado non è maturato soltanto attraverso la prava dispositio delle singole forze politiche e contro la volontà di quegli stessi "cittadini", che oggi rivendicano la loro innocenza. Semmai, c'è stato invece un accordo tacito ma anche generalizzato, almeno su un aspetto del processo. In mancanza di un criterio generale in grado di gerarchizzare le diverse domande, nessuno ha avuto dubbi nel seguire la strada opposta: si è partiti dalle identità particolari e, progressivamente, si è fatto coincidere l'interesse pubblico manifestatosi attraverso la cittadinanza, con la sommatoria delle singole richieste di volta in volta avanzate attraverso le rappresentanze parlamentari. Generalizzando la logica dello "scambio" politico, in tal modo si è sviluppata una spinta irresistibile verso un maggior grado di eguaglianza e un arricchimento del materiale di cui è fatto lo status. L'esito finale è stato più o meno identico a quello delle altre democrazie europee, ma i costi sono risultati inevitabilmente diversi per il modo con il quale ci si è arrivati. In Italia i partiti non hanno raccolto consensi grazie alla loro capacità di governare. Piuttosto, 36 hanno governato in funzione della possibilità di allargare le rispettive basi del consenso. E non è questa una differenza da poco. Lo vedremo dai segni profondi che sono rimasti nel corpus delle istituzioni. Sbaglia perciò chi continua a credere che - discutendo soltanto delle regole - la democrazia perda i suoi fini, inaridendosi in una pura ricerca dei mezzi. Naturalmente se non si crea un senso di appartenenza intorno al quale cementare il consenso, la democrazia cessa anche di esistere. Ma senza leggi elettorali adeguate; senza un esecutivo compatto capace di esprimere un orientamento che vada oltre la sommatoria delle "delegazioni" dei partiti che lo compongono; senza un legislativo che - anziché controllare continuamente condizioni il governo, gli stessi "valori" della cittadinanza prima o poi deperiscono, disarticolandosi in una pluralità di interessi che promuovono la negoziazione9, senza tuttavia assicurare una reale forma di regolazione. A suo tempo la cittadinanza nacque del resto in modo ben diverso, affermandosi come "obbligazione politica", distinta dai diritti universali dell'uomo. Ce lo ricorda Pombeni parlando di "doveri che generano diritti e diritti che generano doveri"10, all'interno di un processo che rafforza le appartenenze anche grazie alla circolarità del suo movimento. E' un'idea antica, propria di una epoca in cui a una certa supremazia corrispondeva anche un maggior rischio e una maggior disponibilità: un tempo, infatti, il "diritto" di portare la spada era anche indissolubilmente legato al "dovere" di usarla in guerra. Ma è anche una idea che non riesce più a trovare nemmeno le parole per esprimersi, in una stagione culturale che rivendica invece la eguaglianza di tutte le differenze. La democrazia dei partiti ha messo infatti in primo piano i diritti, ma non quella trama istituzionale che ha sinora assicurato loro il necessario universalismo. Eppure, osserva Giovanna Zincone11, se noi costruiamo i diritti sociali "in modo che la loro erogazione sia discrezionale", gli stessi "diventeranno uno strumento di corruzione", perché la classe politica ben presto inizierà a procurarsi voti elargendo favori. Chi si occupa degli ordinamenti politici assegna dunque grande importanza alla definizione dei necessari criteri di regolazione. Da 37 un punto di vista storico, del resto, una moderna cittadinanza si afferma soltanto nel momento in cui le istituzioni acquistano una legittimità indipendente dai processi politici che le hanno generate. La svolta verso la "governabilità" da noi maturerà però troppo tardi e soltanto allorché arriverà a conclusione la stagione dell'"unità nazionale". Ci vorranno poi quasi altri dieci anni per abolire anche il voto segreto (1988), che del consociativismo è sempre stato il presupposto, oltre che il principale garante. Ed anche le leggi che negli anni settanta furono promosse sulla spinta di profonde convinzioni morali, con il tempo hanno poi cambiato funzione, rivelandosi come il principale strumento di protezione politica, verso vecchi e nuovi corporativismi. Gli esempi potrebbero del resto essere innumerevoli ed investire gran parte dei settori di intervento dello stato sociale: dalla sanità al pubblico impiego, dai falsi invalidi all'esercito di "distaccati" per motivi sindacali, è stato tutto un moltiplicarsi di aspettative ben presto tutelate nella forma del diritto. Divenuta una "rivendicazione senza contropartite"12, la cittadinanza ha reso in tal modo palpabile l'unilateralità delle proprie richieste. Dalla originaria convergenza di due diversi solidarismi, si è così passati alla virtuale inesistenza di valori comuni, come del resto dimostrano anche altre vicende, solo apparentemente secondarie. Si prenda il caso delle celebrazioni civili. Allorché si trattò di ridefinire il calendario per ridurre le numerose festività infrasettimanali, tanto l'anniversario della Vittoria quanto quello della proclamazione della Repubblica furono burocraticamente soppressi, mentre ciò non accadde per il 25 aprile o per il primo maggio. E' una splendida illustrazione del modo in cui la preesistenza di identità politiche alternative ha, anche nelle piccole cose, sistematicamente ostacolato la costruzione di una identità nazionale13. Sono invece rimasti gli spalti degli stadi14, dove è ancora possibile veder sventolare con genuino entusiasmo la bandiera italiana. Potrà non piacere, ma non lo si può negare. Avendolo capito bene, Berlusconi ne approfitterà ben presto e Forza Italia risulterà perciò la prima organizzazione politica nelle elezioni del 1994. 38 Esiste comunque un ampio territorio di problemi le cui radici affondano nel passato e che per lungo tempo non sono stati risolti. Sono infatti le istituzioni che, attraverso le modalità del loro radicamento, assicurano quella integrazione di cui la cittadinanza rappresenterà a sua volta la principale manifestazione. La leggerezza dei comportamenti che si manifesta sul piano delle "identità", rinvia perciò ad una questione la quale è anche di sistema e che, come tale, merita di essere indagata. Chi va da tempo denunciando con preoccupazione le conseguenze di simili processi, naturalmente ha ragione da vendere. Man mano che la sfera di intervento pubblico si è ampliata, si è sviluppato infatti un mix di particolarismo e universalismo, accentramento e decentramento, che ha minato alle radici le stesse capacità di regolazione. Non è un caso del resto che il "welfare state all'italiana"15, come è stato efficacemente chiamato, trovi ben pochi riscontri nelle democrazie di tipo europeo. Universalistico nella erogazione delle prestazioni in alcune aree, particolaristico in altre, per classificarlo Ferrera ricorrerà a una categorizzazione tipicamente residuale e parlerà perciò di un sistema "misto". Che cosa questo significhi, lo si capisce poi ricordando come si è arrivati ad assicurare "la salute ai cittadini e la pensione ai lavoratori"16. All'universalismo della riforma sanitaria si giunse infatti perché, nel clima delle larghe intese degli anni settanta, si creò una coalizione di interessi disponibile alla fusione in unica "comunità di rischio" sorretta dallo stato. Mancando queste premesse politiche, alla fine degli anni sessanta non si era riusciti invece ad assicurare una tutela pensionistica estesa a tutta la popolazione, con servizi uniformi e indipendenti dalla preesistente situazione professionale. Divise nella logica che le ha istituite, sanità e pensioni sono comunque oggi accomunate dal fatto di offrire prestazioni capaci di acquisire un singolare primato: quello di risultare ad un tempo tanto insoddisfacenti per il cittadino, quanto insostenibili per lo stato sociale. Il caso italiano è tutto qui: avendo voluto dare qualcosa a tutti, il sistema alla fine darà poco e comunque darà più di quello che è nelle sue possibilità. Emergerà perciò quel circolo vizioso che alla fine metterà capo anche alla crisi del partito-stato democristiano. I 39 cittadini avvertiranno sempre più come ingiusto un prelievo fiscale che non ha pari in Europa e che, a differenza di quanto è accaduto altrove, da noi è servito ad alimentare le clientele, piuttosto che a migliorare i servizi sociali. Venuto meno il vero collante di un tempo rappresentato dai partiti i quali stabilivano quanto dare e a chi darlo, i problemi finanziari faranno il resto. Per quadrare i conti, nel 1993 verrà imposto un modello di dichiarazione dei redditi lungo più di venti pagine, contro il quale riterrà doveroso scagliarsi lo stesso Presidente della Repubblica. E' anche con queste piccole cattiverie che è stata infatti intaccata la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Il principale problema, comunque, è sempre stato il modo in cui si è cercato di arrestare la crisi dello stato sociale. Mancando sistematicamente un accordo tra le diverse forze politiche, il legislatore da tempo è andato infatti ridefinendo le proprie finalità soltanto in maniera indiretta e cioè ridiscutendo le modalità di copertura finanziaria delle stesse. La strada da percorrere per mettere a fuoco la crisi di regolazione, è dunque in buona misura obbligata. Ricostruendo la dinamica della decisione di bilancio e della finanziaria che a questa è collegata, diverrà del resto più chiara anche un'altra faccia del problema. Un sistema che ha sempre maturato le proprie scelte nel modo che adesso ricostruiremo, non è in grado di individuare dei criteri efficaci per assicurare l'inevitabile processo di ridefinizione dello cittadinanza. E tutto ciò diverrà chiaro allorché, sull'onda di una crisi senza precedenti, negli anni novanta i governi Amato e Ciampi cercheranno di avviare un processo di risanamento dello stato sociale. 2. La decisione di bilancio Nei sistemi politici moderni la tradizionale divisione dei poteri assume di volta in volta delle modalità differenti, a seconda delle diversità esistenti nei rispettivi assetti statali. Che si tratti di regimi presidenziali, semipresidenziali o anche parlamentari, in tutti i casi però è l'esecutivo l'organo responsabile di stabilire i fini dell'azione 40 pubblica anche se poi il legislativo concorre, attraverso la legge di bilancio, all'approvazione delle risorse destinate su base annuale o pluriennale alla realizzazione dei primi. Le modalità attraverso le quali viene regolato un processo decisionale che prevede la partecipazione di poteri diversi, potranno perciò anche essere diverse tra loro, ma mantengono comunque uno stesso obiettivo. Si tratta di impedire che il legislativo possa nei fatti ribaltare le priorità stabilite dall'esecutivo, senza dover peraltro mettere in discussione l'indirizzo politico sul quale si basa il rapporto fiduciario nei confronti del governo. Cautele del genere di quelle ricordate sono state tuttavia largamente disattese nel caso italiano, a seguito di esigenze diverse che sono venute alle luce negli anni settanta e le cui premesse meritano di essere - sia pur sommariamente - richiamate. Il punto da cui partire è naturalmente rappresentato dal solenne divieto stabilito all'art. 81 della Costituzione, di accendere attraverso la legge di bilancio sia "nuovi tributi", sia "nuove spese". La prima vistosa deroga al principio del "pareggio" si ebbe intorno al 1960, allorché le somme necessarie al finanziamento del Piano Verde vennero reperite attraverso obbligazioni emesse dal Consorzio di Credito per le Opere Pubbliche. A sua volta, questa deroga venne però temperata attraverso un duplice ordine di vincoli. Intanto l'emissione di obbligazioni da parte del Consorzio fu subordinata all'autorizzazione preventiva della Banca d'Italia; secondariamente, l'iscrizione in bilancio avvenne solo dopo il versamento da parte del Consorzio del ricavato delle emissioni. A partire dagli anni sessanta il "pareggio" dunque salta ma resta in piedi comunque, accanto ad una discutibile discrezionalità del Tesoro in ordine all'avvio delle procedure contabili di spesa, un principio fondamentale. Il governo non dovrà proporre dei nuovi fini, allorché sottoporrà al parlamento la decisione di bilancio. I primi potranno infatti essere determinati attraverso ordinarie leggi di spesa, mentre la legge di bilancio dovrà invece limitarsi a stabilire soltanto il punto di equilibrio ottimale sul piano finanziario, evitando in tal modo ogni confusione tra i due diversi tipi di decisione o, anche, tra una scelta di spesa e le modalità della sua erogazione. 41 La "rivoluzione delle aspettative crescenti" maturata negli anni settanta, ben presto fece però tabula rasa di questa impostazione perché le uscite non solo cresceranno, ma andranno anche ben oltre i tradizionali confini del settore statale. Per adeguare l'organizzazione dei centri di spesa alle nuove esigenze del sistema di welfare, in quegli anni prese infatti corpo una "fuga dallo stato"17, conseguente alla creazione di quel settore pubblico allargato che costituiva l'ossatura del nuovo "governo per enti". Autonomie locali, regioni, enti previdenziali e alla fine anche il sistema sanitario, diventano così i nuovi canali attraverso i quali passa gran parte della spesa pubblica, che lo stato si limiterà a sua volta soltanto a registrare, all'interno di un bilancio sempre più vincolato. Alla lunga, questo tipo di assetti risulterà però insostenibile. Non si poteva continuare ad onorare comunque - e per giunta a piè di lista - i crescenti impegni assunti dal settore pubblico allargato, al quale era peraltro stata negata qualunque autonomia finanziaria al momento della approvazione della riforma tributaria. Con la legge 468 del 1978, il legislatore getterà perciò le premesse perché il governo e il parlamento intervengano tenendo conto sia della situazione economica del paese, sia del volume complessivo di tutte le operazioni attraverso le quali assicurare un equilibrio tra gli impegni di spesa e le entrate necessarie a una loro copertura. Va detto che alla revisione del 1978 si arriverà anche perché, a differenza di quanto era accaduto in passato allorché la legge di bilancio aveva mantenuto un carattere sostanzialmente rituale, negli anni settanta incomincia invece a prendere corpo anche in parlamento una discussione sui rispettivi poteri normativi dell'esecutivo e del legislativo. L'idea di dar vita a un processo decisionale sinottico delle priorità e degli equilibri dei conti di stato, matura però nello stesso momento in cui, alla fine del decennio, incomincia ad impallidire la stella del consociativismo e prendono invece corpo nuovi conflitti tra i principali soggetti politici. Ne nascerà una discussione non da poco e non sarà semplice arrivare a nuovi assetti istituzionali. Con le sue leggi e leggine, il parlamento non ha infatti contribuito soltanto alla "sopravvivenza" del sistema; ha anche partecipato al suo governo, permettendone addirittura un "consolidamento democratico"18. Venuta meno la stagione delle 42 "larghe intese", la legislazione di bilancio dovrà però misurarsi con un nuovo e più instabile quadro politico, facendone subito le spese. La scelta maturata in quegli anni prevedeva infatti che il governo potesse intervenire sull'intero processo, utilizzando il nuovo strumento della legge finanziaria. Collocandosi quest'ultima a monte della legge di bilancio, in tal modo diventava possibile rispettare l'originario divieto costituzionale previsto dall'art. 81, mantenendo nello stesso tempo una ampia libertà di manovra sui criteri attraverso i quali quadrare i conti dello stato. In realtà, la possibilità ora riconosciuta all'esecutivo di indicare nuovi fini, presupponeva un radicale capovolgimento dell'ottica sino a quel momento adottata nella programmazione dei lavori parlamentari. "Non più una organizzazione della discussione volta a garantire i più ampi spazi di libertà emendativa, dirà infatti De Joanna, ma invece un'organizzazione volta a mettere a confronto la proposta del governo con proposte alternative, all'interno di vincoli e limiti già predeterminati dalla stessa volontà parlamentare"19. Cambiato il clima politico, ci vorranno però anni per entrare a regime, sicché tutta la strumentazione normativa prevista dalla legge acquisterà un diverso significato. Il bilancio pluriennale di previsione, ad esempio, sirivelerà inutilizzabile, non fosse altro perché presupponeva una stabilità degli esecutivi che non era facile assicurare. Identica sorte toccherà anche alla legge finanziaria, perché intorno all'interpretazione ed all'uso che l'esecutivo farà di questi ultimi poteri, si accentrerà gran parte della discussione sino alla successiva riforma dell'88. L'art. 11 della Legge 468/1978 riconduceva infatti a un unico momento decisionale, la determinazione del volume massimo di risorse che erano acquisibili mediante indebitamento finanziario. Nello stesso tempo però, la legge apriva anche la strada alla prassi di iscrivere uscite certe sul lato delle spese, mentre le entrate sarebbero state garantite attraverso operazioni di tesoreria che, per la loro incertezza sugli esiti, avrebbero dovuto invece esser tenute fuori da ogni previsione. Si getteranno così le basi per trasformare quella che agli inizi era una timida e anche prudente tendenza, in una vera e propria corrente irresistibile di spesa. Alla fine del processo annuale, il ricorso al mercato finanziario verrà infatti 43 puntualmente costruito come un mero saldo contabile, destinato a coprire la quota delle risorse che non si riusciranno ad attingere attraverso le imposte. Non essendo in grado di intervenire organicamente sul versante delle uscite, fossero queste costituite dagli enti locali, dalla previdenza o dalla sanità, il governo incomincerà inoltre a proporre ben presto la cosiddetta "finanziaria omnibus" e cioè un provvedimento al cui interno le macro-decisioni si mescoleranno con le misure clientelari, mentre i "tagli" assumeranno i caratteri di vere e proprie mini-riforme, che incideranno profondamente sulle modalità della regolazione politica. Sino alla successiva legge del 1988 tutti gli strumenti della manovra verranno inoltre discussi contestualmente, con la conseguenza di annullare qualunque possibilità di valutazione sulle scelte di medio periodo e di schiacciare invece parlamento e governo sulla decisione annuale, inevitabilmente assunta sulla base di considerazioni congiunturali. Da strumento di governo della spesa, la finanziaria si trasformerà perciò nell'unica decisione alla quale non solo l'esecutivo ma anche il parlamento si affideranno, per realizzare i rispettivi obiettivi. Per un sistema politico che incominciava ormai ad avere il fiato corto, non fu certo un risultato da poco. Questo "treno" partirà infatti tutti gli anni e arriverà comunque a destinazione, perché sarà l'unica legge alla quale il parlamento non potrà negare la propria approvazione. Si capisce perché tutti abbiano sempre voluto salirci. Il governo che ha bisogno di decidere, l'opposizione che cerca di difendere i propri interessi e anche i singoli parlamentari i quali si occupano dei rispettivi collegi, da tempo ormai sanno che - magari attraverso accordi trasversali - la finanziaria rappresenta infatti il "mezzo di trasporto" più sicuro per ottenere un risultato desiderato. Le nuove regole approvate dal parlamento nel 1978, daranno in tal modo vita a decisioni di cui si perderà la forma e trovare un accordo diventerà sempre più difficile. A partire dalla tormentata finanziaria del 1988, il Presidente della Camera dichiarerà perciò apertamente: "tutti siamo consapevoli che non debbono essere affidati alla finanziaria interventi di carattere puntuale, né può essere attribuita in ragione dei tempi garantiti dalla sua approvazione, una funzione di 44 supplenza rispetto alla mancata definizione di specifici provvedimenti legislativi e addirittura di grandi riforme, attese da lungo tempo... E' necessario anche domandarsi se, per superare i problemi che l'uso concreto della legge finanziaria ha posto e pone, non sia necessario ripensare profondamente la sua stessa struttura e i suoi rapporti con il bilancio"20.Si aprirà in tal modo la discussione, che poi porterà ad una nuova modifica dell'intero processo. Nei fatti, le soluzioni proposte ruoteranno intorno a tre diverse esigenze: una netta separazione temporale fra il momento d'impostazione delle regole macrofinanziarie e la fase di modifica concreta delle legislazioni sostanziali di settore; la distribuzione dei contenuti settoriali di tipo normativo in strumenti legislativi distinti dalla finanziaria, che diverrà perciò sempre più "snella"; l'adattamento delle procedure parlamentari - e cioè la votazione preliminare e vincolante dei principali saldi finanziari e l'adozione del voto palese - agli assetti che si cercheranno di imprimere alla decisione di bilancio. Alcune di queste previsioni verranno assicurate nel 1988 dalle modifiche dei regolamenti parlamentari. Altre esigenze verranno invece fatte proprie dalla Legge 362/1988 che modificherà la legislazione preesistente e, nello stesso tempo, favorirà l'emergere di nuove "prassi" parlamentari. Con l'adozione di un "documento di programmazione", a partire dal 1989 si cercherà dunque di anteporre alla prima fase del processo decisionale una deliberazione politica inspirata da criteri generali di razionalità economica e finanziaria, a cui il governo stesso verrà vincolato una volta che sarà avviata la manovra. Pur all'interno di un processo che ovviamente resta unitario, la decisione risulterà inoltre articolata in due diversi momenti e nello stesso tempo si cercherà di migliorarne anche l'impostazione, dedicando la prima fase della discussione all'esame dei documenti preparatori. Ormai "alleggerita" dal sovraccarico funzionale che la opprimeva, la nuova finanziaria verrà invece presentata insieme ai provvedimenti collegati, nella apposita sessione di bilancio istituita tra il 1983 e il 1985, in entrambi i rami del parlamento. Naturalmente non è così ovvio riuscire ad imporre una prassi, grazie alla quale un atto di indirizzo come quello espresso dal "documento di programmazione", si trasforma nei fatti in un 45 vincolo alle scelte del potere legislativo. Anche se non solo per queste ragioni, tutto il nuovo impianto di regolazione si rivela del resto di difficile attuazione. Il "documento" verrà infatti sottoposto al parlamento, quando già il Tesoro avrà avviato il processo di determinazione della propria proposta. Poiché questa comporta a sua volta una intensa negoziazione con le varie amministrazioni statali, in tal modo una quota di spesa - che è anche quantitativamente rilevante - verrà sottratta a quelle valutazioni di ordine globale che avrebbero invece dovuto ispirare il nuovo processo decisionale. Soprattutto, mancherà qualunque disposizione in grado di vincolare gli attori politici a criteri che non siano solo di ordine congiunturale e di tipo autoreferenziale. Dilatatasi la discussione in diversi momenti, gli attori cambiano infatti a seconda della fase in cui si trova il processo di policy e a volte cambiano anche i ruoli che gli stessi svolgono, a seconda del tipo di contrattazione che debbono affrontare. Durante tutto il periodo di predisposizione della "proposta", si svilupperà ad esempio una negoziazione interna all'esecutivo tra le amministrazioni di spesa e il Tesoro; nel momento in cui quest'ultimo approva il progetto di bilancio a legislazione vigente e la finanziaria collegata, si avvierà invece la contrattazione tra gli attori politico-istituzionali e le rappresentanze degli interessi sociali coinvolti nelle decisioni di spesa o di entrata21. Per ovviare ai limiti diventati evidenti in un processo che ha delle regole ma non riesce ad avere dei risultati, in più occasioni sarà perciò proposta l'adozione di una sorta di "costituzionalismo fiscale". Lo schema di riferimento sarebbe quello offerto dalla legge Gramm-Rudman-Hollings, in passato adottata nell'esperienza americana: qualora le spese superino i "tetti" di disavanzo stabiliti, interverrebbero dei meccanismi automatici di "taglio" precedentemente introdotti. Va detto che lo stesso Congresso è ritornato più volte sul problema, perché i risultati non sempre si sono rivelati soddisfacenti. Questo genere di provvedimenti verranno inoltre ritenuti meno utili nel caso italiano22, per la diversità del nostro assetto istituzionale. Ciò che nel processo di bilancio risulta infatti centrale, è innanzitutto la natura delle maggioranze al cui interno le decisioni 46 vengono prese e anche la natura dei sistemi elettorali che le producono. I paesi che negli anni ottanta sono riusciti a riportare il rapporto tra debito pubblico e PIL al di sotto del 50 per cento, hanno tutti un assetto di tipo presidenziale o, comunque, fortemente maggioritario. Negli Stati Uniti o in Francia da una parte; in Inghilterra, Giappone e Canada dall'altra, il debito pubblico infatti è sceso o comunque si è stabilizzato entro limiti che vengono normalmente considerati accettabili, come appunto quelli rappresentati dalla soglia del 50 per cento. Anche la Germania, che ha visto in quest'ultimo decennio crescere sino al 25 per cento il rapporto tra debito pubblico e PIL, ha comunque dei meccanismi istituzionali come quello rappresentato dalla "fiducia costruttiva" o dalla "clausola di sbarramento", che hanno assicurato sinora un controllo delle dinamiche di spesa. L'Irlanda, il Belgio, la Grecia o l'Italia, il cui debito pubblico è costantemente cresciuto a partire dagli anni ottanta raggiungendo , nel caso del nostro paese, un rapporto con il PIL che oggi viaggia intorno al 110 per cento, hanno invece avuto degli assetti istituzionali di tipo proporzionale. Esiste dunque una sorta di trade-off tra rappresentanza e efficienza, anche se il minor grado di rappresentanza associabile ai sistemi elettorali maggioritari, è solo "una condizione necessaria, ma non sufficiente, per una maggiore efficienza"23. C'è poi un altro aspetto che deve essere sottolineato. Contrariamente all'opinione corrente, le difficoltà maggiori che da tempo si incontrano nel finalizzare i sacrifici annualmente richiesti alla collettività non dipenderanno soltanto dall'assalto che il parlamento andrà muovendo alla spesa pubblica, ma anche dal fatto che l'esecutivo non riuscirà, per la debolezza da cui è contrassegnato, a intervenire in maniera strutturale all'interno di quei settori che maggiormente incidono sul debito. Il problema risulterà del resto così evidente che - pensando alla decisione di bilancio, piuttosto che alla riforma istituzionale - alcuni osservatori vedranno nella "revisione della legge elettorale", il primo volano su cui intervenire per avviare una inversione delle tendenze in atto24. Chi ha dunque descritto il debito pubblico come una variabile "fuori controllo" e la spesa come un flusso "senza freni", in realtà ha sempre chiarito solo in parte quella che è invece la sostanza 47 istituzionale del processo. I freni alla spesa ci sono infatti da anni e sempre più duri, così come il controllo sulle entrate. Ciò che invece si è rivelato impossibile, per ragioni che debbono essere appunto ricondotte all'assetto del sistema politico italiano, è stato il tentativo di assicurare continuità e coerenza alle manovre che sinora si sono succedute di anno in anno, a causa di quei limiti che Amato - allora ministro del Tesoro - rileverà già durante la discussione parlamentare del 1987. Nella sessione che si chiama di bilancio e non di finanziaria, sostenne Amato in quella occasione, abbiamo davanti 40 mila miliardi di finanziaria e 500 mila di bilancio: "noi però ci azzuffiamo per quattro mesi su questi 40 mila miliardi e i 500 mila miliardi scorrono come un fiume sotterraneo su cui nessuno ha tempo di mettere gli occhi"25. La sessione di bilancio appositamente prevista dal parlamento è sempre stata - in altri termini - dedicata soprattutto alla finanziaria. Essendosi in passato il governo impegnato soprattutto nella riconversione di una componente limitata della spesa pubblica, il bilancio ha continuato invece a rappresentare soltanto lo sfondo al cui interno è maturata la manovra economica. Un modo come un altro, questo, per non mettere mani sul "fiume sotterraneo" grazie al quale è sinora ingrassato lo stato sociale. Questo uso improprio delle sedi istituzionalmente previste ha comportato a sua volta una trasformazione dei processi di regolazione politica. Per giustificare un prelievo fiscale che diventerà sempre più pesante, ma anche sempre più ingiustificato, il discorso verrà semplificato ed il termometro della situazione economica sarà sempre più spesso riassunto nell'indicazione del debito con cui lo stato grava idealmente su ogni cittadino, mentre i piani di rientro si succederanno inevitabilmente tra di loro, ognuno prendendo le mosse dal fallimento del precedente. Configurandosi sempre meno come uno strumento di rientro del deficit, la manovra annuale si presenterà inoltre, sostanzialmente, come una policy di tutte le possibili policies.26 E' stato questo il reale processo decisionale attraverso il quale si è sempre governato il paese. Ed è questo dunque l'osservatorio privilegiato che permette 48 di capire sia quali siano - o non siano - oggi i poteri del governo, sia quelle che sono le logiche delle sue rappresentanze politiche. Troppe volte lo spettacolo offerto durante la sessione di bilancio, è risultato del resto sconcertante. Le opposizioni e spesso anche settori interni della maggioranza, naturalmente contestano le cifre poste a base della manovra e anche i principi - non senza ragione vengono inoltre rimessi continuamente in discussione. All'interno dello stato sociale, c'è infatti pur sempre qualcuno che riesce a nascondere i propri privilegi meglio degli altri. Né le incertezze cessano con l'approvazione della finanziaria, perché nel corso dell'esercizio si è spesso verificato che i gettiti realizzati attraverso nuove imposizioni fossero inferiori a quelli previsti; oppure che il tasso di crescita dell'economia cambiasse o che la stessa bilancia dei pagamenti peggiorasse, per fattori che erano legati al ciclo economico internazionale. Le piccole manovre di metà anno, dirette ad assicurare i necessari aggiustamenti, sono diventate perciò un'abitudine a cui il paese dovrà inevitabilmente rassegnarsi. Sollecitati continuamente dall'alluvione di dati di volta in volta posti in primo piano, i contribuenti hanno naturalmente reagito a modo loro, sottraendosi ai propri doveri allorché ciò sarà possibile ed esibendo le inevitabili ingiustizie legate all'imprevedibilità del sistema di regolazione, ogni volta che queste si presenteranno. Per reazione, i ceti medi a loro volta si sono mobilitati e il processo di ridefinizione della cittadinanza è risultato sempre più accompagnato dalle pressioni popolari. Ai diritti - osserverà infatti Rodotà - "non corrisponde più alcuna sostanza"27, perché l'"inflazione" legislativa li ha resi nei fatti inesigibili. Chi ancora avrà bisogno di farsi sentire, dovrà avviarsi perciò per la solita la strada: quella di alzare la voce, irrigidire i conflitti. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta sono nati infatti i Cobas a sostegno delle richieste degli insegnanti e dei ferrovieri; i medici ospedalieri e il personale paramedico si mobiliteranno ogni volta che verrà toccato il settore della sanità; per contrastare le iniziative dei dipendenti che continuamente minacciano la sospensione dei servizi pubblici, sarà necessario arrivare a una regolamentazione degli scioperi nel settore; oppure, per fare un ultimo esempio, la rivolta antitasse diventerà la spina dorsale 49 intorno alla quale nuove forze politiche come le Leghe prima e poi anche Forza Italia raccoglieranno consensi a mani basse. Minacciate dall'incapacità di unificare le nuove microsolidarietà di categoria, di ceto o di territorio che emergono dal dissolversi dei vecchi rapporti sociali, le istituzioni hanno a loro volta cercato di adattarsi. Non è stata solo la finanziaria, ma qualunque provvedimento che incideva su precedenti diritti acquisiti, ad assumere il carattere di una sorta di "vestito di arlecchino", dove ogni toppa rinviava all'equilibrio raggiunto con l'interesse che di volta in volta è stato colpito. Il consenso diventerà una merce che costa ogni giorno più cara perché le strutture preposte alla sua produzione, siano esse partiti, parlamento o governo, non saranno in grado di assicurarlo. La negoziazione risulterà infine frenetica, perché la forza che muove coloro i quali trovano un accordo, deriva direttamente dalla debolezza di quanti invece sono costretti a subirlo. La miscela che sinora ha alimentato il "treno" della regolazione è infatti stata sempre costituita da un mix esplosivo di culture postmoderne e di privilegi sociali di tipo medioevale nel cui vortice sia i soggetti regolatori che quelli regolati sono stati progressivamente assorbiti, perdendo ogni volta - a seconda del caso - qualcosa delle passate identità. Manifestando l'esistenza di chiari limiti, questo tipo di governo del welfare state ha in tal modo favorito una crisi di integrazione sociale e politica, diventata esplosiva. Crollati i partiti, anche gli altri legami si sono progressivamente indeboliti e ciò va detto con la sicurezza che si ricava da diverse considerazioni. 3. Il deficit di integrazione L'incisione è esposta al Metropolitan di NewYork e rappresenta dieci uomini che combattono tra loro, armati soltanto con piccole scimitarre. Si tratta del celebre Combattimento dei nudi del Pollaiolo che, curiosamente, La Palombara riproduce nell'antifrontespizio di un saggio sulla "democrazia all'italiana", spiegandone anche le ragioni. A prima vista sembrerebbe infatti di 50 assistere a una lotta disordinata e implacabile, condotta sino all'ultimo sangue, proprio come nell'incisione del Pollaiolo. Guardando quest'ultima più da vicino, La Palombara ci vede però anche dell'altro: "la posizione delle figure, i loro atteggiamenti, il rapporto che lega le une alle altre e che le inserisce nello spazio, creano una situazione di estrema tensione e, insieme, di equilibrio quasi perfetto"28. All'originaria impressione di conflitto si sostituisce perciò la sensazione di una realtà caratterizzata da una ben più profonda armonia, che l'artista rivela solo ad uno sguardo più attento, non diversamente da quanto accade alla vita politica italiana. L'interpretazione è attraente, ma minimizza i pericoli mortali ai quali vanno incontro i combattenti. Già nell'incisione del Pollaiolo, del resto, il quadro inferiore smentisce sonoramente la sensazione di vigore trasmessa dal quadro superiore. Questi uomini non stanno più in piedi, almeno due son caduti per terra e, forse, stanno per esser finiti da avversari che incalzano. E' il caso dunque di intendersi bene. Nel breve periodo si poteva anche parlare di "armonia", ma una lettura dinamica dei processi politici venuti a maturazione nel passato decennio, sottolinea invece la fragilità dell'equilibrio allora raggiunto. Basterà inciampare in un nonnulla per ritrovarsi con le spalle a terra, a un passo dalla fine. Le "legature" che agli inizi degli anni ottanta ancora univano gli elementi del sistema, si sono infatti ben presto allentate e i fasti culminati nel vertice di Tokyo (1986), sono da tempo solo un pallido ricordo. Nel frattempo sono invece diventate esplosive le conseguenze di due significativi deficit di integrazione: quello tra stato sociale e stato fiscale e quello tra territorio e istituzioni. Lo si vedrà bene per l'ultima volta, in occasione della crisi finanziaria dell'autunno 1992: il governo Amato riuscirà a fronteggiarla, solo al prezzo di un conflitto profondo che opporrà il presidente del consiglio a buona parte del ceto politico nazionale. E' noto come il problema dello stato fiscale sia indissolubile da quello dello stato sociale perché quest'ultimo ha bisogno del primo per potersi consolidare, così come i cambiamenti che maturano nei sistemi di tassazione nazionale inevitabilmente rinviano a un processo di ridefinizione dei modelli di welfare. Dobbiamo dunque prendere atto di non essere oggi di fronte a due crisi diverse, bensì a 51 "due facce" di una identica crisi 29 che, peraltro, affonda ormai lontano nel tempo. La riforma fiscale del 1971-1973 interveniva infatti su un modello di imposizione del reddito di tipo largamente induttivo e transattivo, trasformandolo in un sistema su base analitica e documentale, che inevitabilmente sollevava anche problemi di riorganizzazione dell'intera amministrazione finanziaria. Alla fine degli anni ottanta solo "quattro o cinque" delle quattordici direttive di intervento previste dal legislatore avranno però trovato attuazione30, mentre il resto rimarrà ancora lettera morta. Ciò non significa naturalmente che, nel frattempo, non sia stato fatto niente. Saranno costituiti gli uffici provinciali dell'Iva, creati dei "centri di servizio", modificate più volte le procedure di accertamento, riorganizzate le carriere e, da ultimo, approvate nuove leggi di ristrutturazione dell'apparato ministeriale (Legge n. 358/1991). Tutto ciò non corrisponderà però alle effettive necessità della amministrazione finanziaria e, soprattutto, non basterà ad affrontare i mutamenti di scenario economico e sociale nel frattempo maturati. Sinché è stato sufficiente controllare il territorio nazionale per esercitare sulla ricchezza prodotta il prelievo necessario a finanziare la spesa pubblica, l'architettura di base dei sistemi fiscali europei non ha infatti presentato particolari problemi. Il mutamento maturato da tempo all'interno di una produzione industriale sempre più internazionalizzata ha però rotto la catena politica fondamentale tra stato, territorio e ricchezza. Oggi quest'ultima fuoriesce dai confini nazionali ogni volta che lo trova conveniente, perché la nuova "lex mercatoria" 31 è più forte di quella degli stati. Mentre la griffe, il know how e le relative licenze circolano dunque attraverso mercati che non hanno più frontiere, il prelievo fiscale si abbatte invece con sempre maggior accanimento sulle forze più deboli, rimaste all'interno del ristretto orizzonte nazionale. Come conseguenza, la "croce" dello stato fiscale oggi pesa soprattutto sul lavoro dipendente. Divenuta insostenibile la crescita delle imposte personali, si è creata dunque un'area di evasione a carattere strutturale, legata a un modello di fiscalità che ha sinora privilegiato le imposte dirette su quelle indirette, oppure la tassazione delle persone rispetto a quella 52 delle "cose" che pure rappresentano gli indicatori delle nuove forme di ricchezza: la borrowing capacity, il franchising, il software, le reti dematerializzate dei titoli di credito32. Prima le tasse non si pagavano perché evaderle era un gioco. Ora l'evasione è un processo più difficile ma pur sempre possibile per quei soggetti economici che operano in una dimensione internazionale. E' diventata invece una necessità per le fasce deboli del sistema, che spesso non sono in grado di onorare il debito fiscale. Per tutti, infine, l'aspirazione a un sistema più equo si sta trasformando in un pericoloso combustibile il quale alimenta il fuoco della rivolta fiscale. Modificare l'ingiustizia di un sistema che è costretto ad alzare la pressione oltre ogni limite sul lavoro dipendente, è però ormai altrettanto difficile quanto continuare a far finta di niente. Per ampliare il gettito delle entrate, il governo Amato dovrà ad esempio escogitare un discutibile marchingegno come quello della minimum tax. Per reazione, da una parte aumenterà la mortalità delle attività indipendenti; dall'altra, si moltiplicheranno le partecipazioni familiari fasulle ricorrendo a madri, mogli o figli generalmente nullatenenti, ai quali intestare una parte del reddito annuo prodotto. Divenuto sempre più difficile assicurarsi quella "obbedienza" del cittadino che aveva sinora permesso una integrazione tra stato fiscale e stato sociale, quest'ultimo perderà perciò progressivamente il controllo di quella ricchezza necessaria al soddisfacimento di diritti che, essendo ormai riconosciuti, sarà difficile rimettere in discussione. E' appena il caso di segnalare come negli Stati Uniti di Reagan o nell'Inghilterra della Thatcher, l'elemento simbolico sul quale è stata ricostruita la fiducia nazionale si sia nel passato decennio manifestato proprio attraverso la riduzione delle imposte personali, alla quale hanno fatto seguito dei mutamenti nello stato sociale. Il livello della pressione fiscale, ormai, viene infatti considerato anche un indicatore di efficienza dello stato sociale. Saltata la possibilità di continuare a tenere uniti i due termini del problema, ineludibile si rivelerà perciò anche in Italia l'esigenza di nuove forme di regolazione per entrambi. Per segnalare il passaggio da una stagione all'altra, Tremonti ha proposto ad esempio un suggestivo "falò" delle tasse moderne intese 53 come imposte statali, sul reddito e ad aliquota progressiva, perché le differenze strutturali tra le diverse economie ormai tagliano trasversalmente la continuità formale dei sistemi statali. Le soluzioni potrebbero comunque essere anche diverse. L'unica cosa certa resta questa: "chi paga, su cosa si paga, come si paga"33, non è più un problema che possa essere affrontato in una dimensione soltanto nazionale e per giunta con modalità istituzionali che sono rimaste rigidamente centralizzate. Giungiamo così al nodo in cui può essere riassunto il secondo dei due deficit di integrazione, prima richiamati: quello tra istituzioni e territorio. Introdotto anche con l'obiettivo di dar attuazione a una previsione costituzionale, sin dalla sua nascita il decentramento regionale porterà impressi i segni del sistema politico che lo promuove. E' stata una delle modalità attraverso le quali si è cercato di disperdere sul territorio la protesta nata negli anni sessanta; ma è stato anche l'asse portante intorno al quale si è sviluppato il sistema di welfare. Improbabile apparirà invece, sin dall'inizio, una rottura del permanente centralismo statale, perché le nuove sedi istituzionali resteranno subordinate ai rispettivi assetti di potere interni ai partiti34. La "depolarizzazione" intervenuta nel sistema politico - di cui parleranno Putnam35 e la sua équipe quindici anni dopo la costituzione delle regioni - in effetti avviene, ma all'interno di un quadro che ha ormai ribadito la subordinazione delle regioni alle esigenze della classe politica nazionale, dalla quale le stesse ricaveranno anche i criteri di distribuzione delle risorse tra centro e periferia. Per queste ragioni, le autonomie locali non acquisiranno mai una specifica identità politica. Piuttosto, il decentramento comporterà il rafforzamento di un sistema "a mezza via", dove riusciranno a coesistere logiche allocative diverse e perciò capaci di assicurare un'attenzione anche nei confronti della 'periferia', sia pure all'interno di una struttura istituzionale che rimarrà invece sostanzialmente accentrata. Richiamando l'attenzione sul rapporto esistente nelle aree ad industrializzazione diffusa tra "grandi partiti" e "piccole imprese", Trigilia ha inoltre segnalato come il sistema politico regionale abbia in passato impedito qualunque tipo di nuova aggregazione tra le 54 varie domande,36 in questi anni maturate all'interno dei sistemi politici locali. L'esistenza dei grandi partiti renderà infatti impossibile l'emergenza di un nuovo livello istituzionale di regolazione, anche se ciò accadrà per motivi diversi, a seconda delle caratteristiche subculturali del territorio interessato. Laddove era insediato il vecchio Pci, il monopolio della rappresentanza di cui questo godeva scoraggerà la nascita di forti organizzazioni autonome, sia pure sociali o sindacali. Diversa sarà la dinamica delle zone 'bianche'. La tradizionale permeabilità della Dc nei confronti dei vari interessi, favorirà infatti un processo di trasmissione "orizzontale" della domanda, basato su rapporti diretti con le classi politiche locali. Questo modello di integrazione è però venuto meno nel momento in cui la crisi fiscale ha indotto un aggravamento delle ragioni storiche dello scambio. Sinché il sistema era in crescita, si poteva infatti anche accettare un droit de regard a favore del "centro" che a sua volta proteggeva le aree più 'deboli 'come il Mezzogiorno. Lo scambio comincerà però a risultare iniquo quando gli elementi di discontinuità economica e sociale interni allo stesso stato nazionale imporranno al Nord la tassazione del reddito prodotto, mentre al Sud l'economia sommersa - nei fatti - beneficerà di forme illegali di detassazione. La presunzione di evasione che accompagna l'inasprimento del prelievo fiscale diventerà inoltre odiosa quando imporrà degli obblighi di contabilità, di certificazione o di semplice documentazione che non avranno una loro giustificazione economica nel livello di redditi conseguito. Il trasferimento di redditi dalle aree più forti a quelle più deboli apparirà incomprensibile, quando si scoprirà che un fiume enorme di denaro pubblico è servito soprattutto ad arricchire la criminalità organizzata, ancora oggi sul ponte di comando in alcune regioni meridionali. La stessa solidarietà sociale inevitabilmente si incrinerà, quando i sacrifici fatti da una parte della comunità incominceranno ad essere utilizzati dalla classe politica per alimentare un sottobosco sociale che vive di sussidi e indennità, grazie al commercio del "voto di scambio". Anche in questi casi, comunque, importante non è tanto la realtà oggettiva dei diversi processi, quanto il fatto che alcune forze 55 politiche la interpretino in un determinato modo. Un esempio? La vecchia "questione meridionale"37. Naturalmente è vero che la Lombardia, il Veneto, l'Emilia e il Piemonte da sole finanziano la redistribuzione che attraverso il governo centrale si indirizza verso le altre regioni. Come è stato però nuovamente confermato38, non solo di questi trasferimenti beneficiano anche aree come la Val d'Aosta, il Trentino o il Friuli che pure si trovano ai vertici delle graduatorie dei redditi procapite ma, tanto in termini di valore aggiunto quanto sotto il profilo occupazionale, la spesa pubblica nel Sud ha sinora favorito anche le regioni settentrionali: su cento lire erogate alla Calabria trentadue andranno a beneficio di altre regioni, così come su trentatré nuovi posti di lavoro, solo venti verranno occupati da forza lavoro locale. Il consenso sinora canalizzato al centro del sistema politico grazie allo "scambio" verrà considerato comunque sempre meno conveniente e ciò spiega perché è sempre più scivolato in secondo piano il problema rappresentato dall'integrazione delle periferie. Gli stessi termini della controversia intorno alla "questione meridionale", sia pure lentamente, sono infatti cambiati. Non ci sarà più una vera rappresentanza meridionale che denuncerà le responsabilità della classe politica nazionale ma, al contrario, emergerà una "sempre più estesa rappresentanza della società settentrionale" la quale vedrà "nell'Italia che va da Roma in giù, un uniforme area sociale di parassitismo che ne danneggia gli interessi e frena la crescita".39 Facendo circolare monete e bandiere che, per il loro significato simbolico, parlavano già il linguaggio di un diverso tipo di aggregazione sociale, le varie Leghe hanno in tal modo avuto buon gioco, nel sottolineare elementi di divisione da tempo presenti nella vita politica nazionale. Un ospedale completato ma mai entrato in funzione, così come una piazza coperta da siringhe non esprimono infatti solo un bisogno di servizi che ancora mancano nel Sud del paese, pur essendone stati largamente pagati i costi. L'impatto negativo che ne deriva toccherà l'essenza stessa della convivenza, perché le attività che avrebbero dovuto essere assicurate dal settore pubblico, cesseranno di essere luoghi e modi attraverso i quali la collettività potrà riconoscersi. 