Democrazia Referendaria.

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Democrazia Referendaria.
Democrazia Referendaria.
Opinione pubblica e cambiamento politico
nell’Italia contemporanea
Marcello Fedele
(Sapienza - Università degli Studi di Roma)
Editore Donzelli
1
"Conchiudo. L'attuale Parlamento non
sarà forse più quando questo libro verrà a la
luce. Non importa. Il libro resta ugualmente."
(F. Petrucelli della Gattina, I moribondi di
Palazzo Carignano, 1862)
2
Introduzione(da completare)
pag.
Parte Prima: cittadini senza istituzioni
1.democrazia dei partiti
- un inquadramento storico
- il consolidamento bloccato
- la svolta degli anni '80
- le due crisi
pag. 4
2. La deriva della regolazione
- le pretese della cittadinanza
- decisioni di bilancio
- il deficit di integrazione
- convenienze e doveri
pag. 29
3.il trionfo dell'opinione pubblica
- mutamenti nella rappresentanza
- la razionalizzazione del parlamento
- l' impatto dei referendum
- massmedia e sistema politico
pag. 55
Parte seconda: La politica del cambiamento
3
4. Decisioni controverse
- i nuovi confini della comunicazione politica
- gli indicatori di processo
- decisori alla ricerca di problemi
- le riforme elettorali
pag. 82
5. cambiamento e risentimento
- rivoluzione o diaspora?
- tangentopoli
- il "governo del referendum"
- problemi di rendimento
pag.116
6.da una repubblica all'altra
- il cambio di guardia
- coalizioni sulla sabbia
- un nuovo sistema politico?
- istituzioni al bivio
bibliografia generale
cap. 1 La democrazia dei partiti
4
pag.148
pag. 174
1. Un inquadramento storico
Nel dopoguerra l'Italia repubblicana nacque da uno scontro
interno alle elités politiche di allora: da una parte c'erano i gruppi
dirigenti legati ancora alla vecchia tradizione risorgimentale,
dall'altra i futuri segretari di partito, che rappresentavano invece le
nuove realtà popolari. Conclusa l'esperienza del governo Parri, il
conflitto esplose già nel 1946, allorché si trattò di sceglierne il
successore. Una dopo l'altra caddero le candidature di uomini come
Vittorio Emanuele Orlando, Ruini e Sforza, mentre si impose la
scelta di De Gasperi. Scoppola ha colto bene il nocciolo di quella
discussione, ricostruendola attraverso l'orientamento dei suoi
principali protagonisti. Un governo presieduto da De Gasperi, dirà
in quella occasione Togliatti senza mezzi termini, "significherebbe,
tra l'altro, rompere una volta per sempre quella specie di tradizione
reazionaria la quale tende ad escludere dalla direzione di governo...gli uomini di determinati partiti come il partito democristiano o quello comunista o quello socialista". Poiché sono
proprio i partiti che hanno maggior seguito nel paese, un governo
formato all'infuori di questi ultimi, magari attraverso una
personalità indipendente, sarebbe - concluderà perciò Togliatti - "un
fantasma, un nome senza soggetto".1 Più chiaro di così! La prima
repubblica è nata dunque dall'esigenza di un "ricambio" politico e
non diversamente sta succedendo del resto alla seconda, con una
differenza: oggi sono i partiti ad aver perso ogni consenso e la
leadership del cambiamento è perciò passata in altre mani.
La tesi della "continuità" dello stato repubblicano con il passato
regime è stata per la verità proposta ripetutamente sia in sede
storica, che politica. Più difficile è stato invece accreditarla anche
tra i giuristi, perché questi hanno largamente insistito sulla novità
democratica della costituzione del '48, contribuendo in tal modo alla
legittimazione di tutto quel nuovo "ceto" che con la stessa si sarebbe
ben presto affacciato sulla scena. In realtà la scelta di allora fu
quella di concentrare tutti i "poteri" nel parlamento sovrano e tutte
le "garanzie" nel sistema dei partiti, sottraendo in tal modo il
legislatore a quel duplice ordine di vincoli che rappresentano invece
5
l'essenza stessa di ogni democrazia: un potere di indirizzo politico
da parte dell'esecutivo; un controllo di legalità da parte della
magistratura. Come già era accaduto allo stato liberale, nel 1948 si
privilegiò dunque la "unità" della volontà statale, rendendo nei fatti
necessaria la "cooperazione", ma non la divisione, tra i diversi organi istituzionali. La repubblica nacque perciò con un esecutivo
debole e con una magistratura che fu sin dall'inizio subordinata al
"primato" dei partiti.
Naturalmente dal '48 ad oggi il quadro istituzionale è in parte
cambiato, soprattutto nel caso dei poteri esercitati dalla
magistratura2. Non era questo però il solo limite della prima
repubblica, nata in nome di un ricambio nei gruppi dirigenti,
piuttosto che nelle istituzioni. Né è molto chiaro come quest'ultimo
problema verrà risolto in quella che molti già chiamano la seconda
repubblica. Eppure, perché ci sia una effettiva rottura nella storia di
un paese, è necessario che i rapporti tra i diversi organi di governo
mutino non soltanto sul piano politico, ma anche su quello
giuridico-istituzionale.
Per funzionare, la divisione dei poteri
dovrebbe infatti mantenere pur sempre quello che è il vero punto di
forza di ogni gioco d'azzardo: nessuno sa se il punteggio altissimo
che ha in mano gli darà davvero il diritto di vincere, perché c'é
sempre qualche altro giocatore che potrebbe a sua volta impedirlo3.
Non ragionando troppo di fino, chi ha in questi anni sostenuto la
necessità del cambiamento non sempre ha avuto tempo per
occuparsi di simili dettagli. Si è pensato che sarebbe bastato un
ricambio ed ecco che le istituzioni avrebbero ripreso a fiorire,
magari a colpi di leggi costituzionali o meno, approvate in gran
fretta tra un referendum e l'altro. Non fu così nel 1948 e non lo è
stato nemmeno nel 1970 allorché - su pressione di un altro tipo di
movimenti, quelli del '68 - si decise di avviare il decentramento
regionale.
Studiandone il "rendimento" istituzionale e cioè il modo effettivo
in cui questo ha operato e non solo le funzioni che astrattamente le
leggi prevedevano sulla carta, Putnam avanza a questo proposito
degli argomenti sui quali sarebbe utile riflettere attentamente,
perché hanno una valenza più generale delle vicende da cui
prendono le mosse. La ragione principale della diversa capacità di
6
governo regionale che il Nord ha registrato rispetto al Sud, o che la
vita politica di una città come Bologna rivela anche a occhio nudo
nel confronto con quella di una qualunque città meridionale, ha un
nome e dei suoi possibili indicatori empirici. Per descriverla,
Putnam parla di civic-ness, utilizzando perciò un termine che nella
lingua italiana non trova un suo esatto corrispondente e che solo
approssimativamente, anche se abbastanza fedelmente, può esser
tradotto con l'espressione di "senso civico".
La vita civile e i rapporti tra gli individui sono da tempo più
arretrati nelle regioni meridionali, dove una volta c'era il regno
normanno; di poco superiori nei territori che per secoli appartennero
allo stato pontificio e avanzati soltanto nelle aree toscane o padane,
dove è fiorita la tradizione repubblicana dei comuni. "Già all'inizio
del trecento, scrive perciò Putnam, l'Italia si ritrovò non con uno ma
almeno con due nuovi sistemi di governo, abbinati ad originali
caratteristiche sociali e culturali: la celebre autocrazia feudale
normanna al sud e il produttivo repubblicanesimo al nord"4. In
questa diversa collocazione di storie, tradizioni e fiducia nelle
relazioni personali, nasce perciò quel dualismo di fondo che poi si
manifesterà anche sul piano del rendimento politico e istituzionale.
Da almeno dieci secoli Nord e Sud affrontano infatti in maniera
tra loro diametralmente opposta i "dilemmi" posti dalla azione
collettiva: ed è per questa ragione che al Nord le norme di
reciprocità e le reti di impegno civico hanno permesso di sviluppare
livelli di rendimento istituzionale molto più alti che non al Sud,
dove le relazioni sociopolitiche erano e restano invece strutturatesu
base clientelare5. Esiste dunque una circolarità nel processo che,
partendo dall'esistenza di un diffuso senso di appartenenza civica,
spinge poi verso la creazione di istituzioni in grado di consolidarne
l'impatto e viceversa. Allorché queste ultime si affermano, ne uscirà
infatti rafforzato anche il tessuto sociale in cui le stesse si innestano.
Che cosa succede però se il circolo virtuoso non riesce ad avviarsi?
L'originalità dell'analisi di Putnam risiede proprio nella capacità
di offrire una risposta a questo genere di interrogativi, proponendo
un legame tra l'Italia dei comuni e quella regionale, che si stende su
un arco temporale di circa mille anni! Naturalmente questo legame
non è stato né approfondito sul piano temporale come forse
7
avrebbero fatto gli storici, né inquadrato in maniera sincronica con
altri indicatori del sistema politico, come generalmente fanno invece
i politologi. E tutto ciò ha sollevato comprensibili critiche tra i
meridionalisti e tra gli studiosi dei sistemi politici regionali6.
Tuttavia questa analisi presenta uno spessore del tutto insolito
proprio perché applica un paradigma relativamente nuovo, quello
neoistituzionalista7, alla comprensione delle dinamiche politiche.
Cambiata la prospettiva di osservazione, anche il panorama
osservato si presenterà dunque diverso.
Le istituzioni non si inventano dall'oggi al domani, né nascono
solo perché la volontà popolare, oppure il legislatore, ne decretano
l'avvio. Presente e passato si intrecciano invece in un unico nodo
storico e gli sviluppi del primo sono sempre condizionati dai vincoli
tracciati dal secondo. E' una indicazione, questa, che si rivela
preziosa sia per riflettere sul nostro passato, sia per guardare ai
problemi da questo lasciati in eredità a un futuro ormai prossimo.
Le istituzioni non sono infatti figlie di fumose e complicate
simbologie, né il ricambio del ceto politico basta ad assicurarne un
effettivo funzionamento. L'incertezza che oggi caratterizza ogni
tentativo di indicare i possibili profili istituzionali della seconda
repubblica, è lì per ricordarci in ogni momento la natura delle
difficoltà che si dovranno comunque affrontare.
I partiti stanno del resto cambiando simboli, nomi e anche
immagine pubblica, ma la cultura politica di un sistema che per
tanto tempo è vissuto soltanto su ben circoscritte "appartenenze", è
ben più dura a morire. Tangentopoli si è inoltre rivelata una
catastrofe della nostra identità nazionale, per un motivo ben diverso
e anche più grave di quello che sino ad oggi ha colpito
l'immaginazione popolare: se infatti la classe politica ha messo a
nudo tutta la propria miseria, dal canto suo il paese ha dovuto
prendere atto di esser vissuto per lunghi anni al di fuori di ogni
legge. L'elenco di questa profonda mancanza di civic-ness, di
appartenenza a una comunità civile, è troppo lungo perché sia
possibile riportarlo compiutamente. Si potrebbe cominciare dalle
cose minori, ma non per questo meno significative: l'assunzione di
massa e al di fuori di ogni concorso, con cui sono stati riempiti i
ruoli del pubblico impiego; i falsi invalidi; gli evasori fiscali di
8
professione e così via, sino al mondo inquietante della corruzione8
che giustamente, ma spesso con poco costrutto, tutti si sono
affrettati a condannare.
Da tempo il "bene pubblico" andava dunque morendo o
comunque si andava nascondendo, spaventato dalla diffusione di un
linguaggio e di comportamenti politici, al cui interno tutto ciò che
coincideva con interessi di tipo negoziale, inevitabilmente veniva
considerato anche leggittimo. E' stata questa la vera "macchia
cieca"9, la "emergenza catastrofica" che si è sempre più
prepotentemente rivelata come il pericolo più grave per la nostra
democrazia. Ed è per questa ragione che la "rivoluzione" avrebbe
dovuto legare maggiormente il suo destino all'esistenza di un
"parametro trascendente", capace di andare oltre l'orizzonte delle
utilità individuali o di gruppo. Le cose non sono andate però in
questo modo, perché il cambiamento è nato guardando soltanto al
presente e si è alimentato in nome degli odi emersi nel passato.
Comportandosi come i cattivi prelati dell'alto medioevo che
vendevano indulgenze e benefici ecclesiastici, la classe politica
della prima repubblica ha naturalmente offerto più di un argomento
a questo risentimento, perché la sua azione ha dato vita non a una
semplice corruzione, ma a vera e propria simonia10. Se la
magistratura aveva il diritto di continuare ad indagare nel passato, le
leadership del cambiamento avrebbero però avuto il dovere di
guardare al futuro, evitando in tal modo di affidarsi soltanto
all'intransigenza della legge. La "politica con altri mezzi"11, è
questo il suo nome, indica infatti l'esistenza di limiti anche in chi la
promuove, perché si affida alla magistratura una domanda di
ricambio che dovrebbe invece maturare in ben altro modo.
Se questo è stato però il principale mezzo nel cui nome si è in
Italia riusciti ad avviare la "rivoluzione", allora prendiamone atto e
tiriamone anche le conclusioni. Chi ha insistito sulla propria
"diversità", ha inconsapevolmente approfondito quella esasperata
ricerca del nuovo, da tempo avviata grazie ai "guerrieri" di
Pontida12. Delegittimatosi in tal modo l'intero sistema politico,
l'elettorato si è convinto della necessità di cambiare e in più ci ha
aggiunto del suo. Ma non era il "ricambio" il solo problema della
prima repubblica, anche se per lungo tempo è stato indicato come
9
tale. Indipendentemente dalle volontà e dalle scelte di ognuno, nel
dopoguerra tutti noi siamo diventati cittadini solo grazie ai partiti.
Venuti meno questi ultimi, oggi ci rendiamo però conto di non
avere ancora le istituzioni necessarie, per stabilizzare la dinamica
del cambiamento politico. Le ragioni? Potremo capirle meglio
volgendo lo sguardo ad un passato che, in fondo, non è nemmeno
troppo lontano.
2.il consolidamento bloccato
E' almeno dagli anni settanta che alcune forze politiche cercano
di riacquistare consensi, sventolando la bandiera del "partito degli
onesti". Di più. E' spesso bastato che si alzasse il "vento del cambiamento" perché, puntualmente, ricomparissero i "tecnici" e i
"competenti". Privilegiando l'alleanza con l'etica13, il cambiamento
ha dunque fatto sinora a meno di una politica in senso stretto e le
stesse istituzioni sono state considerate considerate come un
optional, da invocare o meno a seconda dei casi. Si è in tal modo
stabilizzata un'interpretazione della democrazia alquanto
semplificata. Non è molto diversa da quella proposta per ultimo
nella celebre Encyclopaedia Britannica, che nel suo aggiornamento
(1993) ha così riassunto il vicolo cieco in cui i "partiti di maggioranza" hanno rinchiuso il paese : " Il loro governo è durato 46 anni,
Mussolini e il fascismo resistettero solo 22 anni".
Sarà anche vero, ma la democrazia non è soltanto cronologia,
con un prima che è "vecchio" e un dopo che è "nuovo", come si è
andato invece dicendo per spiegare la "rivoluzione" italiana. Né i
governi servono a misurare la durata del tempo, come fanno i
calendari. Deboli nello stato unitario prerepublicano, in realtà le
istituzioni non sono state rafforzate neanche dopo, durante la repubblica nata dalla resistenza; e tantomeno sono comparse all'orizzonte,
nel momento in cui si è affermata la "rivoluzione italiana". La
frettolosità con la quale molti osservatori si sono andati inchinando
di fronte al "nuovo", non è stato dunque un buon segnale. Il
comprensibile senso di liberazione che era nell'aria, si è infatti tirato
dietro un rischio che si sarebbe dovuto assolutamente evitare: quello
10
di cancellare con un sereno sospiro di soddisfazione, l'esistenza di
problemi che il cambiamento politico in corso aveva solo impostato,
senza essere peraltro riuscito a risolverli.
Chi non ha perso tempo nel mettere la parola "fine" alla "storia
della prima repubblica" oggi paga perciò questa sicurezza iniziale,
con lo smarrimento da cui è preso allorché si rivolge con lo sguardo
al futuro. "La prima repubblica finiva - dirà ad esempio Lepre con
preoccupazione, collocando il suo osservatorio all'interno della fase
apertasi dopo le elezioni del 1992 - ma nessuno riusciva a scorgere,
nemmeno in maniera vaga e approssimativa, i lineamenti della
seconda", perché non c'era partito o gruppo di partiti in grado di
guidarla, "per mancanza di progetti lucidi o di autorità morale"14. In
nome di quale principio, del resto, il cambiamento si è del resto
imposto? Non può considerarsi tale il risentimento verso la classe
politica dilagato negli ultimi anni, perché nello stato di diritto le
garanzie vengono assicurate dalle leggi e non attraverso gli umori
dell'opinone pubblica; non può esserlo soltanto la riforma elettorale,
perché questa ha sinora permesso di modificare i rapporti di forza
esistenti tra vecchi e nuovi attori politici, ma non basterà da sola a
dare stabilità all'azione dell'esecutivo; non c'é traccia di una
maggiore statualità dei futuri processi decisionali, perché continuano quelle routinés operative che ne favoriscono la loro
deformalizzazione; né tutto ciò che oggi viene proposto come
nuovo, può essere ritenuto tale per davvero. Da cosa nasce allora
questa seconda repubblica?
Si capisce perché Lepre non ne abbia visto i lineamenti: questi
non erano infatti per nulla chiari. La stessa ricostruzione che ci
viene generalmente proposta sul piano storico è inoltre una interessante passerella dei valori sociali, religiosi e anche politici, che il
paese ha maturato tra il 1942 e il 1992. Manca però qualunque
traccia della presenza di quei valori statuali in senso proprio che
pure
vengono
generalmente
considerati
decisivi
per
l'istituzionalizzazione dei sistemi politici contemporanei. Ma
avrebbe potuto esserci una storia di qualcosa che nessuno ha mai
voluto e, tantomeno, realizzato?
E' stato detto che la verità si trova spesso in quel punto di incrocio, in cui confluiscono prove tra loro indipendenti. Mai quanto
11
nel caso del nostro passato, l'osservatore ha dunque bisogno di
puntare su una diversificazione delle fonti. Per venire a capo di quel
"compromesso" costituzionale maturato nel '48, è necessario
riuscire infatti a vedere in tutta la sua importanza sia ciò che è
accaduto, sia ciò che invece non si è mai verificato. Nel '48 si gettarono le premesse per creare una nuova cittadinanza repubblicana.
Per sviluppare un più profondo senso di appartenenza civica e per
tener viva la identità nazionale, nei decenni che seguirono non si
andò però oltre l'orizzonte dei valori. Ma le istituzioni non sono
soltanto realtà morali. Sono anche regole, organizzazioni e controlli
e questi problemi incominceranno a diventare evidenti solo dopo
molti anni.
Ha invece una opinione diversa Miglio il quale, avendo scoperto
"l'altra faccia della luna", ossia l'importanza dei "rapporti
interpersonali rispetto al sistema delle norme oggettive", non manca
di applicare questo tipo di analisi anche alla vicenda italiana, con
conclusioni che colpiscono per la loro disinvoltura. Secondo Miglio
la "prima repubblica" non ci sarebbe mai stata e la "seconda"
sarebbe invece incominciata nel '48, per una ragione molto
semplice. Non avendo preso parte alla sua formazione, De Gasperi
"non amava la costituzione" e decise perciò "di lasciarne inapplicate
alcune parti"15, favorendo in tal modo un cambiamento
"irreversibile" del modello. Oggi poi, saremmo già in cammino
verso la "terza repubblica", quella federalista.
Chi ha ricostruito con più rispetto per la verità quel periodo, la
pensa però in altro modo. Nel '48 la scelta a favore dei partiti fu
anche, e in buona misura, determinata dalla difficoltà di assicurare il
necessario consenso alla repubblica appena nata16. E' falso
affermare dunque che De Gasperi, in fondo, aspirasse solo "a
restaurare la vecchia democrazia prefascista". Attraverso la
subordinazione delle istituzioni pubbliche ai partiti, la Dc getterà
invece le basi di un party government 17, le cui fortune sarebbero
tramontate poi insieme a quelle del centrismo. Il consolidamento
inizialmente avviato, fu in tal modo bloccato. Da quel momento la
prima repubblica andrà avanti, consumando un pò alla volta il suo
effettivo asse ereditario: i valori rappresentati dalla partitocrazia, i
cui vizi - dirà lucidamente Calise18 che sino all'ultimo ha cercato
12
anche di spiegarla e non soltanto di giudicarla - per lungo tempo
hanno continuato a riassumere anche le vere ragioni della sua forza.
Tutto ciò risulta peraltro documentato dal carattere "circolare" e
non "lineare", che la storia costituzionale ha avuto dal dopoguerra
sino ai giorni nostri. Bonelli, che forse con qualche distacco giudica
"originale e originaria" questa dinamica, ne propone anche una
convincente periodizzazione storica19: è solo la fase che va dal 1948
al 1953 a caratterizzarsi attraverso una forte leadership di governo
e un chiaro rapporto tra maggioranza e opposizione. Dopo il 1953
prese corpo invece una tendenza "circolare" in seguito alla quale, in
nome di un più diffuso consenso, veniva fortemente limitata
l'istituzionalizzazione di quelle regole e di quelle strutture che sono
tipiche di un moderno stato di diritto.
Perché meravigliarsi allora se anche alcuni provvedimenti
approvati negli anni ottanta, dalla riforma degli enti locali alla legge
istitutiva della Presidenza del Consiglio, in realtà risultavano essere
stati presentati, sia pure con contenuti diversi, già nel corso della
prima legislatura? Sepolta dai risultati elettorali di quel lontano
1953, ci sono voluti almeno tre decenni prima che la regola di
maggioranza abbia potuto nuovamente affermarsi nella dinamica
del sistema politico.
Il punto di svolta di questa vicenda assai lunga, è generalmente
collocato agli inizi della VII legislatura e cioè nel biennio 19771978. Durante il governo delle "larghe intese" il Pci, che era allora
il secondo partito del paese, continuerà infatti ad essere escluso dal
governo, anche se verrà incluso nella sua maggioranza
parlamentare. Ha detto impietosamente Galli della Loggia20: i
comunisti non potevano disporre neppure di un "sottosegretario alle
poste" e però continueranno a parlare di "austerità", nuovi modelli
di sviluppo e di governo, pur essendo avvolti nelle spire "ipnoticodilatorie" della Democrazia cristiana. Senza mai scomporsi
Andreotti, allora Presidente del Consiglio, li lascerà dire e sarà
questo l'ultimo "capolavoro" nel cui nome si cercherà di tenere
insieme maggioranza e opposizione, governo e parlamento,
controllo e consenso. Dopo, per i partiti diverrà infatti difficile non
tanto mettersi d' accordo, quanto - trovato l'accordo - riuscire
comunque a farlo seguire da una decisione.
13
Naturalmente negli anni ottanta c'é stato anche chi ha cercato di
invertire la direzione di marcia sino a quel momento seguita,
promettendo una "governabilità" che tuttavia non è poi riuscita a
farsi strada. Resterà perciò in vita quella leggenda metropolitana,
nel cui nome ancora oggi si spiega la crisi della prima repubblica. Il
disprezzo per le forme, l'indifferenza al diritto e la rivendicazione di
una ragione basata solo sul potere dei voti, continueranno infatti ad
essere imputati ad una ormai fantomatica partitocrazia, di cui da
tempo si sono invece perse le traccia. Le novità nasceranno
piuttosto in seguito alla debolezza dei partiti. Ricostruendo questo
processo, ne troveremo del resto le prove nei mutamenti che
interverranno nel processo decisionale.
3. la svolta degli anni '80
Si confondono spesso problemi che in realtà sono ben diversi tra
loro e tutto ciò oggi appare tanto evidente, quanto pericoloso. Che
tra le forze politiche della prima repubblica non sia facile
individuare un simbolico "partito delle istituzioni", non vuol dire
anche che dei tentativi in tal senso non ci siano stati. Semmai, si
dovrà capire perché sono falliti e tutto ciò ci riporta a due momenti
della nostra storia sui quali, sia pure per diverse ragioni, il dissenso
è ancora profondo. Per comprendere ciò che è successo negli anni
ottanta, sarà meglio comunque guardare alla prima delle due fasi
richiamate che, grosso modo, andrà invece dal 1943 al 1948 e si
concluderà con una sonora sconfitta per la cultura laica.
Nella memoria collettiva del paese, l'8 settembre del '43 è da
tempo identificato come il simbolo di una "disfatta". L'annuncio
dell'armistizio venne seguito dalla precipitosa fuga del re e del
governo, che misero seriamente in pericolo la stessa possibilità di
mantenere in vita un'Italia unita. Il paese fu infatti abbandonato alla
violenta vendetta dei tedeschi, i quali repressero ogni tentativo di
reazione da parte dell'esercito italiano, punendolo con la
deportazione e l'internamento in Germania di circa 600000 militari.
In una parola, l'Italia si presentava allora come "una nazione allo
sbando"21. Chi oggi giudica plausibile la eventualità che il paese
14
cessi nuovamente di "essere una nazione", ritorna naturalmente su
questo periodo storico, perché la resistenza avviata nei due anni che
seguiranno la disfatta, mantiene un "senso politico fondante"22 per
la stessa nascita della prima repubblica.
Non tutti concordano però con questa interpretazione e il tempo
non è servito a modificare l'opinone di chi la pensa diversamente. E'
il caso della cultura azionista, la cui posizione Bobbio riassume in
questi termini: "Tu hai l'aria di stupirti che io - osserva infatti
Bobbio rivolgendosi a Rusconi - pur avendo considerato la
resistenza una esperienza conclusa, abbia poi lodato la Costituzione
come un compromesso onorevole. I due giudizi sono invece
strettamente connessi. Il momento storico della costituente è stato
quello, se pure brevissimo, in cui l'alleanza delle forze unite del
comitato di liberazione ha costituito il fondamento di legittimità del
nuovo stato. Dal '48 in poi è cominciata una storia diversa che
tardivamente e invano si è cercato di correggere col compromesso
storico degli anni Settanta ora, dopo la fine del comunismo storico,
irripetibile"23. E' questa la tesi, così cara a Bobbio, della "resistenza
conclusa" o, anche, della resistenza intesa come "moralità armata",
la cui capacità di rinnovamento si esaurirà con la fine del governo
Parri, perché a quel punto la parola passerà ai politici che hanno
dietro le masse, ossia a DeGasperi e a Togliatti24.
Singolare destino del mondo laico: ogni volta che ha cercato di
esprimersi come partito delle istituzioni, dello stato e dell'occidente,
inevitabilmente si è trovato in una posizione minoritaria rispetto ai
cattolici e ai comunisti nel passato; alla cultura che da questi ceppi
originari si è poi sviluppata, anche oggi o, quantomeno, sino a ieri.
La vera "vulgata" che più di ogni altra è sempre stata la "fonte" di
tutti i modi di pensare la Costituzione, non è infatti cambiata. La ha
riassunta bene Rebuffa: è "la convinzione che tra il 1946 e il 1948
sia stata rifondata la nazione e siano state per davvero riscritte le
regole che presiedono al funzionamento delle istituzioni"25.
Guardando alle stesse vicende da una angolatura diversa,
Rusconi respinge invece ogni tentativo di separare la formazione
della prima repubblica da quelle vicende che ne avrebbero definito
poi il "senso politico" principale: l'identità nazionale si costituì
infatti, e pur sempre, grazie a quel "vincolo di cittadinanza motivato
15
da lealtà e memorie comuni", che in Italia prese corpo dopo l'8
settembre26. E' una osservazione importante, ma richiede di essere
anche circoscritta. La Resistenza riuscì infatti a dar vita alla nuova
forma di stato. Non bastò però ad assicurare il consolidamento delle
necessarie istituzioni, che avrebbero in seguito potuto garantire la
continuità del vincolo nazionale. Non sarebbe stato del resto
possibile. Quand'anche non fossero intervenute la successive e ben
note "degenerazioni" consociative, con la loro cultura delle
"appartenenze", i partiti non ne avrebbero avuto comunque né la
volontà, né la forza.
Ciò risulterà del resto molto chiaro dopo il 1953, allorché la
dinamica elettorale determinerà un crescente rafforzamento di forze
politiche presenti in parlamento ("area della rappresentanza") e
tuttavia non legittimate a governare. Sabatucci, che per primo ha
avanzato questa interpretazione offrendo in tal modo una
convincente ricostruzione della dinamica del "centro", ne ha tirato
anche le prevedibili conclusioni: facendo coincidere la maggioranza
reale con quella dei partiti di governo ("area della leggittimità"), la
"soluzione trasformista" trasferì in tal modo all'interno
dell'esecutivo tutta la conflittualità esistente tra le diverse forze
politiche27. Una volta raggiunto il punto più alto della sua capacità
espansiva con il "governo delle larghe intese", la partitocrazia
inizierà però la sua parabola discendente, rivelando in tal modo la
sua profonda povertà istituzionale.
Che il sistema politico fosse una "bicicletta" oppure un "triciclo",
che fosse cioè a due "poli" oppure a tre "poli", come dirà Sartori
riassumendo le differenze tra la tesi di Galli sul "bipartitismo
imperfetto" e le sue preoccupazioni per il "pluralismo
polarizzato"28, negli anni ottanta è risultato del resto meno
importante del fatto che, dopo l'uscita del Pci dalla maggioranza, sia
le "biciclette" che i "tricicli" sono stati stretti nell'angolo dai
continui ricorsi all'istituto referendario, grazie al quale la
democrazia rappresentativa ha continuato a mantenere una propria
leggittimità.
E' così che è iniziato il tramonto dei partiti. Altro che
consociativismo. Altro che conflittualità esasperata. Sino agli anni
settanta i partiti erano infatti riusciti a svolgere una importante
16
funzione, perché capaci di garantire dei vincoli di obbligazione
politica. Nel momento in cui il conflitto è approdato però alla sua
ultima spiaggia, rendendo chiaro che nemmeno il consenso di tutti
sarebbe più stato sufficiente ad assicurare l'esistenza del governo
inteso come istituzione, allora l'obbligazione politica basata su i
valori ha cominciato necessariamente a segnare il passo, di fronte
alla penetrazione del rapporto clientelare.
A partire dagli anni ottanta, la "fiducia generalizzata" 29 nei confronti dei portatori di un "progetto", verrà perciò un pò alla volta sostituita dalla "fiducia specifica" nel singolo uomo politico. La
mancanza di istituzioni impone infatti un ruolo crescente alle
relazioni di tipo informale, che diventano perciò l'estrema risorsa
attraverso la quale, sia pure a costi sempre più alti, risulterà ancora
possibile assicurare una qualche forma di regolazione politica.
Poiché il protetto doveva a sua volta svolgere un ruolo di protettore
nei confronti di coloro che a lui facevano riferimento, la relazione
tra cliente e patrono attiverà inoltre una catena di "macrostrutture" a
carattere piramidale, che opereranno trasversalmente rispetto
all'intero sistema sociale, perché la perdita di credibilità delle
istituzioni verrà a quel punto sostituita dalla maggiore autorevolezza
individuale di quanti le impersoneranno.
La parte sporca di questa tendenza alla personalizzazione è
emersa solo negli anni novanta, grazie a Tangentopoli. Per avere
una conferma del versante - per così dire - pulito di questo tipo di
regolazione basato sulla "fiducia personale", basta invece sfogliare
le cronache di quegli anni: nascerà il "modello Pertini", si avrà il
primo governo laico con Spadolini; e soprattutto, attraverso la
"mossa del cavallo" su cui ritorneremo, comparirà anche il leader
più agressivo della prima repubblica: Bettino Craxi.
Consociativismo, dunque? Oppure: necessità dell'alternanza per
assicurare la funzionalità del sistema? O ancora: onnipotenza della
partitocrazia? Onestamente, non si può dire che questi termini
significhino oggi qualcosa. Ha detto ad esempio Pizzorno: la
partitocrazia poteva ancora dipingere fedelmente la realtà del
sistema politico allorché i partiti agivano in quanto soggetti
collettivi, guidati da segreterie potenti e responsabili nei confronti
dei loro iscritti e delle ristrette leadership politiche. Da tempo la
17
realtà è però diversa, perché si è invece stabilizzato un sistema di
"relazioni politiche coperte". Con il senno di poi, oggi possiamo
dire che queste erano anche illegali. Allora, più semplicemente, si
trattava soprattutto di relazioni trasversali che operavano al di sotto
dei livelli di visibilità, con i quali i diversi attori si presentavano
davanti all'opinione pubblica30.
E' chiaro che il passaggio dalla democrazia dei partiti a quella
delle tangenti, era già scritto nell'ordine delle cose possibili.
Sarebbe però sbagliato pensare che questo esito sia stato, sin da
allora, anche inevitabile. Per incapacità o per interesse, nessuno fu
tuttavia in grado di impedire che la deriva della prima repubblica si
sviluppasse sino al punto di diventare irresistibile. Eppure, le
istituzioni nascono proprio nel momento in cui si manifesta un
disaccordo tra le forze politiche, il quale impone il graduale
sviluppo di procedimenti e di strumenti organizzativi, capaci di
offrire delle soluzioni integrative31. Non se ne era sentito un
particolare bisogno sino agli anni settanta. Il consolidamento delle
stesse si rivelerà poi un disegno impossibile durante gli anni ottanta,
perché anche il sostenitore più significativo della governabilità e
cioè Craxi, dimostrerà ben presto di essere uno statista "senza
anima"32 e dunque non molto diverso dal resto della classe politica
che lo aveva preceduto.
E' curioso come, nonostante il moltiplicarsi dei saggi sulla "Italia
contemporanea", manchi ancora un giudizio storico compiuto, e
anche convincente, sulla figura di Craxi. Naturalmente non
mancano le "biografie" del capo, ma non è per quella via che ci si
può fare realmente una idea del ruolo svolto da quest'uomo politico
durante gli anni ottanta e anche, cosa non meno importante, delle
ragioni del suo così fulmineo declino. Cafagna giustamente segnala
come le grandi manovre che ne anticipano l'ingresso quale primo
attore destinato poi a dominare la scena nazionale, coincidono con
la "occupazione" di uno spazio politico lasciato libero da tutti, in
occasione del caso Moro. Non necessariamente per moralità, più
verosimilmente per estrema spregiudicatezza, in quella occasione
Craxi fu l'unico leader nazionale il quale assunse la posizione della
trattativa umanitaria con i terroristi, opponendosi in tal modo al
fronte della fermezza, in cui era riassunta la linea ufficiale
18
dell'intero sistema politico. E fu una fortuna , dirà Cafagna, che la
posizione del leader socialista non ebbe alla fine il sopravvento,
perché al paese sarebbero potute derivare "solo altre sventure33".
La "mossa del cavallo" più sostanziosa fu però quella successiva
allorché, alla fine degli anni settanta, Craxi innalzò la bandiera della
governabiltà, sventolandola in ogni occasione prima e imponendola
poi con forza tanto alla Dc quanto al Pci, nel momento in cui andrà
al governo. Colpisce come gli storici tendano sostanzialmente ad
escludere che quella scelta abbia potuto corrispondere non soltanto
agli interessi del Psi, ma anche a un più profondo bisogno del paese.
Lepre ad esempio, ricostruisce tutto il periodo degli anni ottanta in
un capitolo che, sin dal suo titolo, viene in realtà dedicato alla "crisi
della egemonia della Dc". A esser franchi, una scelta del genere
risulta quantomeno strana. Nel 1981 nasce il primo governo laico
della repubblica; nel 1983 Craxi dà vita ad un governo che non solo
è il primo a guida socialista, ma sarà anche il più stabile sia tra i
tanti che lo hanno preceduto, sia tra quelli che lo seguiranno. E tutto
ciò non ha alcun significato sul piano storico?
In verità ben pochi ancora oggi si rendono conto dell'importanza
che quelle vicende hanno avuto per il paese, innanzitutto sotto il
profilo istituzionale. Ginsborg considera ad esempio gli anni ottanta
addirittura meno significativi del precedente decennio e più simili
semmai agli anni sessanta, quantomeno sul piano del "riformismo"
mancato. Grazie allo sviluppo economico, in entrambi i periodi
erano infatti esistite, afferma Ginsborg, le basi materiali per delle
riforme che in realtà poi non vennero realizzate. Il primo a perdere
l'occasione fu perciò il centrosinistra e poi, a ruota, Craxi, il quale
"non seppe elaborare una vera strategia riformista", anche perché
non subì "la pressione di movimenti sociali analoghi a quelli
esistenti tra il 1968 e il 1978"34.
Altre interpretazioni parleranno di "alternanza al governo" senza
"alternativa di governo"35. Avendola ormai superata, oggi diventa
però possibile mettere a fuoco anche aspetti diversi di quella fase
politica. Dissoltosi già una volta dopo il "compromesso del '48",
negli anni ottanta ricompare infatti quel partito delle istituzioni, di
cui in Italia si era ormai perso il ricordo. L'erosione del principio
maggioritario culminata nella solidarietà nazionale, aveva di-
19
mostrato la improduttività del consociativismo, ormai incapace sia
di produrre potere politico, sia di assicurare nuove forme di
legittimazione all'azione del governo. Craxi avvertirà ben presto la
stanchezza del paese deluso dalle tante promesse di cambiamento
non mantenute e anche spaventato dall'esplosione del terrorismo,
con il quale si era chiuso il precedente decennio. Scattata "l'ora dei
laici"36, il problema della "governabilità" si imporrà perciò agli
occhi di tutte le forze politiche.
Spadolini inserirà ad esempio nel programma del suo secondo
esecutivo il famoso "decalogo istituzionale" considerato come il
punto di avvio del processo di riforma che poi seguirà, con alterne
vicende, durante tutto il decennio. E lo stesso Craxi farà capire bene
cosa intende per "governo", perlomeno in due occasioni: allorché
taglierà i famosi tre punti di scala mobile e allorché rivendicherà la
autonomia nazionale nei confronti degli Usa, in seguito al sequestro
della Achille Lauro. Tutto ciò era forse poco? Niente affatto. Ciò
che ancora ci resta degli anni ottanta ha per la storia istituzionale del
paese un'importanza e una attualità di gran lunga maggiore della
legislazione degli anni settanta comprensiva, in questo caso, anche
delle allora tanto magnificate riforme sociali. La riforma dei
regolamenti parlamentari fu infatti posta al centro della VIII
legislatura (1979-1983); sia pure senza grandi esiti, nella IX (19831987) fu costituita una apposita Commissione parlamentare, che
affronterà i problemi delle riforme istituzionali e di quelle elettorali;
questi troveranno infine delle prime soluzioni nella X (1987-1992)
allorché, ormai negli anni novanta, avrà luogo il referendum
abrogativo (1991) da cui nascerà la preferenza unica.
Una svolta c'é dunque stata. Piuttosto, e oggi lo possiamo dire di
certo con una consapevolezza maggiore di ieri, si è rivelata insufficiente, perché non sono maturate quelle condizioni politiche che
avrebbero permesso di procedere sia più decisamente, sia più
efficacemente sulla strada del rinnovamento istituzionale. E queste
condizioni erano di due tipi: la prima, sulla quale ritorneremo
presto, riguardava la logica del processo decisionale e, dunque,
soprattutto la Dc e il Pci precedente al 1989. La seconda riguardava
invece lo stesso Craxi e, più in generale l'area laica, la quale
sceglierà di tenere in vita "biciclette" o "tricicli" ormai scassati.
20
Fuor di metafora, quel sistema dei partiti si rivelerà infatti ben
presto incapace di "trasportare" alcun tipo di riforma istituzionale.
E' stato detto che il progetto di Craxi non è mai stato caratterizzato da una vera strategia, essendo l'uomo soprattutto un grande
"tattico", capace di cogliere le opportunità man mano che queste si
presentavano. La scelta maturata sin dall'inizio della sua segreteria
di costruirsi un "partito parallelo" composto solo da amici fidati, fu
però l'esito di una valutazione forse prudente, ma comunque
realistica. Craxi sapeva bene, infatti, di esser seduto su di un ramo
marcio e, sinché gli fu possibile, cercò dunque di mettere al riparo
la sua azione politica dai possibili condizionamenti imputabili alla
vita interna di partito. In che modo? Forse nel peggiore dei modi e
cioè restituendo ad una struttura clientelare ormai burocratizzata e
già a quei tempi corrotta, "l'orgoglio di esser socialisti" e soprattutto, aggiungerà chi il Psi lo ha conosciuto bene, garantendo
"la certezza di tornare al governo con forte grinta e alte pretese"37.
La corte dei "nani" e delle "ballerine" ripagherà perciò con la più
assoluta obbedienza politica, i privilegi di cui potrà comunque
continuare a godere.
Anche se il Psi ristagnerà sul piano elettorale, la popolarità di
Craxi continuerà comunque a crescere. Sbagliata si rivelerà invece
la convinzione che, pur essendo marcio il ramo su cui era seduto,
non così fosse invece il resto dell'albero e cioè il sistema dei partiti.
C'è una critica che in questi anni è stata del resto spesso avanzata
nei confronti del Psi: quella di aver usato in maniera spregiudicata il
suo "potere di coalizione" o, anche, di aver operato come una sorta
di "partito-ricatto"38. E' una critica fondata, ma forse per ragioni
diverse da quelle nel cui nome è stata generalmente avanzata. Non è
stata infatti soltanto la "spregiudicatezza" o la mancanza di
"moralità pubblica" il suo limite maggiore, quanto la sua stessa
impotenza politica.
Craxi minaccerà infatti avversari sempre meno in grado di
assicurargli un "riscatto" perché l'albero era ormai marcio, come del
resto si erano rivelati già alcuni suoi singoli rami. Sia pur
lentamente, la governabilità perderà perciò la propria visibilità
politica, e gli anni ottanta si riveleranno decisivi anche sotto un altro
profilo: ricattatori e ricattati non riusciranno infatti ad impedire una
21
crescente deriva dei processi istituzionali e le conseguenze si
vedranno in seguito, in occasione del referendum sulla preferenza
unica (1991). Al di là della sua opportunità o meno, i risultati
suoneranno infatti come una vera e propria mozione di sfiducia, nei
confronti dell'intero sistema dei partiti.
4. Le due crisi
Coloro i quali vivono nei sistemi politici democratici, spesso
non comprendono appieno l'importanza delle regole. Aspirando ad
ottenere dei risultati immediati, in alcuni momenti la vita politica
tende infatti ad essere ostile alle "forme" perché queste ritardano
sistematicamente, o addirittura impediscono, la realizzazione dei
possibili obiettivi. Paradossalmente, è ciò che - in nome della
governabilità - si è verificato in Italia a partire dagli anni ottanta,
allorché si è cercato di invertire il trend del precedente decennio.
Sia pure indirettamente e - in alcuni casi - anche
inconsapevolmente, gli esiti più duraturi del nuovo indirizzo
istituzionale, alla fine si sono infatti rivelati ben diversi dalle
intenzioni di chi li aveva inizialmente promossi. Ne sono usciti
stravolti sia il processo attraverso il quale si è cercato di avviare una
diversa regolazione della cittadinanza e, quindi, dello stato sociale;
sia le stesse forme della rappresentanza, che hanno visto un
crescente ricorso all'istituto referendario. E sono state queste le due
tendenze di crisi, che hanno reso definitivamente obsoleta la
funzione sino a quel momento svolta dai partiti.
Sotto il primo profilo, gli aspetti più significativi non riguardano
soltanto la divaricazione frequentemente segnalata, tra le prestazioni
che attraverso la cittadinanza sono state assicurate alla collettività e
il fondamento sempre più strumentale delle aspettative, nel cui
nome le prime verranno rivendicate. La cittadinanza nata negli anni
settanta è infatti entrata in crisi non solo per la sua crescita patologica o, anche, per la perdita di ogni riferimento ai valori comunitari
che avrebbero potuto giustificarla39. Piuttosto, la cittadinanza è
entrata in crisi perché è fallita la strategia istituzionale attraverso la
quale si riteneva di poterne governare lo sviluppo e ciò ha sua volta
22
favorito la diffusione di un deficit di integrazione,40 che ben presto
minaccerà la stessa unità nazionale.