56 Anziché permettere un ravvicinamento, la dimensione pubblica della vita sociale si configurerà perciò - e sempre più spesso - come l'occasione per nuove divisioni, perché non sarà più in grado di assicurare nuove forme di regolazione40. Da indicatori di una crisi di tipo finanziario che - come tale - avrebbe potuto anche essere circoscritta non diversamente da ciò che è accaduto del resto negli altri paesi, questi nodi sempre rinviati della vita nazionale in tal modo si sono trasformati in un moltiplicatore di problemi politici e istituzionali, con prevedibili conseguenze su ciò che nel frattempo resterà della cittadinanza maturata a partire dagli anni settanta. 4. Convenienze e doveri Gran parte delle analisi sul rapporto tra pubblico e privato nel sistema di welfare, tendono a sottolineare come ormai siano venute meno molte di quelle condizioni che in passato ne avevano permesso il decollo. Ciò non basta comunque a capire quali siano i nuovi assetti che in futuro potranno emergere, anche perché - molto semplicemente - nessuno è oggi in grado di prevedere il modo in cui questi verranno regolati. Certamente si è rovesciata la tendenza che aveva favorito una statalizzazione di qualunque problema sociale e il ruolo del mercato appare da tempo in crescita, grazie a "intrecci complessi" tra istituzioni diverse41 all'interno delle quali lo stato si è andato mescolando con il mercato, mentre quest'ultimo si è sviluppato con l'aiuto del "sommerso", che a sua volta rinvia ad un certo tipo di struttura familiare e così via. Perché una comunità possa vivere, è però necessario che esista un senso di appartenenza sufficientemente diffuso, grazie al quale diventa possibile stabilire che un determinato provvedimento è giusto, che le istituzioni debbono o non debbono intervenire in una certa area e che vi sono alcuni diritti dei cittadini i quali non possono essere violati, mentre la soddisfazione di altri dipende da una pluralità di condizioni che sono necessarie per garantirne l'esistenza. E' ciò che March e Olsen intendono quando parlano di una "logica della appropriatezza", intesa come criterio generale di orientamento all'interno dell'azione politica42. 57 Una impostazione del genere è tuttavia sempre stata ideologicamente assediata dall'esistenza di un altro modo di pensare, che le vicende degli ultimi anni hanno dimostrato essere la vera merce minuta del consenso, nel cui nome i partiti sono riusciti a piegare le istituzioni. E' la "logica consequenziale" al cui interno i comportamenti vengono guidati dalle preferenze individuali, i risultati comuni debbono coincidere con gli obiettivi prefissati e tutti ritengono che il realismo, nei fatti, si identifichi con la difesa delle proprie aspettative. E' lo "stilema" ormai ricorrente in buona parte della cultura contemporanea, la nuova bussola da cui "dipende in forma auto-diretta, la valutazione della appropriatezza 43 dell'agire" . Trasferita nel linguaggio della politologia, un'impostazione del genere darà vita al paradigma dello "scambio politico", le cui varianti sono altrettanto infinite quanto le possibili preferenze che allo stesso sono sottese! Ma le regole, le leggi o anche i comportamenti non sono necessariamente il risultato di preferenze. Nessuno metterebbe ad esempio in dubbio che sia necessario e anche "appropriato" essere vicino a un amico colpito da un lutto; aiutare un ferito che giace sul selciato stradale; pagare un dipendente per il lavoro prestato; aumentare gli stanziamenti pubblici per sconfiggere la mafia e la camorra che dilagano nel paese; o anche, prestare soccorso ai profughi, nel momento in cui questi entrano comunque nel territorio nazionale. Eppure, optando per la "logica consequenziale", gran parte della vita politica continuerà a muoversi sulla base dell'assunto che le azioni nascano innanzitutto da "preferenze" individuali e solo secondariamente da una necessità che è anche nell'ordine delle cose. Raramente c'è stato infatti un programma in grado di reggere al confronto e alla critica del "calcolo razionale", né ci sono stati criteri ai quali si è potuto ricorrere per stabilire priorità politiche condivise. Nate grazie a una scelta dei partiti che inizialmente le hanno legittimate, a distanza di quasi mezzo secolo le istituzioni dimostreranno perciò di non essere sufficientemente radicate, perché i criteri di scelta, le regole del gioco e persino le risorse che alle stesse hanno sinora fatto capo, manterranno pur sempre un carattere "esogeno" e cioè estraneo a una logica istituzionale. 58 Si perpetuerà così l'equivoco, che la realtà ha a sua volta stabilizzato facendolo quantomeno apparire possibile, di preferenze che avrebbero dovuto essere "svelate" o di interessi anteposti al sistema di regole che li garantivano, spezzando in tal modo quella circolarità che invece è necessaria al successo di qualunque tipo di regolazione. I bisogni possono infatti essere trasformati in diritti, solo se questi ultimi a loro volta si rivelano in grado di generare doveri. La tradizionale distinzione tra diritti civili, diritti politici e infine anche sociali si è invece dissolta all'interno di un continuum che li ha resi tutti e comunque esigibili alla stessa maniera e cioè prescindendo da ogni valutazione sulla possibilità di riuscire materialmente a soddisfarli o meno. Osserverà perciò Sartori: equiparare i diritti materiali ai diritti formali non è soltanto un errore concettuale ma anche pratico, perché le "spettanze sono dovute a casse piene, ma non a casse vuote"44. La società del "tutto dovuto" mette invece in crisi la democrazia, perché la priva di un "guardiano della borsa". Si è creato dunque un clima sociale invivibile, che da tempo accresce la stanchezza e spiega perché anche voci insospettate si levino sempre più frequentemente, contro vecchi antagonismi che sembrano aver "fatto il loro tempo". Laura Balbo si è ad esempio augurata che per gli anni novanta il trend delle relazioni sociali perda in agressività e diventi invece più "friendly"45. Qualche altro osservatore ha posto il problema ancora più chiaramente: è giunto il momento di "accrescere il grado di armonia tra le diverse forze politiche"46. E c'è anche chi sembra ormai talmente rassegnato al peggio, da proporre una "apologia della democrazia" perché questo regime almeno non vuole santi, profeti o capi, anche se da queste figure è stato costruito47. La "logica consequenziale" non occupa insomma il campo da sola e molte voci ormai si alzano per contestarla. Il "regime" è stato infatti in grado di funzionare più o meno bene durante le sue fasi alte, quando lo sviluppo economico ha permesso di trasferire nelle sue politiche pubbliche quei valori comunitari che erano stati alla base del compromesso costituzionale. Il suo successo, però, ha generato nuovi processi che si sono mossi anche in direzione opposta: le istituzioni hanno creato i loro "clienti", la 59 rappresentanza si è statalizzata, le amministrazioni si sono trasformate in imprenditori politici e, soprattutto, i nuovi legami nati con la regolazione statale hanno frantumato le stesse solidarietà fondate sui partiti. A cambiare lo "stato sociale" ci proverà per primo il governo Amato, che ben presto dovrà passare la mano a un esecutivo "istituzionale", quello presieduto da Ciampi, sotto il cui impulso nascerà la nuova legge elettorale. Ma comunque sarà ormai troppo tardi. Già da tempo era infatti iniziato il trapasso di una parte del consenso verso il "nuovo". Ne ha riassunto con grande chiarezza le ragioni un elettore del Varesotto, un piccolo imprenditore, il quale dirà:" Dieci, quindici anni fa i Craxi, i Forlani mi prendevano il venti per cento del profitto e io con ottanta vivevo bene. Adesso mi prendono il settanta e io con il trenta non campo. Così un giorno mi sono detto: con questi ho chiuso"48. Falliti i partiti nella loro funzione di integrazione, la democrazia referendaria offrirà perciò, e ben presto, la principale cornice istituzionale al cui interno maturerà la domanda di cambiamento. 1 Una prima versione di questo capitolo (Anni '80: la crisi di integrazione) è stata pubblicata su Teoria politica, n.1 1994 2 Per questa tipologia si veda A. Lijpphart, Le democrazie contemporanee, (London 1984) Il Mulino, Bologna 1988 3 A. Mastropaolo , La sfida della democrazia postpolitica, in Il ceto politico. Teorie e pratiche, La Nuova Italia, Firenze 1993 4 G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Laterza, Bari 1993, p. 46 5 La dichiarazione di Togliatti è riportata da A. Lepre, Storia della prima repubblica. L'Italia dal 1942 al 1992, cit., p. 95 6 N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino (a cura di), Dizionario di Politica, Utet, Torino 1983 7 P. Scoppola, Una incerta cittadinanza italiana, in Il Mulino, n. 1, 1991, p. 47 8 E' la tesi di fondo suggerita da S. Vertone, L'ultimo manicomio. Elogio della repubblica italiana, Rizzoli, Milano 1992 9 D. Hine ha visto nella debolezza di "capacità aggregative" il principale problema del sistema politico italiano; D. Hine, Governing Italy. The politcs of bargained pluralism, Oxford University Press, Oxford 1993, p.301 10 P. Pombeni , Una certa idea di cittadinanza, in Il Mulino, n. 3, 1991, p. 461 60 11 G. Zincone, Il motore dei diritti, in Sinistra punto zero, a cura di G. Bosetti, Donzelli Editore, Roma 1993, p. 137 12 A. Panebianco, Representation without taxation, in Il Mulino, n. 1, 1991, pp. 60-62 13 R. Cartocci, Consenso, disgregazione e ricerca di identità, in La riconquista dell'Italia. Economia, istituzioni, politica, a cura di F. Cavazza, Longanesi, Milano 1993, p. 429 14 L'osservazione è di G.E. Rusconi, nella Introduzione a J. Hobermann, Politica e sport, Il Mulino, Bologna 1988, p. 9; dello stesso autore si veda anche il più recente Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna, 1993. 15 U. Ascoli, (a cura di), Welfare state all'italiana, Laterza, Bari 1984 16 M. Ferrera, Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie, Il Mulino, Bologna 1993, cap. 7 17 S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, Il Mulino, Bologna 1983, pp.186-188 18 M. Morisi, Il parlamento tra partiti e interessi, ora in , Costruire la democrazia, a cura di L. Morlino, cit., p. 438 19 P. De Joanna, Parlamento e spesa pubblica, Il Mulino, Bologna 1993, p. 99 20 La citazione e riportata in R. D'Alimonte, Il processo di bilancio in Italia, in , Scienza della amministrazione e politiche pubbliche, a cura di G.Freddi, La Nuova Italia, Roma 1991 21 una analisi originale dell'intero processo è quella proposta da E. d' Albergo, Rendimento istituzionale e logica organizzativa nella politica di bilancio, in , Crisi fiscale e indirizzo politico: il caso italiano, a cura di S. Merlini, voll.2, Il Mulino, Bologna ,in corso di stampa 22 B. Dente, Politica, istituzioni e deficit pubblico, in Stato e mercato, n. 3, 1991, pp. 364-365 23 D. Siniscalco-G. Tabellini, Efficienza e rappresentanza del sistema elettorale, in Il Mulino, n. 4, 1993, p. 818. Una tavola riassuntiva di alcune tendenze emerse nello studio è anticipata da La Repubblica, 26 marzo 1993 24 P. De Joanna, Parlamento e spesa pubblica, cit., p. 63 25 Amato G., Due anni al Tesoro, Il Mulino, Bologna 1991, p. 25 26 F. Fichera, Bilancio e politica in condizioni di stress fiscale, in La politica di bilancio in condizioni di stress fiscale, a cura di F. Fichera, F. Angeli, Milano 1986, p. 46 e ss. 27 S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Bari, 1992, p. 95 28 J. La Palombara, Democrazia all'italiana, Rizzoli, Milano 1988, p. 3 29 G. Tremonti - G. Vitaletti, La fiera delle tasse, Il Mulino, Bologna 1991, p. 46 30 V. Russo, Il Ministero delle Finanze, La Nuova Italia, Firenze 1989, p. 156 31 F. Galgano, Le istituzioni della società postindustriale, in AA.VV., Nazioni senza ricchezze, ricchezze senza nazioni, Il Mulino, Bologna 1993, p. 26 32 G. Tremonti - G. Vitaletti, La fiera delle tasse, cit., pp. 66-69 33 G. Tremonti -Vitaletti G., La fiera delle tasse, cit., p. 75 61 34 Per questa analisi rinviamo a M. Fedele,Le forme politiche del regionalismo, Giuffré, Milano 1988 35 R. Putnam - R. Leonardi -R. Nannetti, La pianta e le radici, Il Mulino, Bologna 1985; per degli sviluppi di questa iniziale linea di analisi, si veda anche R. Putnam, La tradizione civica cit. 36 C.Trigilia, Grandi partiti piccole imprese, Il Mulino, Bologna 1986, p. 34 37 Una analisi aggiornata, che tiene conto degli effetti indotti dall'intervento straordinario, è quella di C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 1992 38 N. Parmentola, Una spesa per tutte le regioni, in Il Mulino, n. 4, 1991, p. 740 39 Queste osservazioni vengono sviluppate da P. Bevilacqua nell' Editoriale di un numero monografico di Meridiana (n. 16, 1993), significativamente dedicato alla "questione settentrionale" 40 R.Cartocci, Fra Lega e Chiesa, Il Mulino, Bologna 1994, p. 73 41 P. Lange - M. Regini (a cura di), Stato e regolazione sociale, Il Mulino, Bologna 1987, p. 323 42 J. March - J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, cit., p. 232 43 E' interessante notare come si arrivi a queste conclusioni anche attraverso una ricostruzione delle stesse tendenze oggi dominanti nella sociologia e, dunque, indipendentemente da più dirette preoccupazioni per le conseguenze di una impostazione del genere sul vita politica. Si veda al riguardo F. Leonardi, La rilevanza sociologica delle grandi trasformazioni demografiche nella società italiana, in Sociologia e ricerca sociale, n. 41 1993, p.21 44 G. Sartori , Democrazia. Cosa è, Il Mulino, Bologna 1993, p. 324 45 L. Balbo (a cura di), Friendly, Anabasi, Milano 1993 46 L. Meldolesi, Spendere meglio è possibile, Il Mulino, Bologna 1992, p. 117 47 C. Donolo , Il sogno del buon governo. Apologia del regime democratico, Anabasi, Milano 1992 , p. 25 48 L'affermazione è riportata da G. Bocca, Metropolis. Milano nella tempesta italiana, Mondadori, Milano 1993, p. 250 62 3. l'opinone pubblica come decisore finale 63 1. mutamenti nella rappresentanza In Italia gli anni settanta sono stati generalmente interpretati come il decennio dei movimenti sociali, i quali ponevano dilemmi di cambiamento apparentemente ineludibili. L'intero sistema politico ha perciò lungamente girato intorno all'alternativa tra "mutamento" o "transizione"1. Ritenendo che i soli protagonisti della domanda di cambiamento fossero i soggetti organizzati sul modello "movimento operaio", si decise alla fine di rafforzare la rappresentatività delle istituzioni, facendola coincidere il più possibile con la democrazia dei partiti. Non si ritennero invece altrettanto importanti quei movimenti di opinione o anche "movimenti lobby" come Manconi li ha giustamente chiamati2, le cui principali risorse già allora coincidevano con la capacità di operare come "mezzi di comunicazione che trasmettono messaggi destinati all'ambiente". Declinata la stagione della solidarietà nazionale, allorché si trattò di affrontare i problemi posti dalla crescente rappresentanza radicale, il sistema dei partiti si trovò comunque d'accordo nel ricondurre la crisi del parlamentarismo a una questione di efficienza; si ridivise invece in nome dei tradizionali contrasti, allorché la "razionalizzazione" dei rapporti esecutivo/legislativo avviata agli inizi degli anni ottanta, portò all'eliminazione del voto segreto (1988). E' stata questa la decisione più significativa attraverso la quale si è infatti cercato di invertire la tendenza del precedente decennio, rafforzando l'autonomia dell'esecutivo rispetto al legislativo. Tutto ciò non basterà però ad impedire una crescente istituzionalizzazione della democrazia referendaria. C'è infatti un curioso paradosso sul quale non si è ancora riflettuto abbastanza. Con le modifiche ai regolamenti parlamentari avviate negli anni '80, il governo riuscirà a riprendere in mano il controllo della agenda ed, a volte, anche della sua maggioranza. Per altro verso, nello stesso periodo governo e parlamento saranno però sempre più pesantemente condizionati dall'opinione pubblica, che ormai si esprimerà attraverso le nuove forme di democrazia referendaria, perché resterà irrisolto lo stesso tipo di problema: il rapporto tra il sistema dei partiti e le diverse domande sociali che si 64 affacceranno sulla scena politica. Anche se ormai si incominciano a capirne le ragioni, questi errori comunque si pagano perché da possibile soluzione del problema, i partiti si sono in tal modo trasformati nel problema in cui poi si imbatterà qualunque ricerca di una nuova soluzione. Per comprendere le cause dei mutamenti intervenuti nel sistema di rappresentanza, dobbiamo dunque risalire indietro nel tempo, perlomeno sino alle elezioni del 1979. In quelle consultazioni il "gruppo" radicale quadruplicò infatti la propria consistenza eleggendo ben diciotto deputati, peraltro ormai ben scaltriti dalle battaglie condotte durante gli anni settanta a favore del divorzio, dell'aborto o anche contro la Legge Reale. Non era ancora una gran cosa, ma era il modo attraverso il quale cercavano di avere una "voice" orientamenti collettivi che nascevano al di fuori delle reti di partiti e che già si erano affacciati una prima volta sulla scena politica, in occasione del referendum sul divorzio (1974). La risposta del sistema politico fu però negativa e peraltro affidata soltanto a iniziative di marca regolamentare, come quelle che investiranno i rapporti tra parlamento e governo. In nessuna occasione si cercò invece di favorire una istituzionalizzazione di questo nuovo tipo di opposizione, all'interno del processo decisionale. Esaminando la domanda di cambiamento soltanto attraverso la lente "destra/sinistra", si sottovaluteranno perciò i reali termini della crisi di rappresentanza che già allora minacciava l'intero sistema e che poi esploderà nel successivo decennio. Si ritenne che il nuovo fosse annunciato dai movimenti "modello operaio" e non dai "movimenti lobby", attraverso i quali nascevano le prime rivendicazioni di una cittadinanza autonoma rispetto ai partiti. Dei primi oggi non è rimasto quasi niente, i secondi sono invece diventati sempre più forti. Sbagliata l'analisi, naturalmente non avranno una sorte migliore i rimedi appositamente individuati! Il processo di democratizzazione avviato negli anni settanta aveva già rivelato alcuni suoi limiti perché mentre era aumentata incessantemente l'attività governativa, contestualmente era diventata evidente sia la mancanza di un adeguato retroterra amministrativo, sia la perdita di autorità del governo. Democratizzare aveva significato creare degli uffici che si occupavano degli argomenti più 65 disparati; istituire commissioni che si dovevano riunire; avere dei dossier cartacei su ogni tema; far partecipare, oppure avviare routines capaci di offrire argomenti fondati razionalmente e non soltanto intuitivamente. Poiché democratizzare voleva insomma dire burocratizzare un'amministrazione che - a partire dal dopoguerra aveva invece sistematicamente usato gli apparati pubblici per offrire delle ulteriori opportunità occupazionali3, tutto ciò inevitabilmente sollevò nuovi problemi. Negli uffici mancavano i telefoni, nelle università non c'erano le aule, la velocità di evasione delle pratiche si calcolava ad anni e non a mesi, i servizi erano quelli che ancora oggi sono e, dovunque, tutti si davano da fare senza realmente sapere cosa si sarebbe dovuto fare. Con la fine della esperienza legata al governo delle "larghe intese" (1977-1978), la divaricazione tra "il detto" e "il fatto", sia allergherà dunque non poco, inclinandosi percolosamente verso la demagogia4. La nuova stagione politica si aprirà perciò all'insegna della governabilità craxiana. Coloro che vogliano ricercare una registrazione autentica di ciò che nel frattempo è avvenuto, debbono a questo punto indirizzarsi verso le istituzioni. Queste restano infatti il principale indicatore attraverso il quale, alla fine, sarà possibile trovare le tracce lasciate non solo dalle innovazioni realizzate, ma anche da quelle mancate. Non è un paradosso, ma semmai una solida indicazione, perché i sistemi sociali non sono in realtà tenuti insieme dal "calcolo razionale degli attori". Al contrario. E' solo all'interno e attraverso il reticolo costituito dalle istituzioni, che generalmente prende forma "la struttura delle azioni collettive dei cittadini"5. La mancata parlamentarizzazione dei radicali resta perciò il miglior punto di osservazione per mettere a fuoco un problema che in realtà avrà una portata più generale. L'analisi che alla fine degli anni settanta cominciava a circolare era, a suo modo, lineare: come dimostravano peraltro i primi studi sul ruolo svolto del Pci nelle commissioni6, in parlamento non c'era mai stata una opposizione, perché su tutto aveva sino ad allora prevalso l'accordo della partitocrazia. Sfruttando sino in fondo le opportunità previste dai regolamenti ma sino ad allora mai utilizzate, i radicali resero subito chiaro cosa significasse avere 66 all'interno del sistema una minoranza che non stava ai "patti". Le prime avvisaglie comparvero dunque già in occasione del "rinnovo della legge Merli"(1979), la quale prevedeva la proroga dei termini in materia di risanamento delle acque e di scarichi inquinanti. Quale presentatore di una "questione sospensiva", interverrà per primo l'On. Cicciomessere sinché la Presidenza non lo interromperà, ricordandogli che stava parlando già da quarantacinque minuti. "Non mi risulta che l'art. 40 del regolamento preveda limiti di tempo per gli interventi sulla sospensiva, risponderà prontamente Cicciomessere. Inoltre, il gruppo radicale ha chiesto la deroga dell'art.39 del regolamento, per gli interventi degli oratori del gruppo stesso".7 Il colpo andrà a segno e, nell'impossibilità di arrivare a una approvazione in data certa, con una procedura inusuale il governo ritirerà dopo un paio di giorni il provvedimento contestato. Per ovviare all'ostruzionismo che ormai cominciava a funzionare discretamente, il governo incomincerà dunque a ricorrere alla fiducia, ad esempio durante la discussione di un provvedimento urgente sull'ordine pubblico (d.d.l. 625/1979). Richiamandosi ai regolamenti esistenti, la Presidenza della Camera riuscì in quella occasione a impedire la illustrazione dei 7500 emendamenti depositati e i deputati prenderanno perciò la parola una sola volta, sia pur senza limiti di tempo. La situazione si ripeterà però allorché verrà presentato il disegno di legge sul finanziamento pubblico dei partiti e, questa volta, sarà vera battaglia. A discussione generale già chiusa, un breve comunicato stampa (27 luglio 1981) annuncia infatti che i radicali hanno presentato "7000 emendamenti alla legge per il raddoppio del finanziamento pubblico ai partiti. Con gli emendamenti già precedentemente presentati e con quelli di questa mattina, concludeva il comunicato, il totale è di 10.000 emendamenti circa". Grazie a queste poche righe, si consolida dunque un tipo di opposizione diversa da quella comunista, che non aveva precedenti nella pur tormentata storia della repubblica e che, ovviamente, stravolgerà la possibilità stessa di giungere a qualunque forma di decisione legislativa. In presenza di una situazione "di eccezionale gravità per il funzionamento del Parlamento", la soluzione scelta 67 sarà quella di raccogliere tutte le richieste della maggioranza in unica proposta di modifica che il governo a sua volta farà propria, ponendovi ancora una volta la fiducia. Ma la ridotta operatività di un parlamento organizzato in base a principi che alcuni gruppi ritengono inaccettabili, aveva ormai raggiunto il suo punto di non ritorno. Rapidamente, i partiti si ritroveranno perciò d'accordo sulla necessità di riprendere il controllo del processo parlamentare, modificando quei regolamenti del 1971 che rappresentavano l'ultimo retaggio di un vecchio modello decisionale. Per bloccare la discussione, in questo caso i radicali arriveranno però a presentare ben 53366 emendamenti, battendo in tal modo ogni sia pur pessimistica previsione. La reazione dei partiti, divenuta a questo punto inevitabile, giungerà nella seduta a suo modo memorabile del 4 novembre 1981, quando il Presidente Jotti renderà nota la decisione approvata in giunta dai rappresentanti dei principali gruppi parlamentari di maggioranza e di opposizione. In un caos indescrivibile e dopo molte interruzioni, la Jotti inizia a parlare davanti a una assemblea che in realtà è già ben informata su ciò che le si sta per comunicare:" Onorevoli colleghi, ... ho ritenuto necessario convocare la giunta per il regolamento ai fini di delineare la procedura complessiva da seguire e valutare l'insieme delle proposte emendative presentate in assemblea. Per la prima volta dal 1971 la nostra assemblea esercita la potestà...". Interrotto da una violenta protesta, il Presidente non riuscirà a concludere nemmeno la esposizione preliminare: voleranno accuse di "fascismo" e i parlamentari di maggioranza verranno polemicamente chiamati "piduisti". Il dibattito sul "lodo Jotti" segna un punto di svolta profondo nei rapporti tra governo e parlamento e anche tra maggioranza e opposizioni, i cui esiti non mancheranno di influenzare tutto il processo di trasformazione istituzionale che poi maturerà in seguito. In quella occasione il nodo del conflitto investiva le modalità attraverso le quali si sarebbe dovuta approvare qualunque modifica del regolamento. La tesi avanzata dalla giunta e fatta propria dalla Presidenza, sosterrà che l'iter della modifica non doveva essere ricondotto alla normativa propria del procedimento legislativo. 68 L'art.64 della costituzione prevedeva infatti solo la possibilità per ciascuna camera di adottare il proprio regolamento "a maggioranza assoluta dei suoi membri". Messa di fronte alla mole di emendamenti presentati dai radicali per non farsi " tappare la bocca", la giunta proporrà dunque all'assemblea di esaminare gli stessi raggruppandoli in "punti", secondo i principi desumibili dal complesso delle iniziative tra loro collegate. Il senso politico della richiesta era chiaro e verrà racchiuso nelle parole con cui il presidente concluderà poi la sua difficile presentazione: "sul complesso di tali punti si svolge in assemblea su ciascuna proposta della giunta, una unica discussione regolata dal capo VIII del regolamento"8. In tal modo salterà definitivamente l'arma dell'ostruzionismo alla quale avevano sino ad allora fatto ricorso i radicali e inizierà invece un processo di cambiamento circoscritto a questioni regolamentari, che accompagnerà la vicenda politica dell'intero decennio. In verità già durante gli anni settanta la scienza politica aveva ripetutamente segnalato l'ingovernabilità del sistema9 anche se qualcuno, ad esempio Cassese, ricostruirà a sua volta il problema da una altra angolazione. Un governo in realtà c'era, ma non andava cercato nella sedi indicate dalla costituzione, fossero pure quelle costituite dal Consiglio dei Ministri. Semmai, bisognava guardare allo status sempre più autonomo raggiunto dalla Presidenza del Consiglio, la quale era ormai l'unico soggetto politico in grado di attivare le alleanze di volta in volta necessarie. La "forza principale" di questo sistema, concluderà perciò Cassese, era nell'essere lo stesso estremamente mutevole10. Non c'era bisogno di identificare una sede e un luogo istituzionalmente deputato a svolgere le funzioni di governo, perché le leadership di partito erano stabili e potevano permettersi una deformalizzazione dei rapporti istituzionali, dando anzi vita a tipi diversi di relazioni, a seconda della congiuntura dei problemi e dei poteri di volta in volta realizzata. Le regole non servivano perché c'era un accordo di fondo tra i diversi attori. Il sistema era "scritto sull'acqua" piuttosto che nella carta costituzionale, perché non c'era decisione che non venisse presa senza una "rispettosa consultazione della opposizione", 69 come più di uno definirà in seguito queste routines, allorché verranno definitivamente messe in discussione. I vecchi regolamenti presupponevano infatti l'esistenza di un accordo di fondo tra tutti i partiti dell'arco costituzionale, che la stabilità delle leadership a sua volta garantiva. Era stata questa, del resto, la prima apertura offerta dal sistema politico alla protesta studentesca e sindacale nata nel '68. Fallita anche l'esperienza del compromesso storico, il governo cercherà però di conquistare maggior autonomia nei confronti del parlamento, anche se la sua base di legittimazione resterà naturalmente quella offerta dai partiti. Verrà così a maturazione una crisi che, rappresentando il punto di arrivo di una molteplicità di processi i cui effetti si cumulavano tra loro, ridefinirà in maniera sostanziale i rapporti tra le diverse istituzioni. E' la crisi che in seguito Craxi cercherà invano di superare, sventolando la bandiera della governabilità. Gli indicatori istituzionali più significativi di questo percorso sono rappresentati dalla organizzazione di un "parlamento per la decisione" da un lato; e dall'emergere della democrazia referendaria dall'altro. Modificatosi lentamente ma inequivocabilmente l'assetto politico al cui interno erano sino a quel momento maturate le decisioni istituzionali, cambierà anche il potere degli stessi attori che parteciperanno al processo. Soprattutto, come in conclusione vedremo, cambierà anche il ruolo svolto dall'opinione pubblica, nella formazione della agenda legislativa. Le due coordinate al cui interno si ridefiniscono le funzioni di governo, marceranno infatti separatamente: mentre il rapporto tra esecutivo e legislativo diverrà sempre più verticalizzato, quest'ultimo perderà invece in capacità di integrazione, accentuando i caratteri della crisi della rappresentanza. 2. La razionalizzazione del parlamento Si sa che le metafore sono spesso più efficaci dei lunghi ragionamenti. Per spiegare la sensazione provata nel riscrivere dopo quattordici anni la seconda edizione (1991) del saggio su "il parlamento", Andrea Manzella ricorre alla trama di un vecchio film di Peter Grenaway, I giardini di Compton House. Ritraendo un 70 giardino con uno scorcio di casa, un pittore scopre le tracce di un "tranquillo misfatto di campagna" grazie agli impercettibili ritocchi che, giorno dopo giorno, ha dovuto aggiungere alla tela sulla quale ricostruiva gli elementi di un paesaggio apparentemente immoto. A distanza di più di un decennio, anche la "casa-parlamento" si rivela profondamente cambiata, perché in questi anni c'é stato un gran trambusto nei "giardini di Compton House", ma non si può dire che sia stato commesso alcun misfatto perché - riassume Manzella "dalla storia e dal paese il quadro che risulta è, e ancora sarà', quello della centralità del parlamento"11. E' questione di punti di vista. Esaminata dall'esterno e in rapporto al più ampio paesaggio rappresentato dal sistema politico, la casa del parlamento è infatti ancora lì, con tutti i suoi simboli e anche con qualche potere. Ma non si può dire che l'aver rimesso ordine nel rapporto tra esecutivo e legislativo, sia stato sufficiente ad arrestare le trasformazioni nel frattempo maturate all'interno del processo decisionale. Certamente la decisione legislativa, che è il punto di arrivo di un processo politico - istituzionale estremamente complesso, si è ormai enormemente semplificata: è scomparsa la possibilità di esercitare un serio ostruzionismo, almeno da parte dei piccoli gruppi; il governo è diventato il padrone della "agenda" parlamentare; la durata della discussione è stata rigidamente subordinata alla velocità della decisione attraverso una rigidissima pianificazione dei tempi e, infine, si è definitivamente chiusa la stagione dei franchi tiratori, che dall'interno della maggioranza mettevano sistematicamente in ginocchio il governo, ogni volta che questo spingeva l'acceleratore di una decisione impopolare. Nello stesso tempo però, mentre la decisone legislativa è diventata un treno in grado di viaggiare a una velocità prima mai pensata, il treno stesso viaggia sempre più raramente perché alle decisioni si arriva attraverso dei processi che sono ormai del tutto diversi da quelli degli anni settanta. Ricostruendo la dinamica dei regolamenti parlamentari, Manzella indica del resto con efficacia i diversi passaggi, ricorrendo a colorite metafore per segnalare quelle sterzate che, sotto il profilo istituzionale, più ne hanno influenzato la direzione di marcia. Il lodo Jotti, di cui abbiamo precedentemente segnalato il profondo 71 significato politico diventa perciò, e giustamente, una "perentoria invenzione della giunta"; i disegni di legge che incorporano i decreti presentati dal governo per la conversione, sono ormai "motorizzati" e cosi via dicendo. Le istituzioni però sopravvivono soltanto se si rivelano sufficientemente flessibili da comporre quei contrasti che nascono al proprio interno, senza per questo disincentivare la partecipazione degli attori politici che vi appartengono. La torsione che i regolamenti registrano, darà vita invece a una frattura insanabile, mettendo in luce anche altre crepe nell'intero impianto della rappresentanza, che si riveleranno non meno profonde. Riformulando una celebre metafora di Otto Mayer12, si potrebbe forse dire che mentre il parlamento diventa sempre più un "orologio" il cui meccanismo di fondo assicura una armonica integrazione degli elementi che lo compongono, nello stesso tempo si riduce però la sua capacità di operare anche come una "bilancia", in grado di favorire la parlamentarizzazione e i connessi processi di negoziazione tra i diversi attori politici, vecchi o nuovi che essi siano. Gli indicatori che meglio degli altri riassumono questo tipo di tendenza, sono negli anni ottanta offerti sia dalle modifiche che il parlamento introduce per "razionalizzare" i lavori della Camera, sia dalle modalità attraverso le quali si arriverà alla abolizione del voto segreto. Dopo averle esaminate entrambe, alla fine ci accorgeremo comunque che la riorganizzazione intervenuta nella "casa" del parlamento non basterà a compensare le carenze di un assetto istituzionale il quale, con la generalizzazione delle procedure di democrazia referendaria, nello stesso periodo vedrà invece ulteriormente ridursi il proprio rendimento. Le novità introdotte a partire dal 198113, partono infatti da una diagnosi che imputa all'inefficienza della "programmazione" la causa principale del circolo vizioso in cui è ormai avvolta l'attività parlamentare. I regolamenti del 1971 non prevedevano ad esempio alcuna disposizione in ordine ai cosiddetti emendamenti "a scalare", che al loro interno si distinguevano solo per una graduazione di cifre o di dati. Per bloccare l'ostruzionismo, nel 1981 si attribuì perciò al Presidente la facoltà di porre in votazione un determinato numero di proposte tra loro omogenee, da quella più vicina al testo 72 in esame a quella più lontana, dichiarando assorbiti tutti gli altri, nel caso di esito contrario delle votazioni. Con lo stesso pacchetto di proposte, fu introdotta anche una procedura alternativa per l'approvazione del programma dei lavori attribuendo alla Presidenza, qualora non fosse stato raggiunto un accordo unanime all'interno della Conferenza dei Capigruppo, la facoltà di predisporre autonomamente una proposta per non oltre due mesi, da sottoporre alla approvazione della assemblea. Indicando la stessa procedura anche per la redazione del "calendario", in tal modo si colmava una carenza dei vecchi regolamenti i quali, in mancanza di accordo, lasciavano alla Presidenza soltanto la possibilità di indicare l'ordine dei lavori dei primi due giorni. Strappata dalle mani delle eventuali opposizioni l'organizzazione della agenda, la razionalizzazione procederà poi riducendo anche i tempi assegnati ai parlamentari per intervenire. Nello stesso periodo verrà inoltre soppressa la possibilità di deroga ai limiti previsti nella discussione, lasciando invece alla Presidenza la facoltà di stabilire diversamente, sulla base della rilevanza degli argomenti in discussione. Inizialmente fissata in quarantacinque minuti la durata tassativa di qualunque intervento sulle linee generali, la stessa verrà poi ulteriormente abbassata a trenta minuti nel 1986. Anche nel caso della discussione degli articoli, il tempo previsto passerà inoltre da trenta a venti minuti. Un ultima modifica riguarderà infine l'introduzione - fortemente richiesta dalle opposizioni - del cosiddetto "filtro di legittimità" nei confronti della attività del governo. Per far fronte al problema della eccessiva proliferazione di decreti che intasavano il programma dei lavori della assemblea, verrà previsto il filtro della Commissione Affari Costituzionali per la verifica dei requisiti di "necessità" e "urgenza" di cui all'art. 77 della Costituzione. In realtà il governo, che aveva presentato 167 decreti nella VII legislatura, ne presenterà altri 275 nel corso dell'VIII, 307 nella IX e 428 nella X legislatura, dimostrando in tal modo i limiti dell'analisi da cui muoveva la diagnosi di "inefficienza" del parlamento. Stranamente, in quegli anni quasi nessuno si rese però conto che, quanto più avanzava questo tipo di processo, tanto maggiori 73 diventavano anche i costi che le istituzioni avrebbero dovuto sostenere sul versante della integrazione. Capita a volo l'aria che tirava, i radicali cambieranno rapidamente strategia, mentre il parlamento - non essendo in grado di portare avanti una più ampia riforma istituzionale - a sua volta si accanirà nel mettere ordine soltanto negli aspetti interni del processo decisionale. Verranno infatti proposte dosi sempre più pesanti della stessa medicina, incidendo anche su taluni poteri ordinatori del procedimento ai quali venivano ricollegati effetti procedurali significativi. E' il caso della richiesta di votazioni qualificate, della verifica del numero legale, o dell'inserimento di nuove materie all'ordine del giorno. La relazione di accompagnamento a queste proposte parlerà della necessità di attenuare i "possibili abusi ostruzionistici", senza però intaccare "l'impostazione politicamente qualificante del 1971". Ma l'innalzamento da dieci a venti deputati del quorum per richieste di votazione nominale, o per la verifica del numero legale o anche per l'ampliamento della discussione sulle linee generali; così come l'innalzamento del quorum da venti a trenta deputati per l'inserimento di materie che non erano all'ordine del giorno o per le richieste di votazione a scrutinio segreto, avranno soprattutto l'effetto di mantenere saldamente in mano ai "gruppi" il controllo dell'assemblea, esautorando i poteri procedurali del singolo parlamentare. Con la decima legislatura arriverà poi a conclusione anche quella diversa regolazione del voto segreto14, che il governo Craxi aveva cominciato a chiedere a gran voce già nel 1986 e che in realtà renderà chiaro un altro aspetto della questione: la paralisi del parlamento non dipendeva soltanto dalle nuove opposizioni, ma anche dalla vecchia maggioranza e dagli stessi rapporti che questa aveva per quarant'anni mantenuto con il Pci. E' noto come sino all'88 l'Italia sia stata la sola democrazia politica al cui interno risultava ancora prevista la votazione segreta in uno dei due rami del parlamento. Le più antiche democrazie anglosassoni, come del resto le nuove e cioè la Spagna, il Portogallo o la Grecia, hanno infatti sempre considerato la trasparenza delle scelte effettuate, come un tratto distintivo della stessa vita politica parlamentare. In Inghilterra i deputati che votano "sì" e quelli che 74 votano"no" escono addirittura da corridoi diversi, rendendo in tal modo evidente anche in maniera simbolica le proprie decisioni. Negli Stati Uniti non solo il voto è palese, ma è anche possibile sapere come i parlamentari hanno votato nelle diverse leggi. Dopo le elezioni del 1948, in Italia si ripresero invece le vecchie disposizioni previste nello Statuto Albertino di cento anni prima, che prescrivevano lo scrutinio segreto nelle votazioni finali sui progetti di legge. In realtà il problema si era già posto in sede di assemblea costituente e solo in seguito alla presa di posizione dell'allora giovane on. Moro, si evitò che una scelta così impegnativa venisse inserita all'interno dei dispositivi costituzionali. "Io non voglio entrare nel merito - disse Moro in sede di discussione - della ammissibilità o meno di questo mezzo di votazione alla Camera. Però mi ripugna che si faccia richiamo nientemeno che nel testo costituzionale, a questo sistema particolare di votazione del quale si possono dire due cose: da un lato tende ad incoraggiare i deputati meno vigorosi nella difesa delle loro idee e dall'altro tende a sottrarre i deputati alla necessaria assunzione di responsabilità di fronte al corpo elettorale"15. Sono preoccupazioni , queste, che gli anni successivi non mancheranno di confermare. Cresciuti all'ombra di un istituto così tipicamente "albertino" come il "voto segreto", ben presto i franchi tiratori diventeranno infatti un vero e proprio partito , con il quale molti governi dovranno fare i conti. Le cronache parlamentari registrano comunque i primi cecchini all'interno della maggioranza già nel 1949, allorché questi appoggeranno l'emendamento del comunista Sannicolò ad un decreto legge sulle scorte petrolifere. Nel 1955 verrà invece "impallinato" Merzagora, sino a quel momento candidato alla presidenza della repubblica e la stessa dinamica si ripresenterà poi negli anni sessanta per numerosi governi, che periodicamente si vedranno sciogliere come neve al sole l'originaria maggioranza. I sostenitori del voto segreto diventeranno però una legione, allorché il regolamento della Camera del 1971 (art. 116) darà loro nuove opportunità di farsi sentire in parlamento. Prevedendo che il governo potesse porre la fiducia anche su un complesso provvedimento riassunto in un decreto composto da un 75 solo articolo, nel 1971 il processo si complicherà ulteriormente. Si stabilirà infatti che in questi casi il provvedimento dovrà essere votato una prima volta a scrutinio palese per ottenere la fiducia e una seconda volta a scrutinio segreto per l'approvazione finale. Leggendo i resoconti dei lavori, si capisce che questo astruso marchingegno fu in realtà l'esito di una compromesso bilanciato tra maggioranza e opposizione, tipico del resto della logica consociativa. Per dare al governo la possibilità di imporre il voto palese, la Dc aveva offerto ai comunisti la possibilità di una seconda votazione segreta, nonostante - appunto - la richiesta di fiducia. Nel primo caso si doveva "prendere o lasciare". Nel secondo, ci si poteva invece vendicare. Di questo accordo Andreotti e Ingrao furono, in quella occasione, non solo i promotori, ma anche i garanti. Per ironia della storia, contro questo escamotage allora protesteranno soprattutto le opposizioni di minoranza e cioè i deputati del Manifesto, del Psiup e del Msi che vedranno la pericolosità del doppio voto soltanto nel primo dei due aspetti e cioè nella possibilità offerta al governo di mettere la fiducia su un intero provvedimento, impedendo alle opposizioni di emendarlo. Pochi si renderanno conto invece del fatto che, terminata la fase del consociativismo, questa soluzione finirà per danneggiare soprattutto l'esecutivo, permettendo ai dissenzienti della maggioranza di organizzarsi per provocarne la crisi. L'incongruità del "doppio voto" incomincia comunque ad attirare l'attenzione nel momento in cui un esecutivo, il Cossiga secondo, ne fa le spese. Ponendo la fiducia su quello che nelle cronache veniva allora chiamato il "decretone", nel 1980 il parlamento voterà a favore nello scrutinio palese, mentre nella seconda votazione quella a scrutinio segreto - farà invece cadere il governo. La gravità della crisi sarà comunque ancora una volta minimizzata dall'esistenza di un dissenso sul provvedimento che era già venuto apertamente alla luce in precedenza e sul quale il governo si era però impuntato, sfidando il parlamento con una richiesta di fiducia. Ma la situazione sarà invece diversa nell'estate del 1982, allorché alcuni franchi tiratori che non possono più nascondersi dietro i panni dei difensori della libertà, faranno cadere un decreto fiscale il 76 quale avrebbe dovuto penalizzare petrolieri ed esattori, tirandosi in tal modo dietro il primo governo Spadolini (giungo 1981-agosto 1982), che sullo stesso aveva posto la fiducia. Anche in questa occasione, e con più forza che nella precedente, si griderà allo scandalo. Il programma dello Spadolini bis ripresentato alle Camere subito dopo l'estate, prevederà un vero e proprio "decalogo istituzionale" . Le ragioni che comunque spiegano perché bisognerà attendere ancora molti anni per porre rimedio a questi aspetti paradossali del processo decisionale, in realtà sono semplici. Nel bene come nel male, il voto segreto era da tempo diventato parte costituiva del costume politico nazionale. Sotto il primo profilo, lo ammetteranno ad esempio alcuni autorevoli dirigenti del Pci, grazie ad esso era diventato infatti possibile regolare sotterraneamente il rapporto tra maggioranza e opposizione, evitando in tal modo il rischio di conflitti politici laceranti. Per altro verso e con una incisività di anno in anno crescente, durante la discussione della legge sul bilancio il voto segreto permetteva però la formazione di maggioranze trasversali nate all'ombra delle urne, le quali imponevano al governo nuove spese o, alternativamente, abolivano stanziamenti già previsti. Se la prima funzione era in larga misura valutata positivamente, ben diverso era però il giudizio delle principali forze politiche nei confronti della seconda. Lentamente, prenderà corpo perciò un orientamento generale che si dichiarerà favorevole ad una parziale limitazione del ricorso al voto segreto, perlomeno durante la discussione dei provvedimenti di spesa. Inizialmente accettata un po' da tutti, contro questa impostazione riduttiva ben presto si schiererà però il Psi, che già durante il primo governo Craxi (agosto 1983 - luglio 1985) dovrà prendere atto dell'impossibilità di sottrarsi al tiro dei franchi tiratori. Sconfitto ad appena due mesi dal suo insediamento su un provvedimento di condono, Craxi si vedrà infatti bocciare il cosiddetto decreto Berlusconi (d.l. n. 694/1984); dovrà accettare che venga mandato a monte un provvedimento sulla tesoreria unica o, infine, che vengano fatte a pezzi le disposizioni sulla carcerazione preventiva. Infine, nello stesso giorno in cui il Presidente del Consiglio batterà il record di stabilità e all'indomani del reclamizzatissimo ingresso dell'Italia 77 nel club dei Sette costituitosi durante il vertice internazionale di Tokyo (4-6 maggio 1986), il governo sarà costretto a dimettersi a seguito dei ripetuti voti negativi di franchi tiratori presenti nella maggioranza. Un po' alla volta, i termini della discussione perciò si rovesciano. Non si parlerà più di abolizione del voto segreto nel caso di leggi che comportano oneri finanziari, bensì di voto palese che deve essere applicato sempre, salvo che per le votazioni riguardanti le persone o attinenti a diritti di libertà costituzionalmente garantiti. Ma il passaggio da un regime all'altro di votazione si presenta tanto più arduo, quanto più radicale è il restringimento dei casi che prevedono il mantenimento del voto segreto anche perché, sarà questo l'ultimo paradosso, il voto palese può essere istituito soltanto se ottiene la maggioranza attraverso una votazione che, sulla base del regolamento vigente, deve pur sempre avvenire a scrutinio segreto. La decisione finale maturerà nell'ottobre del 1988 durante il governo De Mita. Pressato da un Psi deciso a far rispettare i "patti" di governo e però disponibile a quelle modifiche che non snaturavano la ratio della decisone, De Mita otterrà da Craxi il mantenimento del voto segreto oltre che per quei diritti di libertà regolati dal titolo primo della costituzione, anche nei casi in cui fossero in discussione i diritti di famiglia contemplati dalla costituzione agli art. 29, 30 e 31, ai quali il mondo cattolico era naturalmente sensibile. Inutilmente le opposizioni cercheranno di ampliare l'area di questi nuovi "diritti" . Nonostante la ferma opposizione dei socialisti, riusciranno invece a mantenere lo scrutinio segreto in tutte quelle votazioni che avrebbero potuto investire le "regole" del sistema politico e, quindi, anche nella votazione di leggi elettorali. Confermando il diverso modo di intendere il proprio ruolo di opposizione, Pannella dichiarerà nell'intervento che precede la votazione finale:" ...la strizzata d'occhio a Comunione e Liberazione o ai cattolici non è degna né decorosa: i valori che riguardano la famiglia vanno tutelati, quelli che riguardano altre cose no! Sono veramente stupidaggini! Sono offese anche a coloro che si ritiene di gratificare in questo modo!...Quindi, Presidente, noi lasciamo, ma devo dire senza clamori, in punta di piedi, questa "casa", per 78 protestare contro il fatto che ci hanno rotto piatti, bicchieri, tutto e senza darci nulla in cambio. Non vogliamo assistere a questo punto, alla conta dei piatti rotti per vedere quelli che ancora resistono.."16. La proposta di modifica dell'art. 49 del regolamento comunque passerà, sia pure con solo sei voti in più di quelli richiesti dalla maggioranza assoluta. A completamento definitivo dell'intero processo, nel marzo 1990 interviene infine un'ultima, e non meno significativa, modifica di regolamento. Si stabilirà che la ripartizione dei tempi nella discussione di ciascun provvedimento avvenga all'interno della stessa conferenza dei capigruppo o, in mancanza di accordo, su proposta del Presidente della Camera, il quale assegnerà il tempo disponibile per una parte in misura uguale ai diversi gruppi e per l'altra, in proporzione alla consistenza dei medesimi. Verrà inoltre prevista per la prima volta la partecipazione del governo alla stesura del programma e l'obbligo nei confronti del presidente della Camera, di tener conto delle sue indicazioni nella formazione dello stesso. Completato il restauro regolamentare, la "casa" del parlamento non muterà però la sua struttura di fondo. L'impianto "policentrico" dei rapporti tra legislativo e esecutivo, che Cotta giustamente segnalava come una eccezione del modello italiano maturata soprattutto negli anni settanta, non per questo si è infatti trasformato in un assetto "monocentrico" capace di avvicinare il nostro paese alle democrazie pluralistiche occidentali. L'esecutivo è rimasto debole e, concluderà Cotta ritornando a distanza di anni sulla sua analisi iniziale, "oggi le maggiori difficoltà per l'azione del governo vengono dall'interno della maggioranza stessa più che dalla opposizione"17. Nel frattempo, tutto il resto cambierà invece in peggio. La crisi dei "partiti di massa" si approfondirà ulteriormente; i gruppi parlamentari, che erano già dieci nella VIII legislatura, diventeranno dodici nella X e passeranno a tredici nella XI, allorché la stessa legittimazione dell'istituto parlamentare verrà messa in discussione dal vento che il ciclone di "mani pulite" aprirà nel paese. Il parlamento inoltre, e giustamente, perderà il "diritto di dire l'ultima parola",18 come invece sistematicamente accadeva negli anni settanta. L'esecutivo però si rivelerà sempre più in difficoltà "nel 79 dire la prima", perché buona parte del processo decisionale è ormai radicalmente cambiato non soltanto all'interno del parlamento, quanto nell'intero sistema istituzionale. A partire dagli anni ottanta, la rappresentanza dovrà infatti misurarsi con processi di mobilitazione che la dialettica esecutivo-legislativo non riuscirà più a controllare: parliamo dei movimenti-medium, ossia di quei nuovi attori politici che saranno i protagonisti della democrazia referendaria. 