La conferma più indicativa di questo fallimento la si ritrova del
resto nella storia della "decisione di bilancio", che riassume da
sempre la più importante scelta di qualunque governo. Per ovviare
ad una crescita incontrollata della spesa, da questione tecnica che
coinvolgeva pochi addetti ai lavori, il processo di bilancio è stato
ben presto trasformato in un problema politico centrale che, a
partire dagli anni settanta, ruoterà essenzialmente intorno ad una
soluzione: una rinnovata centralizzazione del processo decisionale,
in funzione di una rigorosa politica di controllo della spesa,
realizzata annualmente attraverso la manovra di bilancio e la legge
finanziaria.
Una volta posta in essere, questa strategia ha dovuto però
necessariamente fare i conti con la struttura profondamente
policentrica delle relazioni tra governo e parlamento, andando
incontro ad un fallimento che Fichera, a suo tempo, ha
efficacemente sintetizzato in questi termini. Innanzitutto la manovra
non si è rivelata in grado di "tenere". Avendo una latitudine
operativa praticamente infinita, da una parte questa non riuscirà a
controllare le continue richieste di modifiche e/o di integrazioni,
presenti nello stesso governo e nel parlamento ; dall'altra, e come
conseguenza, diventerà invece sempre più incoerente sotto il profilo
normativo e ipertrofica sul piano puramente quantitativo, mettendo
in tal modo sistematicamente in discussione l'equazione tra "crisi
fiscale" e "politiche di bilancio restrittive".
In secondo luogo, la manovra è risultata sia inidonea a favorire la
individuazione di criteri "selettivi" della spesa, sia "inefficace"
rispetto al suo obiettivo primario rappresentato dalla riduzione del
deficit pubblico, che perciò crescerà puntualmente di anno in anno.
Le difficoltà saranno in questi casi legate soprattutto al rapporto che
si stabilirà tra il processo di bilancio e la amministrazione pubblica,
le cui prestazioni erano e sono ancora oggi in gran parte legate a
trasferimenti, a diritti del cittadino ormai dati per acquisiti o, più in
generale, ad automatismi di vario tipo.
Perché i "tagli" avessero potuto avere una loro logica politica,
sarebbe stato del resto necessario disporre di controlli di spesa
23
attendibili nei singoli settori di policy; avere la capacità di seguire
nelle loro diverse fasi i processi di implementazione delle decisioni
assunte; e, soprattutto, avere la capacità di individuare i nodi della
spesa, là dove questi effettivamente si determinavano. Mancando
tutto ciò, la selettività verrà invece sempre più ad identificarsi con la
debolezza politica degli interessi di volta in volta colpiti, così come
la efficacia delle diverse manovre si rivelerà sempre più
problematica. Una riprova? Non ci sarà un solo governo che negli
anni successivi non dovrà ritoccare i principali provvedimenti
assunti negli anni precedenti.
Infine, e questo aspetto riassume tutti gli altri, di sicuro non si è
realizzato alcun miglioramento della governabilità dal "centro',
come invece era stato tante volte auspicato. Anziché ridurre i
processi di negoziazione politica, questi cominceranno invece ad
istituzionalizzarsi: con l'Anci e Upi per la finanza locale; con la
Conferenza delle regioni istituita presso la Presidenza del consiglio,
nel caso della finanza regionale; con i sindacati allorché verranno
prese in esame le politiche sociali; con le rappresentanze dei medici,
nel caso della sanità e così via.
Nella speranza di porre un argine a questa deriva, ben presto ci si
orienterà perciò verso una nuova regolazione legislativa del
processo di bilancio (Legge 362/1988). E tuttavia parlamento e
governo continueranno a non trovare alcun accordo, su i reali criteri
di ridefinizione dello stato sociale. Alla fine, l'inversione di
tendenza
verrà realizzata solo grazie all'inserimento di
provvedimenti di riforma nelle varie decisioni di bilancio, perché
queste diverranno ormai il solo atto legislativo che il parlamento
non potrà veramente rifiutarsi di approvare. E' così che si è
governato nel decennio dei "laici"; ed è così che si è governato
anche dopo l'avvio della "rivoluzione italiana" allorché, sia pure accettando dei rischi politici altissimi, Amato e Ciampi sono riusciti
comunque ad avviare un rinnovamento del vecchio stato sociale.
Intesa tanto come un complesso di diritti, quanto come un
simbolo culturale, la "cittadinanza" non si lascia tuttavia seppellire
con facilità perché, quando anche non vi si oppongano i partiti, ci
sono sempre i cittadini che debbono esser convinti della opportunità
delle misure adottate. Un mutamento nelle preferenze di tale portata
24
può infatti concludersi anche autoritativamente al "centro", ma deve
nascere comunque già all'interno delle rappresentanze politiche o
delle stesse istituzioni. Diversamente, a farne le spese delle
inevitabili proteste sarà lo stesso governo o, anche, il
provvedimento di volta in volta adottato. E' ciò che è successo al
governo Amato, nel primo caso. E' quello che si è verificato con la
minimum tax, nel secondo. Ciampi dovrà infatti modificare la
decisione assunta dal precedente esecutivo per fronteggiare le
proteste - in piccola parte comprensibili, ma in larga misura
ingiustificabili - che nasceranno tra i lavoratori autonomi.
Si capisce dunque perché molti osservatori da tempo denunciano
sia la crisi di solidarietà sociale in cui vive il paese, sia gli stessi
pericoli da cui è minacciata l'unità nazionale. Ma per creare nuove
appartenenze, non poteva bastare la messa in circolazione di quei
"santini" che in questi anni si sono costruiti grazie all'alleanza con
l'etica e che sono diventati il più efficace lasciapassare per il ricorso
ai governi istituzionali; al ruolo dei tecnici; ai richiami sempre più
frequenti alla unità della nazione; ed, anche, al ruolo di "garante"
della volontà popolare che, con sempre più decisione, è stato ormai
assunto dal presiedente Scalfaro. Sarebbero servite invece
istituzioni capaci di restituire all'intero processo decisonale quella
linearità di cui era privo, anche in seguito al generalizzarsi della
seconda crisi, maturata parallelamente nel corso del passato
decennio e che riassume l'altra dimensione della governabilità.
Pensiamo, lo si è già detto, al crescente e improprio ricorso
all'istituto del referendum.
Dei due aspetti sinora segnalati, quest'ultimo è forse il più
difficile da inquadrare, perché per troppo tempo è stato legittimato
in nome di una avversione alla presunta forza della partitocrazia.
Questa tesi era forse ancora vera agli inizi degli anni ottanta. Grazie
ai regolamenti parlamentari del 1971, il governo in quegli anni non
riusciva ad imporre nemmeno una propria "agenda" di discussione,
perché i "gruppi" potevano a loro volta esercitare significativi poteri
di veto. Non è comunque più vera oggi, perché quei regolamenti
sono stati nel loro insieme modificati, riducendo alla fine la stessa
possibilità di ricorrere al voto segreto (1988), che del sistema dei
partiti è sempre stato il più efficace alleato.
25
I frutti dati dalla governabilità sono stati però, anche in questa
occasione, avvelenati dagli equivoci su cui questa strategia si è in
passato basata. Si ritenne infatti che sarebbe bastato razionalizzare
la presenza dei partiti-pigliatutto in parlamento e non ci si accorse
invece che stava crollando la stessa capacità di integrazione dei
partiti-istituzione. Come al solito, si pensò insomma che sarebbe
stato sufficiente potare i rami più invadenti, per rafforzare in tal
modo il "tronco" della rappresentanza. E invece era marcia anche la
pianta. I partiti se ne accorgeranno soltanto dopo il referendum sulla
preferenza unica, ma il passaggio dalla "democrazia
rappresentativa" alla "democrazia referendaria" in realtà era iniziato
molto prima.
L'assalto alle forme che accompagna negli anni ottanta la decisione di bilancio, troverà perciò il suo corrispettivo nella torsione
applicativa che ha accompagnato il successo di un istituto come
quello referendario. Il principio della rappresentanza si intreccerà
infatti in maniera non più separabile con quello della democrazia
diretta, stravolgendo ogni confine nella già debole architettura
istituzionale, prevista dai costituenti. L'arma dei referendum verrà
inoltre imbracciata negli anni ottanta non solo da chi non si sentirà
rappresentato, ma anche da quello forze politiche che pur essendolo,
non accetteranno di essere subordinate alla volontà della
maggioranza. E' ciò che fece a suo tempo il Pci nel caso della scala
mobile; è la ragione di fondo per cui nascerà poi il referendum sui
giudici; e, infine, sarà la minaccia che Craxi continuamente
utilizzerà contro il parlamento, pur di ottenere la approvazione della
legge sulle tossicodipendenze.
Va detto che la sfrenata utilizzazione dell'istituto referendario a
cui si è negli ultimi anni fatto ricorso su questioni non sempre
decisive, non ha soltanto influito sulla natura dei temi di volta in
volta affrontati, ma anche sullo stesso equilibrio dei poteri
costituzionali, coinvolgendo nel conflitto politico anche chi avrebbe
dovuto esserne tenuto invece il più possibile al riparo. Nel vuoto
lasciato dai partiti non più in grado di fare maggioranze o governi, il
Capo dello Stato, pur essendo "costituzionalmente" irresponsabile,
si è trovato perciò a dover esercitare dei poteri i quali non sono
26
forse previsti neanche nel regime semipresidenziale francese, che
pure è ad elezione popolare diretta.
Rotelli, per dimostrarlo, ne ha elencati alcuni41: è stato Scalfaro a
decidere in quale momento il governo Amato, allora in carica, si sarebbe dovuto dimettere; a stabilire il tipo di "tutela" che doveva
essere accordata alla "volontà popolare" manifestatasi in occasione
del referendum sulla abrogazione della legge elettorale; a
"esternare" pubblicamente i compiti programmatici del successivo
Governo Ciampi, indicandone per lettera scritta anche i tempi
possibili; a comporre poi in sua presenza un conflitto di competenze
tra due ministri senza portafoglio ( Elia e Barbera), che peraltro
rispecchiava un conflitto di merito e non soltanto tecnico tra i due
maggiori partiti, sul tema prioritario della riforma elettorale; a
indicare la data ultimativa (21 dicembre), a partire dalla quale
sarebbe diventato possibile indire nuove elezioni politiche; e, infine,
a chiedere garanzie a Berlusconi, prima di conferirgli l'incarico di
formare il governo.
Si dirà che questa deformalizzazione di ruoli, poteri, regole
costituzionali e relazioni politiche ha probabilmente aiutato la
"rivoluzione italiana" e forse è vero. Di certo non ha favorito però
un migliore radicamento delle istituzioni, perché queste incarnano
modelli di comportamento che vengono generalmente accettati solo
in quanto risultano ricorrenti e non improvvisati, a seconda degli
orientamenti che di volta in volta maturano all'interno dell'opinione
pubblica. Diciamolo dunque chiaramente: l'opinone pubblica riesce
a svolgere una sua funzione importante solo allorché si innesta in
una rete di poteri istituzionali che a loro volta risultano almeno in
parte indipendenti da quest'ultima. Se invece l'opinone pubblica e le
istituzioni avanzano a braccetto per sostenersi reciprocamente,
nessuno potrà impedire che i mutamenti intevenuti nella prima non
determino delle conseguenze impreviste anche nella vita delle
seconde. E' successo così per il governo Amato; e qualcuno ha
puntato ad ottenere lo stesso risultato, anche nel caso Capo dello
Stato.
Ricostruendo la vicenda degli ultimi due decenni, Pizzorno ha
recentemente proposto di distinguere tre stili politici prevalenti: lo
stile ideologico, quello civile e quello consumatorio. Il primo,
27
dominante negli anni settanta, trovava il suo riconoscimento in una
comunità di fedeli, fossero questi appartenenti ad un partito, un
movimento oppure a una chiesa, i quali valutavano l'adeguatezza
della condotta politica sulla base della sua aderenza o meno
all'ideologia prescelta. Il secondo, pur richiamandosi ai cittadini, di
fatto tendeva a rispecchiare quei valori di buon governo,
generalmente presenti nella classe politica e amministrativa.
L'ultimo stile, quello consumatorio, sarebbe diventato invece
dominante negli anni ottanta e non avrebbe avuto bisogno di una
particolare cerchia di riconoscimento perché, manifestandosi
attraverso il denaro e le apparenze, di fatto ha coinciso con l'intera
area del mercato e cioè di tutti coloro che questi valori sono abituati
ad accettare.
Concluderà perciò Pizzorno42, non senza malinconia: "in Italia lo
stile ideologico si è esaurito lungo gli anni settanta. E, superati i
momenti drammatici, ha lasciato posto allo stile consumatorio.
Occorrerebbero indagine occhiute per accertare in quali recessi
fuori mano della società italiana lo stile civile è sopravvissuto alle
tentazioni e agli attentati". E' doloroso ammetterlo, ma è anche
inevitabile. Lo stile civile è sempre stato una risorsa assai scarsa e,
inoltre, oggi sembrerebbe essere a sua volta sostituito dallo "stile
referendario", grazie al quale le istituzioni verrebbero difese
soprattutto, ma sarebbe meglio dire soltanto, dalla opinione
pubblica. E' ciò che è accaduto per la magistratura nei confronti di
Craxi, non diversamente da quello che si più volte manifestato a
sostegno del Capo dello Stato, per difenderlo dai numerosi attacchi
a cui questo è stato sottoposto. Ed è anche il modo con si è arrivati
ad ottenere una nuova legge elettorale, che ha forzato lo stallo
decisionale dei partiti.
La "rivoluzione italiana" si è sviluppata infatti a cerchi
concentrici. Nata inizialmente come forma di protesta verso singoli
partiti, si è subito orientata sull'intera classe politica; ha coinvolto il
sistema di imprese sin nei suoi più alti vertici; non si è fermata
davanti alle porte dei palazzi di giustizia; e, infine, ha coinvolto
nella sua azione sia coloro che avrebbero dovuto essere i garanti
dell'opinione pubblica, ossia il potere dell'informazione, sia gli
28
stessi servizi segreti, che avrebbero dovuto invece assicurare la
legalità dello stato democratico.
Non è un male che il processo si sia diffuso in tal modo perché
quanto maggiore è risultata la sua estensione, tanto più credibile è
diventata anche l'esigenza di un rinnovamento. Le istituzioni però
cambiano non soltanto attraverso una nuova legge elettorale, quanto
anche - e soprattutto - attraverso la modifica delle procedure
organizzative o delle relazioni tra i diversi organi decisionali. In una
sola parola, le istituzioni cambiano allorché la vita politica si
sviluppa attraverso nuove "forme".
Per come si è affermata la "rivoluzione italiana", è facile
prevedere invece che più di un seme della prima repubblica
continuerà a fiorire anche in quello che è stato presentato come il
giardino della seconda e cioè la riforma in senso maggioritario del
sistema elettorale. Il cambiamento non si costruisce infatti seguendo
la logica del gioco d'azzardo, dove ogni colpo può esser quello
vincente. E ciò è vero anche per le istituzioni che non si
improvvisano tra un referendum e l'altro, perché lo sviluppo politico
ha una logica e dei tempi propri, che difficilmente possono essere
forzati, senza che poi se ne debbano pagare anche i relativi costi. Lo
vedremo bene, del resto, allorché ricostruiremo le modalità
attraverso le quali è stata in questi anni portata avanti la "politica del
cambiamento".
1
L'intervista di Togliatti è riportata - ed anche efficacemente inquadrata sul
piano storico - da P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna
1991, pp. 88-89
2
L'emancipazione della magistratura dagli altri poteri istituzionali maturerà solo
in seguito. Le diverse vicende al riguardo sono ricostruite fa F. Zannotti, La
magistratura. Un gruppo di pressione istituzionale, Cedam, Padova 1989 e, più
recentemente, da C. Guarnieri, Magistratura e politica, Il Mulino, Bologna 1992
3
La metafora del "gioco di azzardo" applicata al principio della divisione dei
poteri è suggerita da G. Rebuffa, Mutamento istituzionale e consapevolezza
storica, in Il Mulino, n. 348, 1933, p. 651
4
R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane (Princeton 1993), Il
Mulino, Bologna 1993, p. 151
5
In questa chiave la ricostruzione più recente è quella di P. Fantozzi, Politica
clientela e regolazione sociale. Il mezzogirono nella questione politica italiana,
Rubbettino, Cosenza 1993
29
6
Si vedano, ad esempio, le osservazioni critiche di A.Mutti, I sentieri dello
sviluppo, in Rassegna Italiana di Sociologia, n.1 1994,pp.109-120
7
Il riferimento è ai lavori di J. March e J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni. Le
basi organizzative della politica (New York 1989), Il Mulino, Bologna 1992
8
Su questo tema si vedano le prime ricerche di F. Cazzola, Della Corruzione.
Fisiologia e patologia di un sistema politico, Il Mulino, Bologna 1988 e, più
recentemente, F. Cazzola, L'Italia del pizzo. Fenomenologia della tangente
quotidiana, Eiunaudi, Torino 1992; D. Della Porta, Lo scambio occulto, Il
Mulino, Bologna 1992
9
F. Cassano, La secolarizzazione infinita. Note sulla morte dei beni pubblici, in
Rassegna Italiana di Sociologia, n. 1, 1990, p. 24
10
Il paragone è sviluppato in S. Romano, L'Italia scappata di mano, Longanesi,
Milano 1993, p. 16
11
B. Ginsberg - M. Schefter, Politics by other means. The declining importance
of elections in America, Basic Books, New York 1990
12
M. Gilbert, Warriors of the New Pontida: The challenge of the Lega Nord to
the italian party system, Political Quarterly, n.1, 1993; G. Pasquino, Meno partiti
più Lega, in Polis, n.3 1991
13
Le coseguenze di questa tendenza sono state, da ultimo, prese in esame da
A.Panebianco, Fare a meno della politica? e R. Bodei, Mani sporche, mani
pulite. Calcolo politico e responsabilità etica , in Il Mulino, n. 3,1993
14
Sono le conclusioni alle quali arriva A. Lepre, Storia della prima repubblica,
Il Mulino, Bologna 1993, p. 341
15
G. Miglio, Una costituzione per i prossimi trent'anni, a cura di M. Staglieno,
Laterza, Bari 1990, p. 4 e p. 37
16
E' la tesi di fondo proposta da S. Colarizi, Storia dei partiti nell'Italia
repubblicana, Laterza, Bari 1994
17
L. Morlino, La relazione tra partiti e gruppi. Conclusioni, in Costruire la
democrazia. Gruppi e partiti in Italia, , a cura di L. Morlino, Il Mulino, Bologna
1991, p. 483-484
18
M. Calise, Dopo la partitocrazia, Einaudi, Torino 1994; le premesse e gli
approfondimenti istituzionali di questo tipo di analisi, si ritrovano in M. Calise (a
cura di), Come cambiano i partiti, Il Mulino, Bologan, 1992
19
F. Bonelli, Storia costituzionale della repubblica, La Nuova Italia Scientifica,
Roma 1993, pp. 45-46
20
E. Galli della Loggia, La crisi del politico, in AA.VV., Il trionfo del privato,
Laterza, Bari 1980, p. 34
21
E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 7
22
Questo tema è stato sollevato con forza da G. E. Rusconi, Se cessiamo di
essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993, p. 45
23
N. Bobbio, Lettere sull'azionismo, in Il Mulino, n. 344, 1992, p.1025; sull'
attualità dell'azionismo, P. Flores d'Arcais, L'alternativa azionista, Micromega,
n.3 1991; su i suoi limiti, E. Galli della Loggia, La democrazia immaginaria.
L'azionismo e l'ideologia italiana, Il Mulino, n.346 1993
30
24
E' la tesi riproposta recentemente con grande finezza da Pavone, il quale
ricostruisce il clima della conferenza stampa che avrà luogo dopo le dimissioni
del governo, prendendo a prestito da Carlo Levi una splendida pagina: «allorché
Parri comparve schiacciato " tra i due visi teologici e cardinalizi dei due illustri
capi della destra e della sinistra e dal brillare simmetrico dei loro occhiali", gli
uscieri del Viminale si illuminarono nel volto, soddisfatti. In quel momento,
qualcosa finiva davvero per sempre, perché gli intrusi venivano finalmente
cacciati».C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella
resistenza, Boringhieri, Torino 1992, pp. 591-592
25
G. Rebuffa, Mutamento istituzionale e consapevolezza storica, cit., p. 647
26
Una semplificazione di questo presunto rapporto tra il "patto di Salerno" ed il
"compromesso storico" la si trova in R. Gobbi, Il mito della resistenza, Rizzoli,
Milano 1992, p. 105
27
G. Sabatucci, La soluzione trasformista. Appunti sulla vicenda del sistema
politico italiano, in Il Mulino, n. 328, 1990, p. 172
28
G. Sartori, Salvare il pluralismo e superare la polarizzazione ora in Teoria dei
partiti e caso italiano, Sugar, Milano 1982, p. 218; l'intervento di Sartori si
inserisce nella discussione avviata da L. Pellicani, Verso il superamento del
pluralismo polarizzato? in Rivista Italiana di Scienza Politica, n.3 1974; la prima
formulazione della tesi sul bipartitismo imperfetto è in G. Galli, Il biaprtitismo
imperfetto, Il Mulino, Bologna 1966
29
Una applicazione interessante di questa tematica in chiave comparativa, la si
trova in L. Roninger, La fiducia nelle società moderne, Rubbettino, Cosenza,
1992
30
A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano 1993, p. 306
31
S. Huntignton, Ordinamento politico e mutamento sociale ( New Haven 1968) ,
Angeli, Milano 1975, p.24).
32
Dirà M. Walzer: «noi non vogliamo essere governati da uomini che hanno
perso le loro anime». E' stato R. Bodei a richiamare l'attenzione sulle
implicazioni presenti in questa prospettiva di Walzer. Ora in R. Bodei, Mani
sporche, mani pulite. Calcolo politico e responsabilità etica, cit.
33
L. Cafagna, La grande slavina, Marsilio, Venezia 1992, p. 100
34
Questa tesi è avanzata da P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra oggi,
Einaudi, Torino 1989, p. 568
35
M. Salvadori, Storia d'Italia e crisi di regime, Il Mulino, Bologna 1994, pp.8590
36
L'espressione è di G. Mammarella, L'Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna
1993, pp. 485-516
37
E' la risposta che darà Tamburrano ad una domanda di Padellaro; A. Padellaro G. Tamburrano, Processo a Craxi. Ascesa e declino di un leader, Sperling &
Kupfer, Milano 1993, p. 27
38
La prima analisi è sviluppata da P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p.