3. L'impatto dei referendum La riforma dei regolamenti parlamentari inizia nel 1981 con i radicali che violentemente si oppongono alla approvazione del 'lodo Jotti", per chiudersi poi nel 1988 con Pannella che annuncia l'uscita dall'aula "in punta di piedi", addirittura prima che la presidenza dichiari aperta la votazione. A suo modo, questo passaggio dalle forme calde di ostruzionismo alla ancora più pericolosa indifferenza, la dice lunga su ciò che nel frattempo è successo. Quale che sia il giudizio politico che si voglia dare sui radicali, intanto è evidente come negli anni ottanta sia fallita, se pure è mai stata tentata, la parlamentarizzazione di una forza che si presentava come la "nuova opposizione", laddove questa era invece pienamente riuscita nel decennio precedente nei confronti dei comunisti, anche grazie all'approvazione dei regolamenti del 1971. E' un punto che va ribadito perché l'iniziale miopia della classe politica di fronte a questo tipo di domanda anticipa già, all'ingrosso, il copione con il quale questa affronterà poi la sfida del referendum sul voto di preferenza (aprile 1991). Denunciando continuamente i compromessi politici in nome dei quali tutti i partiti dell'arco costituzionale erano disposti a barattare le leggi in cambio di accordi di potere, i radicali furono comunque i primi a capire che una parte dell'opinione pubblica ormai si apprestava a lasciare il "palazzo". Dirà con finezza Giorgio Galli19: forte del successo ottenuto attraverso il referendum sul divorzio, a partire dal '79 il Pr diventerà perciò il "partito dei tavoli" dove si raccoglieranno le firme per i referendum. Si consoliderà in tal modo 80 quell'elettorato di opinione che poi, con il tempo, si distribuirà anche tra le altre nuove liste. Per altro verso, quando - nonostante la opposizione della Cgil - il governo Craxi ricorrerà al "decreto di san Valentino" (febbraio 1984) per congelare parte degli scatti di scala mobile, Berlinguer in pochi mesi raccoglierà oltre un milione di firme, per avviare la procedura referendaria di abrogazione del decreto, dai comunisti subito trasformata in una vera e propria "questione di fiducia" extraparlamentare, contro il governo in carica. Pannella, che sa di cosa parla, incomincerà a dire che non vale la pena di andare votare. Il referendum sulla scala mobile segnerà la più bassa partecipazione elettorale sino ad allora realizzata in quel tipo di consultazioni; chi per prudenza andrà in ogni caso a votare, respingerà comunque la proposta di abrogazione e il Pci risulterà perciò comunque sconfitto. Lasciamo perdere i diversi esiti che negli altri casi si presenteranno e cerchiamo invece di capire quali trasformazioni si annunciano attraverso il diffondersi della democrazia referendaria. Va detto che già durante la costituente, la scelta a favore del referendum non fu facile, perché si trattava di introdurre un istituto di democrazia diretta all'interno di un sistema rappresentativo come quello parlamentare. L'originaria "proposta Mortati" prevedeva peraltro tutti i possibili tipi di referendum, compreso quello ad iniziativa governativa su proposta del Capo dello Stato controfirmata dal Presidente del Consiglio, per sospendere una legge già approvata dalle camere, oppure per dar seguito ad un disegno di legge del governo respinto dal parlamento. Chi spinse la discussione verso una maggior concretezza gettando anche le basi per un accordo fu Perassi, che con franchezza pose il quesito di fondo: "per .. formulare un progetto di legge, bisogna dire francamente se questo referendum lo si vuole o no". Il terreno sul quale le diverse forze politiche troveranno una intesa, verrà alla fine offerto dai "confini" del referendum: l'accordo tacito che emergerà sarà quello di varare il solo referendum abrogativo con dei limiti precisi, che ne avrebbero dovuto impedire ogni interferenza con i criteri di definizione dell'indirizzo politico20. 81 Approvato in questa versione estremamente ridotta, al cui interno peraltro restò in piedi - per un errata trascrizione del testo finale - la possibilità di sottoporre al giudizio popolare anche le leggi elettorali che erano invece state escluse, l'istituto referendario dovrà però attendere ben ventidue anni e cinque legislature prima che venga emanata dal parlamento una legge per disciplinarne l'esercizio. Lo stesso dispositivo che ne accompagnerà la nascita porterà comunque il marchio dello scambio politico, oltre che la possibilità di una sua utilizzazione a fini non soltanto abrogativi. Il primo aspetto emerge dal modo con cui si arriverà - in occasione della discussione sul divorzio - alla quasi contestuale approvazione sia della tanto sospirata legge, sia della sua possibilità di abrogazione. Pressata dalla Santa Sede, la Dc getta infatti le basi dell'accordo che Fanfani si incaricherà a sua volta di garantire. I partiti laici si sarebbero impegnati ad approvare rapidamente l'introduzione del referendum abrogativo, offrendo così al fronte antidivorzista lo strumento per eliminare, dopo averlo comunque approvato, l'odiato divorzio; la Dc avrebbe invece fatto cessare il suo ostruzionismo, dando in tal modo alla già esistente maggioranza divorzista la possibilità di arrivare all'approvazione della legge. Sia pure tra le inevitabili traversie determinate da una crisi di governo, il patto resse: in gran fretta e non senza ambiguità, la legge 352/70 che disciplinerà le modalità di attuazione del referendum viene approvata il 25 maggio; a sua volta, il 1° dicembre dello stesso anno passerà in parlamento la legge Fortuna-Baslini sul divorzio. Non è necessario entrare nel merito della sconfitta che il fronte antidivorzista subisce inaspettatamente in occasione del referendum del 1974, perché - mutati gli attori , i temi e il momento politico - il succo della vicenda che a noi interessa, è in buona misura contenuto nella dinamica che abbiamo sommariamente riassunto. Rimasto inattuato sino agli anni settanta, già in occasione della sua prima prova l'istituto del referendum fuoriesce dal solco lineare, ma evidentemente non sufficientemente profondo, al cui interno era stato collocato dalla dottrina costituzionalista. Disinnescata la sicura, questo istituto assume infatti i profili di una forza antisistema in senso tecnico, soprattutto con riguardo ai delicati equilibri esistenti tra partiti e società civile e tra democrazia rappresentativa e 82 democrazia diretta. E' una "bomba" che le forze politiche si scagliano le une contro le altre, quando avvertono di non avere altre risorse sulla cui base negoziare. Capita la musica, i radicali - ancora una volta per primi - lo trasformeranno in un vero e proprio cavallo di Troia, da lanciare contro la "solidarietà nazionale". Nel 1978 si voterà perciò sul finanziamento pubblico ai partiti e sulla legge Reale. Ma è con gli anni ottanta che il referendum si sviluppa senza più freni incrociandosi, a seconda dei casi, con le strategie delle nuove e delle vecchie forze politiche. Tra la fine del 1978 e i primi mesi del 1979 viene infatti messo a punto un pacchetto di dieci quesiti, che contiene alcuni bocconi avvelenati sia sotto il profilo politico, sia sotto quello istituzionale. Approvata tra infinite difficoltà e polemiche nell'aprile del 1978, la legge 194 sull'aborto verrà nel 1981 sottoposta, sia pur senza successo, alla verifica di un doppio referendum, quello radicale che intendeva allargare il diritto delle donne ad avvalersi dell'aborto di stato e quello promosso dal Movimento per la vita, che invece voleva in larga misura abolire l'intero testo di legge. E' evidente ormai come chi si sente minoranza, cerchi di diventare maggioranza ricorrendo alla consultazione popolare. Per altro verso, posti di fronti al pericolo di un possibile conflitto con l'opinone pubblica, i grandi partiti il più delle volte utilizzeranno i referendum per rilegittimarsi, favorendo in tal modo la emergenza di maggioranze per il "sì" a carattere oceanico : tutti contro la caccia, contro il nucleare o per la responsabilità dei giudici 21. Vi è però anche un uso più spregiudicato di questo istituto, il quale riassume il secondo aspetto di debolezza della legge che ne aveva definito le modalità di attuazione. E' qualcosa di più grave, una vera e propria fraus constitutionis. Benché la sola forma ammessa fosse quella abrogativa, spesso il referendum è stato attivato piuttosto al fine di sollecitare unadecisione del parlamento, che non per conoscere la volontà del corpo elettorale. Amato ricostruirà in questi termini la nuova situazione: "tu raccogli le 500000 firme non per consentire ai cittadini, così come la costituzione prevede, di dire la loro che diventa determinante e decisiva sull'argomento, ma ti avvali strumentalmente di loro per 83 mettere una spada di Damocle sulla testa del parlamento e per farlo decidere in condizioni che sono spesso del tutto disadatte ad una decisione"22. Per la verità e sia pure con tutte le differenze del caso, questa è anche la puntuale ricostruzione delle modalità attraverso le quali i socialisti, minacciando il ricorso al referendum, nel 1990 imporranno la legge sulle tossicodipendenze, forzando una maggioranza parlamentare che inizialmente non c'era. Non vi è dubbio però che l'analisi proposta colga nel segno, sollevando anche un problema più generale. Presentata semplicisticamente come uno strumento di partecipazione popolare all'esercizio dei pubblici poteri, la strategia referendaria non si è limitata ad esercitare pressioni adeguate per spingere le istituzioni a decidere. Sempre più spesso, infatti, le sue reali finalità sono state quelle di mettere in difficoltà il sistema della rappresentanza nel suo complesso, attraverso la creazione di nuove maggioranze. Figlio di una cultura ormai al tramonto che assegnava alla iniziativa popolare un ruolo ancillare rispetto alla legislazione statale, il meno che si possa dire del referendum abrogativo è che questo sia sempre stato "estremamente ambiguo", sicché ogni interrogativo che lo riguarda si muove inevitabilmente sulle sabbie mobili: "è un atto di controllo o un atto di legislazione?"23. La "dottrina" avrà le sue ragioni nell'avanzare le proprie incertezze, ma politicamente non dovrebbero esserci dubbi. "Da strumento di semplice abrogazione di leggi già operanti, il referendum è andato evolvendosi in istituto per la formazione di vere e proprie piattaforme politiche" diventando in tal modo, concluderà amaramente Calise24 che di questa dinamica ha intravisto non solo i limiti ma anche i pericoli, "un referendum legislatore". Negli anni ottanta gli elettori saranno perciò chiamati alle urne in cinque occasioni, per dire la loro su ben quattordici quesiti referendari. La discussione avrà caratteri politici soltanto in occasione del referendum sulla scala mobile dell'85, per volontà dei comunisti; e del voto sulla preferenza unica del 1991, per scelta di Craxi. In entrambi i casi però i partiti che cercheranno di politicizzare il problema referendario, né usciranno sconfitti perché i tempi ormai sono cambiati. La tendenza che alla fine prevarrà, sarà 84 dunque un'altra: nella maggior parte dei casi, i partiti sceglieranno infatti di assecondare gli orientamenti della opinione pubblica, piuttosto che di indirizzarla in un senso o nell'altro. Tutti cercheranno perciò di salire sul carro del vincitore. Sarà così nel 1987 allorché, accanto agli originari promotori del referendum sulla responsabilità dei giudici e cioè radicali, socialisti e liberali, un po' alla volta si affiancheranno anche la Dc e il Pci, determinando un trionfo dei "sì". La stessa situazione si ripresenterà sul "nucleare", inizialmente promosso dall'arcipelago ambientalista insieme alla Fgci e alla Sinistra Indipendente e che alla fine vedrà sul fronte del "no" soltanto i repubblicani e i liberali. Nei referendum sulla caccia e sui pesticidi, si arriverà poi al paradosso di trovare tra i promotori degli ambientalisti quantomeno sospetti come comunisti e socialisti, notoriamente difensori di potenti lobbies venatorie. La Dc invece, assumerà un prudente ma esplicito atteggiamento neutrale, lo stesso che nei fatti verrà tenuto in occasione del referendum del '91 sulla preferenza unica, allorché l'unica dichiarazione per il "no" sarà quella dei socialdemocratici. Chi ormai decide la musica da suonare, è dunque l'opinione pubblica opportunamente sollecitata, perché i partiti si guarderanno bene dal proporre un diverso spartito, preferendo esser magari dei secondi violini, piuttosto che vedersi esclusi dall'orchestra. In tal modo la rappresentanza si impasterà con un nuovo tipo di convenzione democratica, dando vita ad un processo decisionale ormai lontano da quello originariamente prefigurato dal legislatore. La stessa musica, inoltre, spesso ricorderà più una banda di paese che non una austera filarmonica. Guardando a ciò che in effetti è successo, Mezzanotte e Nania hanno perciò tirato le somme in questo modo. I giuristi della costituente sbagliarono nel pensare che il referendum popolare avrebbe potuto incidere sulla forma di governo, solo nell'ipotesi in cui il potere di iniziativa fosse stato conferito ad organi dell'apparato, come il Capo dello stato o lo stesso esecutivo. In realtà la vicenda iniziata negli anni settanta ed esplosa ulteriormente nel successivo decennio, ha dimostrato a sufficienza come i referendum fossero nei fatti "suscettibili di giocare un ruolo analogo", una volta trovatosi in "presenza di determinate condizioni politico- 85 istituzionali"25. Esaminando il problema con il distacco che gli anni giustificano, è evidente che queste "condizioni" sono state di diversa natura: hanno riguardato il logoramento del legame di rappresentanza in passato assunto attraverso il sistema dei partiti; sono dipese dalla crescente perdita di capacità decisonale e, nello stesso tempo, dalla ridotta funzione di integrazione che il parlamento ha reso sempre più evidente; e infine, sono dipese anche dalla fragilità che l'istituto referendario ha dimostrato, piegandosi a una torsione istituzionale che, peraltro, non rimarrà isolata. 4.massmedia e sistema politico Chi si occupa degli effetti indotti dai massmedia sulla vita politica di ogni giorno, il più delle volte sottolinea gli aspetti manipolativi che questi possono produrre. Non è detto però che una simile "distorsione comunicativa" dipenda necessariamente dalle cattive intenzioni di chi la propone. Spesso, sostiene ad esempio Zolo26, sarebbe infatti la stessa tecnologia della comunicazione ad imporre un "pregiudizio involontario" (unwitting bias), causato più dal "codice funzionale" dei singoli media, che non dalle ideologie del suo utilizzatore. Gli effetti "asimmetrici" e la funzione "narcotizzante" delle procedure le quali offrono informazione, andrebbero perciò ricondotte anche all'inevitabile trasmissione di "griglie selettive-distorsive", specifiche del medium utilizzato. In queste linee di tendenza, Zolo vede alcuni dei principali pericoli che oggi minacciano la democrazia. E Rodotà insiste sull'importanza di contrastare i processi di "verticalizzazione" della comunicazione che sempre più riducono l'autonomia del cittadino27. Resta vero però che, quand'anche fosse possibile ricorrere a sistemi meno manipolatori nella selezione dei valori sociali, la comunicazione continuerebbe a esercitare un significativo impatto politico, per ragioni che sono anche più profonde. L'eventualità che la singola notizia venga trasmessa in un identico modo, indipendentemente dal formato di volta in volta utilizzato, non impedisce infatti che i potenziali destinatari reagiscano in maniera comunque 86 diversa, confermando perciò l'esistenza di un altro - e ormai ineliminabile - aspetto del problema. Quand'anche fosse possibile controllare il potenziale manipolativo dell'emittente, il ricevente è ormai diventato libero di pensarla come vuole! ll ricorso sempre più frequente ai sondaggi dipende da tutto ciò. E' necessario verificare le reazioni determinate nella "gente" dai nuovi criteri di differenziazione che di volta in volta vengono proposti. Poiché i partiti non riescono più a prefigurare degli equilibri possibili attraverso i rispettivi programmi, governo e parlamento a loro volta si orientano sempre più decisamente verso l'opinione pubblica, perché la crisi delle subculture e le caratteristiche assunte dai mezzi di comunicazione rendono da tempo problematica la stessa interpretazione di ciò che accade all'interno del sistema politico. In tal modo i vari attori politici cercheranno di riacquistare a un livello anche più profondo, quel consenso sui fini ultimi che le trasformazioni intervenute nei partiti, hanno da tempo reso pericolosamente instabile. Per distinguere i caratteri principali di queste tendenze, da anni presenti anche in sistemi politici diversi da quello italiano, March e Olsen parlano al riguardo di "politiche integrative" basate sulla ragione, sull'obbligazione e sulla storia, laddove le vecchie politiche "aggregatrici" presupponevano invece un ordine fondato sulla razionalità utilitaristica e sullo scambio. Ma le differenze sono anche più numerose. "Nei processi aggregativi la leadership implica la mediazione tra coalizioni e interessi. In un processo integrativo la leadership implica una amministrazione fiduciaria di tradizioni sociali e bisogni futuri e per di più comporta un ruolo educativo. Le teorie dei processi aggregativi pongono l'accento sulla risposta istantanea agli interessi delle persone in un particolare momento. I processi integrativi presuppongono un adattamento più lento del sistema e l'esistenza di protezioni contro passioni e razionalità momentanee".28 Nel passaggio da un profilo all'altro dell'azione politica, si consuma così quel cambiamento che nei diversi sistemi assumerà poi delle modalità specifiche, a seconda delle rispettive tradizioni, dei vincoli esistenti o dei diversi caratteri degli attori coinvolti nella vita delle istituzioni. 87 Per quel che ci riguarda, non è necessario a questo punto indicare con precisione quando le forme della rappresentanza comincino a cambiare. Avendone ricostruito le dinamiche, possiamo invece capirne le ragioni. La questione istituzionale ha infatti origini lontane nel tempo ma diventa esplosiva soprattutto negli anni ottanta, allorché verrà meno la possibilità di produrre politiche aggregative, basate sulla sommatoria degli interessi negoziati attraverso i partiti politici. Urgente diventa a quel punto la necessità di integrazione, che presuppone però un contesto difficilmente riproducibile di finalità condivise. Attraverso la riformulazione del processo decisionale che le istituzioni avviano in uno stretto rapporto con l'opinione pubblica, alcune tradizioni verranno così conservate, mentre altre potranno alla fine risultare sacrificate, in nome di un idem sentire che è tale appunto perché è un valore di ordine superiore. Naturalmente anche le istituzioni hanno un loro ciclo di vita al cui interno le fasi di stabilizzazione si alternano con quelle del cambiamento perché, per imporre nuove regole tra i partecipanti al gioco politico, ci deve comunque essere un attore che è più forte e più lungimirante degli altri. Se però il gioco non ha mai termine, può anche accadere che le regole nel frattempo cambino comunque. Poiché "la politica non tollera vuoti" subito comparirà infatti qualcuno o qualcosa pronto ad occupare lo spazio improvvisamente creatosi29. Il ruolo crescente oggi svolto dall'opinione pubblica all'interno delle istituzioni rappresentative, inizialmente non era stato ad esempiovoluto da nessuno degli attori tradizionali ed è stato favorito invece dal fatto che tutta la "partita" si è alla lunga rivelata inconcludente sicché, per uscire dallo stallo decisionale, si sono comunque affermate altre routines operative. Cumulandosi tra loro diversi effetti del genere di quelli sinora indicati, a partire dagli anni ottanta si è in tal modo inciso con forza sull'impianto complessivo della rappresentanza, spingendo sempre più l'intero sistema politico all'interno di un vortice incontrollato. Bisogna chiedersi se ciò che è accaduto sia soltanto un'altra versione della ben nota crisi dei partiti di cui da tempo si parla, oppure se l'insieme dei processi sinora richiamati non indichino invece delle tendenze più di fondo, che in 88 futuro potranno essere incanalate e magari controllate, ma di certo non cancellate. Coloro i quali vivono drammaticamente il cambiamento politico, di solito disegnano anche cupi scenari ogni volta che viene messo in forse il ruolo dei partiti. E' un pò come toccare la costituzione, si tratta di limiti che è sempre pericoloso superare. In termini generali però, non è vero che le tendenze plebiscitarie insite nelle società moderne, siano come tali incompatibili con la tradizione democratica. Luciano Cavalli30 ha più volte segnalato come anche i sistemi politici più avanzati siano nel corso di questo secolo andati spesso alla ricerca di un leader, per compensare i limiti presenti nella "democrazia acefala", organizzata intorno alla mediazione partitica. Quest'ultimo sarà lo stesso problema affrontato in Italia da uno degli uomini politici che diverrà tra i più popolari all'inizio degli anni novanta e cioè Mario Segni. Lo dirà del resto apertamente in più occasioni e anche in un dibattito che nel 1991 si svilupperà in parlamento, intorno alla questione istituzionale. "Se di fronte ad un sistema dei partiti immobile e paralizzante la strada è quella di far decidere ai cittadini, noi la percorreremo. Se dovessero esservi elezioni anticipate, chiederemo a tutti i candidati che intendono camminare sulla strada delle riforme, di impegnarsi pubblicamente con gli elettori a sostenere queste iniziative, anche nella eventualità di decisioni diverse dei partiti cui appartengono e del governo. Se i partiti ne sono incapaci, vogliamo essere a questo punto noi l'espressione dei cittadini che vogliono ad ogni costo le riforme"31. Nonostante l'incomprensione e a volte anche il dileggio dimostrato dalle elités politiche vecchie e nuove, non c'é stato negli ultimi anni nessun uomo politico che abbia con più chiarezza perseguito un obiettivo, che poi si sarebbe anche verificato. Sarà infatti Segni e non Craxi, al quale pure hanno generalmente pensato in un passato non troppo lontano tanti innovatori, il leader inizialmente più popolare che gli anni ottanta lasceranno in eredità al successivo decennio. Assumendo simbolicamente un valore politico e morale che il progetto della governabilità non era invece riuscito in nessuna occasione ad acquisire, la tematica della riforma istituzionale si affermerà infatti contro ogni iniziale previsione, solo 89 grazie al sostegno e alla credibilità acquistata agli occhi dell'opinione pubblica. In tal modo il sistema dei partiti e l'apparato statale centralizzato confermeranno però di essere ormai diventati soltanto gli intermediari - e magari i secondi attori, ma di certo non i promotori - delle nuove forme che la domanda di cambiamento politico ha ormai assunto, rispetto al decennio da poco concluso. Prefigurando i possibili destini della democrazia politica, Bernard Manin ha segnalato peraltro una interessante "simmetria" fra la situazione in cui attualmente versa la rappresentanza in quei paesi che hanno conservato una "democrazia dei partiti" e il declino del parlamentarismo consumatosi in Europa tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo. In entrambi i casi questa simmetria - ha osservato Manin - suggerisce anche l'ipotesi che al giorno di oggi si assista meno a una crisi della rappresentanza di per sé, che non "all'emergenza di una nuova forma di governo rappresentativo", al cui interno il momento della decisione si sposta sempre più verso l'opinione pubblica o, più precisamente, verso una frazione particolarmente attiva sul piano elettorale32. Manin la chiama "democrazia del pubblico" e noi adesso capiamo meglio il perché. Alla decisione politica non si arriva più attraverso una delega in bianco nei confronti dei partiti, ma grazie ad un intreccio oggi molto più complesso tra vecchi e nuovi decisori. Ci sono i poteri istituzionali, ci sono i poteri politici ed, infine, c'é anche una opinione pubblica che ormai è in grado di esercitare una sua specifica influenza sull'intero sistema decisionale. Chi pone al centro della propria analisi il "sistema di vincoli e di incentivi costituito dalla struttura decisionale"33, naturalmente non percepisce la radicalità del cambiamento intervenuto nell'intero processo, perché assume come "variabile indipendente" la logica sulla cui base opera il sistema di rappresentanza e cioè il parlamento, mentre lascia invece ai fautori del "primato della società" l'onere di provare l'eventuale importanza dell'input. Ma il processo decisionale non si lascia frantumare in variabili che assumono caratteristiche tra loro diverse una volta per tutte e, magari, anche per sempre. Lo dimostra bene l'analisi di Duverger, che da tempo ha colto invece la circolarità dell'intero dinamica. 90 Ogni sistema dei partiti genera infatti un diverso tipo di rappresentanza politica e assimila perciò l'opinione pubblica a "uno dei fattori del sistema". E' quello che si è verificato in Italia sino agli anni settanta. Dipendendo a sua volta dal regime elettorale, anche il sistema dei partiti può, all'inverso, diventare però uno dei fattori che daranno voce all'opinione pubblica. E' il processo che ha preso piede a partire dagli anni Ottanta. "Opinione pubblica, regime elettorale e sistema dei partiti formano in tal modo - conclude perciò Duverger - tre termini indipendenti gli uni dagli altri, i rapporti tra i quali non sono affatto a senso unico"34. In passato era l'opinione pubblica ad accodarsi ai partiti, dalla cui esistenza dipendeva. Oggi sono invece questi ultimi che si accodano alla prima, cercando di ritrovarvi la fonte di una necessaria rilegittimazione. Pur di restituire energia a un processo decisionale da tempo paralizzato, il sistema non mancherà infatti di utilizzare a piene mani il consenso che di volta in volta riuscirà a raccogliere tra la "gente", ricorrendo a quelle tecniche popolari che la democrazia referendaria ci ha ormai abituato a riconoscere. In tal modo però e forse non troppo paradossalmente, la nuova domanda di cambiamento politico si avvarrà della stessa strumentazione istituzionale emersa dalla crisi delle vecchie forme della rappresentanza, ereditandone perciò sia le ambiguità, sia la propensione al compromesso. Lo si vedrà molto bene dopo il referendum sulla legge elettorale per il Senato (1993), allorché matureranno le condizioni politiche per il passaggio, così a lungo invocato, dalla prima alla seconda repubblica. 1 C. Donolo, Mutamento o transizione?, Il Mulino, Bologna 1977 L. Manconi, Solidarietà, egoismo, Il Mulino, Bologna 1990, p. 31 3 una prima ricostruzione di queste tendenze, è quella di S. Cassese, Questione amministrativa e questione meridionale, Milano Giuffré, 1977; più recentemente, F.P. Cerase, Un'amministrazione bloccata, Angeli, Milano, 1990, pp. 41-72 4 S. Lupo, Il crepuscolo della repubblica, in AA. VV., Lezioni sull'Italia repubblicana, Donzelli Editore, Roma 1994, p.76 5 E.J. Hobsbawm, Tradizioni e genesi dell'identità di massa in Europa, in E.J. Hobsbawm - Ranger T., L'invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987, p. 255 ? 2 91 6 F. Cazzola, Consenso ed opposizione nel parlamento italiano: il ruolo del Pci dalla I alla IV legislatura, in Rivista Italiana di Scienza Politica, n. 1, 1972 7 VII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto di Assemblea, seduta del 21 settembre 1979, p. 1796. L'analisi sviluppata nelle pagine che seguono, si riferisce naturalmente soltanto all'attività della Camera dei Deputati ed al suo 'regolamento', perché la stessa si presenta come un indicatore più significativo ai fini delle problematiche che esamineremo. 8 VIII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto della seduta del 4 novembre 1981. 9 Si veda per tutti l'analisi di G. Di Palma, Sopravvivere senza governare, Il Mulino, Bologna 1979 10 S. Cassese, Esiste un governo in Italia?, in Il sistema politico italiano, a cura di G. Pasquino, Laterza, Bari 1985, p. 302 11 A. Manzella, Il Parlamento, Il Mulino, Bologna 1991 ,p.13 12 O. Mayer, La bilancia e l'orologio, Il Mulino, Bologna 1988 13 Va segnalato che la sola modifica apportata prima di questa data avverrà nel 1978 e riguarderà le "procedure di indagine, informazione e controllo in Commissione" (art.143). A partire dalla VIII legislatura, le modifiche si succederanno invece rapidamente. Ad oggi la Camera ha infatti deliberato sui propri regolamenti in ben quindici occasioni. Si veda al riguardo la "tavola cronologica delle modificazioni...", ora in Camera dei Deputati, Costituzione della Repubblica. Regolamento della Camera , Roma 1990 14 Queste considerazioni, è appena il caso di segnalarlo, non si riferiscono invece al Senato, dove il ricorso al voto segreto era comunque più circoscritto. 15 Le dichiarazioni di Moro sono riportate in un articolo di G. Corbi, Quarant'anni di imboscate, La Repubblica, 25 settembre 1988 16 Atti Parlamentari, Resoconto di Assemblea, seduta del 13 ottobre 1988, p. 20420 17 S. Cotta, Mutamenti istituzionali e cicli politici, in Quaderni Costituzionali, n. 2, 1991, p. 222; dello stesso autore si veda anche Classe politica e parlamento in Italia, Il Mulino, Bologna 1979 18 A. Baldassarre, Le performances del Parlamento italiano nell'ultimo quindicennio, in Il sistema politico italiano, cit. p. 342 19 G. Galli, I partiti politici italiani, Rizzoli, Milano 1991, p. 201 20 A. Chimenti, Storia dei referendum, Laterza, Bari 1993, p. 8 e ss., dove viene ricostruita con efficacia la dinamica delle forze politiche sottesa ad ognuno dei referendum. 21 una analisi comparativa del ruolo svolto dai referendum nei sistemi politici contemporanei la si ritrova in M. Caciagli - P.V. Uleri (a cura di ), Democrazie e referendum, Laterza, Bari 1994; diversa è comunque la valutazione del caso italiano, nei cui confronti viene avanzato un giudizio complessivamente positivo, soprattutto nel saggio conclusivo di P. V. Uleri, Dall'instaurazione alla crisi democratica. Una analisi in chiave comparata del fenomeno referendario in Italia (1946-1993), 92 22 G. Amato: Intervento, in M. Luciani - M. Volpi, (a cura di), Referendum, Laterza, Bari 1992, p. 192 23 A. Baldassarre, Referendum e legislazione, in M. Luciani - M. Volpi, (a cura di), Referendum, cit., p. 40 24 M. Calise, Dopo la partitocrazia, cit., p. 68 25 C. Mezzanotte - R. Nania, Referendum e forme di governo in Italia, in Democrazia e Diritto, n. 1-2, 1992, pp. 51 e ss. 26 D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Feltrinelli, Milano 1992, cap. 5 27 S. Rodotà, La sovranità nel tempo della tecnopolitica. Democrazia elettronica e democrazia rappresentativa, in Politica del diritto, n.4 1993 28 J. March - J.P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, cit., pp. 178-9; sulla centralità della ricerca sociale come antidoto alla iperpoliticizzazione, dopo avervi in più occasioni insistito, è ritornato nuovamente U. Cerroni, La cultura della democrazia, Metis, Chieti 1991 29 G. Urbani, La politica ai raggi X, in Urbani G., (a cura di), Dentro la politica. Come funzionano il governo e le istituzioni, Edizioni Sole 24 Ore, Milano 1992, p. 114 30 Si veda, da ultimo, L. Cavalli, Governo del leader e regime dei partiti, Il Mulino, Bologna 1992 31 M. Segni, Camera, X legislatura, Atti Parlamentari, Discussione del 24 luglio 1991 32 B. Manin, La democrazia dei moderni, Anabasi, Milano 1992, p. 166 33 A. La Spina, La decisione legislativa, Giuffré, Milano 1989 ,pp. 453-473 34 M. Duverger, Les partis politiques, I partiti politici (Paris 1952),Milano, Edizioni di Comunità, Milano 1970, p. 463 93 cap. 4: Decisioni controverse 94 1. Il ruolo dei processi di comunicazione C'è molta più affinità di quanto si sia portati normalmente a pensare, tra le ragioni che spingono le istituzioni ad assumere delle decisioni e le modalità attraverso le quali le stesse cercano di acquisire consenso. Chi classifica le democrazie contemporanee contrapponendo il "modello Westmister" basato sul "governo della maggioranza" al "modello consensuale" che generalmente si 1 afferma nelle "società plurali" , in realtà fotografa i poli estremi di un processo e non le dinamiche attraverso le quali il cambiamento matura, nel passaggio da un modello all'altro. Nella crisi della rappresentanza che segna i momenti del passaggio, non è detto inoltre che i caratteri i quali accompagnano la formazione del processo decisionale e quelli che invece riguardano la organizzazione del consenso, debbano manifestarsi simultaneamente e magari riferirsi anche allo stesso problema. Al contrario. A volte è proprio la possibilità derivante da un diffuso consenso popolare il prerequisito operativo grazie al quale le istituzioni avviano anche un altro tipo di scelte, che l'opinione pubblica potrà addirittura non conoscere o, qualora ne sia informata, magari non condividere. In questi casi la logica delle decisione si distacca dagli interessi che la hanno sino a quel momento sollecitata e si intreccia invece con l'esistenza di aspettative diffuse sufficientemente generiche, che rendono possibile l'adozione di una soluzione, senza per questo vincolarla a requisiti specifici. Un esempio per tutti: i motivi per i quali si arriverà in Italia all'introduzione di un sistema maggioritario, dipenderanno molto più dalla interpretazione che l'opinione pubblica, i massmedia e anche le istituzioni daranno dei risultati emersi attraverso i referendum, che non dalla specificità delle richieste le quali verranno avanzate dall'elettorato. Naturalmente i diversi attori politici non smarriscono in una situazione del genere i rispettivi orientamenti di scopo. Piuttosto, decisioni in passato mai assunte come quelle relative al sistema elettorale, riusciranno ad affermarsi più o meno ampiamente a seconda dei casi, soltanto perché l'esistenza di una diffusa domanda "popolare" renderà non solo possibile - ma addirittura imporrà - la ricerca di una soluzione. Significativa diventa perciò la valutazione 95 del coinvolgimento sociale che viene di volta in volta sollecitato intorno alle questioni che sono in discussione. Pur essendo importanti, alcuni problemi risultano infatti poco credibili e perciò si rivelano anche inattuali. Gli esperti cessano di occuparsene, il tema assume soltanto una funzione rituale in particolari occasioni pubbliche o in discorsi ufficiali e chi continua a riversare energie e impegno nei confronti dello stesso, dimostra soltanto di essere in ritardo sui tempi. Come gli individui o le stesse istituzioni, i problemi hanno insomma un loro "ciclo di vita", che li rende più o meno maturi e anche, a volte, decisamente superati. Esistono tuttavia problemi che, pur non essendo necessariamente 'nuovi', restano comunque drammatici perché investono non soltanto il sistema di interessi, ma gli stessi valori della comunità. Questioni vitali come quelle rappresentate dalla lotta alla criminalità, la sicurezza personale, le crisi politiche e, soprattutto, le crisi economiche simbolicamente riassunte attraverso l'aumento della inflazione o la perdita di valore nel cambio della moneta nazionale, sono temi che non invecchiano mai, come del resto quelli che riguardano l'esistenza o meno di un diritto individuale, sia esso rappresentato dalle richieste di informazione avanzate dalla stampa nei confronti del potere politico, o dai diritti degli imputati nei riguardi della magistratura o anche dai diritti dei cittadini nei 2 confronti dello stato . Qualora questi problemi divengano attuali e grazie ai processi di comunicazione che in questi casi inevitabilmente si attivano, l'opinione pubblica acquista perciò lo status di un attore politico come gli altri, per almeno due di ordini ragioni: perché attraverso il 3 processo di comunicazione si crea una opportunità decisionale che altrimenti il sistema rappresentativo in quanto tale, non necessariamente è in grado di assicurare; perché, oltre a mantenere viva l'attenzione sul tema, il processo di comunicazione può favorire anche la convergenza o meno della opinione pubblica su una determinata soluzione, esercitando in tal modo un ruolo ben più significativo all'interno del processo decisionale. Nell'adottare queste strategie, le istituzioni devono comunque tener sempre conto di alcuni limiti che sono strutturali. L'azione dell'opinione pubblica infatti perde in efficacia allorché si amplia 96 l'arco temporale nel corso del quale questa interviene, perché l'interesse lascia spesso il posto al disinteresse o anche ad altri tipi di problemi. Le tradizionali strutture della rappresentanza e cioè partiti e sindacati, svolgono invece una pressione di tipo continuativo. In alcuni casi accade che l'opinione pubblica influenzi l'orientamento del governo nella ricerca di una soluzione, ma quest'ultimo non sia poi in grado di imporla a sua volta al parlamento, soprattutto nel momento in cui si riduce l'attenzione verso il tema. Un esempio per tutti? La nuova legislazione sul fumo nei locali pubblici, di cui si parla inutilmente da anni, perché non c'é ministro che non si impegni a difendere la salute del cittadino; al dunque, però, il parlamento non decide. Raramente accade invece il processo inverso e cioè che il governo contrasti una decisione sulla quale c'é già l'accordo della maggioranza parlamentare, magari raggiunto grazie a pressioni di tipo "popolare". Incrociandosi tra loro, le due logiche decisionali daranno perciò vita a conseguenze contraddittorie, che non sono preventivamente imputabili né alla razionalità degli attori politicoistituzionali, né a quella dell'opinione pubblica. Si stabilisce in tal modo una relazione tra le modalità attraverso le quali le istituzioni arrivano ad una decisione e le forme che assume il processo di comunicazione politica: è la stessa che esiste tra una chiave e la sua serratura. Per aprire una porta ciò che conta non è tanto l'energia con cui viene girata la chiave, quanto la corrispondenza dei suoi incavi con quelli della serratura4! Francamente, è ormai tempo di abbandonare l'idea che la ripetizione ossessiva dei "messaggi" sia di per sé efficace ad assicurare un adeguato processo di coinvolgimento, anche perché la dispersione o il sovraccarico di notizie è strettamente legato alla natura dei temi. La chiave che metaforicamente rappresenta il processo di comunicazione in realtà apre solo quando la sua corrispondenza con la serratura è perfetta e ogni serratura viene aperta da una sola chiave! L'impatto che la comunicazione esercita sulla competizione elettorale, è insomma ben diverso dalle modalità con le quali lo stesso si manifesta all'interno del processo decisionale5. Naturalmente anche le decisioni politiche hanno bisogno di consenso per esser prese e ciò comporta sempre un tremendo lavoro 97 di comunicazione, per costruire coalizioni che risulteranno vincenti solo se avranno sia gli argomenti, sia la forza per imporli. In questi casi il legame tra le reti mediali e il processo legislativo diventa inevitabilmente diverso da quello sinora messo in luce nelle analisi sulla "videopolitica" o sugli effetti della "politica spettacolo"6. Il problema da comunicare riguarda infatti una issue e non un partito o un candidato e lo stesso iter decisionale ha inoltre come destinatari molti attori e non il singolo elettore. Nel contesto circoscritto dai confini del processo legislativo, la comunicazione si configura perciò come una "window of opportunity" 7, una "opportunità" che il sistema politico potrà a sua volta essere o meno in grado di cogliere a seconda della natura del tema, del tipo di attori, dei caratteri del sistema di rappresentanza o di eventuali problemi sociali che non è sempre possibile prevedere. Il sovrapporsi di logiche diverse all'interno di una stessa arena politica, a sua volta condiziona la dinamica dell'intero processo decisionale. Non è detto che questo si presenti in una successione sequenziale e cioè causale . I processi che portano alla decisione legislativa possono infatti avere uno sviluppo soltanto temporale e cioè del tutto casuale. In sostanza, quando le istituzioni scelgono, le stesse non sempre seguono lo schema caro a quegli analisti delle politiche pubbliche, che restano attaccati ad un "modello razionale" del processo, del tipo "problema-soluzione-decisione". Ciò che più frequentemente accade è invece il caso in cui - come si dice in gergo parlamentare - il "treno" della decisione parta, proprio perché in un determinato momento attori, problemi, soluzioni e occasioni di decidere, si rivelano simultaneamente disponibili: in "quel" momento, le istituzioni scelgono e il processo politico si configura come una serie di procedure che muovono l'intero apparato delle informazioni, dei desideri e delle opzioni in una direzione politicamente produttiva. La decisione politico-legislativa, che normalmente viene vista come il risultato di una dinamica sequenziale, a volte si configura dunque come il punto di arrivo di un processo che invece è contestuale. E' in questo modo del tutto occasionale - osserveranno 8 perciò March e Olsen - che spesso prende corpo sia "la concezione di ciò che è produttivo", sia "gli strumenti per realizzarla". 