397; la seconda è proposta da L. Cafagna, La grande slavina, cit.
31
39
E' questo il problema discusso da C. Mongardini, Le trasformazioni della
cittadinanza, in , Due dimensioni della società. L'utile e la morale, a cura di C.
Mongardini , Bulzoni, Roma 1991, pp. 181-186
40
Significativamente, e non senza ironia, L. Gallino ha perciò proposto la bozza
di un contratto da sottoscrivere nella sua interezza, pena la nullità dello stesso: L.
Gallino, Un patto di cittadinanza, Il Mulino, n. 4, 1990; una diversa prospettiva
per uscire da questa crisi, andando oltre sia le "reti economiche" che quelle
"statali", è stata avanzata da P. Donati, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari
1993
41
E. Rotelli, Una democrazia per gli italiani, Anabasi, Milano 1993, p. XII
42
A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, cit., p. 311
32
cap. 2. La deriva della regolazione
33
1. Le pretese della cittadinanza
Per offrire una spiegazione al caso italiano e per individuare
delle possibili vie di uscita, generalmente ricorriamo ad una
modellistica di tipo dicotomico, la cui chiarezza analitica spesso
non basta a compensare quel che si perde in profondità sul piano
storico1. Le istituzioni dovrebbero essere maggioritarie o
consensuali, la dinamica politica sarebbe racchiusa nella coppia
governo-opposizione e la regolazione - si dice - generalmente
avviene ora attraverso lo stato, ora attraverso il mercato. In Italia
però il modello di governo "consensuale"2 è stato ormai
abbandonato, senza che per questo si sia realizzata una
trasformazione istituzionale in senso maggioritario; l'alternanza con
l'opposizione non c'è mai stata ed, infine, il welfare state che si è
affermato negli anni settanta non è stato il punto di arrivo di un
modello statale di tipo socialdemocratico, bensì l'esito politico di
coalizioni centriste che hanno sfidato le opposizioni sui loro stessi
temi e problemi.
Giudicando ormai impossibile "riformare la politica", da tempo
numerosi osservatori puntavano dunque l'indice contro "questo"
stato di cose. Di fronte al desolante spettacolo offerto da istituzioni
sempre meno amate qualcuno, c'è chi si è affidato ad esempio alle
"minoranze morali", sperando che queste avrebbero meglio potuto
imporsi contro coloro che "per ignavia, per stupidità o per
opportunismo"3 hanno in passato rinunciato a contrastare l'attuale
degrado. Tanta fiducia su una presunta purezza delle "minoranze",
suscita però non poca meraviglia. La storia del sistema nazionale di
welfare si incrocia infatti con continue richieste di nuovi diritti che
hanno visto come protagonisti sia gruppi sociali deboli, sia gruppi
che tali non erano. Il degrado ha dunque molte cause. A volte gli
individui hanno corrotto le istituzioni; in altri casi sono invece state
queste ultime che hanno favorito la disgregazione.
Esistono inoltre situazioni e aspetti della vita individuale che
sono risultati tutelati, perché mettevano capo a una qualità o a un
modo di essere specifico di cui si compone la "maschera giuridica"
34
di ogni individuo: il consumatore, il risparmiatore, il fruitore
dell'ambiente, l'anziano, il malato e così via. Trovando legittimo
questo modo di procedere in nome di quell'unicum irripetibile che è
la "persona", Alpa almeno non si è fatto illusioni. Questo "ballo in
maschera" a cui da secoli partecipano i giuristi, "deve essere preso
per quello che è": serve solo a distinguere l'individuo dal gruppo,
pur assicurandone nello stesso tempo la necessaria integrazione4. Si
ammetterà però che, oltre all'esistenza di risorse da distribuire, la
valorizzazione della persona presuppone pur sempre dei criteri e
delle regole che dovrebbero esser rispettati. E' questa del resto la
principale linea di divisione, che ha sinora distinto il solidarismo
cattolico dal clientelismo democristiano.
Nell'assenza di istituzioni capaci di rappresentare l'interesse
generale, è legittimo sospettare dunque che anche queste richieste
possano a loro volta essere state fondate su una malintesa
interpretazione dei compiti dell'autorità statale. E la ragione è
semplice. L'incontro che nel '48 maturò tra le due principali culture
politiche, quella cattolica e quella comunista, avvenne infatti
intorno ad alcuni "valori" e non sulle modalità di funzionamento del
futuro stato sociale, che poi avrebbe dovuto farsi carico di
realizzarli. Dirà perciò solennemente Togliatti, nella sua prosa
essenziale: "c'é stata una confluenza di due grandi correnti: da parte
nostra - scusate il termine barbaro - un solidarismo umano e sociale;
dall'altra parte un solidarismo di ispirazione ideologica e diversa il
quale però arrivava...a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo
noi"5.
Con una stretta di mano tra segretari di partito, verrà in tal modo
cancellato un universo di problemi che rappresentano invece il vero
asse portante delle moderne democrazie. Scoppola ne presenta le
prove. Pur essendo stato diretto da apprezzati studiosi come
Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino, anche
nella seconda edizione (1983) del ben noto "Dizionario di Politica"6,
vi sono esaurienti riferimenti alle minoranze, al ruolo delle
opposizioni, dei partiti e così via, ma non vi è traccia di alcune voci
importanti, come ad esempio quella di cittadinanza. E' il segno di un
vuoto reale. Non a caso nell'Italia della prima repubblica il senso di
appartenenza comunitario, è sempre stato "fragile e limitato"7.
35
Sarebbe sbagliato pensare che ciò sia dipeso soltanto da una insufficiente sensibilità delle scienze sociali. Queste ultime si sono in
realtà impegnate a ricostruire soprattutto quei processi storici che
effettivamente si manifestavano: maggioranze che "occupavano" lo
stato e opposizioni impegnate in una discussione senza fine sul
come diventare una forza di governo. Che le istituzioni dovessero
essere in buona misura indipendenti dalla logica dei partiti, resterà
invece - per lungo tempo - soltanto un'eresia, circoscritta al dibattito
di pochi intellettuali. Nei fatti, tutti hanno invece accettato che i
partiti svolgessero le proprie funzioni, assicurando appartenenza e
mobilità ad aree sociali sempre più ampie. Per questa via si è del
resto arrivati all'idea-limite che - in Italia più che altrove - ha reso
sempre più fragile la regolazione istituzionale. Dalla tendenziale
abolizione delle differenze in nome dell'eguaglianza, alla rivendicazione dell' uguaglianza di tutte le differenze, il passo sarà
infatti breve e nessuna forza politica eviterà di farlo. In questo
modo, tutti gli interessi privati risulteranno prima o poi meritevoli di
una tutela pubblica, perché ci sarà sempre qualcuno disposto a
rappresentarli8.
Naturalmente un simile degrado non è maturato soltanto attraverso la prava dispositio delle singole forze politiche e contro la
volontà di quegli stessi "cittadini", che oggi rivendicano la loro
innocenza. Semmai, c'è stato invece un accordo tacito ma anche
generalizzato, almeno su un aspetto del processo. In mancanza di un
criterio generale in grado di gerarchizzare le diverse domande,
nessuno ha avuto dubbi nel seguire la strada opposta: si è partiti
dalle identità particolari e, progressivamente, si è fatto coincidere
l'interesse pubblico manifestatosi attraverso la cittadinanza, con la
sommatoria delle singole richieste di volta in volta avanzate
attraverso le rappresentanze parlamentari. Generalizzando la logica
dello "scambio" politico, in tal modo si è sviluppata una spinta irresistibile verso un maggior grado di eguaglianza e un arricchimento
del materiale di cui è fatto lo status.
L'esito finale è stato più o meno identico a quello delle altre
democrazie europee, ma i costi sono risultati inevitabilmente diversi
per il modo con il quale ci si è arrivati. In Italia i partiti non hanno
raccolto consensi grazie alla loro capacità di governare. Piuttosto,
36
hanno governato in funzione della possibilità di allargare le
rispettive basi del consenso. E non è questa una differenza da poco.
Lo vedremo dai segni profondi che sono rimasti nel corpus delle
istituzioni.
Sbaglia perciò chi continua a credere che - discutendo soltanto
delle regole - la democrazia perda i suoi fini, inaridendosi in una
pura ricerca dei mezzi. Naturalmente se non si crea un senso di
appartenenza intorno al quale cementare il consenso, la democrazia
cessa anche di esistere. Ma senza leggi elettorali adeguate; senza un
esecutivo compatto capace di esprimere un orientamento che vada
oltre la sommatoria delle "delegazioni" dei partiti che lo
compongono; senza un legislativo che - anziché controllare continuamente condizioni il governo, gli stessi "valori" della
cittadinanza prima o poi deperiscono, disarticolandosi in una
pluralità di interessi che promuovono la negoziazione9, senza
tuttavia assicurare una reale forma di regolazione.
A suo tempo la cittadinanza nacque del resto in modo ben
diverso, affermandosi come "obbligazione politica", distinta dai
diritti universali dell'uomo. Ce lo ricorda Pombeni parlando di
"doveri che generano diritti e diritti che generano doveri"10, all'interno di un processo che rafforza le appartenenze anche grazie
alla circolarità del suo movimento. E' un'idea antica, propria di una
epoca in cui a una certa supremazia corrispondeva anche un
maggior rischio e una maggior disponibilità: un tempo, infatti, il
"diritto" di portare la spada era anche indissolubilmente legato al
"dovere" di usarla in guerra. Ma è anche una idea che non riesce più
a trovare nemmeno le parole per esprimersi, in una stagione
culturale che rivendica invece la eguaglianza di tutte le differenze.
La democrazia dei partiti ha messo infatti in primo piano i diritti,
ma non quella trama istituzionale che ha sinora assicurato loro il
necessario universalismo. Eppure, osserva Giovanna Zincone11, se
noi costruiamo i diritti sociali "in modo che la loro erogazione sia
discrezionale", gli stessi "diventeranno uno strumento di
corruzione", perché la classe politica ben presto inizierà a procurarsi
voti elargendo favori.
Chi si occupa degli ordinamenti politici assegna dunque grande
importanza alla definizione dei necessari criteri di regolazione. Da
37
un punto di vista storico, del resto, una moderna cittadinanza si
afferma soltanto nel momento in cui le istituzioni acquistano una
legittimità indipendente dai processi politici che le hanno generate.
La svolta verso la "governabilità" da noi maturerà però troppo tardi
e soltanto allorché arriverà a conclusione la stagione dell'"unità
nazionale". Ci vorranno poi quasi altri dieci anni per abolire anche il
voto segreto (1988), che del consociativismo è sempre stato il
presupposto, oltre che il principale garante. Ed anche le leggi che
negli anni settanta furono promosse sulla spinta di profonde
convinzioni morali, con il tempo hanno poi cambiato funzione,
rivelandosi come il principale strumento di protezione politica,
verso vecchi e nuovi corporativismi.
Gli esempi potrebbero del resto essere innumerevoli ed investire
gran parte dei settori di intervento dello stato sociale: dalla sanità al
pubblico impiego, dai falsi invalidi all'esercito di "distaccati" per
motivi sindacali, è stato tutto un moltiplicarsi di aspettative ben
presto tutelate nella forma del diritto. Divenuta una "rivendicazione
senza contropartite"12, la cittadinanza ha reso in tal modo palpabile
l'unilateralità delle proprie richieste. Dalla originaria convergenza di
due diversi solidarismi, si è così passati alla virtuale inesistenza di
valori comuni, come del resto dimostrano anche altre vicende, solo
apparentemente secondarie.
Si prenda il caso delle celebrazioni civili. Allorché si trattò di
ridefinire il calendario per ridurre le numerose festività infrasettimanali, tanto l'anniversario della Vittoria quanto quello della
proclamazione della Repubblica furono burocraticamente soppressi,
mentre ciò non accadde per il 25 aprile o per il primo maggio. E'
una splendida illustrazione del modo in cui la preesistenza di
identità politiche alternative ha, anche nelle piccole cose,
sistematicamente ostacolato la costruzione di una identità
nazionale13. Sono invece rimasti gli spalti degli stadi14, dove è
ancora possibile veder sventolare con genuino entusiasmo la
bandiera italiana. Potrà non piacere, ma non lo si può negare.
Avendolo capito bene, Berlusconi ne approfitterà ben presto e Forza
Italia risulterà perciò la prima organizzazione politica nelle elezioni
del 1994.
38
Esiste comunque un ampio territorio di problemi le cui radici affondano nel passato e che per lungo tempo non sono stati risolti.
Sono infatti le istituzioni che, attraverso le modalità del loro
radicamento, assicurano quella integrazione di cui la cittadinanza
rappresenterà a sua volta la principale manifestazione. La
leggerezza dei comportamenti che si manifesta sul piano delle
"identità", rinvia perciò ad una questione la quale è anche di sistema
e che, come tale, merita di essere indagata.
Chi va da tempo denunciando con preoccupazione le
conseguenze di simili processi, naturalmente ha ragione da vendere.
Man mano che la sfera di intervento pubblico si è ampliata, si è
sviluppato infatti un mix di particolarismo e universalismo,
accentramento e decentramento, che ha minato alle radici le stesse
capacità di regolazione. Non è un caso del resto che il "welfare state
all'italiana"15, come è stato efficacemente chiamato, trovi ben pochi
riscontri nelle democrazie di tipo europeo. Universalistico nella
erogazione delle prestazioni in alcune aree, particolaristico in altre,
per classificarlo Ferrera ricorrerà a una categorizzazione
tipicamente residuale e parlerà perciò di un sistema "misto". Che
cosa questo significhi, lo si capisce poi ricordando come si è arrivati
ad assicurare "la salute ai cittadini e la pensione ai lavoratori"16.
All'universalismo della riforma sanitaria si giunse infatti perché,
nel clima delle larghe intese degli anni settanta, si creò una
coalizione di interessi disponibile alla fusione in unica "comunità di
rischio" sorretta dallo stato. Mancando queste premesse politiche,
alla fine degli anni sessanta non si era riusciti invece ad assicurare
una tutela pensionistica estesa a tutta la popolazione, con servizi
uniformi e indipendenti dalla preesistente situazione professionale.
Divise nella logica che le ha istituite, sanità e pensioni sono
comunque oggi accomunate dal fatto di offrire prestazioni capaci di
acquisire un singolare primato: quello di risultare ad un tempo tanto
insoddisfacenti per il cittadino, quanto insostenibili per lo stato
sociale.
Il caso italiano è tutto qui: avendo voluto dare qualcosa a tutti, il
sistema alla fine darà poco e comunque darà più di quello che è
nelle sue possibilità. Emergerà perciò quel circolo vizioso che alla
fine metterà capo anche alla crisi del partito-stato democristiano. I
39
cittadini avvertiranno sempre più come ingiusto un prelievo fiscale
che non ha pari in Europa e che, a differenza di quanto è accaduto
altrove, da noi è servito ad alimentare le clientele, piuttosto che a
migliorare i servizi sociali. Venuto meno il vero collante di un
tempo rappresentato dai partiti i quali stabilivano quanto dare e a
chi darlo, i problemi finanziari faranno il resto. Per quadrare i conti,
nel 1993 verrà imposto un modello di dichiarazione dei redditi
lungo più di venti pagine, contro il quale riterrà doveroso scagliarsi
lo stesso Presidente della Repubblica. E' anche con queste piccole
cattiverie che è stata infatti intaccata la fiducia dei cittadini nelle
istituzioni.
Il principale problema, comunque, è sempre stato il modo in cui
si è cercato di arrestare la crisi dello stato sociale. Mancando
sistematicamente un accordo tra le diverse forze politiche, il
legislatore da tempo è andato infatti ridefinendo le proprie finalità
soltanto in maniera indiretta e cioè ridiscutendo le modalità di
copertura finanziaria delle stesse. La strada da percorrere per
mettere a fuoco la crisi di regolazione, è dunque in buona misura
obbligata. Ricostruendo la dinamica della decisione di bilancio e
della finanziaria che a questa è collegata, diverrà del resto più chiara
anche un'altra faccia del problema. Un sistema che ha sempre
maturato le proprie scelte nel modo che adesso ricostruiremo, non è
in grado di individuare dei criteri efficaci per assicurare l'inevitabile
processo di ridefinizione dello cittadinanza. E tutto ciò diverrà
chiaro allorché, sull'onda di una crisi senza precedenti, negli anni
novanta i governi Amato e Ciampi cercheranno di avviare un
processo di risanamento dello stato sociale.
2. La decisione di bilancio
Nei sistemi politici moderni la tradizionale divisione dei poteri
assume di volta in volta delle modalità differenti, a seconda delle
diversità esistenti nei rispettivi assetti statali. Che si tratti di regimi
presidenziali, semipresidenziali o anche parlamentari, in tutti i casi
però è l'esecutivo l'organo responsabile di stabilire i fini dell'azione
40
pubblica anche se poi il legislativo concorre, attraverso la legge di
bilancio, all'approvazione delle risorse destinate su base annuale o
pluriennale alla realizzazione dei primi. Le modalità attraverso le
quali viene regolato un processo decisionale che prevede la
partecipazione di poteri diversi, potranno perciò anche essere
diverse tra loro, ma mantengono comunque uno stesso obiettivo. Si
tratta di impedire che il legislativo possa nei fatti ribaltare le priorità
stabilite dall'esecutivo, senza dover peraltro mettere in discussione
l'indirizzo politico sul quale si basa il rapporto fiduciario nei
confronti del governo.
Cautele del genere di quelle ricordate sono state tuttavia largamente disattese nel caso italiano, a seguito di esigenze diverse che
sono venute alle luce negli anni settanta e le cui premesse meritano
di essere - sia pur sommariamente - richiamate. Il punto da cui
partire è naturalmente rappresentato dal solenne divieto stabilito
all'art. 81 della Costituzione, di accendere attraverso la legge di
bilancio sia "nuovi tributi", sia "nuove spese". La prima vistosa
deroga al principio del "pareggio" si ebbe intorno al 1960, allorché
le somme necessarie al finanziamento del Piano Verde vennero
reperite attraverso obbligazioni emesse dal Consorzio di Credito per
le Opere Pubbliche. A sua volta, questa deroga venne però
temperata attraverso un duplice ordine di vincoli. Intanto
l'emissione di obbligazioni da parte del Consorzio fu subordinata
all'autorizzazione preventiva della Banca d'Italia; secondariamente,
l'iscrizione in bilancio avvenne solo dopo il versamento da parte del
Consorzio del ricavato delle emissioni.
A partire dagli anni sessanta il "pareggio" dunque salta ma resta
in piedi comunque, accanto ad una discutibile discrezionalità del
Tesoro in ordine all'avvio delle procedure contabili di spesa, un
principio fondamentale. Il governo non dovrà proporre dei nuovi
fini, allorché sottoporrà al parlamento la decisione di bilancio. I
primi potranno infatti essere determinati attraverso ordinarie leggi
di spesa, mentre la legge di bilancio dovrà invece limitarsi a
stabilire soltanto il punto di equilibrio ottimale sul piano finanziario,
evitando in tal modo ogni confusione tra i due diversi tipi di
decisione o, anche, tra una scelta di spesa e le modalità della sua
erogazione.
41
La "rivoluzione delle aspettative crescenti" maturata negli anni
settanta, ben presto fece però tabula rasa di questa impostazione
perché le uscite non solo cresceranno, ma andranno anche ben oltre
i tradizionali confini del settore statale. Per adeguare l'organizzazione dei centri di spesa alle nuove esigenze del sistema di
welfare, in quegli anni prese infatti corpo una "fuga dallo stato"17,
conseguente alla creazione di quel settore pubblico allargato che
costituiva l'ossatura del nuovo "governo per enti". Autonomie
locali, regioni, enti previdenziali e alla fine anche il sistema
sanitario, diventano così i nuovi canali attraverso i quali passa gran
parte della spesa pubblica, che lo stato si limiterà a sua volta
soltanto a registrare, all'interno di un bilancio sempre più vincolato.
Alla lunga, questo tipo di assetti risulterà però insostenibile. Non
si poteva continuare ad onorare comunque - e per giunta a piè di
lista - i crescenti impegni assunti dal settore pubblico allargato, al
quale era peraltro stata negata qualunque autonomia finanziaria al
momento della approvazione della riforma tributaria. Con la legge
468 del 1978, il legislatore getterà perciò le premesse perché il governo e il parlamento intervengano tenendo conto sia della situazione economica del paese, sia del volume complessivo di tutte
le operazioni attraverso le quali assicurare un equilibrio tra gli
impegni di spesa e le entrate necessarie a una loro copertura.
Va detto che alla revisione del 1978 si arriverà anche perché, a
differenza di quanto era accaduto in passato allorché la legge di
bilancio aveva mantenuto un carattere sostanzialmente rituale, negli
anni settanta incomincia invece a prendere corpo anche in
parlamento una discussione sui rispettivi poteri normativi dell'esecutivo e del legislativo. L'idea di dar vita a un processo
decisionale sinottico delle priorità e degli equilibri dei conti di stato,
matura però nello stesso momento in cui, alla fine del decennio,
incomincia ad impallidire la stella del consociativismo e prendono
invece corpo nuovi conflitti tra i principali soggetti politici. Ne
nascerà una discussione non da poco e non sarà semplice arrivare a
nuovi assetti istituzionali. Con le sue leggi e leggine, il parlamento
non ha infatti contribuito soltanto alla "sopravvivenza" del sistema;
ha anche partecipato al suo governo, permettendone addirittura un
"consolidamento democratico"18. Venuta meno la stagione delle
42
"larghe intese", la legislazione di bilancio dovrà però misurarsi con
un nuovo e più instabile quadro politico, facendone subito le spese.
La scelta maturata in quegli anni prevedeva infatti che il governo
potesse intervenire sull'intero processo, utilizzando il nuovo
strumento della legge finanziaria. Collocandosi quest'ultima a
monte della legge di bilancio, in tal modo diventava possibile
rispettare l'originario divieto costituzionale previsto dall'art. 81,
mantenendo nello stesso tempo una ampia libertà di manovra sui
criteri attraverso i quali quadrare i conti dello stato. In realtà, la
possibilità ora riconosciuta all'esecutivo di indicare nuovi fini,
presupponeva un radicale capovolgimento dell'ottica sino a quel
momento adottata nella programmazione dei lavori parlamentari.