98 Naturalmente mentre i problemi sono tanti, le risorse per risolvere gli stessi sono di gran lunga inferiori: ci vuole tempo, interesse, attenzione e capacità di convinzione per orientare le istituzioni ad affrontare un tema piuttosto che un altro. In alcuni casi le questioni stazioneranno per anni in un ambito di discussione che precede la decisione. In altri casi invece, i temi entreranno rapidamente nell'agenda parlamentare creando le premesse per nuove decisioni che modificheranno, sia pur parzialmente e a volte a distanza di pochi anni, l'orientamento degli attori istituzionali. L'eventualità che un problema diventi trattabile all'interno di una analisi finalizzata alla decisione, naturalmente dipende pur sempre dal suo grado di "pericolosità" sociale, anche se è ormai largamente accettata l'idea che - una volta isolati dal contesto culturale che li esprimono - questo tipo di indicatori risultino in realtà del tutto privi di significato. Tanto i rischi, quanto le urgenze sono infatti presenti in ogni genere di problema, salvo che l'attenzione selettiva del sistema istituzionale generalmente si concentra su alcuni, lasciando scivolare in secondo piano gli altri. Per queste ragioni, Mary 9 Douglas giustamente sottolinea come un discorso del genere rinvii ad una valutazione che è politica o culturale, ma mai soltanto fattuale. Definire un problema, infatti, significa anche crearlo, ipotecando in tal modo i possibili contenuti della sua soluzione. Comprensibilmente, in questi casi i valori divengono importanti quanti i fatti, perché questi ultimi risultano autoevidenti soltanto quando non sono in discussione i fini attraverso i quali gli stessi vengono interpretati. Le serie storiche grazie alle quali si confrontano i morti per incidenti stradali o a causa dell'alcool con le vittime della droga, sono perciò - per fare solo un esempio - di per sé poco significative, appunto perché ci dicono soltanto le probabilità che un evento si realizzi, ma non aggiungono alcuna informazione sulle possibili conseguenze sociali di questa realizzazione. E' difficile inoltre spiegare perché la eventualità che il parlamento neghi la autorizzazione a procedere nei confronti di un membro della assemblea, normalmente generi - come ad esempio è successo nel caso di Craxi - più allarme che non l'esistenza di un disegno di legge sulla immunità parlamentare, diretto a modificare 99 la disciplina vigente. Per capirne le ragioni, bisognerà quantomeno guardare diversamente ai processi di comunicazione. Sul versante massmediologico, la banalità di programmi televisivi come Cream Caramel o Tribuna politica, smette in questi casi di occupare tutta la scena. Importanti diventano invece quei processi di comunicazione capaci di porre le questioni in un modo spregiudicato10, evitando di mortificare queste ultime già nel momento in cui vengono presentate. Per ottenere questo risultato la comunicazione politica deve però avere una attenzione ai tempi che non riguarda il 'ritmo' dello spettacolo, bensì quello dei diversi processi decisionali e spesso ci vuole anche coraggio, perché bisogna opporsi a convinzioni da tempo diventate dei luoghi comuni. Quanto più si sviluppano, tanto più le istituzioni diventano infatti insensibili, accrescendo i loro apparati e routinizzando i rispettivi processi decisionali. La comunicazione riuscirà perciò ad essere efficace soprattutto se interverrà nei momenti di maggior libertà operativa e cioè allorché all'interno dell'opinione pubblica si diffondono dei processi di allarme sociale11. Consolidandosi sia la percezione di un pericolo, sia la richiesta di uscirne al più presto, decisiva diventa infatti in questi casi la capacità che le istituzioni dimostrano nel prefigurare i percorsi più adatti ad avviare dei processi di rassicurazione, con la possibilità di acquisire consenso. La particolare congiuntura di problemi, soluzioni e decisioni che nell'allarme sociale trova l'occasione per avviare un processo decisionale, mette perciò capo ad un particolare tipo di decisioni che definiamo "controverse" , perché la loro tematizzazione all'interno del sistema istituzionale è fortemente condizionata dal rapporto che le stesse stabiliscono con l'opinione pubblica, secondo delle modalità che meritano di essere esaminate. In questi casi infatti e in primo luogo, il tema viene presentato come una questione di valori che deve fronteggiare una minaccia attuale o potenziale nei confronti del sistema sociale, perché in tal modo si può ricostruire quella "logica della appropriatezza" che sottrae le decisioni ai processi di negoziazione tipici dello scambio politico. La società moderna, per dirne una, non ha ad esempio bisogno di porre degli specifici ostacoli alla "necrofilia", perché il sistema ha ormai sviluppato al proprio interno sufficienti anticorpi 100 che ne escludono un'eventuale epidemia. Difficile è invece stabilire sino a che punto possa spingersi l'autorità di un genitore nei confronti del proprio figlio; quello della magistratura nei confronti dei possibili imputati; oppure, per fare ancora un ultimo esempio, difficile è stabilire se in un determinato sistema politico sia preferibile la legge elettorale maggioritaria, piuttosto che quella proporzionale. Tutti questi casi possono dar vita a "decisioni controverse"12 a seconda dell'importanza che il sistema istituzionale e l'opinione pubblica assegnano - in successione - ai seguenti valori: la difesa dell'integrità fisica dei bambini nei confronti di chi esercita su di loro delle violenze, all'ombra delle mura domestiche; il principio secondo il quale la magistratura deve essere responsabile delle sofferenze ingiustamente inflitte ai cittadini; oppure, e per concludere, la convinzione che sia più importante un sistema che assicura innanzitutto la governabilità, piuttosto che un altro il quale premia invece la rappresentatività. Come può rilevarsi facilmente, la stessa precisazione di cosa si configuri realmente come più importante per la collettività, in fondo è soggetta a valutazioni che cambiano sia a seconda degli attori che ne sono coinvolti, sia a seconda del momento storico nel quale le stesse vengono formulate. Il finanziamento pubblico dei partiti politici fu considerato legittimo dalla maggioranza degli italiani in occasione del referendum del 1981, ma la richiesta di abolizione dello stesso è risultata maggioritaria nei referendum del 1993. La legge nel 1975 stabilì la non punibilità del tossicodipendente, purché questo non fosse anche uno spacciatore; nel 1990, però, il parlamento ha definito "illecito" drogarsi mentre restava possibile fumare, bere, non lavorare, studiare o non studiare, perché queste erano scelte che riguardavano l'autonomia dell'individuo e non presentavano alcun pericolo sociale. Il referendum del 1993, infine, ha a sua volta modificato la regolazione, circoscrivendo nuovamente le ipotesi di punibilità del tossicodipendente. Una decisione controversa è dunque, innanzitutto, una scelta che coinvolge i valori dei cittadini, in nome dei quali le istituzioni vengono sollecitate ad intervenire, ridefinendo nello stesso tempo 101 sia il proprio ruolo, sia le modalità di regolazione delle relazioni sociali. Perché ciò risulti possibile, è però necessario che la distribuzione dei valori all'interno della opinione pubblica massimizzi nella stessa un senso di insicurezza. Perlomeno per il passato, non è stato questo il caso dei sistemi pluralisti o "consensuali", quale appunto era il sistema politico italiano: anziché sentirsi minacciati dalla crescita del debito pubblico, del clientelismo politico o della stessa pressione fiscale, i vari attori politici e sociali hanno infatti potuto mantenere una ambivalenza rispetto ai diversi problemi, restando in tal modo liberi di esplorare le possibilità legate ad azioni alternative. Raramente la decisione ha assunto dunque un carattere controverso, perché il più delle volte la stessa è emersa come l'esito di una negoziazione tra gruppi o tra individui. Né tantomeno un simile processo si verifica, allorché la distribuzione dei valori assume un carattere "unimodale". Il modello di democrazia sviluppatasi negli Stati Uniti sino alla fine degli anni sessanta, si è ad esempio accompagnato con un tale grado di linearità dei codici decisionali e delle modalità di organizzazione del processo politico, da presupporre un preesistente ed elevato grado di consenso. Sapendo di non dover fronteggiare una opposizione consistente, la presidenza americana ha potuto in questi casi rivolgersi ai cittadini addirittura in forme "teatrali", promuovendo una great society in sintonia con la "filosofia pubblica" di quegli anni, che Beer con grande efficacia ha a suo tempo riassunto in poche parole: "qualunque cosa si dovesse fare, questa doveva comunque essere diretta e largamente governata dal governo federale"13. E' soltanto allorché si configura una distribuzione "bimodale" dei valori, che le decisioni controverse prendono corpo perché, trovandosi gli individui di fronte a problemi che li coinvolgono emotivamente, il senso di minaccia e la percezione dell'insicurezza si massimizzano: "quelli che sostengono l'altro valore - dirà Edelman sviluppando in tal modo una prospettiva già presente nelle analisi di Adorno - diventano dei nemici"14. Decisioni controverse divengono dunque quelle che: vengono presentate come una questione di valori centrali ai fini della convivenza sociale; danno 102 vita ad una distribuzione "bimodale" degli stessi all'interno della opinione pubblica, massimizzandone il senso di insicurezza; e, terza condizione che ora chiariremo, generalmente vengono proposte in nome e a difesa della collettività piuttosto che di singoli gruppi sociali, perché il pericolo diverrà più efficace solo se riguarderà la comunità nel suo insieme, piuttosto che le singole componenti. Prescindendo dai reali contenuti della decisione, la percezione della stessa assume infatti dei caratteri che sono soprattutto simbolici, anche se gli effetti determinati presentano un impatto di tipo materiale. Chiudere al traffico i centri storici, è ad esempio una decisione che ha forti conseguenze economiche su diverse categorie di cittadini: i commercianti, coloro che vi abitano all'interno, coloro che vi si recano a lavorare, coloro che provvedono ai lavori di manutenzione, coloro che utilizzano l'automobile come unico mezzo di trasporto e anche coloro che invece non utilizzano l'automobile. Una decisione del genere non ha nessuna possibilità di essere presa, se non viene preliminarmente definita in termini di minaccia o di valori. Si dovrà sostenere che il centro storico è sull'orlo di un collasso a causa del traffico, oppure che l'inquinamento atmosferico ha raggiunto livelli guardia; a volte, bisognerà addirittura ricorrere ad entrambi gli argomenti nonostante il carattere tutto sommato circoscritto degli interessi coinvolti . Si immagini soltanto, per ora , cosa può succedere allorché si diffonderà la convinzione che sia ormai necessario cambiare le regole che presiedono all'organizzazione dei poteri pubblici. Inevitabilmente il sistema verrà attraversato da profonde tensioni e la domanda di cambiamento cercherà comunque di essere soddisfatta. E non importa nemmeno se la soluzione trovata potrà ben presto rivelarsi causa di nuovi problemi. Ciò che infatti conterà al momento, sarà solo la possibilità di trovare un punto di accordo che riduca la tensione. Al resto, invece, si penserà dopo. In tutti questi casi, l'impostazione del problema potrà naturalmente essere molteplice, purché non si percepisca mai che la posta in gioco soddisfa solo interessi di parte o comunque implica valori non necessariamente rilevanti per l'opinione pubblica. In un sistema a basso rendimento istituzionale come quello italiano, se il conflitto si sposta infatti dai valori agli interessi, generalmente si produce 103 uno scollamento tra governo e maggioranza parlamentare innanzitutto, con evidenti benefici per l'opposizione; secondariamente, le leadership politiche intese nel loro insieme, rischiano di accentuare il loro isolamento nei confronti del sistema sociale. Per queste ragioni i vari provvedimenti verranno perciò giustificati sempre in nome di un interesse generale. Nel '92 il parlamento doveva approvare le leggi delega del governo Amato, perché altrimenti si sarebbe aperta una crisi economica e sociale di grande portata. I sindacati dovevano a loro volta accettare la sostanza della manovra economica, perché altrimenti la sconfitta del governo avrebbe portato ad una crisi politica al buio. E così accadrà anche ad alcune decisioni del governo Ciampi. L'interpretazione che generalmente tende ad essere proposta per spiegare questo genere di processi, il più delle volte pecca per eccessiva unilateralità. La connessione troppo stretta che Edelman ad esempio stabilisce tra gli esiti pratici di una decisione politica e i suoi significati simbolici, tradisce una visione poco elaborata dei sistemi contemporanei: secondo Edelman, i simboli servirebbero infatti alle elités soprattutto per garantirsi una "acquiescenza" delle masse, a fronte di una distribuzione iniqua delle risorse materiali. In realtà la decisione politica non è mai soltanto una scelta pratica ma anche - e soprattutto - un processo simbolico di interpretazione, la cui importanza trova peraltro una conferma nel tempo che allo stesso è dedicato da coloro che svolgono professionalmente il ruolo dei decisori: attraverso questi processi gli aspetti rituali degli eventi politici contribuiscono infatti a rendere gli stessi naturali, non perché questi possono "essere considerati desiderabili o piacevoli", ma perché ciò che è accaduto viene "ricondotto ai modi legittimi in cui avvengono le cose"15. Gli esperti confermano che quella scelta è giusta; i sondaggi assicurano che ha il consenso della opinione pubblica; il confronto con quanto è accaduto in altri paesi dimostra che vi sono dei precedenti significativi e la decisione, alla fine, risulta legittima. La predominanza degli aspetti simbolici sulle conseguenze pratiche della decisione politica, permette inoltre alle istituzioni di ridefinire i confini del proprio ruolo nei confronti del sistema sociale. Specifico delle decisioni controverse è proprio il fatto che 104 queste stabiliscono la legittimità o meno di quei poteri che le istituzioni e i governi intendono esercitare, smentendo in tal modo la tesi di quanti sostengono che le istituzioni decidano solo allorché possono imporre provvedimenti di tipo popolare. Che le conseguenze pratiche della decisione possano essere "distributive", "redistributive" o "regolative"16, diventa in questi casi assolutamente meno importante della valutazione che l'opinione pubblica sviluppa intorno alla necessità di intervenire o meno sui diritti politici o sociali degli individui. Negli anni cinquanta sarebbe stato impossibile immaginare del resto che - nel successivo ventennio - il governo avrebbe realizzato un ampio consenso, avviando ad esempio una politica a favore dei diritti civili; approvando un sistema sanitario su base nazionale, stabilendo delle misure a sostegno della disoccupazione; finanziando i partiti politici con fondi pubblici o, anche, regolando attraverso un apposito statuto i diritti dei lavoratori. Anche negli anni settanta sarebbe stato impossibile prevedere che nel decennio successivo la tutela di alcuni interessi sarebbe stata lasciata ad associazioni volontarie di cittadini nate intorno a valori comunitari e perciò considerate più efficaci nella difesa di fasce sociali particolarmente deboli della popolazione come i poveri, gli handicappati, i drogati, gli ex detenuti o gli stessi inquilini che oggi si fanno assistere dalle loro associazioni nella stipula dei contratti di locazione. Ancora pochi mesi prima della costituzione del governo Ciampi, nessuno avrebbe scommesso infine sulla eventualità che l'esecutivo, abbonando la neutralità scelta dal procedente governo, avrebbe garantito la rapida approvazione da parte del parlamento di una legge elettorale intorno alla quale in realtà si discuteva da anni. Né, al momento, sappiamo con certezza cosa ci riservi il futuro! Le "decisioni controverse" permettono insomma alle istituzioni di ridefinire i confini del proprio ruolo, in funzione dei nuovi scenari sociali. Sarebbe sbagliato ricostruire questi cambiamenti come il risultato di processi che sono soltanto istituzionali o come soluzioni che realizzano il massimo punto di equilibrio rispetto ai conflitti di interesse presenti tra gli attori sociali. Al contrario, questi cambiamenti generalmente seguono ad eventi critici di grande 105 portata. E' stato ad esempio necessario un plebiscito referendario a favore di una nuova legge elettorale (1993) , per ottenere dal parlamento la approvazione di un sistema tendenzialmente maggioritario. Ed è il richiamo ai "valori" che generalmente dà vita ad alternative del tipo "tutto o niente" (all-or-nothing issues"17), perché decidere in questi casi diventa una "questione di principio" la quale coinvolge sia coloro che decidono, sia coloro che sono in attesa della decisione. In questi ultimi anni, peraltro, tutto ciò si è verificato puntualmente in una tale varietà di situazioni, da includere in una ipotetica elencazione non soltanto vicende con un forte impatto simbolico come quelle che riguardano le tossicodipendenze, la detenzione carceraria o la regolazione dei processi di immigrazione. Al contrario, a partire da tutte le questioni relative alla finanza pubblica che annualmente si sono addensate nella decisione di bilancio, sino alla più recente presentazione di leggi delega da parte del governo (1992), le decisioni sono normalmente state assunte sempre grazie ad una forte pressione esercitata sulla - o anche dalla - opinione pubblica ora in nome di nuovi valori, ora in nome della stessa insicurezza sociale di volta in volta sollevata. Chi coinvolge l'opinione pubblica, insomma, lo fa perché poi vuole decidere e viceversa: se l'opinione pubblica si attiva autonomamente, vuol dire invece che c'è bisogno di prender decisioni. Nonostante la crescente importanza di questo tipo di comunicazione, va detto che - perlomeno in Italia - gli osservatori hanno sinora guardato soprattutto ai processi maturati nei partiti e tra i partiti, mentre secondaria è sempre stata considerata l'interazione da tempo operante tra l'insieme del sistema sociale e le istituzioni in quanto tali. Marletti - che pure è tra i pochi ad esser pienamente consapevole della possibilità di strategie che fanno leva "su aspetti emotivi profondi18" - comunque giudica negativamente questo tipo di dinamiche, perché le spaccature culturali "non si possono prendere alla leggera". Ma che piaccia o meno ormai poco importa, perché queste spaccature in realtà esistono. Già a partire dagli anni ottanta ha infatti preso piede anche nel sistema politico italiano un modello di comunicazione che, quando ha proposto dei temi all'opi- 106 nione pubblica, ha permesso agli stessi di assumere il carattere proprio degli issues di tipo anglosassone. Ogni volta che la distanza tra gli attori politici su un tema è sembrata troppo elevata, immediato è risultato inoltre il ricorso all'opinione pubblica, ora nelle forme istituzionalmente previste dal referendum popolare, ora attraverso vere e proprie campagne di persuasione, destinate a coinvolgere i cittadini nel processo decisionale. Ciò si è verificato nel 1981 con i vari referendum sull'aborto, sulla abolizione dell'ergastolo, sulla abrogazione della cosiddetta legge Cossiga, ecc; è continuato nel 1987 con i referendum sul nucleare o sulla responsabilità dei giudici; si è riproposto nel 1991 con il referendum sull'abolizione della preferenza unica e, per finire, ha raggiunto il suo apice nel 1993, allorché l'evidente impotenza delle istituzioni ha permesso che la stessa legge elettorale venisse nei fatti decisa attraverso i referendum. Quando invece non si è fatto ricorso a questi ultimi, si sono comunque avviate vere e proprie campagne popolari le quali hanno naturalmente avuto esiti e origini diverse, riguardando di volta in volta la riforma della legge sulle tossicodipendenze, la modifica della legge Gozzini sulle misure alternative della detenzione o, per fare ancora esempio, la campagna per la riforma del servizio pubblico televisivo. Che questo tipo di comunicazione abbia assunto spesso degli indesiderati caratteri manipolatori, al cui interno la soluzione ipotizzata è stata il più delle volte individuata soprattutto in funzione delle sue capacità di attrazione, non dovrebbe a questo punto meravigliare. A volte la comunicazione è risultata manipolata perché il suo oggetto non era tanto il tema che veniva affrontato, quanto le emozioni che la mancata soluzione di quest'ultimo eventualmente sollevavano all'interno della opinione pubblica. La crescita dell'inflazione negli anni '70; la diffusione incontrollata della droga, negli anni '80; il rischio evocato dal governo Amato di essere "sull'orlo dell'abisso", sono così diventati un "oggetto simbolico" nei cui confronti i ceti medi hanno di volta in volta indirizzato le proprie insicurezze, fossero queste di tipo culturale o legate a problemi di status. 107 Su un impianto del genere di quello sinora ricostruito si è infine innestata l'involuzione indotta della crisi del sistema dei partiti e dal mutamento dei suoi processi di regolazione sociale. Trasformatesi le reti di appartenenza politica in circuiti clientelari basati su una "fiducia personale", il ruolo delle leadership ha naturalmente acquistato un maggior rilievo. La comunicazione "orizzontale"19 tra i partiti è stata perciò sempre più spesso sostituita dai nuovi modelli di comunicazione "verticale" con l'opinione pubblica, capaci di far impallidire nel ricordo un intera schiera di leader 'popolari' di seconda generazione, da Pannella a Berlinguer, da De Michelis a Craxi. Oggi poi, siamo già oltre il modello classico di costruzione dell'immaginario, quello basato sui partiti di massa, perché leader come Segni, Orlando, Bossi o Berlusconi, legano generalmente la propria immagine politica a singoli temi o problemi, piuttosto che a questioni di ordine generale. Si è consumato in tal modo il paradosso di un sistema politico che, pur assicurando ai partiti una elevata centralità, ha dato vita a nuovi modelli di comunicazione, prima ancora che si stabilizzassero quelli che nelle altre democrazie occidentali vengono considerati i corrispondenti prerequisiti istituzionali. La issue politics negli Stati Uniti si è infatti sviluppata grazie ad un assetto che ha reso l'esecutivo responsabile di fronte all'opinione pubblica. In Italia, invece, il ricorso all'allarme sociale è stato sinora utilizzato a mani basse da attori nascenti o da politici consumati, obbligati a compensare attraverso la creazione di occasionali maggioranze morali, le carenze decisionali del sistema istituzionale. Si sono determinati perciò degli inevitabili scompensi perché ciò che il processo decisionale ha acquistato in termini di consenso, non sempre è stato riequilibrato dalla instabilità che i confini assunti dalla comunicazione hanno introdotto nelle relazioni politiche. Ricorrendo a forme di sostegno "popolare" che si coagulano intorno a nuovi valori, le istituzioni da tempo registravano perciò al loro interno elementi di discontinuità che in alcuni casi hanno assecondato, mentre in altri hanno ostacolato, la regolarità dei rispettivi processi decisionali. 2. gli indicatori di processo 108 Le tipologie che descrivono i diversi processi decisionali sono ormai molto sofisticate, ma ai fini della nostra analisi poche distinzioni sono in realtà sufficienti per esaminare più dettagliatamente il processo delle "decisioni controverse". Sappiamo infatti che, perlomeno nella trattazione delle grandi questioni nazionali, la stagione delle "decisioni incrementali" basate su un continuo 20 bargaining tra gli attori politici è ormai tramontata. Incalzate dai processi di crisi e dalla necessità di avviare nuove forme di regolazione, le istituzioni non sempre possono infatti rifugiarsi nella soluzione offerta dalla "non decisione". In questi casi le questioni vengono generalmente presentate in termini "radicali", perché è solo in tal modo che i conflitti esistenti riescono ad essere superati. Naturalmente l'intero processo si configura meno costoso in termini politici se riguarda minoranze piuttosto che larghi gruppi sociali, o diritti piuttosto che beni economici. In tutti i casi la scelta diventa quella di integrare proponendo dei nuovi valori, laddove sino a ieri sembrava invece sufficiente aggregare combinando tra loro i diversi interessi. E' il momento delle decisioni controverse che perciò, perlomeno sul piano simbolico, generalmente si presentano anche come "decisioni radicali" . Lo scenario al cui interno queste ultime emergono, si caratterizza peraltro in maniera duplice. Esistono infatti tanto dei potenziali decisori alla ricerca di problemi, quanto problemi che a loro volta cercano invano dei decisori. L'influenza che il decisionismo di Craxi ha esercitato sulla approvazione di una nuova legislazione sulla droga (L. 162/90), riassume bene il primo caso. Un esempio del secondo tipo può essere invece ritrovato nelle crescente importanza assunta dai problemi istituzionali, che alla fine troveranno una loro sia pur parziale soluzione grazie alla decisione legislativa che riguarderà la riforma del sistema elettorale (agosto '93) . Chi ha delle soluzioni, deve insomma trovare l'occasione o il tema per poterle applicare: è ciò che è accaduto con la legge sulla droga, fortemente voluta da Craxi e non a caso divenuta poi il simbolo di un "altro" modo di governare. Così come i problemi non possono sempre essere rinviati, ma debbono prima o poi trovare un loro decisore: è il caso della legge elettorale, grazie alla quale il 109 parlamento accoglierà in larga misura le indicazioni a favore del maggioritario espresse dagli elettori. Entrambe le decisioni presentano inoltre dei caratteri comuni perché - andando oltre la evidente distanza tematica - sono state assunte solo attraverso un processo decisionale del genere di quello che abbiamo sinora indicato. In primo luogo, i due temi rientrano tra i casi per i quali il regolamento della Camera - anche dopo le tassative restrizioni introdotte a partire dal 1988 - prevede che la votazione avvenga ancora oggi a scrutinio segreto. L'esistenza di questa comune fattispecie regolamentare si spiega con il fatto che vengono messe in discussione questioni di coscienza, come quelle che investono l'introduzione del trattamento sanitario obbligatorio o il procedimento elettorale. Naturalmente si possono manifestare delle decisioni controverse che coinvolgono valori, anche al di fuori delle specifiche previsioni regolamentari. Nei due casi in esame, significativo si è rivelato però l'esplicito riconoscimento della centralità dei "valori" da parte dello stesso processo istituzionale, che perciò ne subordinerà la regolazione alla possibilità di adottare 21 particolari procedure decisionali . Importante è inoltre il fatto che entrambi le decisioni siano state approvate ora su iniziativa del governo, ora in seguito ad una sua chiara assunzione di responsabilità politica . Attraverso la proposta di un proprio disegno di legge nel caso delle tossicodipendenze; e con un esplicito richiamo fatto da Ciampi in sede programmatica nel caso della legge elettorale, il governo ha infatti operato come custode di quei principi sociali che si intendevano riaffermare. In terzo luogo, gran parte della discussione che si è avviata durante l'iter legislativo, ruoterà intorno all'esigenza di allontanare dalla collettività un "danno sociale" potenziale. Quello prodotto dal diffondersi di comportamenti individuali non sanzionati penalmente (la "libertà di drogarsi") nel caso delle tossicodipendenze; oppure, quello indotto dal diffondersi all'interno del sistema politico di un senso di instabilità, dall'opinione pubblica generalmente imputato al carattere rigidamente proporzionale del nostro sistema elettorale. Da ciò l'affermazione del divieto di drogarsi nel caso delle tossicodipendenze; oppure l'esistenza di un consenso politico diffuso sull'opportunità di non superare il limite del venticinque per cento 110 nella quota di seggi che - con l'approvazione della legge elettoraleavrebbero potuto essere assegnati attraverso il sistema proporzionale. In quarto luogo, entrambe queste decisioni risultano controverse perché il riferimento pregiudiziale ai valori si è incrociato con un processo di radicalizzazione politica, che ha messo capo ad iniziative referendarie ora a valle (tossicodipendenze), ora a monte (sistema elettorale) della decisione legislativa. Le stesse questioni avrebbero potuto naturalmente esser affrontate con modalità meno drammatiche, come del resto dimostra l'esperienza di altri paesi, ma questa è un tipo di scelta che normalmente discende dalle modalità che le istituzioni privilegiano per definire un problema. Nel caso delle tossicodipendenze la drammatizzazione ad esempio è nata dalla decisione assunta da un leader politico, Craxi, la quale ha coinciso con un più profondo orientamento della opinione pubblica, prima di allora mantenuto in uno stato di latenza; nel caso della legge elettorale, l'impostazione del problema in termini controversi e cioè come un valore da affermare, si è generalizzato grazie all'azione del movimento referendario, imponendosi alla fine nei confronti dell'intero sistema politico. La centralità che assume il rapporto con l'opinione pubblica chiarisce inoltre una significativa caratteristica delle decisioni controverse e cioè il loro carattere fortemente simbolico. Naturalmente queste decisioni hanno anche dei costi sia diretti che indiretti, come potrebbero del resto facilmente documentare tanto i tossicodipendenti, quanto alcune fasce dell'elettorato e del sistema politico. Il richiamo simbolico esercita però una funzione di orientamento agli occhi dell'opinione pubblica, ribadendo in tal modo la legittimità e la naturalità degli stessi costi che discendono dalle scelte effettuate. La decisione, in altri termini, presenta due diversi livelli: il primo è dato dai valori che si intende difendere, il secondo riguarda invece le conseguenze ne derivano. Controverse sono naturalmente soltanto le scelte che si riferiscono al primo livello perché le conseguenze, come vedremo, risulteranno invece in buona misura obbligate. La prospettiva offerta da quelle che abbiamo definito come decisioni controverse non va comunque considerata un "modello", 111 perché è priva di quei requisiti istituzionali che soli ne potrebbero permettere una stabilizzazione. Piuttosto, questa prende le forme di un processo al quale le istituzioni ricorrono, soprattutto allorché entra in crisi la vecchia trama su cui è stata tessuta la "forma" della decisione politica. Anziché esser rappresentata, l'opinione pubblica diventa un attore tra gli altri che partecipano al processo, assicurando attraverso la sua presenza quell'unità sociologica e non più costituzionale del sistema, al cui interno stazionano i problemi in attesa di decisione. Alcuni esempi. Durante l'iter di approvazione della legge sulla droga, il parlamento sarà tenuto sotto pressione ora attraverso la minaccia del ricorso al referendum, ora in nome di preesistenti "patti di governo" assunti al riguardo dalle forze politiche. Nel caso della legge elettorale invece, l'originario impegno assunto dal governo Ciampi si rivelerà sufficiente a rassicurare l'opinione pubblica, ma non basterà ad evitare alcune resistenze che si manifesteranno soprattutto attraverso le ripetute letture, alle quali il provvedimento verrà sottoposto dai due rami del parlamento. Naturalmente questa dinamiche hanno sinora preso corpo anche in contesti diversi dai casi che esamineremo, perché quello di essere controverso non è un carattere specifico dei problemi che di volta in volta si affrontano, bensì la conseguenza del modo in cui gli stessi vengono definiti. In larga misura, più o meno controverse risulteranno del resto anche gran parte delle decisioni radicali approvate nell'ultimo decennio, dalla regolamentazione del voto segreto a quella della sistema televisivo. Abbandonato il modello 22 "causale" che assicurava uno sviluppo delle soluzioni a partire dai problemi ai quali le stesse dovevano essere applicate, le istituzioni riveleranno perciò il diffondersi di una logica "casuale": le decisioni si prenderanno soltanto perché in un determinato momento si manifesterà una presenza contestuale di soluzioni, problemi e attori disponibili, come del resto confermano le vicende che adesso esamineremo. 3. decisori alla ricerca di problemi 112 Secondo alcuni osservatori23 il concetto di opinione pubblica è oggi diventato talmente labile, da render discutibile la stessa possibilità di una sua sistematica utilizzazione. Tanto l'esistenza di opinioni, quanto l'interesse del sistema politico verso di esse, non sempre si rivelano infatti necessari per definire i criteri della azione. Poiché solo alcuni temi meritano un interesse tale da giustificare la fatica della partecipazione e dell'informazione, le istituzioni non dovranno perciò mettere necessariamente "tutti d'accordo", prima di arrivare ad una decisione. Solo in sistemi sociali molto semplici e di breve durata, si potrebbe del resto "immaginare che coloro che agiscono siano contrapposti ad un gruppo unitario di soggetti che attendono il loro comportamento"24. Nei sistemi complessi invece, e purché il "terzo" non nutra particolari aspettative, ci potranno anche essere delle opinioni diverse, senza che perciò il processo decisionale ne debba in ogni caso tenere conto. L'eventualità che non tutte le opinioni siano importanti, resta comunque legata alla capacità del tema di selezionarne alcune e farne passare altre in secondo piano, realizzando in tal modo quel mix di indifferenza e partecipazione che generalmente assicura alle istituzioni la possibilità di assumere delle decisioni complesse. Queste premesse decisionali vengono però meno se il tema non mostra una sua capacità di "diminuire l'insicurezza" o di "fornire strutture" accettabili per il sistema sociale. E' ciò che accadrà nella decisione sulle tossicodipendenze, durante la quale l'originaria "indifferenza" del terzo si trasformerà infatti in un interesse attivo non tanto per il contenuto in senso stretto delle possibili soluzioni, quanto per le conseguenze sia pure indirette che da esse potranno derivare. Non è facile individuare delle regolarità all'interno di processi che tali in realtà non sono. Anche una semplice analisi delle notizie date dalla stampa sul 'pianeta droga' nel periodo che va da un anno prima dell'avvio dell'iter legislativo a un anno dopo la sua conclusione (gennaio 1988 - giugno 1991), ci aiuta però a capire le ragioni che hanno in questo caso favorito l'emergere di una opinione pubblica, sia pure indirettamente interessata al problema. Nel caso della regolazione delle tossicodipendenze l'attenzione della stampa era naturalmente preesistente, perché c'erano già fondate ragioni che 113 giustificavano il diffondersi dell'allarme sociale all'interno dell'opinione pubblica. Il vero punto di svolta maturerà però nel momento in cui l'Onorevole Craxi, ritornando da un viaggio negli Stati Uniti (ottobre 1988), affermerà la necessità di dichiarare "guerra alla droga" attraverso la previsione di pene più severe per i consumatori e addirittura dell'ergastolo, che poi verrà smentito, per gli spacciatori (graf. 1)25. Questa impostazione determinerà infatti un cambiamento radicale nella tradizionale definizione del problema. Delineata una diversa soluzione la quale esplicitamente prevede che il tossicodipendente debba essere considerato colpevole, Craxi dovrà perciò individuare anche nuove strade attraverso le quali imporla alle istituzioni che decidono e cioè governo e parlamento. GRAFICO 1 Distribuzione mensile dei pezzi giornalistici pubblicati sul tema droga 250 200 150 100 50 mar.91 magg.91 genn.91 sett.90 nov.90 lug.90 magg.90 mar.90 genn.90 nov.89 sett.89 lug.89 mar.89 magg.89 nov.88 genn.89 sett.88 lug.88 magg.88 mar.88 genn.88 0 periodo dell'iter legislativo Il processo decisionale è un labirinto al cui interno non è facile orientarsi, ma l'iter della legge sulle tossicodipendenze rappresenta un caso particolarmente significativo per capire cosa succede allorché: a) non esiste un accordo tra i diversi attori politici su come definire il problema in esame; b) la maggioranza è divisa non solo dalle opposizioni, ma anche al suo interno, determinando perciò una divaricazione di indirizzo tra governo e parlamento; c) un attore politico, in questo caso il Psi, fa esplicito riferimento all'opinione pubblica, per esercitare una pressione sull'esecutivo, subordinandone la stabilità alla approvazione della legge. Per 114 arrivare ad una decisione-soluzione, tutta la discussione subirà perciò una torsione in termini di 'valori' e l'approvazione finale del provvedimento avrà innanzitutto un significato politico e anche simbolico, mentre non mancheranno di manifestarsi in seguito pesanti conseguenze negative, quantomeno sul piano della effettiva 26 governabilità del problema in esame . Le differenze esistenti tra le forze politiche riguardo al modo in cui intendono affrontare la questione delle tossicodipendenze, emergono infatti già all'avvio della discussione parlamentare, allorché le diverse proposte vengono messe all'ordine del giorno. Mentre il progetto governativo parlava di "aggiornamento, modifica e integrazione della Legge 22 dicembre 1975", i comunisti presenteranno un primo disegno di legge "contro il traffico di stupefacenti" e un secondo "per la prevenzione delle tossicodipendenze e dell'alcolismo", che dunque ampliava l'orizzonte di intervento legislativo, inizialmente circoscritto alla assunzione di sostanze illegali e oppiacei. A loro volte le altre minoranze presenteranno dei disegni di legge "contro il mercato nero e per il rispetto dei diritti dei cittadini tossicodipendenti" nel caso dei demoproletari, o a favore della "legalizzazione della cannabis indica" nel caso dei radicali. La Democrazia cristiana, che sin dal 1980 aveva elaborato una propria posizione originale, presenterà infine un disegno di legge ben articolato per "una nuova disciplina di prevenzione, riabilitazione e recupero dei tossicodipendenti", che all'articolo finale prevede addirittura la completa abrogazione della Legge 685/75. E' chiaro dunque che, volendo ad ogni costo "ridefinire" sia il problema , sia la sua regolazione , il governo si troverà sin dall'inizio in rotta di collisione totale non solo con l'opposizione, ma anche con diverse componenti della maggioranza e, soprattutto, con la Democrazia cristiana. Per ottenerne la approvazione, alla fine Craxi dovrà perciò trasformare la legge in discussione, in un vero e proprio "banco di prova" della stessa esistenza di una maggioranza. Ottenuta la corsia preferenziale per l'avvio dell'iter al Senato, inizieranno dunque le pressioni all'interno e all'esterno del Partito socialista. Craxi convocherà il suo gruppo per decidere la strategia e i tempi dell'iter, escludendo in tal modo qualunque possibilità di 115 dissenso. All'esterno invece, partiranno le richieste nei confronti della Democrazia cristiana affinché ritiri il proprio disegno di legge, perché in contrasto "con le scelte del progetto governativo su aspetti 27 non certamente secondari" . Generalmente, nello svolgimento del processo legislativo il parlamento tende a dividersi pubblicamente, mentre in segreto crea le premesse per i successivi accordi politici; l'opposto, insomma, di ciò che accade al governo il quale, di solito, appare unito agli occhi della opinione pubblica, anche se poi è profondamente diviso al suo interno. In questa prospettiva, la fase più significativa del processo legislativo diventa quella dei lavori del "comitato ristretto" composto da membri designati dai vari gruppi parlamentari. Nel "comitato ristretto" si media, si scambia, si assumono impegni, ci si vede lavorando sul testo che dovrà poi tornare in commissione per l'approvazione e la successiva trasmissione all'Assemblea e tutto ciò avviene al di fuori di ogni verbalizzazione, perché questa non è prevista dai regolamenti. Sarà dunque in questa sede che diverrà chiaro come il dissenso sul testo del governo non riguardi soltanto la Dc, ma anche altre forze della maggioranza. Disapprovando tutto ciò duramente, i socialisti incominceranno perciò a ripetere in ogni occasione che "il Senato lavora male", perché la discussione va troppo per le lunghe. La chiave che spiega la forte pressione sul governo, sarà comunque legata alla convinzione di sostenere una causa che può contare su un largo consenso all'interno della opinione pubblica e che invece trova delle forti resistenze nel Palazzo. Poiché "la gente è con noi" dirà l'onorevole Andò, ci aspettiamo che "dalla opinione pubblica debba venire un forte sostegno, soprattutto a fronte di manovre sempre più scoperte come quelle della Dc, che con una mano porta avanti al Senato la proposta del governo e con l'altra propone testi di legge 28 dai principi e dai contenuti antitetici." Puntualmente, l'argomento dell'urgenza si sposerà inoltre con la minaccia esplicita di una richiesta di referendum abrogativo della Legge 685/1975, dietro la quale si raccoglie quella che spregiativamente viene chiamata "l'associazione degli amici della modica quantità". Ancora una volta dunque - e non sarà l'ultima cosi, come i socialisti non saranno i soli a percorrerla - ci si illuderà 116 di poter assicurare una migliore governabilità, incamminandosi sulla strada della democrazia referendaria . Confrontate con le risibili alternative sulle quali si è discusso in Italia per più due anni, giocherellando tra proibizionismo e antiproibizionismo o tra punibilità o meno del tossicodipendente, le dimensioni assunte nel frattempo dal problema, lasciano comunque senza fiato per la loro tragicità. Grazie all'attualità assunta attraverso la vicenda legislativa, la contabilità delle vittime diventa prima semestrale, poi mensile, sino ad anticipare la portata degli stessi eventi, attraverso una accurata previsione dei trend della morte. Nel giugno '89 sono "già 408 i morti per droga"; diventano 599 a settembre e circa 1000 a dicembre, poco prima che inizi cioè la discussione parlamentare. In realtà il testo di legge sul quale ci si dividerà, sfiora appena i termini sociali del problema che pretende di regolare, per una ragione di fondo che è sostanziale. La scelta dei socialisti di imporre attraverso il governo una decisione popolare, aveva infatti - come vedremo - innanzitutto delle motivazioni politiche che, solo secondariamente, avrebbero poi determinato anche delle conseguenze operative. Nel mese di maggio il Comitato concluderà comunque i propri lavori, modificando il testo di legge attraverso l'introduzione di una fascia intermedia di sanzioni per coloro che si rendono responsabili di spaccio di lieve entità e sostituendo il concetto di "dose media giornaliera" con quello di "uso personale", la cui determinazione dovrà essere affidata al giudice attraverso una serie di criteri probatori. Importanti nodi resteranno però ancora da sciogliere, per ottenere il necessario consenso su quello che appare come il punto centrale della ridefinizione del problema: la "punibilità" penale del tossicodipendente. Come conseguenza di una impostazione che non trova dei reali punti di accordo, si incomincerà dunque a parlare esplicitamente del rapporto esistente tra il "patto" stretto a livello di governo e il tipo di soluzioni previste nella legge sulla droga. Lo dirà apertamente Goria: "mi sembra ci sia un patto politico che costringe a fare una legge comunque". Anche chi non è d'accordo su questa interpretazione radicale, comunque ammetterà che ci sia stato un "eccesso" di politicizzazione nel dibattito sulla legge : "basti 117 pensare che mentre il parlamento si stava predisponendo con un largo accordo ad abolire l'ergastolo, lo stesso rischiava - dirà il senatore Toth (Dc) - di essere introdotto per un reato che non lo prevedeva". Altrettanto chiaro il giudizio del senatore Cabras. La Dc aveva ripresentato all'inizio della decima legislatura una proposta di depenalizzazione del tossicodipendente e a sostegno della modica quantità:"poi c'è stato il cambiamento nonostante non vi sia stata discussione... e la maggioranza abbia deciso la difesa 29 della legge per necessità politiche" . Una "legge di scambio" dunque, che trova molte contrarietà per quello che a Cabras sembrerà un motivo di fondo:" la difesa dei diritti umani". Il problema è comunque talmente sentito, che ben presto inizieranno anche le manifestazioni di massa. A Roma il "Movimento unitario dei volontari per la lotta alla droga" (Muvlad) presieduto da don Gelmini e da Muccioli, il 5 novembre sfilerà per la città diretto a Piazza San Pietro. Dietro a un grande cartello sul quale è scritto "drogarsi è illecito", ci sarà il ministro Russo Jervolino, il sottosegretario alla Sanità Maria Pia Garavaglia, sindacalisti come Benvenuto, giuristi, democristiani o liberali come Costa. Due settimane dopo, l'altra parte del paese verrà chiamata a raccolta dalle forze politiche di opposizione e