"Non più una organizzazione della discussione volta a garantire i
più ampi spazi di libertà emendativa, dirà infatti De Joanna, ma
invece un'organizzazione volta a mettere a confronto la proposta del
governo con proposte alternative, all'interno di vincoli e limiti già
predeterminati dalla stessa volontà parlamentare"19.
Cambiato il clima politico, ci vorranno però anni per entrare a
regime, sicché tutta la strumentazione normativa prevista dalla
legge acquisterà un diverso significato. Il bilancio pluriennale di
previsione, ad esempio, sirivelerà inutilizzabile, non fosse altro
perché presupponeva una stabilità degli esecutivi che non era facile
assicurare. Identica sorte toccherà anche alla legge finanziaria,
perché intorno all'interpretazione ed all'uso che l'esecutivo farà di
questi ultimi poteri, si accentrerà gran parte della discussione sino
alla successiva riforma dell'88.
L'art. 11 della Legge 468/1978 riconduceva infatti a un unico
momento decisionale, la determinazione del volume massimo di
risorse che erano acquisibili mediante indebitamento finanziario.
Nello stesso tempo però, la legge apriva anche la strada alla prassi
di iscrivere uscite certe sul lato delle spese, mentre le entrate
sarebbero state garantite attraverso operazioni di tesoreria che, per
la loro incertezza sugli esiti, avrebbero dovuto invece esser tenute
fuori da ogni previsione. Si getteranno così le basi per trasformare
quella che agli inizi era una timida e anche prudente tendenza, in
una vera e propria corrente irresistibile di spesa. Alla fine del
processo annuale, il ricorso al mercato finanziario verrà infatti
43
puntualmente costruito come un mero saldo contabile, destinato a
coprire la quota delle risorse che non si riusciranno ad attingere
attraverso le imposte.
Non essendo in grado di intervenire organicamente sul versante
delle uscite, fossero queste costituite dagli enti locali, dalla
previdenza o dalla sanità, il governo incomincerà inoltre a proporre
ben presto la cosiddetta "finanziaria omnibus" e cioè un
provvedimento al cui interno le macro-decisioni si mescoleranno
con le misure clientelari, mentre i "tagli" assumeranno i caratteri di
vere e proprie mini-riforme, che incideranno profondamente sulle
modalità della regolazione politica. Sino alla successiva legge del
1988 tutti gli strumenti della manovra verranno inoltre discussi
contestualmente, con la conseguenza di annullare qualunque
possibilità di valutazione sulle scelte di medio periodo e di
schiacciare invece parlamento e governo sulla decisione annuale,
inevitabilmente assunta sulla base di considerazioni congiunturali.
Da strumento di governo della spesa, la finanziaria si trasformerà
perciò nell'unica decisione alla quale non solo l'esecutivo ma anche
il parlamento si affideranno, per realizzare i rispettivi obiettivi.
Per un sistema politico che incominciava ormai ad avere il fiato
corto, non fu certo un risultato da poco. Questo "treno" partirà
infatti tutti gli anni e arriverà comunque a destinazione, perché sarà
l'unica legge alla quale il parlamento non potrà negare la propria
approvazione. Si capisce perché tutti abbiano sempre voluto salirci.
Il governo che ha bisogno di decidere, l'opposizione che cerca di
difendere i propri interessi e anche i singoli parlamentari i quali si
occupano dei rispettivi collegi, da tempo ormai sanno che - magari
attraverso accordi trasversali - la finanziaria rappresenta infatti il
"mezzo di trasporto" più sicuro per ottenere un risultato desiderato.
Le nuove regole approvate dal parlamento nel 1978, daranno in tal
modo vita a decisioni di cui si perderà la forma e trovare un accordo
diventerà sempre più difficile.
A partire dalla tormentata finanziaria del 1988, il Presidente
della Camera dichiarerà perciò apertamente: "tutti siamo
consapevoli che non debbono essere affidati alla finanziaria
interventi di carattere puntuale, né può essere attribuita in ragione
dei tempi garantiti dalla sua approvazione, una funzione di
44
supplenza rispetto alla mancata definizione di specifici
provvedimenti legislativi e addirittura di grandi riforme, attese da
lungo tempo... E' necessario anche domandarsi se, per superare i
problemi che l'uso concreto della legge finanziaria ha posto e pone,
non sia necessario ripensare profondamente la sua stessa struttura e
i suoi rapporti con il bilancio"20.Si aprirà in tal modo la discussione,
che poi porterà ad una nuova modifica dell'intero processo.
Nei fatti, le soluzioni proposte ruoteranno intorno a tre diverse
esigenze: una netta separazione temporale fra il momento
d'impostazione delle regole macrofinanziarie e la fase di modifica
concreta delle legislazioni sostanziali di settore; la distribuzione dei
contenuti settoriali di tipo normativo in strumenti legislativi distinti
dalla finanziaria, che diverrà perciò sempre più "snella";
l'adattamento delle procedure parlamentari - e cioè la votazione
preliminare e vincolante dei principali saldi finanziari e l'adozione
del voto palese - agli assetti che si cercheranno di imprimere alla
decisione di bilancio. Alcune di queste previsioni verranno
assicurate nel 1988 dalle modifiche dei regolamenti parlamentari.
Altre esigenze verranno invece fatte proprie dalla Legge 362/1988
che modificherà la legislazione preesistente e, nello stesso tempo,
favorirà l'emergere di nuove "prassi" parlamentari.
Con l'adozione di un "documento di programmazione", a partire
dal 1989 si cercherà dunque di anteporre alla prima fase del
processo decisionale una deliberazione politica inspirata da criteri
generali di razionalità economica e finanziaria, a cui il governo
stesso verrà vincolato una volta che sarà avviata la manovra. Pur
all'interno di un processo che ovviamente resta unitario, la decisione
risulterà inoltre articolata in due diversi momenti e nello stesso
tempo si cercherà di migliorarne anche l'impostazione, dedicando la
prima fase della discussione all'esame dei documenti preparatori.
Ormai "alleggerita" dal sovraccarico funzionale che la opprimeva,
la nuova finanziaria verrà invece presentata insieme ai
provvedimenti collegati, nella apposita sessione di bilancio istituita
tra il 1983 e il 1985, in entrambi i rami del parlamento.
Naturalmente non è così ovvio riuscire ad imporre una prassi,
grazie alla quale un atto di indirizzo come quello espresso dal
"documento di programmazione", si trasforma nei fatti in un
45
vincolo alle scelte del potere legislativo. Anche se non solo per
queste ragioni, tutto il nuovo impianto di regolazione si rivela del
resto di difficile attuazione. Il "documento" verrà infatti sottoposto
al parlamento, quando già il Tesoro avrà avviato il processo di
determinazione della propria proposta. Poiché questa comporta a
sua volta una intensa negoziazione con le varie amministrazioni
statali, in tal modo una quota di spesa - che è anche
quantitativamente rilevante - verrà sottratta a quelle valutazioni di
ordine globale che avrebbero invece dovuto ispirare il nuovo
processo decisionale. Soprattutto, mancherà qualunque disposizione
in grado di vincolare gli attori politici a criteri che non siano solo di
ordine congiunturale e di tipo autoreferenziale.
Dilatatasi la discussione in diversi momenti, gli attori cambiano
infatti a seconda della fase in cui si trova il processo di policy e a
volte cambiano anche i ruoli che gli stessi svolgono, a seconda del
tipo di contrattazione che debbono affrontare. Durante tutto il
periodo di predisposizione della "proposta", si svilupperà ad
esempio una negoziazione interna all'esecutivo tra le
amministrazioni di spesa e il Tesoro; nel momento in cui
quest'ultimo approva il progetto di bilancio a legislazione vigente e
la finanziaria collegata, si avvierà invece la contrattazione tra gli
attori politico-istituzionali e le rappresentanze degli interessi sociali
coinvolti nelle decisioni di spesa o di entrata21.
Per ovviare ai limiti diventati evidenti in un processo che ha
delle regole ma non riesce ad avere dei risultati, in più occasioni
sarà perciò proposta l'adozione di una sorta di "costituzionalismo
fiscale". Lo schema di riferimento sarebbe quello offerto dalla legge
Gramm-Rudman-Hollings, in passato adottata nell'esperienza
americana: qualora le spese superino i "tetti" di disavanzo stabiliti,
interverrebbero dei meccanismi automatici di "taglio"
precedentemente introdotti. Va detto che lo stesso Congresso è
ritornato più volte sul problema, perché i risultati non sempre si
sono rivelati soddisfacenti. Questo genere di provvedimenti
verranno inoltre ritenuti meno utili nel caso italiano22, per la
diversità del nostro assetto istituzionale.
Ciò che nel processo di bilancio risulta infatti centrale, è innanzitutto la natura delle maggioranze al cui interno le decisioni
46
vengono prese e anche la natura dei sistemi elettorali che le
producono. I paesi che negli anni ottanta sono riusciti a riportare il
rapporto tra debito pubblico e PIL al di sotto del 50 per cento,
hanno tutti un assetto di tipo presidenziale o, comunque, fortemente
maggioritario. Negli Stati Uniti o in Francia da una parte; in
Inghilterra, Giappone e Canada dall'altra, il debito pubblico infatti è
sceso o comunque si è stabilizzato entro limiti che vengono
normalmente considerati accettabili, come appunto quelli
rappresentati dalla soglia del 50 per cento. Anche la Germania, che
ha visto in quest'ultimo decennio crescere sino al 25 per cento il
rapporto tra debito pubblico e PIL, ha comunque dei meccanismi
istituzionali come quello rappresentato dalla "fiducia costruttiva" o
dalla "clausola di sbarramento", che hanno assicurato sinora un
controllo delle dinamiche di spesa. L'Irlanda, il Belgio, la Grecia o
l'Italia, il cui debito pubblico è costantemente cresciuto a partire
dagli anni ottanta raggiungendo , nel caso del nostro paese, un
rapporto con il PIL che oggi viaggia intorno al 110 per cento, hanno
invece avuto degli assetti istituzionali di tipo proporzionale. Esiste
dunque una sorta di trade-off tra rappresentanza e efficienza, anche
se il minor grado di rappresentanza associabile ai sistemi elettorali
maggioritari, è solo "una condizione necessaria, ma non sufficiente,
per una maggiore efficienza"23.
C'è poi un altro aspetto che deve essere sottolineato.
Contrariamente all'opinione corrente, le difficoltà maggiori che da
tempo si incontrano nel finalizzare i sacrifici annualmente richiesti
alla collettività non dipenderanno soltanto dall'assalto che il
parlamento andrà muovendo alla spesa pubblica, ma anche dal fatto
che l'esecutivo non riuscirà, per la debolezza da cui è contrassegnato, a intervenire in maniera strutturale all'interno di quei settori
che maggiormente incidono sul debito. Il problema risulterà del
resto così evidente che - pensando alla decisione di bilancio,
piuttosto che alla riforma istituzionale - alcuni osservatori vedranno
nella "revisione della legge elettorale", il primo volano su cui
intervenire per avviare una inversione delle tendenze in atto24.
Chi ha dunque descritto il debito pubblico come una variabile
"fuori controllo" e la spesa come un flusso "senza freni", in realtà ha
sempre chiarito solo in parte quella che è invece la sostanza
47
istituzionale del processo. I freni alla spesa ci sono infatti da anni e
sempre più duri, così come il controllo sulle entrate. Ciò che invece
si è rivelato impossibile, per ragioni che debbono essere appunto
ricondotte all'assetto del sistema politico italiano, è stato il tentativo
di assicurare continuità e coerenza alle manovre che sinora si sono
succedute di anno in anno, a causa di quei limiti che Amato - allora
ministro del Tesoro - rileverà già durante la discussione
parlamentare del 1987.
Nella sessione che si chiama di bilancio e non di finanziaria,
sostenne Amato in quella occasione, abbiamo davanti 40 mila
miliardi di finanziaria e 500 mila di bilancio: "noi però ci
azzuffiamo per quattro mesi su questi 40 mila miliardi e i 500 mila
miliardi scorrono come un fiume sotterraneo su cui nessuno ha
tempo di mettere gli occhi"25. La sessione di bilancio appositamente
prevista dal parlamento è sempre stata - in altri termini - dedicata
soprattutto alla finanziaria. Essendosi in passato il governo
impegnato soprattutto nella riconversione di una componente
limitata della spesa pubblica, il bilancio ha continuato invece a
rappresentare soltanto lo sfondo al cui interno è maturata la
manovra economica. Un modo come un altro, questo, per non
mettere mani sul "fiume sotterraneo" grazie al quale è sinora
ingrassato lo stato sociale.
Questo uso improprio delle sedi istituzionalmente previste ha
comportato a sua volta una trasformazione dei processi di regolazione politica. Per giustificare un prelievo fiscale che diventerà
sempre più pesante, ma anche sempre più ingiustificato, il discorso
verrà semplificato ed il termometro della situazione economica sarà
sempre più spesso riassunto nell'indicazione del debito con cui lo
stato grava idealmente su ogni cittadino, mentre i piani di rientro si
succederanno inevitabilmente tra di loro, ognuno prendendo le
mosse dal fallimento del precedente.
Configurandosi sempre meno come uno strumento di rientro del
deficit, la manovra annuale si presenterà inoltre, sostanzialmente,
come una policy di tutte le possibili policies.26 E' stato questo il
reale processo decisionale attraverso il quale si è sempre governato
il paese. Ed è questo dunque l'osservatorio privilegiato che permette
48
di capire sia quali siano - o non siano - oggi i poteri del governo, sia
quelle che sono le logiche delle sue rappresentanze politiche.
Troppe volte lo spettacolo offerto durante la sessione di bilancio,
è risultato del resto sconcertante. Le opposizioni e spesso anche
settori interni della maggioranza, naturalmente contestano le cifre
poste a base della manovra e anche i principi - non senza ragione vengono inoltre rimessi continuamente in discussione. All'interno
dello stato sociale, c'è infatti pur sempre qualcuno che riesce a
nascondere i propri privilegi meglio degli altri. Né le incertezze
cessano con l'approvazione della finanziaria, perché nel corso
dell'esercizio si è spesso verificato che i gettiti realizzati attraverso
nuove imposizioni fossero inferiori a quelli previsti; oppure che il
tasso di crescita dell'economia cambiasse o che la stessa bilancia dei
pagamenti peggiorasse, per fattori che erano legati al ciclo
economico internazionale. Le piccole manovre di metà anno, dirette
ad assicurare i necessari aggiustamenti, sono diventate perciò
un'abitudine a cui il paese dovrà inevitabilmente rassegnarsi.
Sollecitati continuamente dall'alluvione di dati di volta in volta
posti in primo piano, i contribuenti hanno naturalmente reagito a
modo loro, sottraendosi ai propri doveri allorché ciò sarà possibile
ed esibendo le inevitabili ingiustizie legate all'imprevedibilità del
sistema di regolazione, ogni volta che queste si presenteranno. Per
reazione, i ceti medi a loro volta si sono mobilitati e il processo di
ridefinizione della cittadinanza è risultato sempre più accompagnato
dalle pressioni popolari. Ai diritti - osserverà infatti Rodotà - "non
corrisponde più alcuna sostanza"27, perché l'"inflazione" legislativa
li ha resi nei fatti inesigibili. Chi ancora avrà bisogno di farsi
sentire, dovrà avviarsi perciò per la solita la strada: quella di alzare
la voce, irrigidire i conflitti.
A partire dalla seconda metà degli anni ottanta sono nati infatti i
Cobas a sostegno delle richieste degli insegnanti e dei ferrovieri; i
medici ospedalieri e il personale paramedico si mobiliteranno ogni
volta che verrà toccato il settore della sanità; per contrastare le
iniziative dei dipendenti che continuamente minacciano la
sospensione dei servizi pubblici, sarà necessario arrivare a una
regolamentazione degli scioperi nel settore; oppure, per fare un
ultimo esempio, la rivolta antitasse diventerà la spina dorsale
49
intorno alla quale nuove forze politiche come le Leghe prima e poi
anche Forza Italia raccoglieranno consensi a mani basse.
Minacciate dall'incapacità di unificare le nuove microsolidarietà
di categoria, di ceto o di territorio che emergono dal dissolversi dei
vecchi rapporti sociali, le istituzioni hanno a loro volta cercato di
adattarsi. Non è stata solo la finanziaria, ma qualunque
provvedimento che incideva su precedenti diritti acquisiti, ad
assumere il carattere di una sorta di "vestito di arlecchino", dove
ogni toppa rinviava all'equilibrio raggiunto con l'interesse che di
volta in volta è stato colpito. Il consenso diventerà una merce che
costa ogni giorno più cara perché le strutture preposte alla sua
produzione, siano esse partiti, parlamento o governo, non saranno in
grado di assicurarlo. La negoziazione risulterà infine frenetica,
perché la forza che muove coloro i quali trovano un accordo, deriva
direttamente dalla debolezza di quanti invece sono costretti a
subirlo.
La miscela che sinora ha alimentato il "treno" della regolazione
è infatti stata sempre costituita da un mix esplosivo di culture
postmoderne e di privilegi sociali di tipo medioevale nel cui vortice
sia i soggetti regolatori che quelli regolati sono stati
progressivamente assorbiti, perdendo ogni volta - a seconda del
caso - qualcosa delle passate identità. Manifestando l'esistenza di
chiari limiti, questo tipo di governo del welfare state ha in tal modo
favorito una crisi di integrazione sociale e politica, diventata
esplosiva. Crollati i partiti, anche gli altri legami si sono
progressivamente indeboliti e ciò va detto con la sicurezza che si
ricava da diverse considerazioni.
3. Il deficit di integrazione
L'incisione è esposta al Metropolitan di NewYork e rappresenta
dieci uomini che combattono tra loro, armati soltanto con piccole
scimitarre. Si tratta del celebre Combattimento dei nudi del
Pollaiolo che, curiosamente, La Palombara riproduce nell'antifrontespizio di un saggio sulla "democrazia all'italiana",
spiegandone anche le ragioni. A prima vista sembrerebbe infatti di
50
assistere a una lotta disordinata e implacabile, condotta sino
all'ultimo sangue, proprio come nell'incisione del Pollaiolo.
Guardando quest'ultima più da vicino, La Palombara ci vede però
anche dell'altro: "la posizione delle figure, i loro atteggiamenti, il
rapporto che lega le une alle altre e che le inserisce nello spazio,
creano una situazione di estrema tensione e, insieme, di equilibrio
quasi perfetto"28. All'originaria impressione di conflitto si
sostituisce perciò la sensazione di una realtà caratterizzata da una
ben più profonda armonia, che l'artista rivela solo ad uno sguardo
più attento, non diversamente da quanto accade alla vita politica
italiana. L'interpretazione è attraente, ma minimizza i pericoli
mortali ai quali vanno incontro i combattenti. Già nell'incisione del
Pollaiolo, del resto, il quadro inferiore smentisce sonoramente la
sensazione di vigore trasmessa dal quadro superiore. Questi uomini
non stanno più in piedi, almeno due son caduti per terra e, forse,
stanno per esser finiti da avversari che incalzano.
E' il caso dunque di intendersi bene. Nel breve periodo si poteva
anche parlare di "armonia", ma una lettura dinamica dei processi
politici venuti a maturazione nel passato decennio, sottolinea invece
la fragilità dell'equilibrio allora raggiunto. Basterà inciampare in un
nonnulla per ritrovarsi con le spalle a terra, a un passo dalla fine. Le
"legature" che agli inizi degli anni ottanta ancora univano gli
elementi del sistema, si sono infatti ben presto allentate e i fasti
culminati nel vertice di Tokyo (1986), sono da tempo solo un
pallido ricordo. Nel frattempo sono invece diventate esplosive le
conseguenze di due significativi deficit di integrazione: quello tra
stato sociale e stato fiscale e quello tra territorio e istituzioni. Lo si
vedrà bene per l'ultima volta, in occasione della crisi finanziaria
dell'autunno 1992: il governo Amato riuscirà a fronteggiarla, solo al
prezzo di un conflitto profondo che opporrà il presidente del
consiglio a buona parte del ceto politico nazionale.
E' noto come il problema dello stato fiscale sia indissolubile da
quello dello stato sociale perché quest'ultimo ha bisogno del primo
per potersi consolidare, così come i cambiamenti che maturano nei
sistemi di tassazione nazionale inevitabilmente rinviano a un
processo di ridefinizione dei modelli di welfare. Dobbiamo dunque
prendere atto di non essere oggi di fronte a due crisi diverse, bensì a
51
"due facce" di una identica crisi 29 che, peraltro, affonda ormai
lontano nel tempo. La riforma fiscale del 1971-1973 interveniva
infatti su un modello di imposizione del reddito di tipo largamente
induttivo e transattivo, trasformandolo in un sistema su base
analitica e documentale, che inevitabilmente sollevava anche
problemi di riorganizzazione dell'intera amministrazione
finanziaria. Alla fine degli anni ottanta solo "quattro o cinque" delle
quattordici direttive di intervento previste dal legislatore avranno
però trovato attuazione30, mentre il resto rimarrà ancora lettera
morta. Ciò non significa naturalmente che, nel frattempo, non sia
stato fatto niente. Saranno costituiti gli uffici provinciali dell'Iva,
creati dei "centri di servizio", modificate più volte le procedure di
accertamento, riorganizzate le carriere e, da ultimo, approvate
nuove leggi di ristrutturazione dell'apparato ministeriale (Legge n.
358/1991). Tutto ciò non corrisponderà però alle effettive necessità
della amministrazione finanziaria e, soprattutto, non basterà ad
affrontare i mutamenti di scenario economico e sociale nel
frattempo maturati.
Sinché è stato sufficiente controllare il territorio nazionale per
esercitare sulla ricchezza prodotta il prelievo necessario a finanziare
la spesa pubblica, l'architettura di base dei sistemi fiscali europei
non ha infatti presentato particolari problemi. Il mutamento
maturato da tempo all'interno di una produzione industriale sempre
più internazionalizzata ha però rotto la catena politica fondamentale
tra stato, territorio e ricchezza. Oggi quest'ultima fuoriesce dai
confini nazionali ogni volta che lo trova conveniente, perché la
nuova "lex mercatoria" 31 è più forte di quella degli stati. Mentre la
griffe, il know how e le relative licenze circolano dunque attraverso
mercati che non hanno più frontiere, il prelievo fiscale si abbatte
invece con sempre maggior accanimento sulle forze più deboli,
rimaste all'interno del ristretto orizzonte nazionale. Come conseguenza, la "croce" dello stato fiscale oggi pesa soprattutto sul lavoro
dipendente.
Divenuta insostenibile la crescita delle imposte personali, si è
creata dunque un'area di evasione a carattere strutturale, legata a un
modello di fiscalità che ha sinora privilegiato le imposte dirette su
quelle indirette, oppure la tassazione delle persone rispetto a quella
52
delle "cose" che pure rappresentano gli indicatori delle nuove forme
di ricchezza: la borrowing capacity, il franchising, il software, le
reti dematerializzate dei titoli di credito32. Prima le tasse non si
pagavano perché evaderle era un gioco. Ora l'evasione è un
processo più difficile ma pur sempre possibile per quei soggetti
economici che operano in una dimensione internazionale. E'
diventata invece una necessità per le fasce deboli del sistema, che
spesso non sono in grado di onorare il debito fiscale. Per tutti,
infine, l'aspirazione a un sistema più equo si sta trasformando in un
pericoloso combustibile il quale alimenta il fuoco della rivolta
fiscale.
Modificare l'ingiustizia di un sistema che è costretto ad alzare la
pressione oltre ogni limite sul lavoro dipendente, è però ormai
altrettanto difficile quanto continuare a far finta di niente. Per
ampliare il gettito delle entrate, il governo Amato dovrà ad esempio
escogitare un discutibile marchingegno come quello della minimum
tax. Per reazione, da una parte aumenterà la mortalità delle attività
indipendenti; dall'altra, si moltiplicheranno le partecipazioni
familiari fasulle ricorrendo a madri, mogli o figli generalmente
nullatenenti, ai quali intestare una parte del reddito annuo prodotto.
Divenuto sempre più difficile assicurarsi quella "obbedienza" del
cittadino che aveva sinora permesso una integrazione tra stato
fiscale e stato sociale, quest'ultimo perderà perciò progressivamente
il controllo di quella ricchezza necessaria al soddisfacimento di
diritti che, essendo ormai riconosciuti, sarà difficile rimettere in discussione. E' appena il caso di segnalare come negli Stati Uniti di
Reagan o nell'Inghilterra della Thatcher, l'elemento simbolico sul
quale è stata ricostruita la fiducia nazionale si sia nel passato
decennio manifestato proprio attraverso la riduzione delle imposte
personali, alla quale hanno fatto seguito dei mutamenti nello stato
sociale. Il livello della pressione fiscale, ormai, viene infatti
considerato anche un indicatore di efficienza dello stato sociale.
Saltata la possibilità di continuare a tenere uniti i due termini del
problema, ineludibile si rivelerà perciò anche in Italia l'esigenza di
nuove forme di regolazione per entrambi.
Per segnalare il passaggio da una stagione all'altra, Tremonti ha
proposto ad esempio un suggestivo "falò" delle tasse moderne intese
53
come imposte statali, sul reddito e ad aliquota progressiva, perché le
differenze strutturali tra le diverse economie ormai tagliano
trasversalmente la continuità formale dei sistemi statali. Le
soluzioni potrebbero comunque essere anche diverse. L'unica cosa
certa resta questa: "chi paga, su cosa si paga, come si paga"33, non è
più un problema che possa essere affrontato in una dimensione
soltanto nazionale e per giunta con modalità istituzionali che sono
rimaste rigidamente centralizzate. Giungiamo così al nodo in cui
può essere riassunto il secondo dei due deficit di integrazione, prima
richiamati: quello tra istituzioni e territorio.
Introdotto anche con l'obiettivo di dar attuazione a una previsione costituzionale, sin dalla sua nascita il decentramento
regionale porterà impressi i segni del sistema politico che lo
promuove. E' stata una delle modalità attraverso le quali si è cercato
di disperdere sul territorio la protesta nata negli anni sessanta; ma è
stato anche l'asse portante intorno al quale si è sviluppato il sistema
di welfare. Improbabile apparirà invece, sin dall'inizio, una rottura
del permanente centralismo statale, perché le nuove sedi
istituzionali resteranno subordinate ai rispettivi assetti di potere
interni ai partiti34.
La "depolarizzazione" intervenuta nel sistema politico - di cui
parleranno Putnam35 e la sua équipe quindici anni dopo la
costituzione delle regioni - in effetti avviene, ma all'interno di un
quadro che ha ormai ribadito la subordinazione delle regioni alle
esigenze della classe politica nazionale, dalla quale le stesse
ricaveranno anche i criteri di distribuzione delle risorse tra centro e
periferia. Per queste ragioni, le autonomie locali non acquisiranno
mai una specifica identità politica. Piuttosto, il decentramento
comporterà il rafforzamento di un sistema "a mezza via", dove
riusciranno a coesistere logiche allocative diverse e perciò capaci di
assicurare un'attenzione anche nei confronti della 'periferia', sia pure
all'interno di una struttura istituzionale che rimarrà invece
sostanzialmente accentrata.
Richiamando l'attenzione sul rapporto esistente nelle aree ad
industrializzazione diffusa tra "grandi partiti" e "piccole imprese",
Trigilia ha inoltre segnalato come il sistema politico regionale abbia
in passato impedito qualunque tipo di nuova aggregazione tra le
54
varie domande,36 in questi anni maturate all'interno dei sistemi
politici locali. L'esistenza dei grandi partiti renderà infatti
impossibile l'emergenza di un nuovo livello istituzionale di
regolazione, anche se ciò accadrà per motivi diversi, a seconda delle
caratteristiche subculturali del territorio interessato. Laddove era
insediato il vecchio Pci, il monopolio della rappresentanza di cui
questo godeva scoraggerà la nascita di forti organizzazioni
autonome, sia pure sociali o sindacali. Diversa sarà la dinamica
delle zone 'bianche'. La tradizionale permeabilità della Dc nei
confronti dei vari interessi, favorirà infatti un processo di trasmissione "orizzontale" della domanda, basato su rapporti diretti con le
classi politiche locali.
Questo modello di integrazione è però venuto meno nel momento in cui la crisi fiscale ha indotto un aggravamento delle
ragioni storiche dello scambio. Sinché il sistema era in crescita, si
poteva infatti anche accettare un droit de regard a favore del
"centro" che a sua volta proteggeva le aree più 'deboli 'come il
Mezzogiorno. Lo scambio comincerà però a risultare iniquo quando
gli elementi di discontinuità economica e sociale interni allo stesso
stato nazionale imporranno al Nord la tassazione del reddito
prodotto, mentre al Sud l'economia sommersa - nei fatti - beneficerà
di forme illegali di detassazione.
La presunzione di evasione che accompagna l'inasprimento del
prelievo fiscale diventerà inoltre odiosa quando imporrà degli
obblighi di contabilità, di certificazione o di semplice documentazione che non avranno una loro giustificazione economica nel
livello di redditi conseguito. Il trasferimento di redditi dalle aree più
forti a quelle più deboli apparirà incomprensibile, quando si
scoprirà che un fiume enorme di denaro pubblico è servito
soprattutto ad arricchire la criminalità organizzata, ancora oggi sul
ponte di comando in alcune regioni meridionali. La stessa
solidarietà sociale inevitabilmente si incrinerà, quando i sacrifici
fatti da una parte della comunità incominceranno ad essere utilizzati
dalla classe politica per alimentare un sottobosco sociale che vive di
sussidi e indennità, grazie al commercio del "voto di scambio".
Anche in questi casi, comunque, importante non è tanto la realtà
oggettiva dei diversi processi, quanto il fatto che alcune forze
55
politiche la interpretino in un determinato modo. Un esempio? La
vecchia "questione meridionale"37. Naturalmente è vero che la
Lombardia, il Veneto, l'Emilia e il Piemonte da sole finanziano la
redistribuzione che attraverso il governo centrale si indirizza verso
le altre regioni. Come è stato però nuovamente confermato38, non
solo di questi trasferimenti beneficiano anche aree come la Val
d'Aosta, il Trentino o il Friuli che pure si trovano ai vertici delle
graduatorie dei redditi procapite ma, tanto in termini di valore
aggiunto quanto sotto il profilo occupazionale, la spesa pubblica nel
Sud ha sinora favorito anche le regioni settentrionali: su cento lire
erogate alla Calabria trentadue andranno a beneficio di altre regioni,
così come su trentatré nuovi posti di lavoro, solo venti verranno
occupati da forza lavoro locale.
Il consenso sinora canalizzato al centro del sistema politico
grazie allo "scambio" verrà considerato comunque sempre meno
conveniente e ciò spiega perché è sempre più scivolato in secondo
piano il problema rappresentato dall'integrazione delle periferie. Gli
stessi termini della controversia intorno alla "questione
meridionale", sia pure lentamente, sono infatti cambiati. Non ci
sarà più una vera rappresentanza meridionale che denuncerà le
responsabilità della classe politica nazionale ma, al contrario,
emergerà una "sempre più estesa rappresentanza della società
settentrionale" la quale vedrà "nell'Italia che va da Roma in giù, un
uniforme area sociale di parassitismo che ne danneggia gli interessi
e frena la crescita".39
Facendo circolare monete e bandiere che, per il loro significato
simbolico, parlavano già il linguaggio di un diverso tipo di
aggregazione sociale, le varie Leghe hanno in tal modo avuto buon
gioco, nel sottolineare elementi di divisione da tempo presenti nella
vita politica nazionale. Un ospedale completato ma mai entrato in
funzione, così come una piazza coperta da siringhe non esprimono
infatti solo un bisogno di servizi che ancora mancano nel Sud del
paese, pur essendone stati largamente pagati i costi. L'impatto
negativo che ne deriva toccherà l'essenza stessa della convivenza,
perché le attività che avrebbero dovuto essere assicurate dal settore
pubblico, cesseranno di essere luoghi e modi attraverso i quali la
collettività potrà riconoscersi.
56
Anziché permettere un ravvicinamento, la dimensione pubblica
della vita sociale si configurerà perciò - e sempre più spesso - come
l'occasione per nuove divisioni, perché non sarà più in grado di
assicurare nuove forme di regolazione40. Da indicatori di una crisi
di tipo finanziario che - come tale - avrebbe potuto anche essere
circoscritta non diversamente da ciò che è accaduto del resto negli
altri paesi, questi nodi sempre rinviati della vita nazionale in tal
modo si sono trasformati in un moltiplicatore di problemi politici e
istituzionali, con prevedibili conseguenze su ciò che nel frattempo
resterà della cittadinanza maturata a partire dagli anni settanta.
4. Convenienze e doveri
Gran parte delle analisi sul rapporto tra pubblico e privato nel
sistema di welfare, tendono a sottolineare come ormai siano venute
meno molte di quelle condizioni che in passato ne avevano
permesso il decollo. Ciò non basta comunque a capire quali siano i
nuovi assetti che in futuro potranno emergere, anche perché - molto
semplicemente - nessuno è oggi in grado di prevedere il modo in cui
questi verranno regolati. Certamente si è rovesciata la tendenza che
aveva favorito una statalizzazione di qualunque problema sociale e
il ruolo del mercato appare da tempo in crescita, grazie a "intrecci
complessi" tra istituzioni diverse41 all'interno delle quali lo stato si è
andato mescolando con il mercato, mentre quest'ultimo si è
sviluppato con l'aiuto del "sommerso", che a sua volta rinvia ad un
certo tipo di struttura familiare e così via.
Perché una comunità possa vivere, è però necessario che esista
un senso di appartenenza sufficientemente diffuso, grazie al quale
diventa possibile stabilire che un determinato provvedimento è
giusto, che le istituzioni debbono o non debbono intervenire in una
certa area e che vi sono alcuni diritti dei cittadini i quali non
possono essere violati, mentre la soddisfazione di altri dipende da
una pluralità di condizioni che sono necessarie per garantirne
l'esistenza. E' ciò che March e Olsen intendono quando parlano di
una "logica della appropriatezza", intesa come criterio generale di
orientamento all'interno dell'azione politica42.
57
Una impostazione del genere è tuttavia sempre stata
ideologicamente assediata dall'esistenza di un altro modo di
pensare, che le vicende degli ultimi anni hanno dimostrato essere la
vera merce minuta del consenso, nel cui nome i partiti sono riusciti
a piegare le istituzioni. E' la "logica consequenziale" al cui interno i
comportamenti vengono guidati dalle preferenze individuali, i
risultati comuni debbono coincidere con gli obiettivi prefissati e
tutti ritengono che il realismo, nei fatti, si identifichi con la difesa
delle proprie aspettative. E' lo "stilema" ormai ricorrente in buona
parte della cultura contemporanea, la nuova bussola da cui "dipende
in forma auto-diretta,
la valutazione della appropriatezza
43
dell'agire" . Trasferita nel linguaggio della politologia,
un'impostazione del genere darà vita al paradigma dello "scambio
politico", le cui varianti sono altrettanto infinite quanto le possibili
preferenze che allo stesso sono sottese!
Ma le regole, le leggi o anche i comportamenti non sono necessariamente il risultato di preferenze. Nessuno metterebbe ad
esempio in dubbio che sia necessario e anche "appropriato" essere
vicino a un amico colpito da un lutto; aiutare un ferito che giace sul
selciato stradale; pagare un dipendente per il lavoro prestato;
aumentare gli stanziamenti pubblici per sconfiggere la mafia e la
camorra che dilagano nel paese; o anche, prestare soccorso ai
profughi, nel momento in cui questi entrano comunque nel territorio
nazionale. Eppure, optando per la "logica consequenziale", gran
parte della vita politica continuerà a muoversi sulla base
dell'assunto che le azioni nascano innanzitutto da "preferenze"
individuali e solo secondariamente da una necessità che è anche
nell'ordine delle cose.
Raramente c'è stato infatti un programma in grado di reggere al
confronto e alla critica del "calcolo razionale", né ci sono stati
criteri ai quali si è potuto ricorrere per stabilire priorità politiche
condivise. Nate grazie a una scelta dei partiti che inizialmente le
hanno legittimate, a distanza di quasi mezzo secolo le istituzioni
dimostreranno perciò di non essere sufficientemente radicate,
perché i criteri di scelta, le regole del gioco e persino le risorse che
alle stesse hanno sinora fatto capo, manterranno pur sempre un
carattere "esogeno" e cioè estraneo a una logica istituzionale.
58
Si perpetuerà così l'equivoco, che la realtà ha a sua volta
stabilizzato facendolo quantomeno apparire possibile, di preferenze
che avrebbero dovuto essere "svelate" o di interessi anteposti al
sistema di regole che li garantivano, spezzando in tal modo quella
circolarità che invece è necessaria al successo di qualunque tipo di
regolazione. I bisogni possono infatti essere trasformati in diritti,
solo se questi ultimi a loro volta si rivelano in grado di generare
doveri. La tradizionale distinzione tra diritti civili, diritti politici e
infine anche sociali si è invece dissolta all'interno di un continuum
che li ha resi tutti e comunque esigibili alla stessa maniera e cioè
prescindendo da ogni valutazione sulla possibilità di riuscire
materialmente a soddisfarli o meno. Osserverà perciò Sartori:
equiparare i diritti materiali ai diritti formali non è soltanto un errore
concettuale ma anche pratico, perché le "spettanze sono dovute a
casse piene, ma non a casse vuote"44. La società del "tutto dovuto"
mette invece in crisi la democrazia, perché la priva di un "guardiano
della borsa".
Si è creato dunque un clima sociale invivibile, che da tempo accresce la stanchezza e spiega perché anche voci insospettate si
levino sempre più frequentemente, contro vecchi antagonismi che
sembrano aver "fatto il loro tempo". Laura Balbo si è ad esempio
augurata che per gli anni novanta il trend delle relazioni sociali
perda in agressività e diventi invece più "friendly"45. Qualche altro
osservatore ha posto il problema ancora più chiaramente: è giunto il
momento di "accrescere il grado di armonia tra le diverse forze
politiche"46. E c'è anche chi sembra ormai talmente rassegnato al
peggio, da proporre una "apologia della democrazia" perché questo
regime almeno non vuole santi, profeti o capi, anche se da queste
figure è stato costruito47. La "logica consequenziale" non occupa
insomma il campo da sola e molte voci ormai si alzano per
contestarla.
Il "regime" è stato infatti in grado di funzionare più o meno bene
durante le sue fasi alte, quando lo sviluppo economico ha permesso
di trasferire nelle sue politiche pubbliche quei valori comunitari che
erano stati alla base del compromesso costituzionale. Il suo
successo, però, ha generato nuovi processi che si sono mossi anche
in direzione opposta: le istituzioni hanno creato i loro "clienti", la
59
rappresentanza si è statalizzata, le amministrazioni si sono
trasformate in imprenditori politici e, soprattutto, i nuovi legami nati
con la regolazione statale hanno frantumato le stesse solidarietà
fondate sui partiti.
A cambiare lo "stato sociale" ci proverà per primo il governo
Amato, che ben presto dovrà passare la mano a un esecutivo
"istituzionale", quello presieduto da Ciampi, sotto il cui impulso
nascerà la nuova legge elettorale. Ma comunque sarà ormai troppo
tardi. Già da tempo era infatti iniziato il trapasso di una parte del
consenso verso il "nuovo". Ne ha riassunto con grande chiarezza le
ragioni un elettore del Varesotto, un piccolo imprenditore, il quale
dirà:" Dieci, quindici anni fa i Craxi, i Forlani mi prendevano il
venti per cento del profitto e io con ottanta vivevo bene. Adesso mi
prendono il settanta e io con il trenta non campo. Così un giorno mi
sono detto: con questi ho chiuso"48.
Falliti i partiti nella loro funzione di integrazione, la democrazia
referendaria offrirà perciò, e ben presto, la principale cornice
istituzionale al cui interno maturerà la domanda di cambiamento.
1
Una prima versione di questo capitolo (Anni '80: la crisi di integrazione) è stata
pubblicata su Teoria politica, n.1 1994
2
Per questa tipologia si veda A. Lijpphart, Le democrazie contemporanee,
(London 1984) Il Mulino, Bologna 1988
3
A. Mastropaolo , La sfida della democrazia postpolitica, in Il ceto politico.
Teorie e pratiche, La Nuova Italia, Firenze 1993
4
G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali,
Laterza, Bari 1993, p. 46
5
La dichiarazione di Togliatti è riportata da A. Lepre, Storia della prima
repubblica. L'Italia dal 1942 al 1992, cit., p. 95
6
N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino (a cura di), Dizionario di Politica, Utet,
Torino 1983
7
P. Scoppola, Una incerta cittadinanza italiana, in Il Mulino, n. 1, 1991, p. 47
8
E' la tesi di fondo suggerita da S. Vertone, L'ultimo manicomio. Elogio della
repubblica italiana, Rizzoli, Milano 1992
9
D. Hine ha visto nella debolezza di "capacità aggregative" il principale
problema del sistema politico italiano; D. Hine, Governing Italy. The politcs of
bargained pluralism, Oxford University Press, Oxford 1993, p.301
10
P. Pombeni , Una certa idea di cittadinanza, in Il Mulino, n. 3, 1991, p. 461
60
11
G. Zincone, Il motore dei diritti, in Sinistra punto zero, a cura di G. Bosetti,
Donzelli Editore, Roma 1993, p. 137
12
A. Panebianco, Representation without taxation, in Il Mulino, n. 1, 1991, pp.
60-62
13
R. Cartocci, Consenso, disgregazione e ricerca di identità, in La riconquista
dell'Italia. Economia, istituzioni, politica, a cura di F. Cavazza, Longanesi,
Milano 1993, p. 429
14
L'osservazione è di G.E. Rusconi, nella Introduzione a J. Hobermann, Politica
e sport, Il Mulino, Bologna 1988, p. 9; dello stesso autore si veda anche il più
recente Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna, 1993.
15
U. Ascoli, (a cura di), Welfare state all'italiana, Laterza, Bari 1984
16
M. Ferrera, Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie,
Il Mulino, Bologna 1993, cap. 7
17
S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, Il Mulino, Bologna 1983,
pp.186-188
18
M. Morisi, Il parlamento tra partiti e interessi, ora in , Costruire la
democrazia, a cura di L. Morlino, cit., p. 438
19
P. De Joanna, Parlamento e spesa pubblica, Il Mulino, Bologna 1993, p. 99
20
La citazione e riportata in R. D'Alimonte, Il processo di bilancio in Italia, in ,
Scienza della amministrazione e politiche pubbliche, a cura di G.Freddi, La
Nuova Italia, Roma 1991
21
una analisi originale dell'intero processo è quella proposta da E. d' Albergo,
Rendimento istituzionale e logica organizzativa nella politica di bilancio, in ,
Crisi fiscale e indirizzo politico: il caso italiano, a cura di S. Merlini, voll.2, Il
Mulino, Bologna ,in corso di stampa
22
B. Dente, Politica, istituzioni e deficit pubblico, in Stato e mercato, n. 3, 1991,
pp. 364-365
23
D. Siniscalco-G. Tabellini, Efficienza e rappresentanza del sistema elettorale,
in Il Mulino, n. 4, 1993, p. 818. Una tavola riassuntiva di alcune tendenze
emerse nello studio è anticipata da La Repubblica, 26 marzo 1993
24
P. De Joanna, Parlamento e spesa pubblica, cit., p. 63
25
Amato G., Due anni al Tesoro, Il Mulino, Bologna 1991, p. 25
26
F. Fichera, Bilancio e politica in condizioni di stress fiscale, in La politica di
bilancio in condizioni di stress fiscale, a cura di F. Fichera, F. Angeli, Milano
1986, p. 46 e ss.