dal Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza di Don Ciotti: il corteo si snoderà di nuovo attraverso il centro della città per raccogliersi questa volta a Piazza Navona, dove verrà letto un appello per il' No" alla legge Vassalli-Jervolino. Il punto di fondo, che anche queste manifestazioni rendono evidente, resta comunque il fatto che la legge divide effettivamente in due il paese, disgregando vecchi legami di solidarietà e aggregandone di nuovi. Il mondo cattolico è spaccato al suo interno, così come la Democrazia cristiana. Il volontariato che prima era unito nel sostegno alle tossicodipendenze, ora si divide sulla questione della punibilità, correndo il serio rischio di farsi colonizzare dalle forze politiche. Lo stesso accade tra gli operatori e, infine, lo stesso accade in Parlamento, dove salta sia qualunque modalità consociativa di presa delle decisioni, sia l'accordo interno alla maggioranza. Per arrivare a una prima stesura del testo legislativo, alla fine risulteranno necessarie venticinque sedute di 118 commissione, quindici riunioni del comitato ristretto e quattordici sedute dell'assemblea. Il conflitto con l'opposizione e la debolezza politica della stessa maggioranza si ripropongono del resto allorché i lavori riprenderanno alla Camera. Quattordici deputati democristiani dichiareranno apertamente il proprio dissenso sul nodo della 'punibilità' di chi si droga. Compattata dall'avvicinarsi delle elezioni amministrative, la maggioranza raccoglierà comunque tutte le proprie modifiche in un maxi-emendamento, ma ciò non basterà ad impedire lo slittamento dell'approvazione. Quando la Camera tornerà a riunirsi, il maxi-emendamento sulla questione della 'punibilità' verrà finalmente approvato con il dissenso di una trentina di franchi tiratori e grazie all'applicazione del nuovo regolamento che, prevedendo il contingentamento dei tempi di intervento, vanificherà la presentazione di 1400 emendamenti. Caduta la tensione precedentemente legata al clima elettorale, il 12 maggio 1991 la legge sarà definitivamente licenziata nella versione finale che di lì ad un mese anche il Senato farà propria, in seconda lettura. Commentando la conclusione di un iter rivelatosi particolarmente difficile, Craxi riproporrà il tradizionale schema di analisi:" ci siamo scontrati nel parlamento e nel paese con opposizioni e resistenze accanite - egli dice, ma - sapevamo di poter contare sul 30 sostegno di una grande maggioranza del paese." Una impostazione del genere, che naturalmente viene formulata in termini così netti soltanto dal Psi mentre risulta ben più sfumata negli altri componenti della maggioranza, in effetti conferma come la discussione intorno alla regolazione delle tossicodipendenze abbia sin dall'inizio avuto delle finalità ben più ampie, che non quelle ricavabili dalla semplice approvazione del provvedimento. Dell'impianto di regolazione inizialmente contenuto nel disegno di legge presentato dal governo, alla fine resterà in piedi soprattutto la "punibilità del tossicodipendente'' che rappresentava il cuore della proposta socialista, contro i cui possibili effetti negativi tanto l'opposizione, quanto il resto della maggioranza avevano inutilmente cercato di sollevare degli argini. Ciò che invece non verrà rimesso in gioco, sarà l'affermazione di un diverso ruolo dello 119 stato nei confronti del tossicodipendente. Importante risultava infatti rassicurare innanzitutto l'opinione pubblica, nel cui nome il Psi aveva nel corso dell'intero iter legislativo esercitato una pressione sul resto del sistema politico. Non a caso il governo terrà perciò fermo nel testo una sorta di preambolo assolutamente irrituale sotto il profilo giuridico, perché più simile ad un comandamento che non a una norma penale:" è 31 vietato l'uso personale di sostanze stupefacenti"(art. 12) . Questa torsione in chiave 'etica' del dispositivo legislativo si spiega con la esplicita volontà del legislatore di esprimere un "giudizio di disvalore" sull'intero processo che viene sottoposto a regolazione. Solo in tal modo si potrà del resto giustificare la rigida difesa del vincolo di maggioranza, su quello che è il vero punto di tensione all'interno della stessa: ossia, la predisposizione di un apparato sanzionatorio di tipo penale nei confronti del tossicodipendente. La pregiudiziale alla quale il governo subordina gli sviluppi di tutto l'iter decisionale, non troverà peraltro confronti con precedenti discussioni del genere, magari assunte in passato. Chi dissente avrà dunque buon gioco nel ricordare come in situazioni altrettanto delicate, quali quelle sull'aborto e sul divorzio, era stata teorizzata la relativa neutralità del governo, appunto per impedire che una delle sue componenti potesse esercitare un potere di interdizione su problemi i quali - dirà Granelli - "per la loro delicatezza, comprensiva di evidenti questioni di coscienza, dovrebbero ammettere una maggiore libertà del parlamento, senza per questo 32 coinvolgere le sorti del governo". Non è una differenza da poco.E rende inoltre chiaro il modo in cui è ormai cambiato il processo decisionale. Il Psi intende infatti consolidare la ristrutturazione del sistema politico avviata a partire dagli anni ottanta, ostacolando quel legame sotterraneo da sempre operante tra mondo cattolico e comunisti. La legge sulla droga rappresenterà l'occasione adatta per rompere la logica della democrazia "consensuale", da ultimo ricomparsa in occasione della discussione alla Camera sul servizio pubblico televisivo, dove la sinistra democristiana aveva votato con le opposizioni e contro il governo (luglio 1990). Su un piano più generale, la legge si rivolgerà inoltre ai cittadini comuni, alle tante 120 persone giustamente spaventate dal crescere della piccola criminalità legata alle tossicodipendenze, lanciando un messaggio semplice e chiaro. A questi cittadini risentiti, il governo cercherà di dimostrare che lo Stato è in grado di tenere sotto il proprio controllo le diverse forme di devianza sociale. Che ciò non si riveli poi vero perché la legge in realtà non offre al tossicodipendente reali alternative a quelle del carcere, è questione che, soprattutto al partito socialista, al momento non interessa. Una volta scelta la strada dell'affermazione dei valori, il vincolo di maggioranza non verrà infatti più toccato dal confronto con la pluralità di posizioni culturali e di interessi sociali espressi nel sistema di rappresentanza parlamentare e l'ingresso dell'opinione pubblica nel processo decisionale renderà l'esito dello stesso sia imprevedibile, sia non necessariamente coerente con le finalità e le ragioni nel cui nome questo è stato avviato. A grandi linee, è questa la stessa dinamica che si manifesterà anche di lì a pochi anni, allorché il parlamento dovrà assumere un'altra decisione controversa, questa volta legata alla riforma del sistema elettorale. Non è che infatti non ci fossero da tempo ragioni che spingevano a questa decisione. Semmai, mancava l'accordo tra gli attori politici che di riforme istituzionali parlavano ormai da più di un decennio, senza per questo riuscire ad arrivare ad alcuna conclusione. A partire dai risultati del referendum sull'abrogazione della preferenza unica (1991), la pressione dell'opinione pubblica crescerà però rapidamente con il passare dei mesi, sinché nel luglio del 1993 si arriverà all'approvazione della legge elettorale. Che il processo attraverso il quale si è giunti a quest'ultima decisione si sia rivelato di tipo controverso nel senso che abbiamo sinora cercato di documentare, non è stato tanto dovuto all'esistenza di un comune indicatore istituzionale come quello rappresentato dal voto segreto, che i regolamenti della Camera prevedono anche nella votazione delle leggi elettorali. Per scelta dei partiti, quest'ultimo non verrà del resto utilizzato durante l'iter di approvazione della nuova legge. Più significativa sarà invece un'altra circostanza: il parlamento arriverà a questa decisione soltanto dietro la pressione dell'opinione pubblica e perché il governo Ciampi farà della stessa l'impegno prioritario del proprio programma. 121 Sia pure con tutte le differenze del caso, che in seguito prenderemo comunque in esame, si riprodurrà perciò l'intreccio tipico delle decisioni controverse tra la razionalità parziale degli attori politici e la logica della democrazia referendaria. Dopo il "voto di liberazione" a favore del cambiamento espresso nel referendum del 1993, all'improvviso diverranno infatti contestualmente disponibili attori, soluzioni e problemi. Abbandonando la logica sequenziale delle grandi riforme, rivelatasi nel passato del tutto inconcludente, la nuova legge elettorale verrà perciò finalmente approvata. 4. le riforme elettorali Gli storici del futuro i quali vorranno ricostruire le vicende che hanno portato all'approvazione delle nuove leggi elettorali, faranno bene a stare in guardia contro due diverse teorie del complotto, che pure hanno in questi anni avuto le loro buone ragioni per diffondersi prima e poi anche per consolidarsi. La prima teoria affonda le sue radici nel realismo di chi ha sempre diffidato del cambiamento e perciò ha visto sia in Tangentopoli, sia nelle riforme elettorali che poi sono seguite, il grimaldello attraverso il quale i più svariati poteri - finanziari, politici, editoriali e anche massonici sono riusciti a scardinare la vecchia e cara democrazia dei partiti. Apertamente e anche polemicamente, questa tesi è stata sostenuta soprattutto da Craxi. A bassa voce ma con non minor convinzione, la stessa è stata però fatta propria anche da tutti coloro che il cambiamento ha danneggiato, ponendo fine a immunità per lungo tempo garantite o anche a carriere appena avviate. La seconda tesi sostiene invece l'opinione opposta. Il complotto sarebbe stato quello delle oligarchie di partito, che per più di quarantanni avrebbero espropriato il paese della sua sovranità popolare, prima che i cittadini riuscissero nuovamente a imporre il cambiamento. E' questa la versione "popolare" che è stata alla base della democrazia referendaria durante gli anni ottanta e anche negli anni novanta, allorché al centro delle consultazioni sono stati posti dei quesiti che riguardavano più direttamente il sistema elettorale. 122 Naturalmente quanti hanno sostenuto con il loro voto il plebiscito del 1993 a favore di una nuova legge elettorale, in realtà non avevano neanche lontanamente l'idea che in parlamento le diverse forze politiche si sarebbero poi divise tra loro in nome dello "scorporo", del "mammozzo", dell'alternanza uomo-donna o anche del voto agli emigrati. Così come chi aveva votato a favore della preferenza unica nel precedente referendum del 1991, non aveva certo in mente di favorire signori delle tessere noti e anche ignoti, come invece poi si verificherà, perlomeno in alcuni casi33. La deliziosa ebbrezza semplificatrice che accompagna le "retoriche" del complotto34 rivelerà dunque i suoi costi, perché l'intero processo di cambiamento risulterà in realtà molto più complicato. Dirà ad esempio Rusconi, che pure ne è stato un sostenitore: "Non è più accettabile che le riforme istituzionali nel nostro paese vadano avanti quasi casualmente, a pezzi, a bocconi e spintoni, senza un disegno complessivo, senza sapere che tipo di repubblica stiamo costruendo".35 Non solo non ci sarebbe stato dunque alcun complotto, ma sarebbe addirittura mancato un vero "progetto politico complessivo", come del resto provano i numerosi tentativi di "riforma della riforma" che sono stati sia pure inutilmente avviati, già all'indomani dell'approvazione della nuova legge elettorale. Ed è questo il vero problema da chiarire, perché la produzione legislativa di "soluzioni a perdere" che ben presto si rivelano inutili, non è nuova e non è nemmeno l'esito di una malvagia disposizione soggettiva delle forze politiche. Le sue cause affondano piuttosto in problemi che, essendo di ordine istituzionale, come tali meritano di essere esaminati. Da lungo tempo il processo decisionale che le istituzioni della prima repubblica sono state in grado di assicurare ha assunto le caratteristiche di un "cestino di rifiuti"36 al cui interno problemi, soluzioni, opportunità di scelta e decisori si sono mescolati tra loro, senza alcun ordine che non fosse quello offerto da un'occasionale coincidenza temporale, tra problemi i quali non potevano essere più rinviati e decisori i quali si rivelavano in quel momento disponibili a scegliere. Abbiamo già visto come la legislazione sulle tossicodipendenze riassuma in maniera significativa le principali modalità di questo processo, che peraltro è stato applicato ormai in 123 una infinità di casi. La legge Gozzini sulle misure alternative alla detenzione carceraria; la riforma del servizio pubblico televisivo; gran parte della legislazione di riforma dello stato sociale, o la stessa legislazione sull'ordinamento delle autonomie locali finalmente approvata nel 1990, sono solo alcuni dei possibili esempi ai quali conviene rivolgersi, per capire anche le vicende che - sia pure attraverso iter diversi - hanno portato anche alla riforma del sistema elettorale. Naturalmente il diffondersi di un decision making a "spazzatura" è in buona misura dipeso da tendenze di crisi che, nel passato decennio, hanno in realtà coinvolto non solo il nostro paese, ma anche gran parte delle democrazie occidentali. E' però rimasta pur sempre una differenza nel rendimento dei diversi sistemi politici, quantomeno in ordine al tipo di controllo che questi ultimi sono riusciti a mantenere su i rispettivi processi decisionali. Né si possono sottovalutare le conseguenze che si sono venute a determinare, allorché sono state poste in discussione questioni di tipo istituzionale, come la stessa riforma elettorale. In questo caso i risultati si sono infatti rivelati ben più gravi, per una ragione ulteriore e specifica. Le decisioni che coinvolgono la vita delle istituzioni presentano infatti un'ulteriore ambiguità costitutiva, perché l'impatto delle innovazioni in questi casi ricadrà non solo su i destinatari ambientali ( "i cittadini"), ma anche su i decisori che le avranno promosse. E' questo del resto il noto "paradosso" delle riforme istituzionali: "sebbene esse abbiano implicazioni di lungo periodo e di grande rilevanza per il sistema politico, sono spesso realizzate -ha detto ad esempio Tarrow - da attori che perseguono interessi e valori contingenti"37. Mentre i decisori continueranno perciò a motivare in pubblico le proprie scelte sulla base delle conseguenze prevedibili nell'ambiente esterno e cioè tra i destinatari della riforma, le schede di preferenza individuali diventeranno invece estremamente indefinite e, a volte, addirittura segrete. Chi ad esempio teme le conseguenze che l'uninominale maggioritario a turno unico potrebbe avere sulla propria elezione, naturalmente non lo dirà apertamente. Piuttosto, in un primo momento ostacolerà questo genere di innovazione, magnificando le qualità del doppio turno; poi appoggerà le 124 proposte dirette a permettere il ballottaggio a più di due candidati e, infine, sarà forse soddisfatto se resterà comunque una quota di seggi, che verranno assegnati con il sistema proporzionale. In questi casi entrano dunque in gioco non soltanto le diverse razionalità degli attori di tipo partitico, ma anche le preferenze individuali e tutto ciò influisce enormemente sia sul processo di tematizzazione, sia sulle decisioni che vengono assunte, sia - a volte - sulla stessa possibilità che alla decisione segua poi una effettiva implementazione. Un esempio? La legislazione sulle aree metropolitane, che maturerà nel 1990 all'interno di una più ampia negoziazione relativa alla riforma delle autonomie locali, ma la cui realizzazione verrà subito dopo bloccata, nel timore di imprevedibili effetti indiretti sui processi di selezione della classe politica locale. Anche nel caso dell'introduzione del sistema maggioritario, il nodo intorno al quale ruotano le decisioni di riforma istituzionale, si rivelerà dunque lo stesso di sempre. Se il referendum ha per un verso confermato l'esistenza di una domanda ambientale di efficienza, per l'altro questa non potrà venire però soddisfatta senza che nello stesso tempo venga avviata anche una redistribuzione di poteri e di opportunità tra gli attori politici e istituzionali. Tutti invocheranno perciò la riforma, senza riuscire tuttavia a deciderla. Come accade nelle navigazioni a vela, l'iter di approvazione del sistema maggioritario sarà dunque interamente costellato da bordi, virate improvvise, traiettorie inseguite attraverso la somma di singoli segmenti e così via. Già nel nostro sistema politico erano del resto risultate controverse numerose decisioni di importanza minore, che tuttavia venivano necessariamente presentate come tali, perché solo in tal modo le stesse riuscivano ad essere inserite nella agenda legislativa. Non ci vuole molta fantasia per immaginare cosa accadrà nella XI legislatura, allorché il parlamento "dovrà" approvare la legge di riforma elettorale con tempi e modalità che lo stesso governo Ciampi si vedrà consigliare per iscritto dal Capo dello Stato, sia pure in nome della volontà popolare. Ma non era l'italia una repubblica parlamentare? Certo che lo era e lo è anche tuttora, perché la costituzione assegna al Capo dello Stato dei poteri ben circoscritti. Rendendolo politicamente non 125 "responsabile", la costituzione assimila inoltre questo organo ad una sorta di suprema magistratura, che raccoglie e coordina le volontà degli altri poteri. Cosa succede però allorché il parlamento non si rivela capace né di esprimere una sua maggioranza politica, né di indicare il Presidente del Consiglio, né di definire un programma? Succede quello che si è visto e cioè che il Capo dello Stato formi un "suo" governo, ponendo il parlamento nella alternativa di prendere o lasciare, sotto la minaccia dello scioglimento anticipato della legislatura. Mettendo in gioco il suo prestigio personale, Scalfaro ha difeso in tal modo la "barca" delle istituzioni repubblicane, dalle ondate rabbiose che molte forze politiche non hanno mancato di sollevargli intorno. Ma almeno ci fosse stata più misura nel continuo richiamo alla volontà popolare. Ed invece la retorica delle istituzioni ha proceduto di pari passo con quella della realpolitik.. Che cosa ha detto ad esempio Ciampi, il giorno dopo l'approvazione della legge elettorale? Niente altro se non ciò che tutti si aspettavano venisse detto dal Capo del Governo, ma ciò che il Capo del Governo ha detto è anche un tipo di retorica che oggi non si vorrebbe più sentire. "L' approvazione delle nuove leggi è una manifestazione della vitalità e della solidità delle istituzioni repubblicane. E' infatti ancora una volta confermato che il paese, sotto la guida del Capo dello Stato, ha la capacità di rinnovarsi profondamente con la semplice applicazione delle vigenti regole costituzionali e parlamentari, senza procedure straordinarie, né forzature istituzionali". Come no! Le istituzioni hanno in effetti retto bene, anche perché quasi niente si è più appoggiato su di esse e tutto si è invece realizzato nel nome di scelte, pressioni e soluzioni che di istituzionale ormai avevano soltanto il nome, ma non la logica operativa. Basti pensare al modo in cui si è arrivati alle modifiche dei sistemi elettorali comunali e nazionali. La prima delle due riforme, quella che porterà alla elezione diretta del sindaco, è infatti nata solo perché la XI legislatura ha ritenuto di doverla utilizzare come banco di prova della successiva riforma nazionale. "La leve non la puoi scegliere tu, la sceglie la storia. Ed è avvenuto - dirà forse con troppa enfasi il Presidente del Consiglio Amato - che la leva è l'elezione diretta del sindaco". Audacia senza pari della storia! Solo nel giugno del 1990 il 126 parlamento era intervenuto attraverso l'approvazione della legge 142 sulla funzionalità dei sistemi di governo locale. Ora questi ultimi saranno però stravolti nuovamente, per permettere alla classe politica nazionale di sperimentare gli effetti indotti dalle nuove modalità di rilegittimazione. E quale importanza potrà avere il fatto che, in attuazione della "142", sono appena stati varati i vari statuti comunali e sono ancora in corso di elaborazione i regolamenti? Naturalmente non ha nessuna importanza, risponderà implicitamente il parlamento con la sua azione, così come importa poco che l'elezione diretta del sindaco sia in qualche parte incoerente rispetto all'impianto complessivo della "142" la quale, non essendoci accordo, non era affatto intervenuta sulla forma di governo. Cosa farà invece la nuova legge sui sindaci (82/1993)? Capovolgendo i "paradossi" della precedente legislazione, la nuova normativa affronterà con una "determinazione inaudita il versante del "sindaco-politico"" e lascerà invece "in gran parte invariato" l'altro versante, quello "sindaco-amministratore"38.Le ragioni, è appena il caso di dirlo, sono intuibili. Tutta la legge elettorale è stata costruita in modo che la competizione verta intorno alle figure dei candidati, anche se poi i benefici continueranno a cadere sui partiti. L'elettore potrà infatti anche scegliere di non votare per un partito, ma non potrà comunque impedire che, votando il sindaco, di questa sua scelta possano beneficiarne anche la lista o le liste che lo hanno presentato. Ha ragione dunque chi protesta, denuciando l'equivoco di fondo del cambiamento maturato a livello comunale: alla fine si è trovato un compromesso che ha assicurato il controllo dei partiti sull'elettore, mentre poco si è fatto per migliorare l'efficienza dell'amministrazione, la cui forma di governo non sarà più quella di un regime "monistico", senza per questo trasformarsi però sino in fondo in un regime di tipo dualistico39. Sin dall'articolo 1 della legge 81/1993 si può infatti leggere: " il consiglio è composto dal sindaco" e da un numero variabile di membri a seconda delle dimensioni del comune; ed è il sindaco, si aggiungerà, che naturalmente presiede il consiglio. Ma come! Sia pure tra mille cautele si introduce il sistema maggioritario per sottolineare l'esigenza di un dualismo tra i meccanismi di governo 127 di una città e quelli di rappresentanza dei suoi cittadini e poi si approva invece una legge che implicitamente mantiene un ossequio non soltanto formale, verso l'intramontabile e tuttavia ormai imputridito principio della cogestione dei poteri? Proprio così, anche perché i partiti si divideranno sulla riforma delle elezioni comunali, ma in realtà penseranno già alle modifiche che di lì a pochi mesi verranno introdotte nel sistema elettorale nazionale. A volerle cercare, le conferme non mancano. Il governo Amato ottiene ad esempio la fiducia nel luglio del 1992. Già il 13 agosto l'assemblea siciliana avrà però approvato un legge ben più radicale sulle elezioni del sindaco, la quale prevederà sia la doppia scheda, sia un effettivo dualismo: avendo un'investitura diretta dal corpo elettorale, il sindaco presiederà infatti la giunta, ma non il consiglio40. Non si tratta affatto di una rivoluzione contro i partiti, i quali continueranno a svolgere naturalmente la loro funzione di selezione delle leadership politiche. E tuttavia in questo modo si afferma per la prima volta il principio secondo il quale nessun consigliere potrà più ricattare il sindaco, perché questo è diventato il solo titolare del potere di governo. Saranno semmai sempre i cittadini che, dopo averlo eletto, potranno eventualmente destituirlo attraverso un apposito referendum. L'idea di fondo è dunque abbastanza semplice e in Sicilia prenderà vita in poche settimane. Arrivata a Roma sui banchi dei deputati, verrà invece passata subito al microscopio perché, dirà Craxi prima di partire come al solito per Hammamet, "è meglio fare le cose bene, magari con più tempo, che non in fretta". Ed infatti la legge verrà approvata dal parlamento solo nel marzo del 1993, giusto in tempo per evitare un altro referendum e per usarla come banco di prova per la successiva e più impegnativa riforma nazionale. In che altro modo si potrebbe infatti stabilire se ai partiti convenga più il turno unico o il doppio turno, se non verificandone gli effetti? Martinazzoli farà capire le sue speranze, anticipando che i risultati di Milano sarebbero stati la "Stalingrado della Lega". Dopo il sei giugno cambierà però rapidamente parere, perché risulterà chiaro che il vecchio sistema di alleati è ormai definitivamente scomparso. La Dc andrà dunque a ingrossare le file di coloro che 128 vogliono il maggioritario così come lo ha indicato il "popolo" nel caso del Senato e cioè con una quota riservata di seggi, che dovranno continuare ad essere assegnati con il sistema proporzionale. Insomma, "all'italiana". Gli elettori non faranno perciò in tempo ad appassionarsi alla gara in due tempi appena iniziata che, già pochi giorni dopo aver appreso i risultati della prima tornata, alla Camera verrà in gran fretta capovolto il principio basilare del nuovo sistema elettorale e il doppio turno sarà sostituito dal turno unico, corretto con la "riserva indiana" della proporzionale per il 25 per cento dei seggi. Si riproporanno perciò attraverso il "Mattarellum41" le filosofie e i bizantinismi della prima repubblica che, sia pure assediata, continuerà a individuare nel sistema proporzionale un possibile "sentiero" di sopravvivenza per alcune sue forze . Sarà d'accordo con questa soluzione la Lega, perché il turno unico comunque le permetterà di ridurre l'handicap determinato dalla evidente incapacità di sfondare sul piano elettorale la "linea gotica". E' naturalmente d'accordo anche la Dc, perché la legge è stata in effetti scritta in suo nome e da un suo esponente, nell'illusione di poter in tal modo tornare solo un pò indebolita, al centro del vecchio sistema. Si opporrà invece il Pds ma non ne farà comunque una tragedia, perché la crescita della Lega e la contestuale crisi della Dc lo hanno ormai rimesso in gioco, facendone il principale baluardo sia contro il "vecchio" che non vuole morire, sia contro quella parte del "nuovo" la quale non dà garanzie sull'unità del paese. Tra tante macerie, il Pds sarà del resto una delle forze politiche che comunque riuscirà a sopravvivere. Grazie all'assunzione di decisioni controverse come quella che porterà alla approvazione della legge elettorale maggioritaria, il cambiamento riuscirà potrà dunque istituzionalizzarsi all'interno del sistema politico italiano.Con quali conseguenze? Lo si vedrà presto, allorché agli elettori sarà data la possibilità di tornare a votare (aprile 1994). 1 E' questo il criterio seguito da A. Lijpphart, Le democrazie contemporanee, cit. Questa prospettiva di analisi è sviluppata con particolare efficacia, soprattutto in riferimento ai problemi della istituzionalizzazione delle aspettative, da N. 2 129 Luhmann Sociologia del diritto, (Hamburg, 1972),Laterza, Bari 1977, pp. 7997 3 Una rassegna aggiornata del dibattito sulla formazione della agenda politica la si ritorva in S. Bentivegna (a cura di), Mediare la realtà. Massmedia, sistema politico e opinione pubblica, Angeli, Milano 1994 4 K.Deutsch, I nervi del potere, (New York, 1963),Etas, Milano 1972 p. 154 5 Questa prospettiva non viene generalmente presa in esame negli studi sulla comunicazione politica; si veda M. Calise, Introduzione alla comunicazione politica, in Teoria politica, n.1 1993 6 Per queste due prospettive di analisi, si vedano G. Sartori,Videopolitica, in Rivista Italiana di Scienza Politica, n. 2, 1979; G. Statera, La politica spettacolo. Politici e massmedia nell'era dell'immagine, Mondadori, Milano 1986 7 J.Kingdon, Agendas, alternatives and public policy, Little, Boston 1984 8 J. March - J.P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, cit. p. 87 9 M. Douglas, Come percepiamo il pericolo,(New York, 1985) Feltrinelli, Milano1991, p. 12 10 A. Abruzzese, Ipermedialità catastrofiche, in Democrazia e Diritto, n. 3-4, 1990, p.138 11 Una prima analisi dell'impatto esercitato sulle istituzioni di governo dall' allarme sociale, è in M. Fedele, La deriva del potere. Saggio sul sistema politico americano, De Donato, Bari 1982; più recentemente, I nuovi confini della comunicazione politica, Quaderni di Sociologia, n. 3 1992 12 Nell'ultimo decennio la tradizione giuridica più attenta ai caratteri del processo decisionale si è in diverse occasioni occupata delle "scelte tragiche". Esempi di queste ultime sarebbero innanzitutto le questioni che riguardano la vita o la morte dei cittadini: la scarsezza di reni artificiali, un limitato numero di macchine per emodialisi o la necessità di stimolatori cardiaci pongono infatti il decisore in un dilemma tragico, causato dalla impossibilità di soddisfare la domanda di beni considerati "essenziali". Formulato inizialmente da G. Calabresi e P. Bobbit , Scelte Tragiche, (Norton, New York 1978),Giuffré, Milano 1986, questo paradigma è stato esteso anche ad altri contesti. Le scelte tragiche, dicono ad esempio Mazzoni e Varano nella presentazione del volume curato, potrebbero ugualmente riguardare casi diversi come la necessità di definire i confini di una politica di immigrazione, le misure di sicurezza da adottare nei passaggi a livello, la scelta di soggetti per sperimentazioni mediche, la pena di morte ed altri ancora: "non che tutti questi casi siano esempi di scelte tragiche in sé, ma tuttavia sono settori nei quali si possono verificare". Nell'orizzonte della decisione si inseriscono in tal modo delle scelte che non sono oggettivamente "tragiche", come una casistica basata sulla limitatezza di risorse invece suggerirebbe, ma che vengono semmai definite prima ed accettate poi, come tali. In realtà il modello delle "scelte tragiche" resta profondamente vincolato dalla natura dei temi che vengono sottoposti alla decisione, sottovalutando invece il processo attraverso il quale si arriva alla definizione 130 degli stessi. Per ovviare a questo tipo di equivoci, preferiamo parlare perciò di "decisioni controverse". 13 S. Beer, In search of a new public philosophy, in King A. (a cura di), The new political system, cit. 14 M. Edelman, Gli usi simbolici della politica, ( Chicago, 1976),Guida, Napoli 1986, Introduzione di G.Fedel, p. 247 15 J.March - J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, cit., p. 87 16 T.J. Lowi, American business, Public policy, Case studies and Political theory, in World Politics, n. 16 1964, p. 689 17 B. W. Hogwood, From crisis to complacency? Schaping public policy in Britain, Oxford Press, London 1987, p. 31 18 C. Marletti, I 'Politici' e i 'problemi'. Agenda di governo e comunicazione politica, in Polis, n.2, 1990, p. 241 19 Il modello di comunicazione orizzontale è quello che emerge con più forza nelle analisi di P. Mancini, Tra di noi. sulla funzione negoziale della comunicazione politica, Il Mulino, n.2 1990 ed in G. Mazzoleni, Dal partito al candidato. Come cambia la comunicazione elettorale, in Polis, n.2 1990 20 Questa linea di analisi è ricostruita in M. Ferrera, La logica delle scelte pubbliche, in G. Urbani, (a cura di), Dentro la politica. Come funzionano il governo e le istituzioni, cit. 21 Ciò risulta da una nostra elaborazione effettuata sui dati disponibili presso la Camera dei Deputati che si riferiscono alla X legislatura. Oltre al sistema elettorale ed ai problemi della tossicodipendenza, gli altri temi sui quali c'è stata una votazione segreta nei rimanenti casi sono: violenza sessuale, procedimento elettorale, custodia cautelare, caccia, amnistia ed indulto, sistema radiotelevisivo, minoranze linguistiche. 22 Il modello delle due "logiche" della decisione è presentato in J. March -J. P. Olsen , Riscoprire le istituzioni, cit.; una analisi dei supporti decisionali nel policy making in condizioni avverse è avanzata da L. Gallino, Intelligenza artificiale, policy making e teoria dell'azione, in L. Gallino (a cura di), Teorie dell'attore e processi decisionali, Angeli, Roma 1993, pp. 19-42; con riferimento al sistema politico italiano, si vedano invece G. Pasquino, Regolatori sregolati: partiti e governo dei partiti e B.Dente - G. Regonini, Politica e politche in Italia, in P. Lange - M. Regini , (a cura di), Stato e regolazione sociale , cit. 23 N. Luhmann, Stato di diritto e sistema sociale (Verlag GMBH 1970), Guida, Napoli 1978, p. 87 24 N. Luhmann, Sociologia del diritto, cit., p. 80 25 I dati presentati, sono stati raccolti attraverso una analisi della copertura accordata da tre quotidiani nazionali (La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Stampa) al tema delle tossicodipendenze, nel periodo che va da un anno prima dell'avvio del processo legislativo, ad un anno dopo la sua conclusione (legge sulle tossicodipendenze:gennaio '88-giugno '91). Le unità di analisi rilevate, corrispondono a 2289 articoli. Rilevazione ed elaborazione dei dati sono stati curati dalla Dott. ssa Sabrina Cavatorto. 131 26 E' questa la tesi di fondo ben documentata del lavoro di L. Manconi, (a cura di), Legalizzare la droga. Una ragionevole proposta di sperimentazione, Feltrinelli, Milano 1991 27 Avanti, 16 febbraio 89 28 Avanti, 12 maggio 89 29 Le tre dichiarazioni riportate sono state rilasciate rispettivamente a: Il Tempo (21 ottobre 89), Il Popolo (2 ottobre 89) ed il Manifesto (23 novembre 89) 30 Avanti, 12 maggio 31 Prendendo in esame le più ampie implicazioni negative che da questa impostazione discendono, Ferrajoli giustamente sottolineerà perciò come gli ordinamenti penali moderni non presentino norme di questo genere che enunciano un "precetto morale", ma bensì si limitino a disporre determinate sanzioni a fronte di comportamenti lesivi dei diritti di terzi. Cfr. L. Ferrajoli, Proibizionismo e diritto, ora in Legalizzare la droga., cit. 32 Senato, cit., vol. 6, p. 104 33 Si veda la ricerca coordinata da G. Pasquino ( a cura di), Votare un solo candidato, Il Mulino, Bologna 1993 34 Sull'utilizzazione di questo concetto chiave nella vita politica italiana, si veda Z. Ciuffoletti, Retorica del complotto, Il Saggiatore, Milano 1993 35 G. Rusconi, Presidente o premier, in Il Mulino, n. 4, 1993, p. 790 36 E' l'immagine utilizzata da J. March, per indicare i caratteri del processo decisionale, in Riscoprire le istituzioni, cit., p. 56-58 37 S. Tarrow, Decentramento incompiuto o centralismo restaurato? in Rivista Italiana di Scienza Politica, n.2, 1979, p.230. E' la stessa osservazione che viene avanzata dai costituzionalisti più avvertiti. Per tutti si veda, G. Zagrebelsky, I paradossi della riforma istituzionale, in Politica del diritto, n. 1 1986 38 M. Cammelli, Eletto dal popolo: il sindaco fra ruolo nuovo e vecchi poteri, in Il Mulino, n. 4, 1993, p. 779 39 E. Rotelli, Una democrazia per gli italiani, cit., p. 146 40 Merita di essere segnalato il giudizio positivo di A. Manzella sulla legge siciliana, soprattutto in confronto alle modalità con le quali il Parlamento affronterà poi lo stesso tipo di problema (Quella legge che il vuole il sindaco in trappola, su La Repubblica, 20 agosto 1993). A conferma delle incertezze presenti all'interno dello schieramento referendario in ordine ai caratteri che avrebbe dovuto assumere la legge sui sindaci, si veda anche la discussione che si svolgerà sulla Unità alla ripresa dei lavori parlamentari, con gli interventi di G. Moro (14 settembre), la replica di C. Salvi (16 settembre) e quella di A. Barbera (12 ottobre). 41 Questa felice definizione proposta da G. Sartori, prende spunto dal nome dell' On. Mattarella, presentatore del disegno di legge che poi ha portato alla approvazione della nuova legge elettorale 132 cap.5. cambiamento e risentimento 133 1. rivoluzione o diaspora? Discutendo del significato assunto dal termine "rivoluzione", Bobbio1 ha a suo tempo osservato come la stessa espressione venga ormai utilizzata per indicare non soltanto la "causa" ma anche "l'effetto" e cioè due diversi tipi di eventi, che invece stanno tra loro in un rapporto di "mezzo" a "fine". Tocqueville aveva del resto già parlato della vicenda dell'89, come di un "movimento" a cui non era poi seguito un "mutamento"; così come la storia del mondo antico, nell'interpretazione avanzata da Finley, rappresenterebbe un esempio opposto. Per comprendere la "rivoluzione", bisognerebbe dunque ricorrere ad un doppio tipo di giudizio. Quello sul "movimento" il quale, in genere, investe l'atto o la componente che lo determina; e quello sul "mutamento" che invece è di ben diversa natura, perché investe strumenti di valutazione completamente differenti e anche perché, a differenza del movimento che ha un decorso ben limitato nel tempo, ha generalmente tempi lunghi e indefiniti. Chi guarda ai processi politici maturati negli ultimi anni, ha buoni motivi per far tesoro di questo tipo di distinzione analitica, perché le ragioni e le forze che hanno prodotto l'iniziale "movimento" con il quale si è aperta la XI legislatura, sono risultate ben diverse da quelle che hanno dato alla fine vita al "mutamento" con cui la stessa verrà poi chiusa. Le "rivoluzioni", del resto, non nascono a colpi di referendum e nessuna classe politica al potere ha sinora dimostrato di sapersi riformare da sola e cioè senza la spinta di un evento traumatico, generalmente costituito da una sconfitta militare o da una crisi economica profonda. La "rivoluzione italiana" è andata però diversamente, perché nessuno ha avuto dubbi nell'indicare i possibili eventi ai quali ricondurre l'avvio del cambiamento. La "nostra Algeria" è diventata perciò, di volta in volta: Tangentopoli; la nascita del movimento referendario di Segni, oppure - soprattutto dalle parti di Pontida e nella bassa Brianza quella delle Leghe di Bossi in passato e, oggi, anche l'affermazione di Forza Italia. 134 Pur nelle loro differenze, queste interpretazioni si sono mosse comunque lungo una stessa linea di analisi. Sono state ricercate regolarità storiche di tipo causale, perché solo in tal modo è diventato poi possibile identificare il'movimento-causa" con il "mutamento-fine", riassumendo entrambi in quella comune accezione a cui generalmente ci si riferisce, allorché si parla del cambiamento politico. Si è trascurata in tal modo l'eventualità che questo sia stato casuale nel suo movimento e perciò indeterminato anche nel suo possibile mutamento, perché aperto ad esiti diversi a seconda dei processi, dei tempi, degli interessi e anche del caso. In realtà, possiamo forse capire meglio ciò che negli ultimi anni è successo, ricostruendo l'intero processo come una "diaspora" interna a quella democrazia dei partiti, che in passato aveva assicurato la governabilità della prima repubblica. Nel giro di due anni, il movimento che aveva accompagnato l'iniziale processo di "dispersione" è stato infatti rapidamente sostituito con il mutamento che si manifesterà non appena risulterà possibile il "ritorno al tempio" e cioè, fuor di metafora, quel processo di riunificazione politica che prenderà corpo con le elezioni del 1994 e da cui nascerà anche un nuovo "centro". Il ricorso a una metafora non meravigli: chi ne ha studiato il suo uso, lo giustifica ricordandoci che il "parlare di politica" spesso presenta le stesse difficoltà che si incontrano nel parlare del tempo o nel parlare di Dio2. Perché maturi una diaspora è necessario comunque che intervenga un evento imprevisto, in grado di minacciare l'identità della comunità. In Italia questo evento non è stato di tipo esterno come nelle rivoluzioni, bensì interno. Lo dimostra l'impatto moralmente distruttivo esercitato da Tangentopoli sulla intera sistema politico nazionale. Si è manifestata così una "catastrofe" che ha dato a sua volta vita a una rottura temporale, con un "prima" rappresentato dal governo Amato e un "dopo" identificato con il governo Ciampi. Sono nati inoltre tutti gli elementi che generalmente accompagnano il processo della diaspora: i "miti fondativi" dell'evento (Tangentopoli), le periodizzazioni cronologiche che hanno distinto il "nuovo" dal "vecchio"; i meccanismi di controllo sociale che hanno assicurato la conformità delle interpretazioni autentiche di ciò che è accaduto e 135 anche il proselitismo diretto a consolidare i legami tra i "dispersi" del vecchio sistema politico. Sollecitati dalla pressione referendaria, i partiti hanno cercato naturalmente di approvare una legge fatta a propria misura. Sarà però Forza Italia e cioè una aggregazione politica apparsa sulla scena solo pochi mesi prima delle consultazioni nazionali, ad intercettare buona parte del consenso espresso dal tanto invocato elettore sovrano. Verrà in tal modo confermata, sia pure indirettamente, l'esistenza di una profonda distinzione tra le ragioni per le quali è nato il movimento e gli esiti a cui alla fine ha invece messo capo il mutamento. Nata per caso, quella del cambiamento politico è dunque un'esperienza specifica, che generalmente non è facile prevedere. Visti da vicino, alcuni dettagli del processo possono apparire poco significativi. Allorché l'osservatore si colloca però alla distanza necessaria, ci si accorge che in effetti è iniziato un percorso più o meno lungo nel corso del quale, essendosi progressivamente ridotte le possibilità di ricorrere al vecchio repertorio di soluzioni, si stanno più o meno consapevolmente gettando le basi per il successo di altre e non previste alternative. Sono processi, questi, che si sono manifestati per la prima volta nella passata legislatura in due momenti: quando maturò la scelta di eleggere Scalfaro alla Presidenza della Repubblica e quando si costituì il governo Amato. Le modalità con cui i partiti fronteggeranno questi iniziali segnali di cambiamento, riassumono bene la casualità con la quale verranno scritte le prime pagine del nuovo corso. La designazione di Scalfaro intorno alla quale si forma una maggioranza che raccoglie le forze del quadripartito insieme al Pds, i Verdi, la Rete e Pannella, nasce infatti in maniera del tutto occasionale. Nonostante la sconfitta elettorale subita dai partiti di governo poche settimane prima (aprile 1992), la XI legislatura si apre secondo il solito copione. Alla Democrazia Cristiana sarebbe dovuta andare la presidenza della repubblica; i socialisti avrebbero dovuto invece guidare l'esecutivo. Dopo le prime votazioni esplorative, salta però la designazione di Forlani che "autosospende" la propria candidatura, perché mancano almeno una settantina di voti dalla conta di quelli previsti sulla carta. Se ciò non 136 fosse successo, la legislatura iniziata nel 1992 e non - si badi bene cento anni addietro, si sarebbe forse aperta con Forlani alla presidenza e Craxi al governo! Caduta la possibilità di tenere in piedi la vecchia maggioranza, si cerca a quel punto di mettere insieme uno schieramento di sinistra che politicamente non c'era mai stato e che sventola come bandiere i nomi della Iotti, di Vassalli, De Martino e poi Gallo e Conso. In realtà non c'è più alcuna alleanza in grado di funzionare, sia essa rappresentata dal vecchio quadripartito, dall'unità delle sinistre o dallo stesso "metodo De Mita", che cerca inutilmente di riportare in vita la logica della solidarietà nazionale. Sia pure senza alcun risultato, i soci fondatori della prima repubblica utilizzano perciò ben quindici scrutini, per mettere in campo tutto ciò che avrebbe potuto aiutarli a mantenere - o anche ad acquistare - il controllo di un processo che nessuno riesce ormai a governare. Anche il bizzarro ballottaggio che sino alla fine vedrà contrapposte due alte cariche dello stato come Spadolini e Scalfaro, non serve per arrivare a una soluzione. Per convincere i grandi elettori a un accordo, ci vorrà invece lo shock imposto al paese dalla uccisione del giudice Falcone. Pur essendo stata la sua designazione del tutto casuale, sarà perciò Scalfaro a farsi carico di assicurare quel difficile passaggio istituzionale, che poi prenderà corpo con il governo Amato. Il nuovo esecutivo nasce peraltro con una evidente anomalia. Per forza di cose, il governo Amato si colloca infatti all'incrocio di due diverse maggioranze3: quella che si è affermata nella elezione di Scalfaro alla presidenza e quella del quadripartito che in parlamento ha ancora i numeri, ma non i principi politici per governare. Condizionato da tante parti, questo esecutivo in realtà nasce soprattutto solo: nessuno lo aveva in mente e nessuno in effetti lo ha scelto. E' stato imposto semmai dalla logica delle cose, dalla debolezza del "vecchio" quadripartito e, forse, anche dal caso. Per il governo tutto ciò si trasformerà dunque in un peso enorme, ma anche in una grande opportunità. La stabilità rende infatti le scelte più facili, ma riduce il ventaglio delle possibili routines operative; le crisi, invece, lo riaprono, imponendo a loro volta nuovi vincoli. Programmi e obiettivi che sino a quel momento non erano 137 mai riusciti a passare attraverso le formule, potranno perciò insinuarsi - purché il governo sia disposto a rischiare - attraverso il reale processo di formazione dell'indirizzo politico, in una inevitabile miscela del "vecchio" con il "nuovo". Chi propone delle innovazioni, infatti deve non solo fronteggiare quegli interessi che con il tempo si sono consolidati e magari anche istituzionalizzati nella forma di diritti. C'è anche il peso, difficilmente valutabile, delle resistenze che accompagnano il senso comune e delle stesse aspettative a cui in tanti si sono ormai abituati. Un governo il quale, anziché ripetere le solite litanie sul "momento difficile", dichiari ad esempio che "lo stato non può dare tutto a tutti", inevitabilmente diventerà un interlocutore scomodo non solo per le forze che lo ostacolano, ma anche per quelle che lo sostengono. Trasformando in un problema delle tendenze che nessuno aveva sino a quel momento per davvero messo in discussione, Amato contrasterà comportamenti, culture e valori profondamente radicati all'interno del sistema, sollevando perciò - e indipendentemente dalle questioni concrete - inevitabili sospetti. Sulla scena politica si è infatti affacciato un nuovo attore, il quale avanza delle pretese di comando prima di allora mai sentite. E poco importa che in questo caso si tratti dell'esecutivo. Allorché Amato proporrà una legge per la delega al governo di "poteri straordinari" in situazioni di emergenza economica, tra le tante proteste ci sarà anche quella di chi dirà : "in tal modo il governo pensa di poter restare in carica per tre anni". In effetti, lo sappiamo bene, questa eventualità è sempre stata molto rara nel nostro sistema politico. Il problema sarà però politico e non cronologico. Anche se la richiesta di "poteri straordinari" non avrà alcun seguito, qualcosa comunque è cambiato, perché per la prima volta qualcuno farà capire chiaramente che le istituzioni debbono venire anteposte ai partiti: stanno lì per governare e non solo per farsi benvolere. Una sfida del genere renderà naturalmente più difficile la vita del governo. Le aspettative e i diritti si sono infatti sviluppati inavvertitamente. Per modificarli bisogna stabilire invece dei nuovi principi, trovare le parole giuste, l'idea capace di modificare una realtà ormai stabilizzata4. Spesso non basta nemmeno esporsi in prima persona, scommettendo il proprio futuro sulla bontà della 138 soluzione che si propone. Bisognerà minacciare, costringere coloro che intendono utilizzare la situazione per scopi completamente diversi, a svilupparla invece nella direzione voluta, facendosi interpreti di un malessere che è latente e che deve venir portato alla luce per riuscire a diventare politicamente efficace. E' ciò che è successo con il governo Amato. Nato "piccolo piccolo" da una maggioranza parlamentare esigua e anche da una decisione personalissima di Craxi che - indicando il 'delfino' impone per l'ultima volta una sua scelta, questo esecutivo non avrebbe avuto di certo avuto alcun futuro se nel frattempo non fosse improvvisamente maturata un'opportunità decisionale, da nessuna forza politica peraltro anticipata o anche soltanto richiesta. Messo con le spalle al muro da una delle peggiori crisi finanziarie del dopoguerra, il governo sarà infatti costretto a scegliere se continuare con le piccole cattiverie di sempre fatte di una tantum, di ticket e di provvedimenti tampone; oppure imboccare decisamente un'altra strada. Nonostante l'ostilità crescente del sistema politico, Amato sceglie questa seconda soluzione e il welfare state "all'italiana" verrà perciò individuato come il principale aspetto del sistema sul quale è necessario intervenire. Sin dai suoi primi mesi la vita del governo si era incrociata del resto con una crisi economica e finanziaria di particolare gravità. Forse perché non aveva molto da perdere; forse perché se avesse passato la mano questa volta molti suoi componenti sarebbero ritornati a casa, anziché ai rispettivi seggi parlamentari; o forse, infine, perché circolava ormai un aria politica diversa, per una volta l'esecutivo non si limiterà alle solite litanie e affronterà invece decisamente la crisi. Sostenuto dai vertici sindacali e dal mondo industriale più che dal parlamento, Amato avvia infatti una manovra economica complessiva che ridisegnerà i nuovi confini dello stato sociale. In verità la scelta matura in due fasi (luglio e settembre 1992) e comunque con ritardo rispetto alle urgenze della crisi, perché all'interno della stessa maggioranza i partiti inizialmente frenano qualunque decisione che possa mettere in discussione le basi sociali dei rispettivi consensi elettorali. La svalutazione della lira (settembre'92) ridà però slancio all'esecutivo, i cui provvedimenti 139 ricevono il plauso della comunità internazionale e entro la fine dell'anno sono approvati anche dal parlamento. Naturalmente l'intera manovra viene accompagnata da prevedibili polemiche, più spesso pretestuose che non fondate. Il governo questa volta segue però una strada diversa dalla solita. Rifiutandosi di minimizzare la portata della crisi, conferma infatti che l'allarme è pienamente giustificato dalla gravità della situazione economica e che le stesse soluzioni approntate saranno altrettanto dolorose. Presentando i provvedimenti del luglio '92, Amato utilizza infatti per la prima volta quella che poi diverrà la metafora preferita, attraverso la quale cercherà anche in seguito di rendere comprensibile la gravità raggiunta dalla situazione economica. Per permettere al paese che è "sull'orlo del precipizio" di fare "un passo indietro", la manovra è sia necessaria, sia "difficile da digerire". Da tempo non si sentiva un Presidente del Consiglio parlare così chiaro e chiedere "scusa" agli italiani per la ridda di ipotesi, che irresponsabilmente l'amministrazione aveva fatto come al solito trapelare . E' un linguaggio che l'opinione pubblica capisce, buona parte del mondo del lavoro accetta e i massmedia sostengono. Permetterà al governo di acquistare quel consenso che invece i partiti cercheranno ben presto di lesinargli, preoccupati da tanta indipendenza di giudizio e di iniziativa. E darà anche slancio a quella che con il tempo diventerà la principale rivendicazione del governo : "esistere per cambiare e non solo per campare". Naturalmente questo diverso assetto istituzionale si rivelerà possibile solo grazie alla debolezza della democrazia dei partiti. Mancava infatti una vera maggioranza politica o, comunque, quella che c'era risultava troppo ristretta. Per capire come questa debolezza si sia però potuta rivelare fruttuosa ai fini del cambiamento, è forse meglio guardare all'opinione pubblica e alle modalità con le quali questa ha reagito, di fronte ai due diversi tipi di decisioni controverse assunte dal governo Amato. Quella economica, che arrestava l'allarme sociale scatenato dalla crisi finanziaria con una azione tendente ad offrire nuove strutture di rassicurazione; e quella legata a Tangentopoli, che invece introduceva degli elementi di insicurezza, non importa per ora quanto fondati, legati 140 all'eventualità che venissero assicurate nuove forme di impunità alla corruzione. Cronologicamente questa ultima vicenda è maturata dopo che il governo aveva avviato il risanamento dello stato sociale. Politicamente però, e anche logicamente, entrambe le scelte hanno ruotato intorno ad una stesso problema che è emerso con sempre maggior chiarezza, quanto più il governo ha realizzato la propria autonomia. E' impossibile governare a lungo utilizzando il sostegno dell'opinione pubblica, se a quest'ultima prima o poi non si trasforma in un indicatore di tipo istituzionale. Pur avendo avviato per primo il cambiamento, Amato ha fatto perciò ben presto le spese di questa dinamica, non appena ha dovuto affrontare la crisi aperta da Tangentopoli. Ciampi ne ha ricavato invece tutti i possibili vantaggi perché, dopo le consultazioni del 1993 che hanno aperto la strada alle modifiche del sistema proporzionale, si è potuto mettere alla guida di di un esecutivo privo di maggioranza politica e sostenuto soprattutto dal consenso dell'opinione pubblica che, significativamente, verrà appunto chiamato "il governo del referendum" . 2.tangentopoli Non è necessario entrare in un'analisi testuale dei decreti su Tangentopoli annunciati e poi ritirati (marzo 1993) dal governo, perché se nella vita politica i fatti non seguono necessariamente alle parole, queste ultime hanno sempre - e comunque - la stessa importanza dei fatti. Amato avvertiva come urgente un problema il cui "ciclo di vita" era appena iniziato tra le forze politiche, mentre risultava ancora del tutto immaturo all'interno dell'opinione pubblica, che peraltro già cominciava a sentire i pesanti effetti della manovra economica avviata a fine anno. "Essendo andati alla ricerca di una soluzione equilibrata che non fosse condanna indiscriminata e che non fosse colpo di spugna, abbiamo avuto la sensazione - dirà perciò il capo del governo - di aver deluso quanti aspettavano i colpi di spugna e di non aver dato, a chi voleva la mattanza, sufficiente sangue per fare la corrida"5. Alla base di questa diversa percezione del governo rispetto al parlamento,c'era certamente una sensibilità ferita dalle continue 141 amputazioni che lo stesso esecutivo aveva dovuto subire, accettando le ripetute dimissioni presentate da numerosi suoi autorevoli componenti, raggiunti da un avviso di garanzia. Nel punto più basso della sua parabola, il governo si ritroverà perciò di nuovo solo, come già era in buona misura accaduto al momento della sua nascita. Prima ancora che politica, questa solitudine rinvia però ad una diversa logica della responsabilità istituzionali. A giustificazione del proprio operato l'esecutivo citerà infatti testualmente alcune dichiarazioni rilasciate alla stampa da parte di autorevoli rappresentanti delle opposizioni oltre che della magistratura: da D'Alema a Petruccioli; dal direttore del Corriere della Sera ad Alessandro Galante Garrone; dal giudice Viglietta a Palombarini o Caponetto, c'era stato un coro di voci che, con diverse tonalità e sfumature, comunque aveva ritenuto possibile la derubricazione delle violazioni alla legge sul finanziamento pubblico in illeciti soltanto amministrativi. Per permettere al governo di tenerne conto, anche il Senato aveva approvato in seduta notturna solo pochi giorni prima, un disegno di legge che trasformava l'illecito penale in un reato amministrativo. Per dirla chiaramente: le opposizioni, sapevano! L'insieme di questi elementi avevano fatto dunque ritenere opportuno il varo di un complesso di provvedimenti, che avrebbe potuto offrire maggior organicità alla soluzione politica che si andava prospettando.E'stato sufficiente però che tra l'opinone pubblica si diffondesse il messaggio del "colpo di spugna", perché tutte le disponibilità prima manifestate venissero meno. L'esecutivo verrà subito accusato di aver voluto sottrarre ai giudici naturali le indagini in corso e a nulla serviranno le ripetute precisazioni del ministro Conso il quale chiarirà che, per il principio della connessione, laddove vi era un rapporto tra l'illecito amministrativo ed eventuali reati di ricettazione, concussione o corruzione, la competenza su quei fatti, compresi quelli depenalizzati, sarebbe rimasta al giudice penale. Lo stesso presidente del Consiglio sarà in prima persona accusato di aver voluto favorire Craxi sottraendolo alle possibili sanzioni legate alla violazione del finanziamento pubblico ai partiti, 142 laddove quest'ultimo era invece imputato di ricettazione, di concorso in corruzione e - dirà Amato - "credo anche di concussione". Si ignorerà che, unitamente al decreto sul finanziamento pubblico, erano stati presentati dal governo altri tre disegni di legge riguardanti la corruzione, il giudizio abbreviato e quello pretorile al cui interno, per i reati più gravi, veniva previsto l'allontanamento perpetuo dalla vita politica. Sarà tutto inutile. Terminata già da qualche mese la parte difficile del lavoro, quella che comportava scelte economiche impopolari, maggioranza e opposizioni nei fatti - anche se non ancora in parlamento - si salderanno tra loro, schierandosi con un intuito fulmineo al fianco dell'opinione pubblica, la prima con l'obbiettivo di non perdere altri voti, le seconde con la certezza di guadagnarli. La parola d'ordine che correrà di bocca in bocca sarà "no alla soluzione spugna" e non importa se poi questa sia davvero tale: l'immaginario collettivo ha ormai una forza che è superiore a qualunque dimostrazione, perché da tempo è caduta la "fiducia" e i mezzi di comunicazione indirizzeranno verso un solo obiettivo quel poco che si muoverà sulle piazze, quel tanto che si dibatterà in programmi televisivi del genere Rosso e Nero, Pegaso o Mixer e quel molto che si sentenzierà attraverso la stampa. Seriamente indebolito da questa vicenda, subito dopo il governo cercherà nuovamente - anche se inutilmente - di allargare la maggioranza. Nei fatti, inizierà però il "conto alla rovescia" e di lì ad alcune settimane verranno presentate le dimissioni ufficiali . Si consumerà in tal modo la storia del primo esecutivo repubblicano che è riuscito ad imporre al parlamento misure economiche prima mai applicate, fintanto che ha mantenuto un consenso popolare e perciò anche extraparlamentare. E che è dovuto però soccombere davanti alle opposizioni e alla sua stessa maggioranza, nel momento in cui il parlamento sentirà di avere alle spalle il sostegno di un opinione pubblica che in nessun modo voleva una "soluzione politica", peraltro difficile da capire e comunque ben presto abbandonata anche da parte di coloro i quali la avevano inizialmente sollecitata. A documentazione della tragedia vissuta, resteranno soltanto le amare riflessioni del Presidente del Consiglio il quale, respingendo 143 per l'ennesima volta ogni addebito, dichiarerà: "neppure il giusto, in un sistema democratico, ha diritto all'estremismo e all'irrazionalità della distruzione. La giustizia è diritto, la giustizia è regola, la giustizia è distinzione. Onorevoli Senatori, non è dei regimi democratici quel codice penale che alcuni di voi sembrano volere e che è composto di un unico articolo che prevede la pena di morte per qualunque reato e la pena del linciaggio per qualunque fatto. La civiltà è costituita da un sistema sanzionatorio composto da centinaia di regole...". Per tutta risposta, allorché Amato prenderà la parola alla Camera di lì a pochi giorni, dai banchi della Lega incominceranno a volare manette, banconote e cordoni da forca, in omaggio ad una retorica dell'immagine, il cui impatto le riprese televisive contribuiranno involontariamente a moltiplicare. Anche ad essere estremamente critici sul merito dei provvedimenti, ad esempio sul ruolo assegnato ai prefetti nel decreto legge, la reazione sarà dunque molto forte. Questo è sempre stato un sistema che ha vissuto di "non decisioni"; che ha obbligato decine di volte il governo a modificare i propri decreti o addirittura a ritirarli; che ha pubblicamente assunto in più occasioni impegni che poi sono stati modificati nei corridoi delle commissioni parlamentari; che ha sistematicamente aggirato la costituzione ogni volta che si configurava come un ostacolo agli interessi delle forze politiche. Un escamotage diverso si sarebbe dunque potuto pur sempre trovare. Evidentemente c'era dell'altro e di cosa si trattasse diverrà molto più chiaro, allorché il parlamento discuterà la fiducia al governo Ciampi. I partiti assimilano le funzioni dell'esecutivo a quelle di un autobus che li deve portare da un posto all'altro, mettendosi da parte una volta giunti a destinazione. Amato era servito soprattutto per fronteggiare la crisi finanziaria ed anche Ciampi dovrà adesso limitarsi ad approvare la nuova legge elettorale. E' la versione referendaria dei vecchi "governi balneari" che, in nome del nuovo, deturpa ulteriormente il volto delle istituzioni, con la previsione di esecutivi " a termine", i quali sono una autentica bestialità sotto il profilo costituzionale e anche intimamente contraddittori sul piano politico. Un governo può cadere in parlamento, può perdere la fiducia della maggioranza che lo sostiene, ma non può essere 144 "programmaticamente" a termine, perché in tal caso viene meno alla sua funzione essenziale. Eppure questo sono stati, in alcuni casi esplicitamente, in altri tacitamente, alcuni degli esecutivi che si sono succeduti durante buona parte della prima repubblica. Chi la pensa diversamente, agisce anche in un altro modo. Nonostante la sua debolezza, il governo Amato è stato il primo a presentare le proprie dimissioni in parlamento, interrompendo in tal modo una prassi consolidata, che portava ad aprire le crisi discutendone all'interno delle segreterie dei partiti. Al di là di ogni differenziazione tra tecnici o meno, le istituzioni vengono difese soltanto da coloro che credono nella loro funzione. Vi sono inoltre delle decisioni politiche per le quali non serve - o quantomeno non basta - che vi sia un accordo. Perché risultino efficaci ci vuole anche dell'altro. Le decisioni debbono ad esempio dar vita a soluzioni che risultino credibili allorché i problemi divengono maturi, evitando in tal modo sia il rischio di risultare tardive, sia quello di poter essere troppo premature. Il vero problema che ha ostacolato l'azione del governo Amato, in fondo, era questo: per avere il necessario consenso, l'esecutivo ha dovuto appoggiarsi alle forze sociali e all'opinione pubblica, ma per essere tempestivo è stato costretto a negoziare almeno in parte il processo decisionale con le istituzioni che c'erano, fossero queste costituite dal parlamento, dal Capo dello Stato o da quelle forze politiche che ancora detenevano significativi poteri di veto. Poiché il governo riuscirà a liberarsi solo lentamente dal controllo dei partiti, le decisioni maturate si riveleranno perciò almeno in parte - tardive, anche se pur sempre efficaci per determinare un' inversione di rotta nel ruolo dello stato sociale. E' quanto accaduto durante la manovra economica avviata nel 1992, che comunque ha avuto il merito di modificare aspettative sino a quel momento istituzionalizzate nella forma di diritti acquisiti, anche se ormai incompatibili con la crisi del nostro stato sociale. Allorché Amato cercherà invece di intervenire sulla questione morale che stava distruggendo l'esecutivo, la decisione è risultata invece prematura6 e il governo è entrato in rotta di collisione con quella stessa opinione pubblica che pure lo aveva inizialmente 145 sostenuto, senza peraltro riuscire a mantenere almeno un consenso di tipo parlamentare. Da tempo era infatti all'opera un partito che non aveva simboli; il cui retroterra sociale ricopriva, sia pure per motivi diversi, l'intero territorio nazionale; e il cui reale collante era rappresentato dalla più micidiale forma di "rivoluzione", che nessun sistema politico sarebbe stato in grado di fronteggiare troppo a lungo: il risentimento che da anni covava all'interno dell'opinione pubblica e che i partiti puntualmente asseconderanno, amplificandone l'impatto attraverso i massmedia. Facendo del risentimento il principale combustibile del processo di cambiamento, la Lega si metterà perciò a capo della protesta che dal Nord si indirizzerà nei confronti del Sud, mentre il Pds continuerà a raccogliere lo scontento delle forze sociali più deboli, indirizzandolo contro il governo Amato, ritenuto soltanto un'espressione del vecchio sistema dei partiti. Sarà la scelta peggiore, tra quelle che le leadership politiche avrebbero mai potuto favorire, per facilitare il passaggio dalla prima alla seconda repubblica. Il risentimento è infatti un focolaio che va spento, evitando accuratamente che il fuoco possa trasmettersi da un punto alla altro del sistema. Non avendo un programma credibile in nome del quale governare, tutti invece vi soffieranno sopra e non importa se in tal modo si rischierà seriamente di far crollare non solo il "Palazzo", ma anche la stessa cornice istituzionale di qualunque futura forma di cittadinanza. Bisognerebbe probabilmente interrogarsi più a fondo su questa tendenza che si è andata affermando con sempre più forza sin dall'inizio della XI Legislatura, trasferendo sul piano politico dinamiche collettive che sono da tempo note a livello sociale. Sappiamo bene che le folle possono diventare violente, oppure che soggetti equilibrati sul piano individuale possono manifestare una insospettata agressività verso l'esterno, allorché vogliono riaffermare delle identità collettive. Se i gruppi optano generalmente per il rischio e contro la prudenza, le istituzioni dovrebbero avere comunque un'altra logica. Da prerogativa destinata ad emergere prevalentemente nelle manifestazioni di massa, il "risky shift"7 e cioè lo spostamento delle opzioni a favore 146 del rischio maggiore, si è invece trasferito alla stessa logica del sistema politico. Essendo l'idea di scambiare un sacrificio presente con un vantaggio futuro diventata un caput mortuum che nessuna forma di auctoritas impersonale era ormai da tempo in grado di garantire, le opposizioni hanno scelto di svolgere soprattutto delle funzioni espressive contro qualcosa la cui ingiustizia tutti potevano vedere, lasciando così perdere ogni azione in favore di un "bene pubblico" che nessuno riusciva più ad identificare. E' in questo modo che il risentimento è emigrato dal sistema sociale al cui intero lo stesso era da tempo nato con buone ragioni, al sistema politico che avrebbe dovuto provvedere a disattivarlo, invece che rafforzarlo. Inteso al singolare, il risentimento è infatti una pulsione che, non diversamente dalla paura, gli individui associano ad un pericolo avvertito come ingiusto e in grado di minacciare seriamente la incolumità di chi lo prova8. E' infatti ovvio e anche perfettamente comprensibile che un disoccupato meridionale possa essere esasperato, non diversamente da quei piccoli imprenditori settentrionali che dall'attuale sistema fiscale rischiano di essere stritolati. Inaccettabile è invece il fatto che, non volendo proporre soluzioni "impopolari", ma soltanto raccogliere e amplificare tutti i possibili problemi, il sistema politico abbia fatto emergere al proprio interno divisioni destinate ad alimentarsi incessantemente, in una spirale senza fine. Nella lotta a Tangentopoli, le richieste di giustizia sociale si sono perciò mescolate con la protesta fiscale e chi voleva un cambiamento si è unito a chi spingeva per una rivoluzione. La cupa previsione di Weber, che vedeva nello "sfruttamento della natura sentimentale delle masse" un possibile esito della democrazia in occidente, ha riacquistato in questo modo una sua inquietante attualità. Unendo l'esagerazione propria di un cultura che è sempre stata populista con la stimolazione diretta dei risentimenti individuali, alcune leadership politiche naturalmente hanno dimostrato di capire a volo gli umori dominanti. Ma fare proprie le ragioni di tutti così da evitarne poi le possibili reazioni, non è però qualcosa che non lasci un segno, soprattutto nel difficile momento della transizione. 147 Per la ristrettezza della sua base parlamentare, Amato pagherà perciò dei costi ai quali potrà invece sottrarsi il successivo esecutivo, perché nel frattempo l'iniziale domanda di cambiamento avrà ricevuto una sua sia pur provvisoria conferma, attraverso i referendum (aprile 1993). Equivocando sulla natura del 'movimento', inizialmente le forze di sinistra -con il Pds in testaesulteranno in nome del 'mutamento'. Solo dopo qualche mese, allorché saranno resi noti i risultati delle elezioni politiche (marzo 1994), diverrà però chiaro che quest'ultimo ha ormai dei nuovi e più significativi protagonisti: per la prima volta, l'elettorato si orienterà infatti in maniera del tutto diversa dal passato, decretando il successo di Lega, Forza Italia e Alleanza Nazionale e cioè di quelle sole forze politiche percepite come radicalmente 'nuove', che sopravivveranno al giustizialismo con cui si concluderà la prima repubblica. 3. Il governo del referendum Come osservatore politico di solito chi vota vale meno del militante perché le sue interpretazioni mancano di profondità e, quando non risultano dettate dalla reazione del momento, generalmente si adagiano su vecchie abitudini. Per tradizione, del resto, l'elettore è sempre stato più accomodante: durante un lungo tratto della nostra storia repubblicana, e cioè perlomeno nei primi quarantanni, ha dato fiducia a chi gli piaceva e ha invece ignorato tutto ciò che lo disturbava, grazie ad una disattenzione selettiva che gli ha sempre permesso di non rischiare troppo del suo. Chi votava era insomma anche disposto a cambiare idea, ma non ne faceva una questione di vita o di morte, come prova del resto l'impressionante continuità nella forza dei diversi gruppi politici. Anche per queste ragioni, la competizione elettorale non è mai stata dunque una guerra di tutti contro tutti, ma piuttosto una serie di battaglie che si sono combattute in larga misura in arene diverse, perché destra e sinistra - perlomeno in passato - hanno stabilizzato delle aree di competizione così nettamente separate tra di loro, da potersi considerare dei veri e propri "compartimenti stagni". Sarà tutto molto diverso non appena il moltiplicarsi degli stimoli culturali e l'impatto dei mezzi di comunicazione di massa, metteranno però 148 l'elettore in condizione di uscire da quel "guscio"9, al cui interno aveva così a lungo vissuto. Il referendum del 18 aprile 1993 sulla legge elettorale per il Senato, si concluderà infatti con un plebiscito di "sì", che andrà di almeno un 15 per cento oltre le stesse aspettative dei suoi più ottimistici sostenitori. Un mutamento di queste dimensioni si era in realtà verificato solo nel 1948, allorché la Dc era stata premiata con una crescita di consensi del 13 per cento circa. Pensando evidentemente a quella vicenda, anche nel 1993 si parla perciò di un "voto di liberazione" perché più dell'80 per cento degli italiani dimostra il proprio sostegno all'introduzione del sistema maggioritario e, in generale, al progetto di cambiamento in corso nel paese. Naturalmente non tutti assumono un atteggiamento così ottimistico e ci sarà anche qualche voce più cauta. Dirà ad esempio Bobbio: "i risultati ... sono significativi e positivi. Ma non certo tali da indurci a cantare vittoria. Preferisco la prudenza...Il referendum non è un risultato, ma solo un buon punto di partenza"10. Nell'euforia del momento, pochi si rendono però conto che la situazione è diversa e che il confronto dovrebbe esser fatto non con il 18 aprile del 1948, ma semmai con il 2 giugno del 1946, allorché il paese scelse tra Repubblica e monarchia. Le differenze tra i due quesiti referendari intorno al quale viene chiamato a votare l'elettore, non bastano infatti a nascondere ciò che invece è comune alle due vicende . Nel 1946 De Gasperi aveva optato per il referendum, pur di evitare un pronunciamento diretto delle forze politiche che avrebbe creato delle divisioni innanzitutto all'interno della stessa Dc. De Gasperi guardava infatti con preoccupazione al voto moderato e temeva che una chiara presa di posizione sulla questione istituzionale avrebbe ridotto l'influenza del suo partito. Per vincere le resistenze interne alla forte corrente "repubblicana" che faceva capo a Dossetti, gli alleati furono perciò riservatamente invitati a chiedere "un plebiscito" sulla questione istituzionale. De Gasperi se ne sarebbe servito - dirà l'ambasciatore americano Alexander Kirk in un rapporto riservato del 7 gennaio '4611 - "per imporre una soluzione nelle prossime riunioni del Consiglio" e rafforzare così la posizione dei partiti moderati. Nonostante il carattere tipicamente bipolare dello strumento referendario, lo stesso servì dunque alla 149 realizzazione di un "compromesso", facilitando in tal modo la saldatura tra l'Italia repubblicana che stava nascendo e quella monarchica che godeva ancora di solidi consensi. A distanza di quasi mezzo secolo, l'incapacità dimostrata dalla democrazia dei partiti nel superare le rispettive divisioni, imporrà nuovamente lo stesso tipo di soluzione: il rinvio al corpo elettorale. Nel '46 questa scelta era stata tortuosamente fatta valere da De Gasperi, pur di mantenere l'unità della nascente Democraiza Cristiana. Come risultato, i due primi Presidenti della Repubblica, e cioè De Nicola e Einaudi, furono "notoriamente due monarchici e non due repubblicani"12. Nel 1993 il ricorso al referendum sarà a sua volta accettato dai principali partiti, più o meno per le stesse ragioni: bisognava mantenere una libertà operativa, anche a prezzo di un nuovo compromesso. Segni vincerà del resto le elezioni, ma sarà invece Ciampi - e cioè un tecnico e non un uomo politico - ad assicurare la approvazione della nuova legge elettorale, superando in tal modo le resistenze presenti nel sistema politico. La Commissione che nell'immediato dopoguerra aveva scritto l'intera carta costituzionale, era composta da settantacinque membri; nel 1992 i trenta deputati e trenta senatori appositamente riuniti nella "Bicamerale", non erano invece riusciti a varare una sola riforma. Scoppieranno infatti polemiche di tutti i tipi: dai poteri della commissione rispetto a quelli del parlamento, sino agli ultimatum che di volta in volta si lanceranno i leader dei diversi partiti, minacciando di abbandonare i lavori. Lo stesso Segni sentendosi legittimato a parlare a nome dei cittadini - non entrerà nella logica della Bicamerale e tirerà dritto in difesa del sistema uninominale, convinto che a proporlo ci penseranno gli elettori, allorché saranno chiamati a votare. In un clima di confusione ingovernabile e con i partiti che modificavano di volta in volta le loro posizioni sull'onda di sollecitazioni occasionali, si arriverà così alla scadenza del tempo utile per evitare i vari referendum, con il parlamento che riuscirà ad approvare invece una nuova legge per il voto nei comuni. La decisione in ordine ai problemi di ingegneria istituzionale, verrà perciò nuovamente affidata alla volontà popolare. Si getteranno in tal modo le basi perché ad un primo 150 equivoco se ne aggiunga un secondo, questa volta legato alla significatività dello strumento istituzionale scelto per decidere. I partiti - è questo il primo equivoco - non intendono spogliarsi affatto dei propri poteri e accettano la soluzione referendaria soltanto perché si trovano in una situazione di stallo. Come era del resto prevedibile, si riserveranno perciò il diritto di interpretarne il risultato finale, limitandosi ad ossequi formali nei confronti della tante volte richiamata "volontà popolare". Sulla stessa alternativa tra "si" e "no" si scatena poi - e questo è il secondo equivoco - una ulteriore polemica che attraverserà tutte le forze politiche aumentando, se possibile, la già sin troppo estesa confusione. In passato lo strumento referendario era infatti stato spesso criticato per la semplificazione alla quale sottoponeva i "fini". Nessuno però aveva mai messo in discussione il significato da attribuire ai "mezzi": era un ovvia considerazione pensare che chi votava a favore fosse d'accordo, mentre gli altri fossero contrari. Nel 1993 però nessun forza politica oserà dichiararsi contro il cambiamento, perché è del tutto evidente che questo significherebbe andare incontro a sicura sconfitta. La discussione si sposterà invece sull'importanza dei "mezzi" e sull'interpretazione da dare a questi ultimi si apriranno nuove divisioni: alcuni sosterranno che il cambiamento sarà assicurato più facilmente se vinceranno i "no", altri insisteranno invece perché emerga una valanga di "si". Il fronte referendario che era stato compatto in occasione del voto sulla preferenza unica (1991), si spaccherà perciò duramente. Chi non si fida del parlamento perché teme che questo possa utilizzare il responso della volontà popolare per prolungare la legislatura, vedrà dunque nel "no" il mezzo più adatto per assicurare il cambiamento e in tal modo si troverà in compagnia di quei pochi che apertamente lo osteggiano: la Rete e Rifondazione saranno perciò d'accordo con Craxi, l'avversario di un tempo, insieme alla componente "ingraiana" del Pds, in dissenso con le indicazioni di Occhetto. A sua volta lo schieramento guidato da Segni, pur di non indebolirsi, si lascerà invece aperte tutte le vie di uscita. Turno unico oppure doppio turno, poco importa, purché sia maggioritario. Oltre ai partiti minori, la Lega il Pds e la Dc, sia pure con toni e 151 intensità diverse, daranno perciò una indicazione unitaria per il "sì", pur pensando a soluzioni tra loro ben diverse. Tanto l'esistenza della domanda di cambiamento quanto quella di alcuni suoi limiti significativi, troveranno del resto una loro conferma allorché diverrà possibile una analisi meno emotiva dei risultati del referendum. Non sono infatti solo i vari Orlando, Fini e Garavini ad essere stati in quella occasione traditi dai rispettivi elettorati, che non hanno rispettato l'indicazione del no. Anche la Dc, il Pds e forse la stessa Lega hanno avuto i loro problemi13, come peraltro risulterà dagli exit polls , i quali ormai permettono di valutare in maniera abbastanza attendibile la fedeltà dell'elettore alle indicazioni dei partiti. La scelta del Pds di votare "no" al referendum abrogativo sulle partecipazioni statali, non verrà ad esempio tenuta in nessun conto dal suo elettorato. Ancora più sonora risulta poi la sconfitta che la Dc subirà nel caso del referendum sulla droga: sia pur di misura infatti, anche questa norma verrà abrogata nonostante le indicazioni di voto contrarie date dalla Dc, dal Msi e dal Psdi. Ciò che dunque si manifesta in quella occasione, non è soltanto una improvvisa e generalizzata riconversione a favore del maggioritario da parte di tutti gli italiani. C'é anche una ennesima conferma dell'esistenza di una protesta contro i partiti, che negli ultimi venti anni si è di volta in volta riversata dalla scheda bianca all'appoggio del Pci di Berlinguer; dai radicali ai verdi ed, infine, alle leghe. Inizialmente uniti nel sollecitare il "sì", i partiti del cambiamento si divideranno dunque non appena si dovrà passare alla attuazione delle indicazioni emerse dal referendum più importante, quello sulla riforma elettorale. E' una tendenza, questa, che si manifesta con chiarezza già nel momento in cui il governo avanzerà una interpretazione di quanto accaduto. "Mai in passato - ha detto infatti Amato in parlamento - il voto popolare era stato sollecitato e si era conseguentemente espresso su un numero così significativo di quesiti di così profondo e incisivo impatto istituzionale. L'indicazione è stata chiara. Si vuole cambiare e si indica la strada del cambiamento che è certamente politico, ma è innanzitutto istituzionale. E' un autentico cambiamento di regime, che fa morire dopo settant'anni quel modello di partito-stato che fu 152 introdotto in Italia dal fascismo e che la repubblica aveva finito per ereditare limitandosi a trasformare un singolare al plurale". Fine del "partito-stato"? Con la significativa eccezione della Lega che per una volta si troverà d'accordo, la reazione delle principali forze politiche sarà violenta e nel transatlantico ci sarà anche qualche "compagno di partito" che inveirà contro il Presidente del consiglio, minacciando di "cacciarlo via a calci". L'ipotesi più benevola sarà quella di chi sosterrà che, in tal modo, il Presidente del Consiglio abbia voluto proporre la propria candidatura alla guida del "nuovo corso", succedendo in tal modo a se stesso. Esce Amato ed entra Amato, osserveranno perciò autorevoli commentatori. Al di là dell'occasione da cui nasce la polemica, in realtà questi primi dissensi indicano comunque l'esistenza di una profonda divisione tra le forze del cambiamento. Il 18 aprile è infatti visto come una rivoluzione "dolce" o "costituzionale", la quale si muove per sua inarrestabile dinamica interna, in una direzione che ogni forza politica non rinuncia però ad interpretare a suo modo. Grazie a questo equivoco, Bossi potrà perciò restare insieme ad Occhetto e Martinazzoli esser d'accordo con Segni, prima del referendum. Tutti si dovranno però dividere subito dopo, non appena si incomincerà a parlare di quale riforma e di quale governo per realizzarla. Inutilmente il presidente della Corte Costituzionale aveva ad esempio cercato di ridimensionare i vincoli imposti dai risultati referendari:" il maggioritario secco - dirà Casavola - non è una scelta obbligata neppure per il Senato. Il legislatore ha un solo limite: il parlamento non può ripristinare la legge che è stata abrogata... Tutto il resto è questione di interpretazione"14. Ma appunto per queste ragioni chi vuole il maggioritario ad un turno, non è poi d'accordo con chi invece sarà favorevole al doppio turno. Così come chi vuole le elezioni al più presto, si opporrà all'idea di un governo che non sia referendario e cioè impegnato a fare soltanto la riforma, per poi portare il paese a votare con il nuovo sistema. Tutto, o quasi, diventa insomma una questione di opinioni o, meglio, di interessi. Se ne accorgerà ben presto il Capo dello Stato allorché dovrà prendere atto che, al di là delle sollenni dichiarazioni sulla indipendenza delle istituzioni dai partiti ribadite in mille occasioni, 153 in realtà questi ultimi pretendono come sempre di scegliersi ognuno il proprio candidato. Una dopo l'altra cadranno perciò diverse designazioni che, a volte, faranno appena in tempo ad affacciarsi prima di essere ritirate o dagli stessi interessati o da chi le ha proposte: sarà così per Spadolini, Andreatta, Elia ed, infine, anche per Prodi che si sentirà dire un "no" sia da Occhetto, sia da Segni a conferma del fatto che nessuna forza politica è davvero disposta a farsi indietro. Prendendone implicitamente atto, a quel punto il Capo dello Stato deciderà perciò tutto da solo, affidando l'incarico a Ciampi con una sola condizione: quella di procedere "nella lettera e nello spirito dell'art. 92 della costituzione" e, dunque, senza consultazioni formali con i partiti. Potenza della politica! Imponendo regole e procedure della prima, sino ad allora peraltro mai - ma proprio mai - rispettate, Scalfaro riuscirà in tal modo ad assicurare la possibilità che anche la seconda repubblica abbia il suo inizio. Non è dato di ritrovare infatti un precedente, alle scelte effettuate dal Capo dello Stato. Lo stesso governo Amato, che pure aveva goduto di una autonomia sino a quel momento mai realizzata, aveva dovuto negoziare la designazione dei ministri con i partiti della maggioranza. Dall'inizio delle consultazioni al Quirinale sino alla designazione di Ciampi, passeranno inoltre soltanto cinque giorni, laddove nell'89 la designazione di De Mita ne richiederà - giusto per avere un idea - ben centocinquantatre. Per le modalità con le quali avviene e per gli stessi tempi in cui matura, la designazione di Ciampi - che peraltro sarà anche il primo capo di governo non parlamentare - è dunque, e questa volta per davvero, una scelta istituzionale che Scalfaro anticiperà soltanto ai segretari della Dc e del Psi e comunicherà invece ad Occhetto a cose ormai decise. Il nuovo esecutivo nascerà perciò tra i sospetti della sinistra e anche con l'opposizione aperta della Lega. Bossi teme infatti sia che prenda corpo un accordo Dc-Pds, sia che il Pds tratti il proprio appoggio in cambio di un esplicito sostegno a favore di un maggioritario a doppio turno. Sia, infine, che la si tiri troppo per le lunghe. Contrariato dal fatto che le sue indicazioni sul possibile Presidente del Consiglio non siano state ascoltate dal Capo dello Stato, il Pds sceglierà invece di non sbilanciarsi e rinvierà la propria 154 decisione all'ultimo momento, motivandola con la necessità di dover prima ascoltare le dichiarazioni programmatiche. La giustificazione addotta è risibile. La prudenza che la "quercia" dimostra resta però comprensibile, perché il problema da risolvere va oltre la designazione dei ministri e investe una questione più generale: che convenienza avrebbe il Pds ad andare al governo prima delle elezioni politiche, rischiando così di trovarsi a sua volta sottoposto ad un tiro incrociato simile a quello messo in campo solo pochi mesi prima - e anche con il suo sostegno - nei confronti del governo Amato? Il problema, in altri termini, si rivelerà lo stesso: perché riconoscere a Ciampi ciò che invece si è negato ad Amato? In questo clima di sfiducia generalizzata, mentre il governo costituito da Ciampi con una maggioranza allargata al Pds, ai Verdi e ai Repubblicani viene convocato al Quirinale per il rituale giuramento, prenderà corpo un ultimo e significativo ostacolo da superare. La Dc ha chiesto e ottenuto che il ministero delle riforme istituzionali venga assegnato ad Elia, mentre a Barbera è stato affidata la delega per i rapporti con il parlamento. Una volta informato e mentre Occhetto aspetta sempre di "vedere il programma", il costituzionalista del Pds solleva però un problema politico! Ma come: nasce il governo del "18 aprile" e le "riforme" dovrebbero far capo ad un democristiano, sia pure dello spessore culturale di Elia? Naturalmente la questione viene impostata nei suoi termini generali e Barbera giustamente farà perciò presente che la sua storia personale e il suo impegno referendario, giustificherebbero semmai un diverso incarico. Il dissenso si ricomporrà comunque solo nella stessa mattina del giuramento, attraverso una mediazione che manterrà Barbera ai rapporti con il parlamento, pur assegnandogli il "concerto" con Elia sulle riforme istituzionali. E' un compromesso faticoso che arriverà all'ultimo momento, nel corso di un incontro tra gli interessati davanti al Capo dello Stato, mentre gli altri ministri attendono inutilmente per due ore di giurare o, quantomeno, di essere a loro volta informati su ciò che sta accadendo. Ma il tentativo di costruire una maggioranza parlamentare che in realtà non c'é, è comunque destinato a cadere. Da giorni si avvertiva del resto un malcontento che non prometteva niente di buono. Le difficoltà nate prima del 155 giuramento non sono, in fondo, che l'ultimo segnale di un disagio più generale: dalla Lega al Pds, lo schieramento di chi cerca solo un pretesto per passare la mano si allarga rapidamente, perché ogni forza politica ha i suoi propri motivi per non sentirsi sicura. La crisi era insomma nell'aria e, per una coincidenza che si rivela decisiva, la stessa arriverà addirittura nel giro di poche ore. Formalmente, il governo Ciampi si costituirà alle ore 11 del 29 aprile, con il giuramento davanti al Capo dello Stato. Nel pomeriggio dello stesso giorno il parlamento, dimostrando una insensibilità e un autolesionismo quasi incomprensibili, negherà però alla magistratura l'autorizzazione a procedere contro Craxi. Naturalmente il governo non è direttamente responsabile di quanto accaduto, ma ciò non servirà a salvarlo dalla bufera politica che il voto della Camera solleva. E' la crisi. La sera stessa, i tre ministri del Pds e il verde Rutelli presenteranno le proprie dimissioni, mentre i repubblicani chiederanno elezioni immediate. Il primo governo di tipo "nuovo", che era nato così velocemente, morirà perciò - se possibile - anche più rapidamente perché il Pds coglierà al volo l'occasione, per riacquistare quella autonomia politica alla quale aveva tanto faticosamente rinunciato. L'opposizione interna al Pds non manca infatti di farsi viva e questa volta gli argomenti ai quali può ricorrere non sono ipotesi, ma fatti. Si dirà che la maggioranza è assolutamente inaffidabile non solo perché la composizione del governo vede i ministri del Pds in posizioni tutto sommate secondarie ma anche perché - alla prova del voto - la stessa non ha perso l'occasione di difendere quelli che la magistratura considera i principali indiziati di Tangentopoli. Occhetto non avrà dunque bisogno di molto tempo per tirare le conclusioni. Purtroppo la mattina le agenzie avevano già anticipato i contenuti dell'editoriale con il quale il segretario spiegava le ragioni dell'ingresso del Pds nel governo. Ma in fondo anche questo non è un vero problema. La sera stessa Occhetto lo sostituirà con un altro, in cui si spiega perché "non esistano le condizioni" per dare il sostegno a Ciampi. L'Unità lo pubblicherà con una titolazione che rientra tra i classici della tradizione: "per fermare il nuovo spingono all'avventura". 156 A guardar bene le cose, in realtà non è chiaro cosa sia successo in parlamento e come si sia formata quella strana maggioranza che ha salvato Craxi. Subito dopo il voto e a conferma della totale mancanza di fiducia tra le forze politiche, si scateneranno infatti le accuse e i maggiori sospetti ricadranno sulla Lega, sul Msi, Rifondazione e la Rete. Le opposizioni avrebbero cioè strumentalizzato il voto per tendere una imboscata all'esecutivo e per accelerarne in tal modo la crisi. Le accuse partiranno comunque da tutti contro tutti, così come le smentite. Naturalmente non è facile appurare la verità perché il voto è stato segreto. L'ipotesi più plausibile è che al "dubbio di coscienza" di alcuni deputati della maggioranza, si sia aggiunto il voto delle opposizioni interessate a far nascere un nuovo caso. Le conclusioni che Pds, Verdi e Pri tireranno, comunque non cambiano. Dc e Psi sono i responsabili di ciò che accaduto. Verrà confermata inoltre anche la preoccupazione di fondo che aveva animato gran parte delle opposizioni sin dal momento del voto: il parlamento è inaffidabile e la sola strada possibile per garantire i risultati del referendum sarà quella di andare al più presto alle elezioni generali. Le opposizioni le chiederanno a gran voce e questa volta saranno tutte d'accordo. La pensa invece diversamente il Capo dello Stato, che non intende cambiare programma. La strada del cambiamento a questo punto però si restringe e diventa quasi un sentiero che un solo uomo, una sola istituzione, si ostina a voler lasciare aperta. Alla fine, Scalfaro riuscirà a far accettare le sue ragioni. "Il governo scriverà il Capo dello stato rivolgendosi al Presidente del Consiglio - è invitato a mettere al centro della sua iniziativa la riforma elettorale e quella dell'immunità parlamentare, oltre che difendere la lira e tutelare il risparmio". Il "no" alle elezioni anticipate si legherà dunque in modo indissolubile con un programma dell'esecutivo che - a questo punto - assumerà però un carattere eminentemente referendario. La prima parte del ragionamento - il "no" allo scioglimento immediato delle Camere - non era nuova; la seconda - il "governo del referendum" - invece lo sarà. Bossi lo capirà a volo e perciò si riavvicinerà altrettanto rapidamente all'esecutivo. "Sai come abbiamo deciso Maroni e io l'astensione al governo Ciampi, dirà 157 Bossi con grande franchezza durante una intervista? Mentre scendevamo in ascensore dallo studio dove ci aveva ricevuti. In quale altro partito sarebbe possibile una rapidità simile?"15 Le ragioni di tanta fretta però si comprendono. Allorché si presenta in parlamento, Ciampi dovrà infatti dichiarare apertamente: "voglio una fiducia che prescinda dalla contabilità numerica di voti dati o di voti negati. Intendo una fiducia morale". E' naturale. Prima la maggioranza era infatti riuscita ad ottenere, o quasi, l'appoggio del Pds. Ora invece il governo dovrà far affidamento soprattutto sui partiti dell'astensione. Occhetto offrirà una "fiducia morale"; la Lega una "astensione meritoria"; i Verdi una "astensione costruttiva" e così via sino ai Repubblicani. In tal modo, Lega e Pds potranno sia controllarsi a vicenda, sia tenere il governo sotto pressione. Non essendo politicamente autosufficiente, il quadripartito accetterà a sua volta il sostegno delle forze referendarie e tutti riusciranno in tal modo a salvare almeno la faccia, realizzando grazie al governo Ciampi una vera e propria quadratura del cerchio. La Lega guarderà infatti a vista il Capo dello Stato, per impedire che tra la "cavagna di lumache" democristiana e alcuni "travestiti" come Segni od Occhetto, si ricrei un asse in nome del doppio turno. Scalfaro a sua volta inviterà Ciampi a difendere innanzitutto l'indicazione referendaria. Ed il governo, per finire, darà al parlamento tempo sino all'estate per approvare quella legge elettorale che -dirà Ciampi - "rappresenta la finalità preminiente e prioritaria del suo esistere". Per trovare le istituzioni che assicurino il cambiamento, è stato costruito un bell'incastro! Iniziata con il referendum popolare, alla fine la "rivoluzione" si svilupperà nel modo più impensato e cioè attraverso la creazione di una doppia maggioranza: una per la approvazione della riforma elettorale e l'altra per tenere in piedi il governo in attesa che il nodo della riforma elettorale comunque si sciolga, in un modo o nell'altro. E' solo in tal modo che il 'movimento' riuscirà ad imporsi nei confronti dell'intero sistema politico. Perché meravigliarsi allora se il vero benificiario di tutti questi equivoci risulterà alla fine il nuovo "polo delle libertà" intorno al quale si raccoglieranno la Lega, Forza Italia e Alleanza Nazionale e non i principali protagonisti dellle 158 consultazioni referendarie e cioè la sinistra oppure il centro guidato da Segni ? Il maggioritario avrebbe infatti assicurato il massimo di antagonismo solo se il sistema dei partiti si fosse rivelato capace di esprimere al suo interno non più di due o tre varianti sulle principali questioni in discussione. E' per questa ragione, del resto, che il passaggio delle consegne a Downing Street o anche alla Casa Bianca avviene poi in poche ore e senza particolari drammi. Chi ha perso sa infatti che il nuovo vincitore potrà magari modificare gli arredi della casa comune, ma non penserà neanche lontanamente a distruggerne le fondamenta. Durante il governo Ciampi l'unico punto di consenso che unirà tutto lo schieramento referendario, sarà invece quello di porre termine alla legislatura. Così come durante la campagna elettorale che precederà le elezioni del marzo 1994, risulterà sin troppo chiaro che le distanze interne ai nuovi poli, non saranno inferiori a quelle esistenti tra i poli stessi. La bipolarizzazione del sistema dei partiti avrebbe presupposto insomma la depolarizzazione delle sue componenti, ma la politica del risentimento ha operato invece in senso contrario. Dove non arriverà il Pds, ci sarà Rifondazione pronta a raccogliere la bandiera dello scontento; e dove non arriverà la Lega, ci saranno a loro volta Forza Italia o Alleanza Nazionale che raccoglieranno in termini di 'mutamento' i semi del 'movimento' avviati a partire dal '91, con la abrogazione della preferenza unica. Equivoci della democrazia referendaria. Avrebbe dovuto favorire una evoluzione del sistema politico verso la creazione di due aggregazioni internamente omogenee e invece è accaduto esattamente il contrario. Si pensava che sarebbe come di incanto scomparso il centro e invece questo è alla fine rinato con alcune caratteristiche nuove, ma anche secondo logiche vecchie. Dopo tanto parlare di restituzione del potere di scelta agli elettori, ancora una volta il governo sarà inoltre costituito solo grazie ad alleanze che si consolideranno soprattutto dopo e non prima del voto. Ed è chiaro, infine, che la nuova legislatura dovrà riaffrontare gli stessi problemi i quali hanno accompagnato la chiusura della precedente. Bisognerà modificare la legge elettorale e, soprattutto, bisognerà ricostruire delle istituzioni in grado di assumere quelle stesse 159 decisioni, la cui difficoltà di attuazione si è rivelata come uno dei principali limiti della prima repubblica. 