27
S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Bari, 1992, p. 95
28
J. La Palombara, Democrazia all'italiana, Rizzoli, Milano 1988, p. 3
29
G. Tremonti - G. Vitaletti, La fiera delle tasse, Il Mulino, Bologna 1991, p. 46
30
V. Russo, Il Ministero delle Finanze, La Nuova Italia, Firenze 1989, p. 156
31
F. Galgano, Le istituzioni della società postindustriale, in AA.VV., Nazioni
senza ricchezze, ricchezze senza nazioni, Il Mulino, Bologna 1993, p. 26
32
G. Tremonti - G. Vitaletti, La fiera delle tasse, cit., pp. 66-69
33
G. Tremonti -Vitaletti G., La fiera delle tasse, cit., p. 75
61
34
Per questa analisi rinviamo a M. Fedele,Le forme politiche del regionalismo,
Giuffré, Milano 1988
35
R. Putnam - R. Leonardi -R. Nannetti, La pianta e le radici, Il Mulino, Bologna
1985; per degli sviluppi di questa iniziale linea di analisi, si veda anche R.
Putnam, La tradizione civica cit.
36
C.Trigilia, Grandi partiti piccole imprese, Il Mulino, Bologna 1986, p. 34
37
Una analisi aggiornata, che tiene conto degli effetti indotti dall'intervento
straordinario, è quella di C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi
delle politiche nel mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 1992
38
N. Parmentola, Una spesa per tutte le regioni, in Il Mulino, n. 4, 1991, p. 740
39
Queste osservazioni vengono sviluppate da P. Bevilacqua nell' Editoriale di un
numero monografico di Meridiana (n. 16, 1993), significativamente dedicato alla
"questione settentrionale"
40
R.Cartocci, Fra Lega e Chiesa, Il Mulino, Bologna 1994, p. 73
41
P. Lange - M. Regini (a cura di), Stato e regolazione sociale, Il Mulino,
Bologna 1987, p. 323
42
J. March - J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, cit., p. 232
43
E' interessante notare come si arrivi a queste conclusioni anche attraverso una
ricostruzione delle stesse tendenze oggi dominanti nella sociologia e, dunque,
indipendentemente da più dirette preoccupazioni per le conseguenze di una
impostazione del genere sul vita politica. Si veda al riguardo F. Leonardi, La
rilevanza sociologica delle grandi trasformazioni demografiche nella società
italiana, in Sociologia e ricerca sociale, n. 41 1993, p.21
44
G. Sartori , Democrazia. Cosa è, Il Mulino, Bologna 1993, p. 324
45
L. Balbo (a cura di), Friendly, Anabasi, Milano 1993
46
L. Meldolesi, Spendere meglio è possibile, Il Mulino, Bologna 1992, p. 117
47
C. Donolo , Il sogno del buon governo. Apologia del regime democratico,
Anabasi, Milano 1992 , p. 25
48
L'affermazione è riportata da G. Bocca, Metropolis. Milano nella tempesta
italiana, Mondadori, Milano 1993, p. 250
62
3. l'opinone pubblica come decisore finale
63
1. mutamenti nella rappresentanza
In Italia gli anni settanta sono stati generalmente interpretati
come il decennio dei movimenti sociali, i quali ponevano dilemmi
di cambiamento apparentemente ineludibili. L'intero sistema
politico ha perciò lungamente girato intorno all'alternativa tra
"mutamento" o "transizione"1. Ritenendo che i soli protagonisti
della domanda di cambiamento fossero i soggetti organizzati sul
modello "movimento operaio", si decise alla fine di rafforzare la
rappresentatività delle istituzioni, facendola coincidere il più
possibile con la democrazia dei partiti. Non si ritennero invece
altrettanto importanti quei movimenti di opinione o anche
"movimenti lobby" come Manconi li ha giustamente chiamati2, le
cui principali risorse già allora coincidevano con la capacità di
operare come "mezzi di comunicazione che trasmettono messaggi
destinati all'ambiente".
Declinata la stagione della solidarietà nazionale, allorché si trattò
di affrontare i problemi posti dalla crescente rappresentanza
radicale, il sistema dei partiti si trovò comunque d'accordo nel
ricondurre la crisi del parlamentarismo a una questione di
efficienza; si ridivise invece in nome dei tradizionali contrasti,
allorché la "razionalizzazione" dei rapporti esecutivo/legislativo
avviata agli inizi degli anni ottanta, portò all'eliminazione del voto
segreto (1988). E' stata questa la decisione più significativa
attraverso la quale si è infatti cercato di invertire la tendenza del
precedente decennio, rafforzando l'autonomia dell'esecutivo rispetto
al legislativo. Tutto ciò non basterà però ad impedire una crescente
istituzionalizzazione della democrazia referendaria.
C'è infatti un curioso paradosso sul quale non si è ancora riflettuto abbastanza. Con le modifiche ai regolamenti parlamentari
avviate negli anni '80, il governo riuscirà a riprendere in mano il
controllo della agenda ed, a volte, anche della sua maggioranza. Per
altro verso, nello stesso periodo governo e parlamento saranno però
sempre più pesantemente condizionati dall'opinione pubblica, che
ormai si esprimerà attraverso le nuove forme di democrazia
referendaria, perché resterà irrisolto lo stesso tipo di problema: il
rapporto tra il sistema dei partiti e le diverse domande sociali che si
64
affacceranno sulla scena politica. Anche se ormai si incominciano a
capirne le ragioni, questi errori comunque si pagano perché da
possibile soluzione del problema, i partiti si sono in tal modo
trasformati nel problema in cui poi si imbatterà qualunque ricerca di
una nuova soluzione.
Per comprendere le cause dei mutamenti intervenuti nel sistema
di rappresentanza, dobbiamo dunque risalire indietro nel tempo,
perlomeno sino alle elezioni del 1979. In quelle consultazioni il
"gruppo" radicale quadruplicò infatti la propria consistenza
eleggendo ben diciotto deputati, peraltro ormai ben scaltriti dalle
battaglie condotte durante gli anni settanta a favore del divorzio,
dell'aborto o anche contro la Legge Reale. Non era ancora una gran
cosa, ma era il modo attraverso il quale cercavano di avere una
"voice" orientamenti collettivi che nascevano al di fuori delle reti di
partiti e che già si erano affacciati una prima volta sulla scena
politica, in occasione del referendum sul divorzio (1974).
La risposta del sistema politico fu però negativa e peraltro affidata soltanto a iniziative di marca regolamentare, come quelle che
investiranno i rapporti tra parlamento e governo. In nessuna
occasione si cercò invece di favorire una istituzionalizzazione di
questo nuovo tipo di opposizione, all'interno del processo
decisionale. Esaminando la domanda di cambiamento soltanto
attraverso la lente "destra/sinistra", si sottovaluteranno perciò i reali
termini della crisi di rappresentanza che già allora minacciava
l'intero sistema e che poi esploderà nel successivo decennio. Si
ritenne che il nuovo fosse annunciato dai movimenti "modello
operaio" e non dai "movimenti lobby", attraverso i quali nascevano
le prime rivendicazioni di una cittadinanza autonoma rispetto ai
partiti. Dei primi oggi non è rimasto quasi niente, i secondi sono
invece diventati sempre più forti. Sbagliata l'analisi, naturalmente
non avranno una sorte migliore i rimedi appositamente individuati!
Il processo di democratizzazione avviato negli anni settanta
aveva già rivelato alcuni suoi limiti perché mentre era aumentata incessantemente l'attività governativa, contestualmente era diventata
evidente sia la mancanza di un adeguato retroterra amministrativo,
sia la perdita di autorità del governo. Democratizzare aveva
significato creare degli uffici che si occupavano degli argomenti più
65
disparati; istituire commissioni che si dovevano riunire; avere dei
dossier cartacei su ogni tema; far partecipare, oppure avviare
routines capaci di offrire argomenti fondati razionalmente e non
soltanto intuitivamente. Poiché democratizzare voleva insomma dire
burocratizzare un'amministrazione che - a partire dal dopoguerra aveva invece sistematicamente usato gli apparati pubblici per offrire
delle ulteriori opportunità occupazionali3, tutto ciò inevitabilmente
sollevò nuovi problemi. Negli uffici mancavano i telefoni, nelle università non c'erano le aule, la velocità di evasione delle pratiche si
calcolava ad anni e non a mesi, i servizi erano quelli che ancora
oggi sono e, dovunque, tutti si davano da fare senza realmente
sapere cosa si sarebbe dovuto fare. Con la fine della esperienza
legata al governo delle "larghe intese" (1977-1978), la divaricazione
tra "il detto" e "il fatto", sia allergherà dunque non poco,
inclinandosi percolosamente verso la demagogia4. La nuova
stagione politica si aprirà perciò all'insegna della governabilità
craxiana.
Coloro che vogliano ricercare una registrazione autentica di ciò
che nel frattempo è avvenuto, debbono a questo punto indirizzarsi
verso le istituzioni. Queste restano infatti il principale indicatore
attraverso il quale, alla fine, sarà possibile trovare le tracce lasciate
non solo dalle innovazioni realizzate, ma anche da quelle mancate.
Non è un paradosso, ma semmai una solida indicazione, perché i
sistemi sociali non sono in realtà tenuti insieme dal "calcolo
razionale degli attori". Al contrario. E' solo all'interno e attraverso
il reticolo costituito dalle istituzioni, che generalmente prende forma
"la struttura delle azioni collettive dei cittadini"5. La mancata
parlamentarizzazione dei radicali resta perciò il miglior punto di
osservazione per mettere a fuoco un problema che in realtà avrà una
portata più generale.
L'analisi che alla fine degli anni settanta cominciava a circolare
era, a suo modo, lineare: come dimostravano peraltro i primi studi
sul ruolo svolto del Pci nelle commissioni6, in parlamento non c'era
mai stata una opposizione, perché su tutto aveva sino ad allora
prevalso l'accordo della partitocrazia. Sfruttando sino in fondo le
opportunità previste dai regolamenti ma sino ad allora mai
utilizzate, i radicali resero subito chiaro cosa significasse avere
66
all'interno del sistema una minoranza che non stava ai "patti". Le
prime avvisaglie comparvero dunque già in occasione del "rinnovo
della legge Merli"(1979), la quale prevedeva la proroga dei termini
in materia di risanamento delle acque e di scarichi inquinanti.
Quale presentatore di una "questione sospensiva", interverrà per
primo l'On. Cicciomessere sinché la Presidenza non lo interromperà, ricordandogli che stava parlando già da quarantacinque
minuti. "Non mi risulta che l'art. 40 del regolamento preveda limiti
di tempo per gli interventi sulla sospensiva, risponderà prontamente
Cicciomessere. Inoltre, il gruppo radicale ha chiesto la deroga
dell'art.39 del regolamento, per gli interventi degli oratori del
gruppo stesso".7 Il colpo andrà a segno e, nell'impossibilità di
arrivare a una approvazione in data certa, con una procedura
inusuale il governo ritirerà dopo un paio di giorni il provvedimento
contestato.
Per ovviare all'ostruzionismo che ormai cominciava a funzionare
discretamente, il governo incomincerà dunque a ricorrere alla
fiducia, ad esempio durante la discussione di un provvedimento
urgente sull'ordine pubblico (d.d.l. 625/1979). Richiamandosi ai
regolamenti esistenti, la Presidenza della Camera riuscì in quella
occasione a impedire la illustrazione dei 7500 emendamenti
depositati e i deputati prenderanno perciò la parola una sola volta,
sia pur senza limiti di tempo. La situazione si ripeterà però allorché
verrà presentato il disegno di legge sul finanziamento pubblico dei
partiti e, questa volta, sarà vera battaglia. A discussione generale già
chiusa, un breve comunicato stampa (27 luglio 1981) annuncia
infatti che i radicali hanno presentato "7000 emendamenti alla legge
per il raddoppio del finanziamento pubblico ai partiti. Con gli
emendamenti già precedentemente presentati e con quelli di questa
mattina, concludeva il comunicato, il totale è di 10.000
emendamenti circa".
Grazie a queste poche righe, si consolida dunque un tipo di
opposizione diversa da quella comunista, che non aveva precedenti
nella pur tormentata storia della repubblica e che, ovviamente,
stravolgerà la possibilità stessa di giungere a qualunque forma di
decisione legislativa. In presenza di una situazione "di eccezionale
gravità per il funzionamento del Parlamento", la soluzione scelta
67
sarà quella di raccogliere tutte le richieste della maggioranza in
unica proposta di modifica che il governo a sua volta farà propria,
ponendovi ancora una volta la fiducia.
Ma la ridotta operatività di un parlamento organizzato in base a
principi che alcuni gruppi ritengono inaccettabili, aveva ormai
raggiunto il suo punto di non ritorno. Rapidamente, i partiti si
ritroveranno perciò d'accordo sulla necessità di riprendere il
controllo del processo parlamentare, modificando quei regolamenti
del 1971 che rappresentavano l'ultimo retaggio di un vecchio
modello decisionale. Per bloccare la discussione, in questo caso i
radicali arriveranno però a presentare ben 53366 emendamenti,
battendo in tal modo ogni sia pur pessimistica previsione. La
reazione dei partiti, divenuta a questo punto inevitabile, giungerà
nella seduta a suo modo memorabile del 4 novembre 1981, quando
il Presidente Jotti renderà nota la decisione approvata in giunta dai
rappresentanti dei principali gruppi parlamentari di maggioranza e
di opposizione.
In un caos indescrivibile e dopo molte interruzioni, la Jotti inizia
a parlare davanti a una assemblea che in realtà è già ben informata
su ciò che le si sta per comunicare:" Onorevoli colleghi, ... ho
ritenuto necessario convocare la giunta per il regolamento ai fini di
delineare la procedura complessiva da seguire e valutare l'insieme
delle proposte emendative presentate in assemblea. Per la prima
volta dal 1971 la nostra assemblea esercita la potestà...". Interrotto
da una violenta protesta, il Presidente non riuscirà a concludere
nemmeno la esposizione preliminare: voleranno accuse di
"fascismo"
e i parlamentari di maggioranza verranno
polemicamente chiamati "piduisti".
Il dibattito sul "lodo Jotti" segna un punto di svolta profondo nei
rapporti tra governo e parlamento e anche tra maggioranza e
opposizioni, i cui esiti non mancheranno di influenzare tutto il
processo di trasformazione istituzionale che poi maturerà in seguito.
In quella occasione il nodo del conflitto investiva le modalità
attraverso le quali si sarebbe dovuta approvare qualunque modifica
del regolamento. La tesi avanzata dalla giunta e fatta propria dalla
Presidenza, sosterrà che l'iter della modifica non doveva essere
ricondotto alla normativa propria del procedimento legislativo.
68
L'art.64 della costituzione prevedeva infatti solo la possibilità per
ciascuna camera di adottare il proprio regolamento "a maggioranza
assoluta dei suoi membri".
Messa di fronte alla mole di emendamenti presentati dai radicali
per non farsi " tappare la bocca", la giunta proporrà dunque
all'assemblea di esaminare gli stessi raggruppandoli in "punti",
secondo i principi desumibili dal complesso delle iniziative tra loro
collegate. Il senso politico della richiesta era chiaro e verrà
racchiuso nelle parole con cui il presidente concluderà poi la sua
difficile presentazione: "sul complesso di tali punti si svolge in
assemblea su ciascuna proposta della giunta, una unica discussione
regolata dal capo VIII del regolamento"8. In tal modo salterà
definitivamente l'arma dell'ostruzionismo alla quale avevano sino ad
allora fatto ricorso i radicali e inizierà invece un processo di
cambiamento circoscritto a questioni regolamentari, che
accompagnerà la vicenda politica dell'intero decennio.
In verità già durante gli anni settanta la scienza politica aveva
ripetutamente segnalato l'ingovernabilità del sistema9 anche se
qualcuno, ad esempio Cassese, ricostruirà a sua volta il problema
da una altra angolazione. Un governo in realtà c'era, ma non andava
cercato nella sedi indicate dalla costituzione, fossero pure quelle
costituite dal Consiglio dei Ministri. Semmai, bisognava guardare
allo status sempre più autonomo raggiunto dalla Presidenza del
Consiglio, la quale era ormai l'unico soggetto politico in grado di
attivare le alleanze di volta in volta necessarie. La "forza principale"
di questo sistema, concluderà perciò Cassese, era nell'essere lo
stesso estremamente mutevole10. Non c'era bisogno di identificare
una sede e un luogo istituzionalmente deputato a svolgere le
funzioni di governo, perché le leadership di partito erano stabili e
potevano permettersi una deformalizzazione dei rapporti
istituzionali, dando anzi vita a tipi diversi di relazioni, a seconda
della congiuntura dei problemi e dei poteri di volta in volta
realizzata. Le regole non servivano perché c'era un accordo di fondo
tra i diversi attori. Il sistema era "scritto sull'acqua" piuttosto che
nella carta costituzionale, perché non c'era decisione che non venisse presa senza una "rispettosa consultazione della opposizione",
69
come più di uno definirà in seguito queste routines, allorché
verranno definitivamente messe in discussione.
I vecchi regolamenti presupponevano infatti l'esistenza di un
accordo di fondo tra tutti i partiti dell'arco costituzionale, che la
stabilità delle leadership a sua volta garantiva. Era stata questa, del
resto, la prima apertura offerta dal sistema politico alla protesta
studentesca e sindacale nata nel '68. Fallita anche l'esperienza del
compromesso storico, il governo cercherà però di conquistare
maggior autonomia nei confronti del parlamento, anche se la sua
base di legittimazione resterà naturalmente quella offerta dai partiti.
Verrà così a maturazione una crisi che, rappresentando il punto di
arrivo di una molteplicità di processi i cui effetti si cumulavano tra
loro, ridefinirà in maniera sostanziale i rapporti tra le diverse
istituzioni. E' la crisi che in seguito Craxi cercherà invano di
superare, sventolando la bandiera della governabilità.
Gli indicatori istituzionali più significativi di questo percorso
sono rappresentati dalla organizzazione di un "parlamento per la
decisione" da un lato; e dall'emergere della democrazia referendaria
dall'altro. Modificatosi lentamente ma inequivocabilmente l'assetto
politico al cui interno erano sino a quel momento maturate le
decisioni istituzionali, cambierà anche il potere degli stessi attori
che parteciperanno al processo. Soprattutto, come in conclusione
vedremo, cambierà anche il ruolo svolto dall'opinione pubblica,
nella formazione della agenda legislativa. Le due coordinate al cui
interno si ridefiniscono le funzioni di governo, marceranno infatti
separatamente: mentre il rapporto tra esecutivo e legislativo diverrà
sempre più verticalizzato, quest'ultimo perderà invece in capacità di
integrazione, accentuando i caratteri della crisi della rappresentanza.
2. La razionalizzazione del parlamento
Si sa che le metafore sono spesso più efficaci dei lunghi ragionamenti. Per spiegare la sensazione provata nel riscrivere dopo
quattordici anni la seconda edizione (1991) del saggio su "il
parlamento", Andrea Manzella ricorre alla trama di un vecchio film
di Peter Grenaway, I giardini di Compton House. Ritraendo un
70
giardino con uno scorcio di casa, un pittore scopre le tracce di un
"tranquillo misfatto di campagna" grazie agli impercettibili ritocchi
che, giorno dopo giorno, ha dovuto aggiungere alla tela sulla quale
ricostruiva gli elementi di un paesaggio apparentemente immoto. A
distanza di più di un decennio, anche la "casa-parlamento" si rivela
profondamente cambiata, perché in questi anni c'é stato un gran
trambusto nei "giardini di Compton House", ma non si può dire che
sia stato commesso alcun misfatto perché - riassume Manzella "dalla storia e dal paese il quadro che risulta è, e ancora sarà',
quello della centralità del parlamento"11.
E' questione di punti di vista. Esaminata dall'esterno e in
rapporto al più ampio paesaggio rappresentato dal sistema politico,
la casa del parlamento è infatti ancora lì, con tutti i suoi simboli e
anche con qualche potere. Ma non si può dire che l'aver rimesso
ordine nel rapporto tra esecutivo e legislativo, sia stato sufficiente
ad arrestare le trasformazioni nel frattempo maturate all'interno del
processo decisionale.
Certamente la decisione legislativa, che è il punto di arrivo di un
processo politico - istituzionale estremamente complesso, si è ormai
enormemente semplificata: è scomparsa la possibilità di esercitare
un serio ostruzionismo, almeno da parte dei piccoli gruppi; il
governo è diventato il padrone della "agenda" parlamentare; la
durata della discussione è stata rigidamente subordinata alla velocità
della decisione attraverso una rigidissima pianificazione dei tempi e,
infine, si è definitivamente chiusa la stagione dei franchi tiratori,
che dall'interno della maggioranza mettevano sistematicamente in
ginocchio il governo, ogni volta che questo spingeva l'acceleratore
di una decisione impopolare. Nello stesso tempo però, mentre la
decisone legislativa è diventata un treno in grado di viaggiare a una
velocità prima mai pensata, il treno stesso viaggia sempre più raramente perché alle decisioni si arriva attraverso dei processi che
sono ormai del tutto diversi da quelli degli anni settanta.
Ricostruendo la dinamica dei regolamenti parlamentari,
Manzella indica del resto con efficacia i diversi passaggi, ricorrendo
a colorite metafore per segnalare quelle sterzate che, sotto il profilo
istituzionale, più ne hanno influenzato la direzione di marcia. Il lodo
Jotti, di cui abbiamo precedentemente segnalato il profondo
71
significato politico diventa perciò, e giustamente, una "perentoria
invenzione della giunta"; i disegni di legge che incorporano i decreti
presentati dal governo per la conversione, sono ormai "motorizzati"
e cosi via dicendo. Le istituzioni però sopravvivono soltanto se si
rivelano sufficientemente flessibili da comporre quei contrasti che
nascono al proprio interno, senza per questo disincentivare la
partecipazione degli attori politici che vi appartengono.
La torsione che i regolamenti registrano, darà vita invece a una
frattura insanabile, mettendo in luce anche altre crepe nell'intero
impianto della rappresentanza, che si riveleranno non meno
profonde. Riformulando una celebre metafora di Otto Mayer12, si
potrebbe forse dire che mentre il parlamento diventa sempre più un
"orologio" il cui meccanismo di fondo assicura una armonica
integrazione degli elementi che lo compongono, nello stesso tempo
si riduce però la sua capacità di operare anche come una "bilancia",
in grado di favorire la parlamentarizzazione e i connessi processi di
negoziazione tra i diversi attori politici, vecchi o nuovi che essi
siano.