4. problemi di rendimento Il cambiamento nato nell'XI legislatura ha avuto origini diverse, ma di certo almeno un obiettivo era comune alle diverse forze che lo hanno proposto. Tutti pensavano infatti di "eleggere un governo"16 o, quantomeno, di poter andare finalmente al governo, sulla spinta di un forte successo elettorale. Che a beneficiare di questa prospettiva siano poi state forze in parte diverse da quelle che lo hanno promosso, in questa sede poco importa. Importante è invece prendere atto del fatto che i problemi del rendimento istituzionale17 non dipendono soltanto dalle modalità in cui una maggioranza si forma, così come le buone leggi non nascono solo perché alcuni "attori" si dimostrano più lungimiranti degli altri. Per la realizzazione di queste finalità, non meno significative si rivelano infatti l'esistenza o meno di regole o procedure accettate nei diversi iter decisionali; la prevedibilità dei poteri ai quali l'esecutivo può ricorrere per ottenere che le sue decisioni siano approvate e non soltanto annunciate; o, anche, lo stesso adeguamento del potere legislativo agli obiettivi generali del processo decisionale di volta in volta messo in discussione. Parodassalmente, tutto ciò è diventato peraltro evidente proprio nel corso della XI legislatura perché, mentre tutte le forze politiche si laceravano in nome della alternanza o della governabilità, le vicende dei governi Amato e Ciampi dimostravano invece le difficoltà reali nelle quali ancora oggi si impigliano i problemi del rendimento istituzionale, allorché divengono non più rinviabili decisioni economiche o sociali con un impatto politico più o meno profondo. E sono difficoltà, queste che adesso esamineremo, le quali non si risolvono intervenendo tanto sulla logica della rappresentanza, quanto sulla istituzionalizzazione dei diversi poteri che concorrono alla formazione della decisione. Il ricorso allo strumento del decreto-legge si è ad esempio trasformato da manifestazione di una prepotenza dell'esecutivo, 160 come in passato è stato generalmente considerato, in un indicatore della sua impotenza18. Se infatti è possibile che un governo emani mediamente un decreto-legge a settimana, nessun parlamento è però in grado di assicurarne la conversione con un corrispondente andamento temporale. Tutto ciò naturalmente non sta ad indicare che i governi abbiano complessivamente preso meno decisioni o che queste siano state -in ogni caso- meno significative. Al contrario. Grazie all'azione dei due governi, è stata infatti avviata una riorganizzazione nelle politiche dello stato sociale e nella sua organizzazione amministrativa che non ha avuto precedenti nelle scelte promosse dai passati esecutivi negli ultimi decenni. E tuttavia il ricorso alla decretazione di urgenza ha rivelato dei limiti crescenti, perché il suo esito prescinde ormai dalla ampiezza delle possibili maggioranze e anche dal carattere "istituzionale" o meno dei governi. Lo si vede bene, del resto, mettendo a confronto con i precedenti esecutivi il governo Ciampi, che pure - tra maggioranza ed astensioni - ha avuto un consenso parlamentare inferiore solo a quello registrato dai governi di unità nazionale 19 (Graf.1). Grafico 1: Composizione percentuale delle iniziative legislative del Governo, per tipo di iniziativa e per governi 80 70 70,7 68,1 59,7 Governi Andreotti VI e VII 60 40,3 50 40 31,9 29,3 Governo Ciampi 30 20 10 0 disegni di legge 161 Governo Amato decreti-legge Si è accentuato dunque uno slittamento nella composizione della iniziativa governativa a favore della decretazione di urgenza anche perché, per ragioni politiche, nei fatti le opposizioni hanno concesso a Ciampi ciò che invece avevano nei mesi precedenti negato ad Amato. Ma la maggior tolleranza dimostrata del parlamento nei confronti di Ciampi si rivelerà ugualmente inutile, perché alla fine la percentuale di conversione della abnorme decretazione di urgenza avviata, risulterà addirittura inferiore a quella del governo Amato (Graf.2). 162 Grafico 2: Media mensile della decretazione d'urgenza, per esito e per governi e incidenza percentuale della conversione sui decreti-legge emanati 20,7 25 20 15,3 15 6,9 10 4,5 4,5 2,3 5 0 Governi Andreotti VI e VII Governo Amato % di conversione 26,9% 29,4% 33,3% decreti-legge presentati Governo Ciampi decreti-legge convertiti E' ovvio che, in questa situazione, la reiterazione dei decreti legge decaduti divenga una scelta che non presenta altre alternative. Il vortice avviato ha assunto però un carattere sempre più infernale perché, tra una legislatura e l'altra, la reiterazione si è quasi triplicata: in passato questa era già di circa 3,5 decreti mensili, ma nella XI legislatura ha toccato addirittura la punta di 9,8 decreti reiterati ogni mese, per compensare la difficoltà incontrate nel procedimento di conversione da parte del parlamento (graf. 3). Grafico 3: Media mensile della reiterazione di decreti-legge, per legislatura 9,8 XI 3,5 X 0 163 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Eppure, è in questo scenario a rendimento istituzionale decrescente che hanno preso forma e sono giunte a conclusione politiche di riforma dello stato sociale, le quali hanno rappresentato una inversione di tendenza rispetto al passato. Come ha potuto affermarsi dunque una decisionalità su i singoli provvedimenti di grande significato, pur risultando la stessa smentita dalle tendenze generali che emergono in questa sia pur sommaria analisi del rendimento istituzionale? Per capirne le ragioni, bisognerà guardare ad un altro tipo di processo decisionale, che in realtà matura soltanto in determinato periodo della attività parlamentare: quello dedicato alla sessione di bilancio. A differenza di quanto accadeva in passato, nel corso della XI legislatura la traversata parlamentare delle manovre avviate dai governi non è stata infatti l'occasione di sostanziali snaturamenti delle misure in discussione e, soprattutto, dei loro effetti economico-finanziari. Nella sessione di bilancio per il 1993 l'esame parlamentare ha ridotto ad esempio dell'1,4% il saldo netto da finanziare 20 derivante dalle misure governative, migliorando così il risultato decrementale già ottenuto nell'anno precedente. Nell'anno successivo, inoltre, l'esame parlamentare non ha determinato sostanziali modifiche del saldo netto. Si è consolidato in tal modo un cambiamento di ciclo, che ha riguardato uno degli aspetti fondamentali del rendimento istituzionale. In virtù della combinazione di fattori diversi riconducibili alle modifiche dei regolamenti parlamentari approvati nel 1988, alla ridotta capacità di influenza dei partiti e al contesto economico italiano ed internazionale, i governi sono stati in grado di controllare l'impatto esercitato dall'arena parlamentare sul processo decisionale di bilancio. E tutto ciò ha favorito l'emergenza di una razionalità di tipo lineare. La priorità assegnata al problema del disavanzo e l'esistenza di attori istituzionali interessati ad affrontarlo, ha messo capo infatti alla formulazione di soluzioni che sono state comunque approvate, nonostante il forte carattere redistributivo che le ha caratterizzate. Soluzioni innovative disponibili anche in precedenza, ma che non avevano potuto imboccare la via dell'agenda istituzionale o si erano perse nei suoi labirinti sono, in tal modo, diventate per la prima volta oggetto di decisioni. 164 Per ottenere risultati di tale portata, si è ricorsi però a strumenti regolamentari che tutte le forze politiche hanno accettato, assicurando al processo decisionale una valenza che ha potuto prescindere dalla logica dei diversi interessi coinvolti. In particolare, in sede di Giunta per il regolamento della Camera, si stabilirà di estendere "in via di interpretazione e in attesa di una più organica regolamentazione", le garanzie procedimentali poste a difesa della decisione di bilancio, applicandole anche ai provvedimenti che il governo dichiarerà "collegati" alla manovra21. Amato collegherà perciò alla decisione di bilancio sia "i meccanismi ordinamentali e finanziari" di quattro comparti fondamentali dello stato sociale (sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza locale), sia il "decretone" di settembre (n.342/92) e non diversamente farà Ciampi. La ammissibilità degli emendamenti presentati in sede di discussione, verrà così subordinata alla specifica finalità di questo processo decisionale, diretto a garantire una riduzione del disavanzo pubblico. L'assunzione di nuovi accorgimenti procedimentali, non è però bastata a ridurre la fragilità delle decisioni assunte, perché gli interessi sociali colpiti si sono comunque riorganizzati, oppure perché è cambiato l'orientamento dell'esecutivo. E' quanto è successo ad esempio nel caso della minimum tax, perché ciò che Amato aveva imposto ai lavoratori autonomi sull'onda della crsi finanziaria, è stato poi modificato da Ciampi, questa volta sull'onda delle proteste avanzate dai lavoratori autonomi. Ma è anche ciò che - più in generale - si può prefigurare succeda, ogni volta che la decisione di bilancio venga utilizzata per avviare riforme dello stato sociale, le quali dovrebbero essere invece assunte in altre sede e con altre modalità di discussione. Ad essere evidenziata anche nel corso dell'ultima legislatura, è dunque una esigenza che appare ormai più di fondo: la sessione di bilancio non potrà restare a lungo il principale "mezzo" attraverso il quale si introducono delle riforme, solo perché queste ancora non trovano altre opportunità decisionali che ne assicurino sia l'avvio, sia una loro prevedibile conclusione. I deficit presenti nella attuale regolazione della iniziativa legislativa ordinaria e della stessa decretazione di urgenza22, indicano infatti una carenza che 165 l'introduzione del sistema maggioritario non potrà di per sé compensare. E' andata del resto in questo modo anche in passato, ogni volta che è maturato un reale processo di cambiamento politico. Non sono stati proprio i regolamenti parlamentari del '71 ad anticipare la stagione dei governi di unità nazionale, cosi come non è stato il superamento di questi ultimi ad accompagnare quella "svolta" sul piano dei rapporti istituzionali, che poi è maturata negli anni '80? Ancora una volta ci ritroviamo dunque di fronte a due diverse logiche della decisione, il cui impatto risulta inevitabilmente differenziato in termini di rendimento istituzionale. Vi è infatti una logica che, prescindendo dalla sua concreta qualificazione giuridico-parlamentare, potrebbe esser definita ordinaria in senso tecnico e che investe sia i poteri di iniziativa legislativa del parlamento, sia quelli del governo. E' una logica la quale "tiene" solo allorché si manifesta una coincidenza casuale, perché puramente temporale, tra problemi che sono in discussione da anni, soluzioni che sono note da tempo e decisori che hanno l'interesse, il tempo e a volte anche il coraggio di cogliere una opportunità offerta dai procedimenti parlamentari, nel momento in cui questa si presenta. Naturalmente se salta l'occasione, viene meno anche la possibilità della decisione e restano invece sul tappeto i problemi in attesa di una soluzione. Vi sono poi altri tipi di iniziative legislative i quali risultano in parte "motorizzati", perché il loro iter è sottoposto a vincoli temporali e procedurali più rigidi. Si configura in questo caso una altra logica decisionale, basata sulla "appropriatezza" di alcune regole le quali stabiliscono una relazione causale tra il "mezzo" e il "fine", ossia tra la discussione sul repertorio di soluzioni possibili e la decisione in cui queste ultime debbono comunque tradursi, peraltro in tempi assolutamente certi. Che le istituzioni ricorrano a procedimenti operativi diversi, non rappresenta naturalmente un "pericolo" per il loro possibile rendimento. Il problema nasce piuttosto allorché la fragilità di un iter favorisce la sistematica opzione a favore dell'altro, perché quest'ultimo assicura degli esiti che il primo non sarebbe invece in grado di garantire. In questi casi il divario nel rendimento dei 166 diversi percorsi decisionali inevitabilmente si accresce. Inoltre, anche la moneta buona si inflaziona, perché alla stessa vengono ricondotte delle aspettative che non sempre possono venire confermate. Ed è stato proprio questo il costo inevitabile che, in termini di rendimento, le istituzioni hanno dovuto comunque pagare, pur di avviare nella XI legislatura delle politiche di rientro dal deficit pubblico. Diventata da tempo una policy di tutte le policies, la manovra annuale è stata infatti decrementale anziché incrementale come invece era accaduto in passato. La sua latitudine è rimasta però praticamente infinita, oltre che sovraordinata rispetto ai possibili criteri di riorganizzazione dello stato sociale, con almeno una conseguenza che merita di essere segnalata. L'efficacia o meno delle diverse politiche, non è mai riconducibile in maniera lineare ad indicatori che sono prevalentemente di ordine finanziario. Né basta assumere questi ultimi come un vincolo da rispettare, per uscire in ogni caso dal tunnel del deficit di bilancio. Avviate in questo modo, le riforme possono infatti dar vita anche ad effetti controintuitivi ora perché prive di una loro organicità interna, ora perché la tempestività con cui vengono assunte le decisioni non si accompagna con una loro stabilità nel tempo. E' ciò che del resto è accaduto in settori a largo impatto come quello fiscale o quello della sanità, la cui regolazione ormai da anni procede secondo logiche che non riescono ancora a stabilizzarsi. Naturalmente, anche prescindendo dai profondi limiti che ne hanno accompagnato la nascita, il nuovo sistema maggioritario non potrà risolvere da solo questo tipo di problemi. Per come si è sviluppato, il cambiamento ha imposto del resto la tematica del rendimento istituzionale su un piano ben diverso, quello determinato dai criteri di formazione della rappresentanza politica. Identiche resteranno perciò, almeno inizialmente, le modalità con cui il sistema politico riuscirà a garantire l'effettività dei diversi processi decisionali. Allorché si configurerà per la prima volta la possibilità di un esecutivo forte, diverrà chiaro inoltre che le vecchie regole non potranno più essere utilizzate per governare, anche se le nuove dovranno invece ancora essere stabilite. Il cambiamento, insomma, dovrà per forza di cose continuare. 167 1 N. Bobbio, La rivoluzione tra movimento e mutamento, in Teoria Politica, nn. 23, 1989, p. 9 2 E' interessante sottolineare come appaia ormai diffusa l'esigenza di ridefinire il significato di espressioni che sempre più frequentemente vengono utilizzate nel linguaggio quotidiano, perché nel frattempo le stesse sono diventate lo specchio metaforico di turbamenti collettivi i quali non trovano altre modalità per esprimersi. Per questa via A. Placanica ha recentemente proposto una originale Storia dell'inquietudine, Donzelli, Roma, 1993, che ricostruisce il senso moderno di espressioni millenarie come quelle di "odissea", "catastrofe" ed "apocalisse". Con un taglio più generale è invece il lavoro di F. Rigotti, Il potere e le sue metafore, Feltrinelli, Milano 1992, soprattutto il cap. 7 3 G.Baget Bozzo, Amato il giurista e Craxi il Re La Repubblica, 10 marzo 1993 4 N. Luhmann, Sociologia del dirirtto, cit., p. 85-90 5 I principali discorsi ufficiali pronunciati dal Presidente del consiglio sono oggi raccolti in Vita Italiana, n. 1-2-3/1993 6 per una analisi più dettagliata della esperienza di governo, rinviamo a M. Fedele, Il governo Amato, Il Ponte, n. 1993 7 La dinamica del risky shift è ricostruita da S. Moscovici - W. Doise, Dissensi e consensi. Una teoria generale delle decisioni collettive, ? Il Mulino, Bologna 1992, p. 147 8 Una analisi del ruolo del ruolo svolto dalla paura sul piano sociale e non soltanto individuale è in J. Delumeau, La paura in Occidente ( Paris, 1978), SEI Torino 1987, pp. 23-36 9 La metafora del "guscio" e la relativa analisi sono state sviluppate da G. Sani P. Segatti, Mutamento culturale e politica di massa, in La cultura dell'Italia contemporanea, a cura di V. Cesareo, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1991, p. 150; sulla fase di passaggio dal sistema proporzionale al maggioritario, R. Mannheimer - G. Sani ( a cura di), La rivoluzione elettorale, Anabasi, Milano 1994 10 Dichiarazione resa a La Stampa, 20 aprile 1993 11 A. Lepre, Storia della prima Republica, cit., p. 71 12 P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 176 13 Le prime interpretazioni in questa chiave sono in P. Corbetta - A. Parisi, Il referendum del 18 aprile: le sfumature di un voto, Il Mulino, n. 3, 1993 14 F. P. Casavola, Intervista al Corriere della Sera (5 febbraio 1993) 15 G. Bocca, Metropolis. Milano nella tempesta italiana, cit., pp. 235-236 16 G. Pasquino, Come elleggere il governo, Anabasi, Milano 1992; sullo stesso problema, in una prospettiva diversa, si veda anche A. Barbera, Una repubblica da riformare, Editori Riuniti, Roma 1991, parte terza; ed il saggio su Un'alternativa neoparlamentare al presdienzialismo, in Democrazia e Diritto, n.2 1992 17 tra le analisi più recenti del problema, si vedano E. Ostrom, Governing the Commons: the evolution of institution for collective action, Cambridge 168 University Press, Cambridge 1990; T. M. Moe, Political institutions: the neglected side of the story, in Journal of law, Economics and organization, n.6 1990; una applicazione di questa problematica al caso italiano è in R. Putnam, La tradizione civica , cit. 18 sulla insufficienza delle letture tradizionali della decretazione di urgenza, M. Morisi, Parlamento e politiche pubbliche, Edizioni Lavoro, Roma 1988, pp. 257-264 19 I dati presentati sono stati raccolti da Polity, Osservatorio socioistituzionale del Dipartimento di Sociologia, al cui rapporto (Bilancio della XI legislatura, ciclostilato, Roma 1994) si rinvia, per una analisi più dettagliata. 20 Il saldo netto da finanziare è il risultato differenziale espresso dalla contrapposizione delle entrate finali con le spese finali. Nel corso dell'esame parlamentare viene approvato preventivamente. Tutti gli emendamenti vengono in seguito considerati ammissibili solo a condizione che non determinino un peggioramento del saldo. Le entrate finali rappresentano la sommatoria dei primi tre titoli delle entrate di bilancio (entrate tributarie, extratributarie e per alienazione di beni patrimoniali, ammortamenti e riscossione di crediti). Rappresentano quindi le risorse acquisite (o da acquisire) al bilancio per il raggiungimento dei fini istituzionali. Dal conto delle entrate finali sono escluse le entrate derivanti dall'accensione di prestiti. Le spese finali, invece, rappresentano la sommatoria delle spese correnti ed in conto capitale. Costituiscono le somme necessarie all'amministrazione per perseguire i propri scopi istituzionali. Comprendono i trasferimenti agli enti pubblici e gli accantonamenti iscritti nei «fondi speciali» per la copertura di nuove autorizzazioni legislative di spesa. Sono escluse dal conto delle spese finali le operazioni di spesa per il rimborso di prestiti. 21 Senato della Repubblica, Servizio del Bilancio, La decisione di bilancio per il triennio1993-1995, DB. n. 12, 1993, ciclostilato 22 A. Manzella, Il Parlamento, cit. pp. 272-273 169 cap. 6 da una repubblica all'altra 170 1.il cambio di guardia Dopo essersi a lungo nascosto sotto le macerie di Tangentopoli, il sistema politico italiano è tornato finalmente sulla scena, anche se pochi potrebbero ormai riconoscerlo. Il cattolicesimo popolare e il socialismo riformatore, due grandi tradizioni politiche che ne avevano in passato influenzato la storia, sono ad esempio scomparsi e nessuno, almeno per ora, sembrerebbe rimpiangerli. Pur avendo un insediamento territoriale ben circoscritto la prima al Nord e la seconda nel Sud del paese1, la Lega di Bossi e l'Alleanza di Fini sono diventate due forze politiche di prima grandezza, con dei poteri che raramente i partiti a base nazionale della prima repubblica hanno potuto in passato esercitare. Il governo, infine, è guidato dal leader di un movimento di opinione nato appena pochi mesi prima delle elezioni politiche (1994) e che oggi cerca faticosamente di acquistare anche la stabilità organizzativa di un partito. Superata la tempesta, la vita politica nazionale si presenta dunque in una veste alleggerita e talmente semplificata, da sembrare addirittura primitiva. Divisioni che per quasi cinquantanni erano state alimentate in nome di radicate ideologie, oggi possono essere infatti riassunte semplicemente, perché la novità è ormai questa: c'é una destra e c'é una sinistra e dunque, almeno in teoria, ci sono ormai le premesse per il passaggio del sistema politico italiano alla tanto invocata democrazia maggioritaria. Le modalità grazie alle quali si è giunti a questo risultato hanno comunque sollevato molto riserve anche perché, subito dopo aver approvato la nuova legge elettorale, più o meno tutti i diversi gruppi politici prenderanno le distanze, non appena se ne presenterà l'occasione. A vincere le elezioni non è stata inoltre la sinistra, come le precedenti consultazioni amministrative avevano fatto sperare, bensì la destra, organizzata da Forza Italia in due distinte coalizioni. Al Nord e in Toscana questa si infatti è presentata con la lega di Bossi, nel centro e nel resto del paese ha stretto invece un accordo elettorale con Alleanza Nazionale, la nuova formazione politica guidata da Fini e emersa sulle ceneri del Msi. Forza Italia ha in tal modo reso maggioritario uno schieramento politico che prima non esisteva. 171 Si capisce perché risultati del genere lascino perplessi. Per un sistema che è stato così a lungo proporzionalista e per giunta dominato da rappresentanze politiche organizzate nella forma partito, il successo ottenuto da Forza Italia e dal suo leader non riesce ad essere facilmente inquadrato, ricorrendo a tradizionali moduli interpretativi. E infatti già si cercano dei significativi precedenti, riproponendo un parallelismo tra la sfida di Berlusconi e quella lanciata da Perot in qualità di outsider, nelle ultime presidenziali americane2. Più in generale, però, la spiegazione principale della sconfitta che il party cartel ha registrato nelle politiche del 1994, ruota tutta intorno al ruolo svolto in quest'occasione dai massmedia. Rappresentando l'anello mancante tra il diffuso sentimento antipartitico presente nell'opinione pubblica e le nuove elités politiche, i massmedia si sarebbero resi indipendenti dalla tradizionale subordinazione ai partiti, costituendo per la prima volta altri modelli di comunicazione, sui quali sarebbe poi nato il nuovo media party di Forza Italia. Naturalmente c'è del vero in questa interpretazione, perché mai come in queste consultazioni l'opinone pubblica è stata sollecitata attraverso dibattiti, sondaggi e tavole rotonde che, in un modo o nell'altro, chiedevano comunque un cambiamento. Berlusconi è inoltre ricorso ad una potente simbologia collettiva, mescolando in maniera decisa lo sport con la politica3. E' così è nata Forza Italia, i cui gruppi parlamentari sono stati dal suo leader chiamati "azzurri", in un significativo omaggio ai colori della nazionale di calcio. Cambiamenti di tale portata non possono essere però spiegati riducendo l'intero processo ad un media event, perché nei caratteri con cui si presenta la nuova maggioranza, in realtà è possibile riconoscere anche gli esiti di tendenze da tempo operanti nel sistema politico, che i massmedia non hanno di certo determinato ma soltanto assecondato, offrendo loro una nuova e sia pur provvisoria configurazione. Per quali ragioni si è infatti affermato un governo di centro-destra in un paese che da decenni andava invocando l'alternanza, cercandola però prevalentemente a sinistra? E qui nasce il problema che un'analisi più approfondita dovrebbe cercare di chiarire, rinunciando a consolanti spiegazioni sul media 172 power e interrogandosi invece sui limiti con cui la sinistra ha assecondato il processo di cambiamento in corso, trasformando le originarie aspettative di successo in una severa sconfitta politica. Il "polo progressista" è arrivato in realtà all'appuntamento elettorale, con una cultura e una organizzazione che erano ancora quelle della prima repubblica, pur avendo nel frattempo messo in campo tutto il possibile per favorire l'affermazione della nuova. Convinto di poter essere il principale beneficiario del processo di desertificazione istituzionale promosso con Tangentopoli, il Pds ha ad esempio accentuato quell'elemento populista da sempre presente al suo interno, sostenendo quasi di istinto le richieste del movimento referendario sinché queste si sono rivelate utili ad accelerare la crisi dei partiti di governo e allontanandosi invece da Segni, allorché diverrà evidente la necessità di costruire un più stringente patto politico4. In nome di una svolta che era e resta ancora largamente nominalistica, questo polo è diventato inoltre, e ben presto, il punto di riferimento di tutte le principali ideologie che avevano alimentato per lungo tempo la vita politica della prima repubblica. Vi aderiranno i cristiano-sociali insieme ad alcuni socialdemocratici; i socialisti e gli ecologisti; i postcomunisti e i veri comunisti ed, infine, anche Alleanza democratica, la sola forza politica che a sinistra cercherà di avviare un nuovo discorso politico, ben presto indebolito dalla intempestiva uscita di Segni. Comprensibilmente, l'esistenza di divisioni profonde si è rivelata perciò chiara già nel momento in cui è iniziata la discussione per la formazione delle candidature, perché il tavolo progressista ha cominciato a barcollare sotto il peso e le richieste delle sue diverse componenti, naturalmente avanzate tutte in nome della visibilità politica. Convinto di poter in tal modo acquisire anche il corrispondente consenso elettorale, dopo aver contribuito a delegittimare l'intero ceto politico in nome del nuovo, il Pds deciderà inoltre di traghettarne una parte verso le sponde della seconda repubblica. Sul piano interno, infine, le liste faranno il pieno di più o meno sconosciuti funzionari di partito5 laddove la destra, sapientemente riunificata da Berlusconi, incomincerà a sfornare candidature in apparenza nuove, selezionate con criteri 173 manageriali all'interno dei vari ceti professionali. Prenderà corpo in tal modo il primo e decisivo limite, nella costruzione del polo progressista. Per tradizione e formazione il Pds è sempre stato profondamente legato all'idea che i partiti continuino a rappresentare il principale snodo organizzativo della vita politica democratica. Al fondo di questa convinzione vi sono naturalmente fondate ragioni storiche e anche ideali. I partiti sono nati infatti prima della "democrazia repubblicana"6 e soprattutto ne sono stati per lungo tempo il principale motore, garantendone un progressivo consolidamento attraverso il riconoscimento di diritti sociali sempre più diffusi. Sapere che un elettore oppure un uomo politico era favorevole o meno alla democrazia dei partiti, a lungo ha significato dunque poter prevedere anche le sue sue valutazioni su un ampio spettro di problemi sociali, perché chi criticava i partiti inevitabilmente trovava ascolto soprattutto nelle ali estreme dello schieramento politico, mentre chi li sosteneva si trovava quasi invariabilmente all' interno di esso. L'idea che i partiti esprimessero non tanto una delle modalità di organizzazione della vita politica nazionale, quantola vera garanzia della sua democraticità, comincerà comunque a impallidire già durante gli anni settanta. Nel decennio successivo, questa idea perderà poi gran parte della sua capacità interpretativa, perché lo spartiacque che aveva per tanto tempo diviso le diverse forze politiche, non verrà più a coincidere con un orientamento generale a favore o contro la democrazia dei partiti. Il referendum del 1974 sul divorzio ha rappresentato il primo segnale di questa radicale inversione di tendenza. Il disagio emerso in seguito sia durante, sia a conclusione della primo governo di "solidarietà nazionale", ne indicherà l'irreversibile logoramento. Cominceranno a diffondersi perciò movimenti politici monotematici che si affermeranno non grazie ai partiti, ma piuttosto in nome di una iniziale opposizione ad essi. Sarà così per i diritti civili negli anni settanta; per l'ambiente nel successivo decennio; oppure per i temi del fisco e del federalismo, che oggi riassumono il nucleo centrale della proposta politica avanzata dalla Lega. Infine, le cose 174 andranno in questo modo anche per Forza Italia, che all'ombra del "buon governo" diverrà in pochi mesi il primo partito del paese. Strutturatosi sin dalla sua nascita come un campo di battaglia in cui si fronteggiavano armate divise e anche contrapposte ma pur sempre compatte al loro interno, il sistema politico italiano si era andato dunque trasformando già da tempo in qualcosa di ben diverso, con una rappresentanza non solo sempre più frantumata ma anche più instabile, perché alla continua ricerca di nuovi temi in grado di rafforzare il processo di identificazione ormai incrinato tra elettori e partiti. Da ciò il diffuso bisogno di un nuovo tipo di leadership, così come la richiesta di un loro nuovo modello di formazione: dopo Tangentopoli la democrazia dei partiti, che in passato era stata sinonimo di impegno civile, verrà del resto indicata nello stesso linguaggio scientifico con lo spregiativo termine di "cleptocrazia"7, non diversamente dal professionismo politico, che a sua volta sarà progressivamente assimilato al clientelismo e all'opportunismo. Di tutto ciò il polo progressista non potrà e comunque non vorrà tenerne conto, anche perché costituito da un gruppo dirigente la cui principale base di potere è sempre stata il controllo dell'organizzazione. Berlusconi avrà perciò buon gioco nell'infilare più volte il coltello nella piaga, parlando di se stesso e dei propri collaboratori come di un gruppo con alle spalle esperienze di lavoro e capacità operative, che si mette a "disposizione del paese". Il paese a sua volta gli darà credito e il Pds risulterà alla fine vincitore nel confronto con la Dc, l'avversario di un tempo, mentre dovrà soccombere di fronte a Forza Italia, divenuta agli occhi della opinione pubblica la principale espressione del nuovo. Si potrà obiettare che neanche una scelta diversa sarebbe forse bastata ad allontanare dai progressisti la sconfitta elettorale. E' possibile. Ma in un processo di cambiamento giocato tutto all'insegna della videopolitica anche i volti contano8 e la destra ha dimostrato del resto di averlo ben capito. In nome di quale ragione l'elettorato , dopo essere stato in tutti i modi sollecitato a delegittimare il vecchio sistema politico, avrebbe peraltro dovuto dare il proprio sostegno all'ultima organizzazione rimasta in piedi tra le macerie della prima repubblica? Perché premiare inoltre una 175 alleanza che ha continuato ad avere il sapore antico della vecchia unità tra le sinistre, al cui interno resteranno acquattate le nostalgie per il comunismo, la dichiarata opposizione al maggioritario emersa solo pochi mesi prima in occasione del referendum elettorale, oppure un orgoglioso ceto di partito il cui principale problema sarà quello di assicurarsi un posto in parlamento? L'esito finale dell'intero processo di cambiamento, si è dunque comprensibilmente rivelato coerente con le sue premesse iniziali. Ridotta a una manciata di parlamentari la presenza dei Verdi, della Rete, del Psi o del movimento di Alleanza democratica, ciò che dopo le elezioni di marzo è rimasto del polo progressista è poco più di ciò con cui lo stesso era partito nel 1948, allorché si chiamava comunista, mentre oggi si divide tra il Pds e Rifondazione. Ci sarà anche una coincidenza occasionale, ma tutto ciò rientra nella logica del nuovo sistema elettorale o, quantomeno, in quella delle aspettative nel cui nome tale sistema è stato introdotto. Si era andato infatti ripetendo che il maggioritario avrebbe favorito la valorizzazione dei candidati. Nel momento in cui gli apparati sono tornati ad essere i veri padroni del polo progressista, l'elettorato si è spostato perciò a destra, confermando in tal modo un orientamento critico contro i partiti, peraltro noto da tempo. Le difficoltà incontrate dalla sinistra nell'attrezzarsi a un confronto di tipo maggioritario, si sono a loro volta saldate con limiti di analisi che vengono da molto lontano, perché investono un tema antico anche se pur sempre attuale e cioè: i caratteri della Dc e le ragioni del suo decennale consenso. Indebolito dai precedenti risultati elettorali, nella passata legislatura il Pds non ha avuto infatti dubbi nel presentarsi come il partito della protesta, anche se questa si è spesso intrecciata con quella ancora più violenta, avanzata da Bossi nei confronti dell'intero sistema politico. Lo si è visto bene nel caso del governo Amato, nei cui confronti le opposizioni si sono rivelate durissime. Lo ha confermato poi la scelta maturata in tutta fretta dal Pds, allorché quest'ultimo ha ostacolato l'iniziale tentativo avviato da Ciampi, di allargare la maggioranza del nuovo esecutivo. Moltiplicando l'impatto dell'azione avviata dalla magistratura, la sinistra ha favorito in tal modo una completa delegittimazione del vecchio "centro" e per due anni il paese è vissuto in attesa di una 176 metaforica "quinta armata" in viaggio da tempo e che da un momento all'altro sarebbe entrata per liberare il paese. Forse perché timoroso di esporsi nuovamente al rischio del consociativismo; forse perché convinto di esserne comunque l'erede naturale, il Pds ha delegittimato in tal modo il ruolo della Democrazia cristiana, senza peraltro offrire alcuna prospettiva politica al suo elettorato. Indebolito da queste premesse, Martinazzoli ha poi contribuito al resto, sbagliando radicalmente la scelta sul tipo di sistema elettorale. E il risultato si è visto. Persa la propria rappresentanza di sempre, il voto democristiano si è spostato a destra con delle conseguenze in termini parlamentari che il sistema maggioritario ha a sua volta contribuito ad amplificare, in nome di una logica che era largamente prevedibile. Nel passaggio dal proporzionale al maggioritario, il "centro" può essere infatti "smembrato"9 quando una delle sue metà vota a destra e l'altra a sinistra, come peraltro successe ai liberali inglesi negli anni trenta, allorché questi si divisero tra conservatori e laburisti. Può essere "sbilanciato" allorché vota in blocco talora a destra e talora sinistra, come sappiamo essersi verificato nel passaggio della presidenza francese da una coalizione di centro destra ad una di centrosinistra. E può essere infine "annientato" quando - per le più varie ragioni - perde ogni capacità di proposta politica, esperienza questa che si è verificata in Italia una prima volta in occasione delle amministrative del giugno 1993 e si e ripetuta a maggior ragione nelle elezioni politiche, organizzate sulla base del turno unico. Le ragioni? Alcune sono già state indicate ed erano in larga misura indipendenti dalla scelte della leadership democristiana. Altre sono invece state determinate proprio da quest'ultima, in nome di una valutazione che si è rivelata ben presto sbagliata. Le tendenze centriste ci sono infatti sempre state all'interno dell'elettorato e, probabilmente, sempre ci saranno. Il confronto con la vicenda francese dimostra del resto come non basti l'introduzione del maggioritario per determinarne una subitanea scomparsa. Per arrivare alla attuale formato del sistema politico francese, è stato infatti necessario un lungo processo di disgregazione prima e poi di riaggregazione, che ha coinvolto tutte quelle forze politiche le quali nella quarta repubblica occupavano il centro e nella quinta si sono 177 poi ricollocate ora in un'area di centro-destra, ora in quella di centro-sinistra10. Superata definitivamente la proporzionale, niente di meglio e niente di più del maggioritario a doppio turno avrebbe potuto perciò garantire alla vecchio centro democristiano di continuare a competere, naturalmente del tutto rinnovato, con i due poli rappresentati dalla Lega e dal Pds. Non è così che sono però andate le cose e le ragioni sono anche molto chiare. Minacciata inizialmente alla sua destra soltanto dalla Lega, la Dc ha infatti optato per il turno unico, convinta di poter fare in tal modo il pieno elettorale, perlomeno nel Sud del paese. Per poter sopravvivere il centro avrebbe dovuto però dimostrare di avere una sua proposta politica in grado di esprimere almeno due valori: un senso di adesione alle istituzioni superiore a quello degli altri due poli; e un potere di coalizione basato su nuove idee e nuovi programmi. Ed invece il nuovo Partito popolare non si è rivelato in grado di esprimere né l'uno né l'altro sia perché gran parte degli alleati e alcune sue stesse componenti si sono trasferite armi e bagagli nei due "poli", sia perché l'impatto esercitato da Tangentopoli11 sulla opinone pubblica è riuscito ad azzerare completamente la credibilità di quel rinnovamento timidamente avviato da Martinazzoli. Unite nella orgogliosa rivendicazione delle rispettive tradizioni, tanto il centro quanto la sinistra risulteranno perciò alla fine vittime del cambiamento avviato. Il primo per averlo subito, il secondo per averlo invece favorito ed entrambe per non averlo governato. La rappresentazione simbolicamente più significativa di quest'ultima dinamica è riassunta del resto dalla parabola di Mario Segni, l'uomo politico che in questi anni più era riuscito a riunificare la destra e la sinistra, in nome del rinnovamento istituzionale. Dopo aver vinto il referendum per l'introduzione del maggioritario anche grazie all'appoggio di Occhetto e di Bossi, Segni si è visto subito dopo chiudere da entrambi ogni possibilità di alleanza ed è stato perciò paradossalmente costretto a ritornare allo stesso punto da dove era partito, ossia al centro. Ormai convinti dell''importanza di maggioranze chiare e alternative, gli elettori non lo seguiranno però su questa strada e, paradossalmente, lo stesso 178 Segni riuscirà ad essere rieletto solo grazie al meccanismo previsto dal tanto odiato recupero proporzionale del 25 per cento. Capendo a volo che nel nuovo sistema elettorale le carte della legittimità stavano ormai passando in mano alla destra oppure alla sinistra, Berlusconi non perderà invece tempo. In nome del "nuovo" tante volte invocato, chiamerà a raccolta l'elettorato di centro sventolando quelle bandiere della libertà che il partito di Martinazzoli non riesce più a rendere visibili, perché giudicato parte costitutiva del vecchio sistema politico; rafforzerà la destra, nel frattempo riunitasi in Alleanza nazionale; ed, infine, occuperà tutta la scena politica, facendo propri gli argomenti che Fini non potrà più utilizzare, per non mettere in discussione il processo di rilegitttimazione ormai avviato. Sia pure ricorrendo a un anticomunismo di maniera e perciò sicuramente datato, Forza Italia in tal modo ha svolto una funzione di cerniera tra il vecchio e il nuovo, chiudendo la diaspora aperta da Tangentopoli all'interno di quello che un tempo era stato il centro del sistema politico. Sul piano organizzativo, inoltre, i club si riveleranno uno strumento sufficiente per rinnovare gran parte della rappresentanza di destra perché, nel passaggio dalla Democrazia cristiana al Partito popolare, da "camera di compensazione" come era stata la prima in passato, quest'ultima si sarà nel frattempo trasformata in una "camera di scoppio"12. Si capisce a questo punto perché tra un leader di "plastica", come Occhetto ha definito spregiativamente Berlusconi e il segretario del Pds, l'elettorato abbia dimostrato di non avere dubbi e abbia scelto il primo, premiando il nuovo rappresentato da un movimento e punendo invece il vecchio raccolto intorno ad un partito. Forza Italia è riuscita infatti ad esprimere un leader che, rischiando del suo, si è messo a girare per il paese, naturalmente in ciò fortemente agevolato dall'avere alla spalle una potente organizzazione produttiva e un articolato impero multimediale. Ma concludere da ciò che l'intero schieramento sia stato il risultato di un invenzione dei media, vuol dire solo continuare a non voler prendere atto del fatto che i processi di organizzazione del consenso politico sono ormai profondamente cambiati. Nel sistema maggitario una alleanza senza un leader o, peggio, con un leader di partito che rinvia a dopo 179 l'indicazione di chi dovrà guidare il governo, è infatti come una macchina senza il motore. E naturalmente è vero anche il contrario. La sinistra sarà vittima del primo equivoco. La destra, invece, si accorgerà ben presto dei problemi che nascono, nel momento in cui il suo leader non potrà fare affidamento sul sostegno e sui voti di coloro nel cui nome e per conto ha chiesto di andare al governo. 2. coalizioni sulla sabbia Dopo le elezioni politiche del 1994, puntualmente si è riaperta la polemica sulla necessità di trasformare l'attuale sistema maggioritario in un turno unico secco, abolendo i residui di proporzionalismo previsti dalla legge elettorale; oppure, favorendone una sua evoluzione in senso francese, con un doppio turno non diverso da quello già previsto a livello amministrativo. Considerate le caratteristiche del sistema politico italiano, delle due alternative la seconda sarebbe sicuramente più adeguata e le ragioni sono state ripetute ormai innumerevoli volte13. Attraverso il doppio turno, i partiti potrebbero infatti in un primo momento valutare i rispettivi consensi elettorali e in seguito dare invece vita alle alleanze necessarie, per acquistare la maggioranza nei seggi in ballottaggio. Anche una scelta del genere probabilmente non si rivelerebbe però risolutiva, se non fosse accompagnata da meccanismi istituzionali capaci di vincolare i comportamenti parlamentari dei diversi attori politici, tanto prima che dopo le elezioni. I patti hanno infatti un senso, se chi li stringe è anche obbligato ad onorarli. Se questo vincolo però non esiste, qualunque soluzione si rivelerà necessariamente inadeguata a superare il problema nel cui nome è stata individuata. E infatti la promessa di "eleggere un governo" non è stata mantenuta, anche se la nuova legge elettorale era stata approvata proprio a questo scopo14. Le modalità attraverso le quali si sono costituite le diverse alleanze prima del voto e le discussioni che poi sono seguite al momento della formazione dei gruppi parlamentari, ci permettono comunque di capire che cosa non abbia funzionato15. Sul piano tecnico le coalizioni sono ovviamente presenti in ogni tipo di formazione politica perché i partiti, i gruppi di interessi o gli stessi 180 movimenti sociali presuppongono pur sempre un accordo tra i rispettivi componenti, in nome di un obiettivo comune la cui importanza appare superiore a quella delle singole finalità individuali. Perché le coalizioni avessero potuto però operare in armonia con la nuova logica maggioritaria prevista dalla legge elettorale, sarebbe stato necessario avviare non soltanto degli accordi preelettorali i più ampi possibili, ma anche una sorta di riorganizzazione interna, in grado di assicurarne la tenuta16. Una coalizione di tipo maggioritario presuppone infatti solidi blocchi politici, in grado di contrastare le tendenze alla frammentazione dei processi decisionali, che invece caratterizzano i sistemi proporzionali. E tutto ciò a sua volta rimanda all'esistenza o meno di una leadership o, in subordine, di una qualche modalità di integrazione politicoorganizzativa tra i diversi partner della coalizione. Se il sistema semina però apertamente la concorrenza elettorale all'interno delle coalizioni, prevedendo ad esempio la possibilità di recuperare nella quota proporzionale ciò che eventualmente si è perso nei colleggi uninominali, è impensabile ipotizzare una collaborazione parlamentare e governativa seconda la logica tipica dei sistemi maggioritari17. Non a caso dunque tutte le alleanze sono inizialmente nate soltanto su un accordo puramente elettorale. Non prevedendo inoltre la legge delle condizioni politiche qualificanti per la loro formazione, queste non sono state obbligate a scegliere né un leader, né un programma e nemmeno a presentarsi all'interno di una sola coalizione. Forza Italia ha potuto dunque indicare nel Sud un alleato diverso da quello scelto nel Nord e, in tal modo, non ha messo in piedi nemmeno un tavolo elettorale comune. Il "polo progressista" invece ci è riuscito, ma solo al prezzo di tenerlo ben distinto da quello programmatico, che sarebbe semmai venuto a elezioni concluse. Divise sul piano strategico, le singole componenti presenti nei diversi poli sono risultate perciò unite soltanto sul piano tattico, perché tutti hanno scelto in ogni caso di massimizzare prima i rispettivi consensi e di rinviare invece a un secondo momento la definizione dei patti di governo18. 181 Come conseguenza di questa impostazione, il conflitto politico si è perciò espresso durante la campagna elettorale con una violenza imprevedibile tra le due principali coalizioni in competizione, che si sono reciprocamente negate anche la più elementare forma di legittimazione. Subito dopo le elezioni, le divisioni sono però esplose anche all'interno dei poli, sia pure per ragioni diverse: a destra si è aperta infatti una dura polemica sulla legittimità della leadership di Berlusconi, mentre nella sinistra e nel centro è iniziata invece la caccia al capro espiatorio, così da poter scaricare sul partner di turno le responsabilità della sconfitta. Prive di una loro struttura interna che ne assicurasse la coesione, tutte le alleanze si sono perciò immediatamente incominciate a sciogliere, già il giorno dopo che era stato comunicato il risultato elettorale. Chi pure aveva un leader indiscusso come nel caso del centro rappresentato da Segni, avendo perso, ha dovuto comunque fronteggiare defezioni e tradimenti. La Malfa e Amato si sono allontanati senza polemiche, mentre alcuni neoeletti come Michelini e Tremonti, apertamente hanno contestato la linea politica seguita da Segni, nei confronti del nuovo governo. Chi invece non aveva scelto un leader appunto per evitare di dividersi, come nel caso della sinistra, ha dovuto ugualmente accettare la formazione di una pluralità di gruppi parlamentari, la cui esistenza oggi conferma ulteriormente la strumentalità della ormai superata alleanza elettorale. E si è diviso infine anche chi, pur avendo potenzialmente sia un leader sia una maggioranza parlamentare, avrebbe meglio degli altri potuto confermare la bontà della nuova legge elettorale. All'interno del polo delle libertà, Bossi ha infatti immediatamente contestato la legittimità di Berlusconi come capo del governo, cosi come Fini non ha perso un occasione per mettere in discussione la affidabilità politica della Lega. Ed anche gli stessi Cristiano-democratici di Mastella, Casini e D'Onofrio, dopo essere stati eletti nelle liste di Forza Italia, non ci hanno pensato due volte nel costituire un gruppo parlamentare autonomo, non diversamente da ciò che del resto è successo anche nel polo progressista. Cacciati a parole dal vento del cambiamento, partiti e partitini si sono dunque puntualmente ripresentati, con una articolazione 182 politica non meno frammentata del passato, perché il processo di formazione delle alleanze e delle coalizioni ha ben presto mostrato la consistenza di un castello di sabbia. Anche nella nuova legislatura i gruppi parlamentari sono del resto undici al Senato e otto alla Camera e in entrambi i rami del parlamento c'è inoltre un gruppo misto di rispettabili dimensioni, che al suo interno presenta ulteriori divisioni politiche. Perché meravigliarsi allora se le chiavi della governabilità non sono ancora nelle mani dell'elettorato, bensì in quelle di chi potrà invece esercitare i più forti poteri di veto, in nome di una logica di coalizione che si sperava invece di aver superato una volta per tutte? Forse paradossalmente, ma certo comprensibilmente, il terremoto provocato dal maggioritario non si è esaurito infatti con le elezioni politiche del 1994 perché queste, anziché rivelarsi come il punto conclusivo di un processo, hanno segnato invece l'avvio di uno nuovo. Il rispetto del principio maggioritario naturalmente avrebbe voluto che la coalizione vincente fosse stata messa in condizioni di poter governare. Ma intanto perlomeno al Senato dove, tecnicamente, una maggioranza in effetti non era stata eletta, non esistevano i numeri in senso stretto perché ciò avvenisse . Inoltre, sin dal momento della elezione dei Presidenti dei due rami del parlamento, ha preso corpo una discussione sulla opportunità o meno di un compromesso di tipo istituzionale. Sventolando lo spauracchio del consociativismo, la maggioranza respingerà questa impostazione ed eleggerà alla presidenza di Camera e Senato due propri candidati. Unito per ragioni elettorali, una volta giunto al governo il "polo della libertà" si è accorto però della difficoltà di concordare anche un programma di azione comune. L'inesistenza di un'altra maggioranza ha reso infatti possibile una alta conflittualità all'interno dell'esecutivo, che si è a sua volta intrecciata con il ruolo svolto dalle forze di opposizione. Il Pds ha guardato perciò con disponibilità al federalismo della Lega, a patto che questa si dissociasse da Forza Italia. Ed anche il Partito popolare, sia pure ridimensionato, ha lanciato segnali positivi al governo, purché questo si rivelasse disponibile ad emarginare Alleanza nazionale. 183 Naturalmente era stato largamente previsto che, non diversamente da quanto era sempre accaduto in passato, il governo sarebbe comunque nato in nome di una logica di coalizione, la quale difficilmente sarebbe stata abbandonata. Ci si augurava però che, dopo la stagione dei "governi istituzionali", il maggioritario avrebbe almeno permesso il ritorno ad una normalizzazione dei poteri. E invece sia la composizione della coalizione di maggioranza emersa dal voto, sia le sue divisioni interne, non sono bastate ad impedire che si avviasse una catena inesauribile, anche se comprensibile, di garanzie aggiuntive. Se infatti manca un accordo tra le forze politiche su come il sistema dovrebbe funzionare, inevitabilmente il Presidente della Repubblica diventa un "musicista a cui si chiede di suonare una nuova musica senza spartito19". Le richieste non sono state perciò avanzate soltanto dall'opposizione nei confronti del governo, ma anche dagli alleati di maggioranza nei confronti di Berlusconi e dallo stesso Capo dello stato nei confronti del Presidente del consiglio, prima che gli venisse affidato l'incarico di formare il nuovo esecutivo. Si è rafforzato in tal modo quel meccanismo infernale, nel cui nome ogni attore politico ha chiesto - e a sua volta ha offerto - impegni nei confronti di qualcun altro. E si è rafforzato anche quel ruolo presidenziale, che il maggioritario avrebbe invece dovuto depotenziare perché ancora una volta è stato il Capo dello Stato ad assecondare - con le sue perentorie indicazioni, ma anche con dei significativi silenzi - la nascita di un nuovo governo. Anche Berlusconi infine, dopo aver messo in piedi un discutibile sistema di controlli sul suo stesso operato, ha dovuto a sua volta garantire sia la avvenuta conversione alla democrazia dell'alleato più fidato e cioè di Fini, sia l'inesistenza di un pericolo secessionista riconducibile all' alleato più inquieto e cioè a Bossi. Ma non doveva essere l'elettorato a stabilire una volta per tutte con il voto, chi avrebbe avuto o meno la legittimità di governare? E non si era ripetuto sino alla noia durante Tangentopoli che la sola garanzia legittima sarebbe stata sempre la legge? Parole al vento! Nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, chi ha voluto governare ha dovuto comunque cercare di rassicurare. Chi cerca invece di controllare, continua a sua volta a chiedere oppure ad 184 offrire garanzie di tipo politico perché le leggi o le istituzioni, si sà, da sole non potranno mai bastare. 3. un nuovo sistema politico? Condannata per tanti anni ad interpretare ogni piccolo segnale che maturava nei corridoi di Palazzo Chigi, l'attenzione dell'opinione pubblica nella passata legislatura si è rivitalizzata. Promettendo la democrazia dell'alternanza, la domanda di cambiamento ha annullato infatti ogni ideale distanza tra Roma e Londra e il modello Wenstiminster è sembrato a tutti più vicino. Identificando gli ostacoli soltanto con gli uomini che gli esprimevano, ci si è illusi che sarebbe bastato quasi allungare una mano e le ultime resistenze sarebbero d'incanto cadute. E' stato un lungo sogno collettivo al quale è però seguito un brusco risveglio. Già all'indomani delle elezioni politiche, infatti, chi ha vinto si è reso conto di non disporre delle nuove regole per governare. Chi ha perso ha invece dovuto rinunciare a regole non scritte ma pur sempre effettive, ormai superate. Si è rotto dunque l'incatesimo legato al cambiamento inteso come processo globale, che un referendum era riuscito a promuovere e il cui impatto partiti e massmedia hanno contribuito pericolosamente ad amplificare. Nessuno potrebbe naturalmente negare che molte cose siano nel frattempo cambiate e, forse, anche con delle modalità che si annunciano ormai irreversibili. Ma può tutto ciò bastare per parlare di un nuovo sistema politico? A guardare ciò che è successo con l'occhio fisso sul breve periodo, in realtà non c'é niente che appaia realmente nuovo e tutto sembrerebbe indicare invece la ripetizione di esperienze e routinés note da tempo. Non ci sono stati ad esempio i tanto attesi duelli di tipo maggioritario, perché si è votato per le alleanze e non per i candidati. Né si è ridotta la presa degli apparati, perché il potere di presentazione delle liste è rimasto saldamente nelle mani dei partiti. Di più: abolito il voto di preferenza, si è perlomeno in questa occasione- chiusa ogni strada per i potenziali outsider. Avviato nella precedente legislatura, il rinnovamento della classe politica è naturalmente continuato. A entrare in parlamento non è stata però la società sivile, quanto un personale di seconda fila, che 185 già orbitava nell'area della politica professionale a livello locale20. E tutte le leadership, vecchie e nuove, si sono senza eccezione messe al riparo da possibili sorprese, utilizzando la ruota di scorta offerta dalla quota proporzionale. Già si prevedeva che la riforma elettorale non avrebbe garantito una maggior stabilità delle coalizioni. Oggi si può però anche dire che non si è ridotto il potere degli apparati, perché sono stati comunque questi ultimi a guidare il processo di ricambio della classe politica. E' naturale dunque che almeno una parte del sistema cerchi ancora, e in ogni occasione, di rientrare nel vecchio alveo del proporzionale. La logica che infatti lo anima resta pur sempre quella di "rappresentare" e non di "governare"21. E tuttavia il cuore maggioritario che è stato introdotto al suo interno ha determinato delle innovazioni che il tempo renderà ben presto irreversibili, perché la filosofia avviata con il cambiamento ha reso superflue le premesse sulle quali era nata in passato la prima repubblica. Ancora non abbiamo dunque un nuovo sistema politico, ma di certo ci sono tutte le premesse per questo possa ormai rapidamente maturare. La prima repubblica presupponeva infatti un "compromesso" che legava tutte le forze politiche antifasciste, ma gli eredi del Msi oggi sono al governo. Era garantita nel suo sviluppo dalle due "chiese", quella democristiana e quella comunista, ma il paese si è invece felicemente diviso in una destra e una sinistra, dimostrando l'esistenza di differenze sociali che non richiedono più di essere espresse all'ombra dei veli virtuosi dei partiti. Aveva infine istituzionalizzato tutti i diritti promessi sia pur ricorrendo al debito pubblico e oggi la democrazia del deficit si è trasformata però in un deficit della democrazia, che nessuna maggioranza politica potrà permettersi di sottovalutare. E' finita dunque l'eccezionalità del caso italiano, che lo rendeva incomparabile con le altre democrazie occidentali. Le diversità sono infatti diventate sfumature. Abbiamo una destra liberale che cerca di controllare la destra populista, non diversamente da ciò che accade in Francia e in Germania; così come c'é una sinistra la quale vorrebbe andare ben "oltre"22 i recinti nei quali è stata sinora rinchiusa, in ciò ostacolata da chi vorrebbe che restasse invece sempre uguale a se stessa. Bloccato dall'esistenza di un 186 "compromesso", due "chiese" e tanti "diritti"23, oggi l'intero sistema politico può dunque muoversi più liberamente di quanto accadesse in passato, ma non sappiamo ancora dove questa nuova opportunità ci potrà portare perché, distrutto il vecchio, il vero cambiamento deve ancora arrivare. L'elettorato ha infatti dimostrato di non temere che Berlusconi possa utilizzare il proprio potere economico per minacciare la democrazia. Forza Italia è perciò la prima organizzazione politica del paese. Il Nord non sembra credere che la Lega voglia effettivamente dividere l'Italia e perciò ha confermato la propria fiducia in Bossi. Né molti hanno veramente creduto che Fini potesse far occupare il parlamento da un manipolo di neofascisti. Chi li ha votati, insomma, di certo non li teme perché la tensione ideologica che governava il comportamento dell'elettorato si è ormai definitivamente allentata. E tuttavia il nuovo governo è nato con un problema di legittimazione, che in passato era stato sollevato soltanto nei confronti delle forze di opposizione24. Per lungo tempo la sinistra è stata infatti fortemente rappresentata sul piano elettorale, senza esser per questo legittimata agli occhi della opinione pubblica nazionale e internazionale. Oggi invece accade il contrario e tutto ciò sta però maturando in un quadro istituzionale che non ha né regole per cambiare, né certezze sulla direzione in cui il cambiamento dovrà maturare. Mutato il vento, chi inizialmente ha acceso il fuoco teme infatti di potere a sua volta bruciare, perché all'attuale bipolarismo manca quella cultura politica che ne avrebbe dovuto rappresentare una premessa essenziale: l'esistenza di un patrimonio di regole comuni, che in un maggioritario maturo vincitori e vinti non potrebbero neanche lontanamente sognarsi di contestare. Caduta ogni legittimazione basata sulla rappresentatività, è riemerso dunque l'incubo di una nuova e peggiore occupazione del potere. Sentendosi minacciati nei rispettivi diritti, tutti negano agli avversari quelle garanzie che invece invocano furiosamente per se stessi. Dall'autonomia della magistratura, alla libertà di informazione; dalla unità del paese al ruolo dell'impresa; dalla scuola alla sicurezza, non c'é insomma più un campo della vita associativa che venga considerato esente dai pericoli dello 187 statalismo o da quelli del liberismo, a seconda della prospettiva degli osservatori, dei casi e, qualche volta, anche del caso. La solenne dichiarazione di morte che il maggioritario avrebbe dovuto stendere su tutte le ideologie si sta perciò accompagnando alla insolita capacità che esse dimostrano nel continuare ad affascinare i vivi. Ma le paure, come pure le idee, non nascono dal nulla. Chi ritiene che questo genere di esagerazioni sia solo l'espressione di un pedaggio occasionale da pagare al cambiamento, in realtà sottavaluta un dato: si può esagerare soltanto qualcosa che comunque esiste, perlomeno in uno stato embrionale.E infatti la fine del proporzionalismo ha realmente cancellato ogni traccia delle vecchie regole, catapultando l'intera vita politica nazionale in una dimensione di cui nessuno conosce ancora i confini, le opportunità e anche i pericoli e che tuttavia bisognerà continuare ad esplorare. La destra non ha del resto motivi per rivitalizzare un passato al quale non ha partecipato e perciò vive il problema del cambiamento come se lo stato fosse nato solo l'altro ieri. Non avendo più alcun controllo sul presente, la sinistra gira invece intorno alla logica di sempre, quella della rappresentanza, che prima o poi dovrà essere comunque abbandonata. Nel frattempo entrambe le alleanze reinterpretano ciò che ancora non è stato abrogato da qualche referendum, alla luce di un processo che non risultava affatto previsto. Chi preme per riformare la costituzione, si appiglia ad esempio alla lettera dell'articolo 138, che ne prevede la possibilità anche attraverso una maggioranza semplice, purché poi la decisione venga sottoposta a un referendum popolare. Chi ne teme l'eventualità, giustamente sottolinea invece come ciò non possa avvenire, all'interno di un quadro istituzionale che ha assicurato la maggioranza parlamentare a quella che resta invece ancora una minoranza elettorale. Nel momento in cui emerge un possibile governo forte, diviene dunque chiaro che non esistono quelle regole che oggi sarebbero invece più che mai necessarie, per limitarne il potere. Si sperava di poter superare l' occupazione dello stato in cui il paese era vissuto in passato e invece ci si accorge del rischio che questa possa continuare e per giunta aggravata. C'era un sistema che garantiva l'indipendenza della magistratura e oggi la maggioranza potrebbe 188 modificarlo, senza che si siano precedentemente stabiliti i confini del suo intervento. Soprattutto, c'era e resta un problema istituzionale che si riteneva di aver impostato attraverso la riforma elettorale e che si ripresenta invece in tutta la sua ambiguità, perché non è ancora chiaro come sarà sviluppato. E sono le modalità attraverso le quali si arriverà a questa scelta, che defineranno i caratteri effettivi del nuovo sistema politico. Comunque lo si voglia valutare, il risultato emerso dalle elezioni politiche del 1994 non ha premiato infatti i partiti che si richiamavano alla continuità del governo parlamentare. E' impensabile che i vincitori non si propongano perciò di modificare l'assetto istituzionale, in sintonia con quel cambiamento al quale anche esse si richiamano. Nel nome di un maggior decentramento o di una riduzione del controllo dei partiti sullo stato, si sono del resto rafforzate all'interno della opinione pubblica aspettative di governabilità non diverse da quelle che negli anni ottanta imposero una prima svolta al sistema politico. La Lega ha avuto perciò buon gioco nell'affermare il tema del federalismo, che è diventato una delle questioni politiche centrali. A sua volta Alleanza nazionale da tempo sostiene l'esigenza di un rafforzamento dell'esecutivo in una prospettiva presidenziale ed entrambe le tematiche si innestano tranquillamente in quelle "retoriche"25 che l'introduzione del maggioritario ha negli ultimi anni, sia pur confusamente, introdotto nel dibattito politico. Divisa nelle sue varie componenti, la nuova maggioranza potrà perciò restare unità non solo sui criteri con i quali si dovrà arrivare alle decisioni finali in materia istituzionale, ma anche su alcuni contenuti non secondari della decisione stessa. Naturalmente le riforme che verranno dipendono anche da molti altri fattori. Bisognerà vedere se la Lega accetterà di ridurre la propria complessità politica, omologandosi nella logica di una destra parlamentare. Alleanza nazionale dovrà far convivere lo statalismo assistenzialista che ancora è presente nel suo elettorato meridionale, con il secessionismo implicito nella versione federalista avanzata da Miglio. Ed il Presidente del consiglio dovrà a sua volta sciogliere l'alternativa tra moderatismo e radicalismo, al cui interno è stata sin dall'inizio ingabbiata l'azione del governo. 189 Anche nel sistema maggioritario, perciò, prima o poi si dovrà tornare a mediare. Incompatibili nelle loro versioni più ideologiche, il federalismo della Lega, il presidenzialismo di Alleanza nazionale e il "buon governo" di Forza Italia manterranno comunque un significativo punto di confluenza, nella prospettiva di un esecutivo forte e a diretta legittimazione popolare, che vada oltre la mediazione partitica e parlamentare. Resta solo da capire in che modo, ma la risposta in questo caso è semplice, perché è già nella logica di ciò che è successo in questi ultimi anni. Le modalità non saranno infatti molto diverse da quelle sinora adottate per avviare la "rivoluzione" italiana. Si ricorrerà nuovamente alla democrazia referendaria, perché l'elettorato verrà prima o poi chiamato a legittimare, con il suo giudizio finale, decisioni politiche che già adesso si annunciano come controverse. E il mutamento che alla fine risulterà realizzato, andrà in tal modo ben oltre il movimento avviato da quelle forze politiche che così incautamente lo hanno in inizialmente assecondato. 4. istituzioni al bivio Per convinzione e forse anche per una sorta di autodifesa "razionale", siamo portati a pensare che il cambiamento politico abbia sempre una origine intenzionale. Le intenzioni però sono il più delle volte "molteplici, non necessariamente congruenti e anche ambigue"26. Se in alcuni casi queste provocano effettivamente un cambiamento, in altri le stesse vengono a loro volta modellate e assorbite dal processo che hanno avviato. Le istituzioni insomma mutano, ma l'idea che queste possano esser trasformate secondo una logica intenzionale, è ormai difficile da accettare. E lo è ancora di più se si guarda al caso italiano, perché niente lasciava in passato prevedere degli sviluppi così paradossali. Le dimensioni assunte dalla crisi politica a partire dall'ormai lontano 1992 confermano infatti che un cambiamento è ormai maturato, sopratutto grazie alla "crescente" disaffezione dimostrata dai cittadini. Ma perché "crescente", si chiederà giustamente 190 Salvati, alla ricerca di nessi "causali" in grado di spiegare quanto è sinora accaduto? "Forse che i politici italiani non erano da lungo tempo consociativi, ladri e arroganti e i servizi pubblici da lungo tempo scadenti?" C'é stato forse negli anni ottanta un inasprimento oggettivo, oppure soggettivo, oppure entrambe le cose, che possa giustificare la avvenuta mobilitazione?27 In realtà la crisi dei poteri dello stato e la diffusione di una insofferenza destinata a prendere il posto della rassegnazione, sono due processi di carattere profondamento diverso. La prima ha infatti un impatto sul sistema istituzionale, mentre la seconda si sviluppa in un ambito che è specificamente culturale. Sinché le due dinamiche però non si incrociano, rafforzandosi e autoalimentandosi a vicenda, la domanda di cambiamento non prende forma o, quantomeno, non assume una forma tale da determinare l'avvio di un diverso processo. Lo spettacolo a cui si è in alcuni casi assistito nella passata legislatura, ogni volta che sono state negate le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di un parlamentare inquisito, era ad esempio la replica di un canovaccio in cartellone perlomeno da quelche decennio. Rodotà ne ha giustamente ricordato un precedente, che vale per tutti: la discussione che ebbe luogo alla Camera il 10 luglio del 1981, allorché i segretari dei tre partiti di maggioranza attaccarono frontalmente la magistratura perché aveva arrestato - dirà Craxi in quella occasione - finanzieri come Roberto Calvi, i quali rappresentavano in modo diretto o indiretto "gruppi che contano quasi la metà del listino di borsa"28. Ma né questa né le altre vicende che hanno anticipato lo scoppio di Tangentopoli, sono da sole servite ad avviare il cambiamento. Chi oggi guarda alla storia con un occhio rivolto alla attualità, ci ricorda del resto come anche nella Francia dell' 89 tutti sapessero "che la crisi fra i poteri gonfiata dal deficit dello stato era giunta ad un punto di rottura". Nessuno si era però accorto della profondità della ribellione della società civile e così è sempre successo. Soltanto quando la "crisi istituzionale" si è intrecciata con la "certezza che le cose stessero davvero per cambiare", tutto ciò che sino a quel momento era stato accettato, si è rivelato improvvisamente insopportabile29. 191 Prima ancora di esser giudicata, la "rivoluzione italiana" ha dunque bisogno di essere meglio inquadrata, perché i processi che la possono illuminare non hanno avuto un carattere intenzionale. Nessuna forza politica porta inoltre interamente e da sola la responsabilità del modo in cui la stessa è stata avviata, anche se in molti si sono già pentiti di averla incoraggiata. Il cambiamento è nato infatti allorché alcune cause potenziali come il dissesto fiscale, la caduta del Muro di Berlino o la stessa crescita della Lega si sono temporalmente, e dunque casualmente, intrecciate con delle opportunità decisionali che il sistema rappresentativo ha offerto alla volontà popolare. Pensiamo alla democrazia referendaria30, che almeno dagli anni settanta ha rappresentato la modalità istituzionale, grazie alla quale il sistema dei partiti per un verso è riuscito a rallentare la propria crisi di legittimazione e per l'altro ne ha subito però sempre più le conseguenze imprevedibili. Offrendo all'opinione pubblica crescenti opportunità decisionali, ciò che alla fine è risultato stravolto è stata infatti la stessa logica della rappresentanza politica, perché il moltiplicarsi di iniziative referendarie ha dato vita ad un "ennesimo centro decisionale disarmonicamente distinto dagli altri e -più degli altri - incapace di generare governo31" . Il passaggio dai referendum di "stimolo" che erano stati tipici degli anni settanta e quelli di "rottura" comparsi invece negli anni '80, riassume bene le modalità attraverso le quali è maturata questa trasformazione32. Se i primi si proponevano l'obiettivo di modificare la disciplina legislativa di volta in volta in vigore, i secondi punteranno invece ad esercitare una pressione sull'intero sistema parlamentare, intrecciandosi con la stessa stabilità dei governi. Tra una fase e all'altra, cambierà inoltre anche il significato che il sistema dei partiti assegnerà alle richieste referendarie. Lo scioglimento anticipato della legislatura maturò ad esempio una prima volta perché la Dc, pur di rinviare la prova referendaria sul divorzio (1972), ne accetterà una sua prematura conclusione. E la stessa situazione si è ripetuta poi nel 1976, allorché si è cercato di evitare lo scoglio che in quella occasione verrà rappresentato dal referendum sull'aborto. Ma sarà soprattutto a partire dagli anni ottanta che le iniziative referendarie determineranno tra i partiti un 192 conflitto che andrà ben oltre i temi in discussione, perché investirà l'intero sistema politico. Dopo aver sottoscritto il famoso "patto della staffetta" che prevedeva una alternanza al governo tra socialisti e democristiani, nell'86 Craxi si rifiuterà infatti di assumere qualunque impegno in ordine all'approvazione di nuove leggi che avrebbero potuto evitare i referendum su giustizia e nucleare. Temendone il possibile impatto, la segreteria democristiana si sentirà tradita dall'alleato di governo e preferirà perciò affidare le proprie possibilità di rivincita alle elezioni anticipate. Le conseguenze di questo braccio di ferro si riveleranno paradossali. Quando Fanfani si presenta in parlamento per farsi bocciare e consentire in tal modo al capo dello stato di sciogliere le camere, i partiti referendari, Psi in testa, gli voteranno la fiducia pur di costringere il governo ad andare avanti. Si dovranno invece astenere quelle forze politiche contrarie a un prolungamento di legislatura. Per la prima volta infine, in quella occasione, il Pci avvierà un suo giro informale di consultazioni per valutare l'esistenza o meno di una maggioranza referendaria, diretta ad assicurare soltanto la celebrazione del voto su giustizia e nucleare. Non se ne farà niente, ma sarà comunque un significativo segnale. Per le controspinte determinate dal sistema politico, l'istituto referendario incomincerà da quel momento a configurarsi sempre più come un elemento interno alla "forma di governo"33, andando dunque ben oltre l'iniziale orizzonte abrogativo in cui era nato. Giocare la democrazia referendaria contro quella della rappresentanza, non è però qualcosa che non lasci un segno sul tessuto istituzionale. Implicitamente si ammetterà infatti sia l'esistenza di una crisi profonda dell'istituto parlamentare, sia la possibilità di delegittimare quest'ultimo ulteriormente, attraverso pronuciamenti di tipo popolare. Ed e ciò che puntualmente si è verificato negli anni novanta, in occasione del referendum sul sistema elettorale. Respinto una prima volta perché privo dei necessari requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, dopo essere stato riformulato il quesito referendario supererà il giudizio della Corte Costituzionale anche perché nel 1993 il governo, a differenza di quanto era accaduto due anni 193 prima, non si farà rappresentare dall'Avvocatura di stato per contestarne la ammissibilità34. Sovraccaricato con ulteriori e pesanti significati simbolici, a quel punto il referendum si intrecerrà però non solo con le strategie dei partiti dirette a modificare i rispettivi rapporti di forza, ma anche con quello che sarebbe dovuto diventare il futuro assetto dell'intero sistema politico. La rottura di leggittimità di quest'ultimo, che non era riuscita negli anni settanta con le iniziative "a raffica" dei radicali, si rivelerà dunque una realtà negli anni novanta, grazie al successo del movimento di Segni. Impadronitasi del cuore del sistema attraverso una pronuncia sulle sue regole, la democrazia referendaria ne ha in questo modo determinato la crisi perché il "potere costituente, il più importante e il più sacro dei poteri di ogni democrazia", è stato trasformato in un rito plebiscitario"35. Protagoniste di un ordine politico che "un monosillabo" ha contribuito a spazzare via, prese singolamente le diverse forze politiche non sono inoltre più in grado di prescindere da pronunciamenti popolari, che ne rilancino la capacità di iniziativa. E lo stesso può dirsi anche per le nuove coalizioni. Presentandosi come capolista alle elezioni europee in tutte le circoscrizioni, Berlusconi ha cercato ad esempio di rafforzare la propria premiership, per compensare in tal modo il potere di veto esercitato dagli alleati di governo nei confronti di Forza Italia. Ma anche le opposizioni si sono avviate sulla stessa strada, perché solo un pronuciamento popolare potrebbe oggi delegittimare un governo maggioritario, che l'elettorato ha liberamente scelto. E infatti le consultazioni per la formazione del governo erano appena iniziate allorché, puntualmente, nelle piazze sono ricomparsi i tavoli di raccolta delle firme per un referendum sulla abrogazione della legge Mammì, che i promotori naturalmente hanno battezzato come un referendum anti-Berlusconi. Infine, è lo stesso dibattito sulle riforme istituzionali ancora da fare, che verrà probabilmente indirizzato verso forme di legittimazione popolare. Ne sono una prova le proposte del governo che si propongono di rafforzare il premier attraverso una sua elezione diretta. Lo confermano i ripetuti richiami alla necessità di un referendum confermativo, per le eventuali modifiche di carattere 194 costituzionale. E, soprattutto, lo si capisce dagli orientamenti prevalenti all'interno delle diverse forze politiche. In nome di una "rivoluzione liberale e liberista", sono già depositate ad esempio presso la Corte di cassazione le firme raccolte in alcuni casi da Pannella e in altri da Bossi per tredici nuovi referendum che, presumibilmente, dovrebbero tenersi nella primavera del 1995. Si va dalla modifica delle attuali leggi elettorali, alla abrogazione dei sostituti di imposta; dalla richesta di privatizzare la Rai, alla abolizione delle misure che prevedono il soggiorno cautelare; e così via, sino alla abrogazione della cassa integrazione e di quelle stesse disposizioni che consentono ai datori di lavoro, su delega firmata del dipendente, di trattenere dalla busta paga le quote di iscrizione al sindacato. Trovato il grimaldello politico, ci sono dunque pochi dubbi sul fatto che le ulteriori modifiche istituzionali risulteranno in futuro possibili, "solo grazie ad altre iniziative referendarie"36. Lo sostengono coloro che a questo tipo di iniziativa si sono sempre affidati e lo accettano ormai anche quelle forze politiche che, generalmente, la stessa iniziativa hanno il più delle volte subito. Sino a ieri proporzionali, oggi maggioritarie nel loro principio costitutivo (il regime elettorale), le istituzioni politiche italiane si inseriscono però nel solco di una democrazia rappresentativa che, per rafforzarsi, avrà comunque bisogno di essere completata. Se il governo risponde infatti solo alla sua maggioranza, lo stato appartiene invece a tutti i cittadini. C'è dunque un problema di articolazione dei rapporti tra i diversi poteri che non investe solo il sistema della rappresentanza, ma le stesse modalità di formazione delle decisioni politiche. Nel crepuscolo della democrazia dei partiti, la necessità di ridare vitalità alle istituzioni pubbliche si è del resto manifestata in diversi modi. La scelta di affidare ai presidenti della camere il potere di designazione del Garante per l'editoria, del'autorità Antitrust o dei componenti del consiglio di amministrazione di un organismo come la Rai, ha indicato ad esempio una esigenza che andava ben oltre i casi per i quali questa ha sinora trovato le sue prime applicazioni. Sottraendo al governo la responsabilità di queste nomine, si è inteso infatti sottolinearne il carattere di garanzia, perché in una 195 democrazia moderna vi sono ruoli, compiti e funzioni la cui stabilità deve necessariamente prescindere dalla mutevolezza delle maggioranze del momento. E' impensabile che la seconda repubblica iniziata all'insegna del maggioritario, possa registrare un capovolgimento di tendenze che si sono in passato affermate, anche all'interno di un sistema proporzionale. Così come sarebbe impensabile un'opposizione che pretendesse di partecipare al processo decisionale, secondo regole non scritte ma comunque puntualmente seguite in un passato ancora non troppo lontano. Come già era accaduto nel dopoguerra, le istituzioni oggi sono dunque di fronte ad un bivio. Tra il 1945 e il 1948 le destre e le sinistre di allora si rivelarono capaci di unirsi, per dar vita ad una democrazia mediata attraverso i partiti. Oggi un patto del genere dovrebbe nascere nuovamente intorno ai principi di una democrazia che, pur essendo diventata maggioritaria, resta comunque rappresentativa. Le seconda repubblica potrà infatti consolidarsi per davvero, solo allorché governo e parlamento si assumeranno l'onere di garantire la piena legittimità del processo di transizione sinora avviato. Naturalmente non esiste alcuna possibilità di "rappresentare" la volontà popolare all'interno delle istituzioni, se non ricorrendo ai partiti e ai valori raccolti nelle ideologie. Il logoramento a cui da tempo entrambi sono sottoposti, è però ben riassunto nella scelta maturata nel corso degli ultimi anni. La sovranità popolare oggi può stabilire direttamente le regole sulle quali si fonda l'assetto dei poteri istituzionali oppure modificare le leggi dello stato. Il segnale è chiaro e indica un forte ridimensionamento del ruolo dei partiti. Padossalmente, l'avvio di una transizione solleciterebbe però come non mai la domanda di soggetti politici in grado di assicurare l'indipendenza dei rappresentanti rispetto ai rappresentati, perché solo in tal modo il processo istituzionale potrebbe essere in futuro sottratto alla immediatezza della democrazia referendaria. Vi sono tuttavia molte ragioni che inducono a ritenere poco plausibile un rafforzamento delle istituzioni rappresentative. Non c'é infatti fiducia tra le diverse forze politiche e tanto meno vi è un accordo sulla forma di governo che si dovrà realizzare. E' probabile che allorché matureranno i tempi per sciogliere questo nodo, le 196 istituzioni prenderanno perciò, di nuovo, la strada della democrazia referendaria. Lo ha già anticipato del resto lo stesso Berlusconi nel suo primo discorso al Senato (16 maggio 1994), indicando tra gli obiettivi dell'esecutivo "il rafforzamento del potere di decisione diretta dei cittadini sul governo, pur nei limiti di una democrazia che è e resta rappresentativa". Non è detto che tutto ciò debba necessariamente risolversi in un governo contro il popolo, anche perché ci troviamo di fronte ad una tendenza da tempo presente nelle democrazie contemporanee. Il ricorso ormai costante ai sondaggi oppure ai referendum, ha spogliato del resto di ogni drammaticità l'orizzonte politico apertosi in seguito alla crisi istituzionale e le nuove leadership popolari si presentano con il volto accattivante del capo-fratello, la cui autorità non viene vissuta in maniera minacciosa37. La democrazia della rappresentanza, invece, non sempre riesce ad essere amata solo perché assicura - quando assicura - delle buone dentiere agli anziani o l'assistenza alle partorienti. Per significative che siano queste conquiste, la gente resta comunque infelice ed è un bene che lo scontento emerga, perché quei sistemi sociali dove era previsto quasi per legge di esser fiduciosi nel futuro, sono crollati tanto rapidamente, quanto improvvisamente. Importante sarebbe però scegliere risolutamente o l'una o l'altra delle due strade che ancora possiamo percorrere. E' una alternativa, questa, che preoccupa non poco e che naturalmente potrà suscitare giudizi diversi. Ma almeno bisognerebbe riconoscerla come tale, perché il cambiamento difficilmente si potrà arrestare al bivio istituzionale in cui è per ora arrivato. 1 sulla Lega di Bossi si veda I. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma 1993; G. De Luna, Figli di un benessere minore. La lega 1979-1993, Laterza, Bari 1994; sul Msi, dal cui ceppo nasce Alleanza Nazionale, si veda P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Moviemento Socialre Italiano, Il Mulino, Bologna, 1988 e, più recentemente, P. Ignazi, Nuovi e vecchi partiti di estrema destra in Europa, in Rassegna Italiana di Scienza Politica, n. 2 1992; una interpretazione della dinamica elettorale più recente è in R. Manneimer ( a cura di), La lega lombarda, Feltrinelli, Milano 1991 e P. Corbetta, La Lega e lo sfaldamento del sistema, Polis, n. 2 1992; 197 2 una analisi aggirnata del "perotismo" è in J. Daniel - D. Owen, Anti-partism and support for Perot, ECPR, Madrid 1994; per una analisi generale delle tematiche anti-party, si veda H. Daalder, A crisis of Party, Scandinavian political Studies, n. 15 1992 3 A. Dal Lago, Il voto e il circo, MicroMega, n.1 1994 4 Una prima ricostruzione di questa vicenda la si ritrova in A. Barbera - S. Ceccanti, L'alleanza che non c'é stata, Reset, n.6 1994 5 Pasquino giustamente segnala come la possibilità di una "lista bloccata" prevista dalla nuova legge elettorale, di fatto ha contribuito a ridurre "il ricambio del personale politico", oltre ad avere naturalmente violato il principio maggiritario secondo il quale ciascun elettore avrebbe dovuto eleggere il proprio candidato. Si veda G. Pasquino, La riforma elettorale in Italia. Fatte le leggi si cerca il rimedio, in O.Massari - G. Pasquino ( a cura di), Rappresentare e governare, Il Mulino, Bologna 1994, pag. 226 6 L. Ornaghi - V. E. Parsi, La virtù dei migliori, Il Mulino, Bologna 1994, p.146 7 Sapelli ricostruisce in tal modo il "meccanismo unico" che ha legato i processi di disgregazione istituzionali al diffondersi della illegalità economico-politica. G. Sapelli, Cleptocrazia, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 148-151 8 è da questa consapevolezza che ha preso del resto le mosse la proposta, alla quale non c'é poi stato seguito, di una "convenzione dei sindaci" avanzata in più occasioni da P. Flores d'Arcais; si veda, da ultimo, P. Flores d'Arcais, Ricominciare dalle libertà, in MicroMega, n.2 1994 9 l'impatto del sistema maggioritario sul centro è delineato da M.Duverger, I partiti politici, cit., p. 276 10 una ricostruzione di questa dinamica la si ritrova in V. Wright, The government and politcs of France, Routledge, London 1993, pp. 161-180 11 Ricolfi ha calcolato che nella passata legislatura i parlamentari "a rischio" di essere inquisiti per reati gravi fossero uno su due, con punte del 70-80% per gli eletti nelle file del quadripartito. L. Ricolfi, L'ultimo parlamento. Sulla fine della prima repubblica, Nis La Nuova Italia, Roma 1994 12 E. Berselli, L' Arca della alleanza democratica, in Il Mulino, n.4 1993, p.770; sullo spazio che sia apre a destra del sistema politico italiano a seguito della fine del "partito cattolico", si vedano le conclusioni di G. Baget Bozzo, Cattolici e democristiani. Un'esperienza politica italiana, Rizzoli, Milano 1994 13 si vedano, per tutti gli argomenti avanzati da G. Sartori, Seconda repubblica? Si ma bene, Rizzoli, Milano 1992, pp. 11-15 14 una rassegna delle diverse proposte avanzate al riguardo è in S. Messina, La grande riforma. uomini e progetti per una nuova repubblica, Laterza, Bari 1992; ed in C. Fusaro, Guida alle riforme istituzionali, Rubettino, Cosenza, 1991 15 Non sembrano di grande utilità, al riguardo, quelle analisi che applicano alle coalizioni la teoria dei giochi; si veda, da ultimo, M. Laver - N. Schofield, Multiparty Government. The politcs of coalition in Europe, Oxford University Press, London 1992 198 16 non a caso questo è sempre stato il problema principale del sistema politico americano; A. King, The american polity in the late 1970s, in A. King ( a cura di), The new american political system, cit., p.390; per i suoi sviluppi dopo la riforma delle primarie, si veda S. Fabbrini, Il presidenzialismo negli Stati Uniti, Laterza, Bari 1993 17 Sugli incentivi legati al nuovo sistema elettorale, si veda R. D'Alimonte - A. Chiaramonte, Il nuovo sistema elettorale: quali opportunità?, in Rivista Italiana di Scienza Politica, n.3 &994 18 per una analisi delle differenze tra coalizioni pre-elettorali e post-elettorali, si veda S. Lipset, Coalition politics. causes and consequences, in AA. VV. Emerging coalitions in american politcs, Institute for Contemporary Studies, San Francisco 1978, p. 439 19 Questo problema era già evidente ai tempi della presidenza Cossiga ma, naturalmente, oggi ha un impatto molto più forte. A. Baldassarre, Il capo dello stato, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato - A. Barbera , Il Mulino, Bologna 1991, p.494 20 Censis, Vecchi politici o nuovi notabili? Radiografia dei candidati, ciclostilato, Roma 1994 21 le diverse logiche del sistema maggioritario rispetto a quello proporzionale, sono ben documentate da O. Massari, Gran Bretagna: un sistema funzionale al governo di partito responsabile, ora in O.Massari - G. Pasquino ( a cura di), Rappresentare e governare, cit, pp. 26-34 22 F. Adornato, Oltre la sinistra. Come liberarsi dal complesso della sconfitta, Rizzoli, Milano 1991 23 La ricostruzione del "compromesso costituzionale" è riproposta oggi da P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit, cap. 4; il modello del "partito- chiesa" è delineato in una delle prime ricerche sul sistema politico italiano da F. Alberoni, Partecipazione politica e dinamiche collettive, ora in AA. VV., L'attivista di partito , Il Mulino, Bologna 1967; la problematica dei diritti è, nei suoi termini generali, significativamente riassunta nel titolo di una recente raccolta di saggi pubblicata da N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino 1992 24 G. Sabatucci, La soluzione trasformista. Appunti sulla vicenda del sistema politico italiano, cit. 25 S. Warren - D. Gambetta, Le retoriche della riforma. Fine del sistema proporzionale in Italia, Einaudi, Torino 1994 26 J. March e J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica), cit., pp. 95-101 27 M. Salvati, L'imprevista ma prevedibile caduta di un regime, Il Mulino, n.2 1994, p.245 28 S. Rodotà, Le radici istituzionali della corruzione, in Micromega, n.3 1993, p. 195 29 P. Viola, E' legale perché lo voglio io. Attualità della rivoluzione francese, Laterza, Bari 1994, p.140 199 30 una critica radicale verso il modello di "democrazia referendaria" è quella di G. Sartori, Democrazia. Cosa è, cit, pp.82-87. Sartori in realtà pensa non tanto ad un istituto "inserito nella democrazia rappresentativa", quanto ad "uno strumento che la soppianta", grazie allo sviluppo delle comunicazioni di massa. Che, appunto, è la dinamica alla quale ci riferiamo, sia pur con un attenzione prevalentemente rivolta ai profili istituzionali. Per una periodizzazione della influenza esercitata dal referendum a seconda del momento politico, si veda M. Volpi, Una storia infinita: l'influenza dei referendum abrogativi sul sistema politico-istituzionale, Politica del diritto, n.2 1992 31 S. Lupo, Il crepuscolo della repubblica, in AA. VV., Lezioni sull'Italia repubblicana, cit., pp. 96-97 32 la distinzione è avanzata da A. Pizzorusso, Minoranze e maggiranze, Einaudi, Torino 1993, pp.4-5 33 Questa analisi è stata sviluppata da M. Luciani, Il referendum impossibile, in Quaderni Costituzionali, n.3 1991, p.517; sui progetti di riforma elettorale si veda inoltre M. Luciani, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme elttorali in Italia, Editori Riuniti, Roma 1991 34 una ricostruzione della "straordinaria fortuna" legata al sovrapporsi di una molteplicità di coincidenze che hanno portato al referendum elettorale, la si ritrova in C. Amadei, Segni dei tempi. La resistibile ascesa di un referendum, in Politca del diritto, n.2 1993 35 M. Calise, Dopo la partitocrazia, cit., p. 158 36 la previsione è formulata da A. Panebianco, Prefazione, in M. Teodori, Una nuova repubblica? Sperling Kupfer, Milano 1994, p.IX; anche Teodori sviluppa un'analisi non diversa nel cap. 4 37 Per un approfondimento di questa tesi, rinviamo a M. 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