Gli indicatori che meglio degli altri riassumono questo tipo di
tendenza, sono negli anni ottanta offerti sia dalle modifiche che il
parlamento introduce per "razionalizzare" i lavori della Camera, sia
dalle modalità attraverso le quali si arriverà alla abolizione del voto
segreto. Dopo averle esaminate entrambe, alla fine ci accorgeremo
comunque che la riorganizzazione intervenuta nella "casa" del
parlamento non basterà a compensare le carenze di un assetto
istituzionale il quale, con la generalizzazione delle procedure di
democrazia referendaria, nello stesso periodo vedrà invece
ulteriormente ridursi il proprio rendimento.
Le novità introdotte a partire dal 198113, partono infatti da una
diagnosi che imputa all'inefficienza della "programmazione" la
causa principale del circolo vizioso in cui è ormai avvolta l'attività
parlamentare. I regolamenti del 1971 non prevedevano ad esempio
alcuna disposizione in ordine ai cosiddetti emendamenti "a scalare",
che al loro interno si distinguevano solo per una graduazione di
cifre o di dati. Per bloccare l'ostruzionismo, nel 1981 si attribuì
perciò al Presidente la facoltà di porre in votazione un determinato
numero di proposte tra loro omogenee, da quella più vicina al testo
72
in esame a quella più lontana, dichiarando assorbiti tutti gli altri, nel
caso di esito contrario delle votazioni.
Con lo stesso pacchetto di proposte, fu introdotta anche una
procedura alternativa per l'approvazione del programma dei lavori
attribuendo alla Presidenza, qualora non fosse stato raggiunto un
accordo unanime all'interno della Conferenza dei Capigruppo, la
facoltà di predisporre autonomamente una proposta per non oltre
due mesi, da sottoporre alla approvazione della assemblea.
Indicando la stessa procedura anche per la redazione del
"calendario", in tal modo si colmava una carenza dei vecchi
regolamenti i quali, in mancanza di accordo, lasciavano alla
Presidenza soltanto la possibilità di indicare l'ordine dei lavori dei
primi due giorni.
Strappata dalle mani delle eventuali opposizioni l'organizzazione
della agenda, la razionalizzazione procederà poi riducendo anche i
tempi assegnati ai parlamentari per intervenire. Nello stesso periodo
verrà inoltre soppressa la possibilità di deroga ai limiti previsti nella
discussione, lasciando invece alla Presidenza la facoltà di stabilire
diversamente, sulla base della rilevanza degli argomenti in
discussione. Inizialmente fissata in quarantacinque minuti la durata
tassativa di qualunque intervento sulle linee generali, la stessa verrà
poi ulteriormente abbassata a trenta minuti nel 1986. Anche nel caso
della discussione degli articoli, il tempo previsto passerà inoltre da
trenta a venti minuti.
Un ultima modifica riguarderà infine l'introduzione - fortemente
richiesta dalle opposizioni - del cosiddetto "filtro di legittimità" nei
confronti della attività del governo. Per far fronte al problema della
eccessiva proliferazione di decreti che intasavano il programma dei
lavori della assemblea, verrà previsto il filtro della Commissione
Affari Costituzionali per la verifica dei requisiti di "necessità" e
"urgenza" di cui all'art. 77 della Costituzione. In realtà il governo,
che aveva presentato 167 decreti nella VII legislatura, ne presenterà
altri 275 nel corso dell'VIII, 307 nella IX e 428 nella X legislatura,
dimostrando in tal modo i limiti dell'analisi da cui muoveva la
diagnosi di "inefficienza" del parlamento.
Stranamente, in quegli anni quasi nessuno si rese però conto che,
quanto più avanzava questo tipo di processo, tanto maggiori
73
diventavano anche i costi che le istituzioni avrebbero dovuto
sostenere sul versante della integrazione. Capita a volo l'aria che
tirava, i radicali cambieranno rapidamente strategia, mentre il
parlamento - non essendo in grado di portare avanti una più ampia
riforma istituzionale - a sua volta si accanirà nel mettere ordine
soltanto negli aspetti interni del processo decisionale.
Verranno infatti proposte dosi sempre più pesanti della stessa
medicina, incidendo anche su taluni poteri ordinatori del procedimento ai quali venivano ricollegati effetti procedurali significativi. E' il caso della richiesta di votazioni qualificate, della
verifica del numero legale, o dell'inserimento di nuove materie
all'ordine del giorno. La relazione di accompagnamento a queste
proposte parlerà della necessità di attenuare i "possibili abusi
ostruzionistici", senza però intaccare "l'impostazione politicamente
qualificante del 1971". Ma l'innalzamento da dieci a venti deputati
del quorum per richieste di votazione nominale, o per la verifica del
numero legale o anche per l'ampliamento della discussione sulle
linee generali; così come l'innalzamento del quorum da venti a
trenta deputati per l'inserimento di materie che non erano all'ordine
del giorno o per le richieste di votazione a scrutinio segreto,
avranno soprattutto l'effetto di mantenere saldamente in mano ai
"gruppi" il controllo dell'assemblea, esautorando i poteri procedurali
del singolo parlamentare.
Con la decima legislatura arriverà poi a conclusione anche quella
diversa regolazione del voto segreto14, che il governo Craxi aveva
cominciato a chiedere a gran voce già nel 1986 e che in realtà
renderà chiaro un altro aspetto della questione: la paralisi del
parlamento non dipendeva soltanto dalle nuove opposizioni, ma
anche dalla vecchia maggioranza e dagli stessi rapporti che questa
aveva per quarant'anni mantenuto con il Pci.
E' noto come sino all'88 l'Italia sia stata la sola democrazia
politica al cui interno risultava ancora prevista la votazione segreta
in uno dei due rami del parlamento. Le più antiche democrazie
anglosassoni, come del resto le nuove e cioè la Spagna, il Portogallo
o la Grecia, hanno infatti sempre considerato la trasparenza delle
scelte effettuate, come un tratto distintivo della stessa vita politica
parlamentare. In Inghilterra i deputati che votano "sì" e quelli che
74
votano"no" escono addirittura da corridoi diversi, rendendo in tal
modo evidente anche in maniera simbolica le proprie decisioni.
Negli Stati Uniti non solo il voto è palese, ma è anche possibile
sapere come i parlamentari hanno votato nelle diverse leggi. Dopo
le elezioni del 1948, in Italia si ripresero invece le vecchie
disposizioni previste nello Statuto Albertino di cento anni prima,
che prescrivevano lo scrutinio segreto nelle votazioni finali sui
progetti di legge.
In realtà il problema si era già posto in sede di assemblea costituente e solo in seguito alla presa di posizione dell'allora giovane
on. Moro, si evitò che una scelta così impegnativa venisse inserita
all'interno dei dispositivi costituzionali. "Io non voglio entrare nel
merito - disse Moro in sede di discussione - della ammissibilità o
meno di questo mezzo di votazione alla Camera. Però mi ripugna
che si faccia richiamo nientemeno che nel testo costituzionale, a
questo sistema particolare di votazione del quale si possono dire due
cose: da un lato tende ad incoraggiare i deputati meno vigorosi nella
difesa delle loro idee e dall'altro tende a sottrarre i deputati alla
necessaria assunzione di responsabilità di fronte al corpo
elettorale"15. Sono preoccupazioni , queste, che gli anni successivi
non mancheranno di confermare. Cresciuti all'ombra di un istituto
così tipicamente "albertino" come il "voto segreto", ben presto i
franchi tiratori diventeranno infatti un vero e proprio partito , con il
quale molti governi dovranno fare i conti.
Le cronache parlamentari registrano comunque i primi cecchini
all'interno della maggioranza già nel 1949, allorché questi
appoggeranno l'emendamento del comunista Sannicolò ad un
decreto legge sulle scorte petrolifere. Nel 1955 verrà invece
"impallinato" Merzagora, sino a quel momento candidato alla
presidenza della repubblica e la stessa dinamica si ripresenterà poi
negli anni sessanta per numerosi governi, che periodicamente si vedranno sciogliere come neve al sole l'originaria maggioranza. I
sostenitori del voto segreto diventeranno però una legione, allorché
il regolamento della Camera del 1971 (art. 116) darà loro nuove
opportunità di farsi sentire in parlamento.
Prevedendo che il governo potesse porre la fiducia anche su un
complesso provvedimento riassunto in un decreto composto da un
75
solo articolo, nel 1971 il processo si complicherà ulteriormente. Si
stabilirà infatti che in questi casi il provvedimento dovrà essere
votato una prima volta a scrutinio palese per ottenere la fiducia e
una seconda volta a scrutinio segreto per l'approvazione finale.
Leggendo i resoconti dei lavori, si capisce che questo astruso
marchingegno fu in realtà l'esito di una compromesso bilanciato tra
maggioranza
e opposizione, tipico del resto della logica
consociativa. Per dare al governo la possibilità di imporre il voto
palese, la Dc aveva offerto ai comunisti la possibilità di una seconda
votazione segreta, nonostante - appunto - la richiesta di fiducia. Nel
primo caso si doveva "prendere o lasciare". Nel secondo, ci si
poteva invece vendicare.
Di questo accordo Andreotti e Ingrao furono, in quella
occasione, non solo i promotori, ma anche i garanti. Per ironia della
storia, contro questo escamotage allora protesteranno soprattutto le
opposizioni di minoranza e cioè i deputati del Manifesto, del Psiup
e del Msi che vedranno la pericolosità del doppio voto soltanto nel
primo dei due aspetti e cioè nella possibilità offerta al governo di
mettere la fiducia su un intero provvedimento, impedendo alle
opposizioni di emendarlo. Pochi si renderanno conto invece del
fatto che, terminata la fase del consociativismo, questa soluzione
finirà per danneggiare soprattutto l'esecutivo, permettendo ai
dissenzienti della maggioranza di organizzarsi per provocarne la
crisi.
L'incongruità del "doppio voto" incomincia comunque ad attirare
l'attenzione nel momento in cui un esecutivo, il Cossiga secondo, ne
fa le spese. Ponendo la fiducia su quello che nelle cronache veniva
allora chiamato il "decretone", nel 1980 il parlamento voterà a
favore nello scrutinio palese, mentre nella seconda votazione quella a scrutinio segreto - farà invece cadere il governo. La gravità
della crisi sarà comunque ancora una volta minimizzata
dall'esistenza di un dissenso sul provvedimento che era già venuto
apertamente alla luce in precedenza e sul quale il governo si era
però impuntato, sfidando il parlamento con una richiesta di fiducia.
Ma la situazione sarà invece diversa nell'estate del 1982, allorché
alcuni franchi tiratori che non possono più nascondersi dietro i
panni dei difensori della libertà, faranno cadere un decreto fiscale il
76
quale avrebbe dovuto penalizzare petrolieri ed esattori, tirandosi in
tal modo dietro il primo governo Spadolini (giungo 1981-agosto
1982), che sullo stesso aveva posto la fiducia. Anche in questa occasione, e con più forza che nella precedente, si griderà allo
scandalo. Il programma dello Spadolini bis ripresentato alle Camere
subito dopo l'estate, prevederà un vero e proprio "decalogo
istituzionale" .
Le ragioni che comunque spiegano perché bisognerà attendere
ancora molti anni per porre rimedio a questi aspetti paradossali del
processo decisionale, in realtà sono semplici. Nel bene come nel
male, il voto segreto era da tempo diventato parte costituiva del
costume politico nazionale. Sotto il primo profilo, lo ammetteranno
ad esempio alcuni autorevoli dirigenti del Pci, grazie ad esso era
diventato infatti possibile regolare sotterraneamente il rapporto tra
maggioranza e opposizione, evitando in tal modo il rischio di
conflitti politici laceranti. Per altro verso e con una incisività di
anno in anno crescente, durante la discussione della legge sul
bilancio il voto segreto permetteva però la formazione di
maggioranze trasversali nate all'ombra delle urne, le quali
imponevano al governo nuove spese o, alternativamente, abolivano
stanziamenti già previsti. Se la prima funzione era in larga misura
valutata positivamente, ben diverso era però il giudizio delle
principali forze politiche nei confronti della seconda. Lentamente,
prenderà corpo perciò un orientamento generale che si dichiarerà
favorevole ad una parziale limitazione del ricorso al voto segreto,
perlomeno durante la discussione dei provvedimenti di spesa.
Inizialmente accettata un po' da tutti, contro questa impostazione
riduttiva ben presto si schiererà però il Psi, che già durante il primo
governo Craxi (agosto 1983 - luglio 1985) dovrà prendere atto
dell'impossibilità di sottrarsi al tiro dei franchi tiratori. Sconfitto ad
appena due mesi dal suo insediamento su un provvedimento di
condono, Craxi si vedrà infatti bocciare il cosiddetto decreto
Berlusconi (d.l. n. 694/1984); dovrà accettare che venga mandato a
monte un provvedimento sulla tesoreria unica o, infine, che vengano
fatte a pezzi le disposizioni sulla carcerazione preventiva. Infine,
nello stesso giorno in cui il Presidente del Consiglio batterà il record
di stabilità e all'indomani del reclamizzatissimo ingresso dell'Italia
77
nel club dei Sette costituitosi durante il vertice internazionale di
Tokyo (4-6 maggio 1986), il governo sarà costretto a dimettersi a
seguito dei ripetuti voti negativi di franchi tiratori presenti nella
maggioranza.
Un po' alla volta, i termini della discussione perciò si rovesciano.
Non si parlerà più di abolizione del voto segreto nel caso di leggi
che comportano oneri finanziari, bensì di voto palese che deve
essere applicato sempre, salvo che per le votazioni riguardanti le
persone o attinenti a diritti di libertà costituzionalmente garantiti.
Ma il passaggio da un regime all'altro di votazione si presenta tanto
più arduo, quanto più radicale è il restringimento dei casi che
prevedono il mantenimento del voto segreto anche perché, sarà
questo l'ultimo paradosso, il voto palese può essere istituito soltanto
se ottiene la maggioranza attraverso una votazione che, sulla base
del regolamento vigente, deve pur sempre avvenire a scrutinio
segreto.
La decisione finale maturerà nell'ottobre del 1988 durante il governo De Mita. Pressato da un Psi deciso a far rispettare i "patti" di
governo e però disponibile a quelle modifiche che non snaturavano
la ratio della decisone, De Mita otterrà da Craxi il mantenimento
del voto segreto oltre che per quei diritti di libertà regolati dal titolo
primo della costituzione, anche nei casi in cui fossero in discussione
i diritti di famiglia contemplati dalla costituzione agli art. 29, 30 e
31, ai quali il mondo cattolico era naturalmente sensibile.
Inutilmente le opposizioni cercheranno di ampliare l'area di questi
nuovi "diritti" . Nonostante la ferma opposizione dei socialisti,
riusciranno invece a mantenere lo scrutinio segreto in tutte quelle
votazioni che avrebbero potuto investire le "regole" del sistema
politico e, quindi, anche nella votazione di leggi elettorali.
Confermando il diverso modo di intendere il proprio ruolo di
opposizione, Pannella dichiarerà nell'intervento che precede la
votazione finale:" ...la strizzata d'occhio a Comunione e Liberazione
o ai cattolici non è degna né decorosa: i valori che riguardano la
famiglia vanno tutelati, quelli che riguardano altre cose no! Sono
veramente stupidaggini! Sono offese anche a coloro che si ritiene di
gratificare in questo modo!...Quindi, Presidente, noi lasciamo, ma
devo dire senza clamori, in punta di piedi, questa "casa", per
78
protestare contro il fatto che ci hanno rotto piatti, bicchieri, tutto e
senza darci nulla in cambio. Non vogliamo assistere a questo punto,
alla conta dei piatti rotti per vedere quelli che ancora resistono.."16.
La proposta di modifica dell'art. 49 del regolamento comunque
passerà, sia pure con solo sei voti in più di quelli richiesti dalla
maggioranza assoluta.
A completamento definitivo dell'intero processo, nel marzo 1990
interviene infine un'ultima, e non meno significativa, modifica di
regolamento. Si stabilirà che la ripartizione dei tempi nella
discussione di ciascun provvedimento avvenga all'interno della
stessa conferenza dei capigruppo o, in mancanza di accordo, su
proposta del Presidente della Camera, il quale assegnerà il tempo
disponibile per una parte in misura uguale ai diversi gruppi e per
l'altra, in proporzione alla consistenza dei medesimi. Verrà inoltre
prevista per la prima volta la partecipazione del governo alla stesura
del programma e l'obbligo nei confronti del presidente della
Camera, di tener conto delle sue indicazioni nella formazione dello
stesso. Completato il restauro regolamentare, la "casa" del
parlamento non muterà però la sua struttura di fondo.
L'impianto "policentrico" dei rapporti tra legislativo e esecutivo,
che Cotta giustamente segnalava come una eccezione del modello
italiano maturata soprattutto negli anni settanta, non per questo si è
infatti trasformato in un assetto "monocentrico" capace di
avvicinare il nostro paese alle democrazie pluralistiche occidentali.
L'esecutivo è rimasto debole e, concluderà Cotta ritornando a
distanza di anni sulla sua analisi iniziale, "oggi le maggiori
difficoltà per l'azione del governo vengono dall'interno della
maggioranza stessa più che dalla opposizione"17.
Nel frattempo, tutto il resto cambierà invece in peggio. La crisi
dei "partiti di massa" si approfondirà ulteriormente; i gruppi
parlamentari, che erano già dieci nella VIII legislatura, diventeranno
dodici nella X e passeranno a tredici nella XI, allorché la stessa
legittimazione dell'istituto parlamentare verrà messa in discussione
dal vento che il ciclone di "mani pulite" aprirà nel paese. Il
parlamento inoltre, e giustamente, perderà il "diritto di dire l'ultima
parola",18 come invece sistematicamente accadeva negli anni
settanta. L'esecutivo però si rivelerà sempre più in difficoltà "nel
79
dire la prima", perché buona parte del processo decisionale è ormai
radicalmente cambiato non soltanto all'interno del parlamento,
quanto nell'intero sistema istituzionale. A partire dagli anni ottanta,
la rappresentanza dovrà infatti misurarsi con processi di
mobilitazione che la dialettica esecutivo-legislativo non riuscirà più
a controllare: parliamo dei movimenti-medium, ossia di quei nuovi
attori politici che saranno i protagonisti della democrazia
referendaria.
3. L'impatto dei referendum
La riforma dei regolamenti parlamentari inizia nel 1981 con i
radicali che violentemente si oppongono alla approvazione del 'lodo
Jotti", per chiudersi poi nel 1988 con Pannella che annuncia l'uscita
dall'aula "in punta di piedi", addirittura prima che la presidenza
dichiari aperta la votazione. A suo modo, questo passaggio dalle
forme calde di ostruzionismo alla ancora più pericolosa
indifferenza, la dice lunga su ciò che nel frattempo è successo.
Quale che sia il giudizio politico che si voglia dare sui radicali,
intanto è evidente come negli anni ottanta sia fallita, se pure è mai
stata tentata, la parlamentarizzazione di una forza che si presentava
come la "nuova opposizione", laddove questa era invece pienamente
riuscita nel decennio precedente nei confronti dei comunisti, anche
grazie all'approvazione dei regolamenti del 1971. E' un punto che va
ribadito perché l'iniziale miopia della classe politica di fronte a
questo tipo di domanda anticipa già, all'ingrosso, il copione con il
quale questa affronterà poi la sfida del referendum sul voto di
preferenza (aprile 1991).
Denunciando continuamente i compromessi politici in nome dei
quali tutti i partiti dell'arco costituzionale erano disposti a barattare
le leggi in cambio di accordi di potere, i radicali furono comunque i
primi a capire che una parte dell'opinione pubblica ormai si
apprestava a lasciare il "palazzo". Dirà con finezza Giorgio Galli19:
forte del successo ottenuto attraverso il referendum sul divorzio, a
partire dal '79 il Pr diventerà perciò il "partito dei tavoli" dove si
raccoglieranno le firme per i referendum. Si consoliderà in tal modo
80
quell'elettorato di opinione che poi, con il tempo, si distribuirà
anche tra le altre nuove liste.
Per altro verso, quando - nonostante la opposizione della Cgil - il
governo Craxi ricorrerà al "decreto di san Valentino" (febbraio
1984) per congelare parte degli scatti di scala mobile, Berlinguer in
pochi mesi raccoglierà oltre un milione di firme, per avviare la
procedura referendaria di abrogazione del decreto, dai comunisti
subito trasformata in una vera e propria "questione di fiducia"
extraparlamentare, contro il governo in carica. Pannella, che sa di
cosa parla, incomincerà a dire che non vale la pena di andare votare.
Il referendum sulla scala mobile segnerà la più bassa partecipazione
elettorale sino ad allora realizzata in quel tipo di consultazioni; chi
per prudenza andrà in ogni caso a votare, respingerà comunque la
proposta di abrogazione e il Pci risulterà perciò comunque
sconfitto.
Lasciamo perdere i diversi esiti che negli altri casi si presenteranno e cerchiamo invece di capire quali trasformazioni si annunciano attraverso il diffondersi della democrazia referendaria. Va
detto che già durante la costituente, la scelta a favore del
referendum non fu facile, perché si trattava di introdurre un istituto
di democrazia diretta all'interno di un sistema rappresentativo come
quello parlamentare. L'originaria "proposta Mortati" prevedeva
peraltro tutti i possibili tipi di referendum, compreso quello ad
iniziativa governativa su proposta del Capo dello Stato
controfirmata dal Presidente del Consiglio, per sospendere una
legge già approvata dalle camere, oppure per dar seguito ad un
disegno di legge del governo respinto dal parlamento.
Chi spinse la discussione verso una maggior concretezza
gettando anche le basi per un accordo fu Perassi, che con
franchezza pose il quesito di fondo: "per .. formulare un progetto di
legge, bisogna dire francamente se questo referendum lo si vuole o
no". Il terreno sul quale le diverse forze politiche troveranno una
intesa, verrà alla fine offerto dai "confini" del referendum: l'accordo
tacito che emergerà sarà quello di varare il solo referendum
abrogativo con dei limiti precisi, che ne avrebbero dovuto impedire
ogni interferenza con i criteri di definizione dell'indirizzo politico20.
81
Approvato in questa versione estremamente ridotta, al cui interno peraltro restò in piedi - per un errata trascrizione del testo
finale - la possibilità di sottoporre al giudizio popolare anche le
leggi elettorali che erano invece state escluse, l'istituto referendario
dovrà però attendere ben ventidue anni e cinque legislature prima
che venga emanata dal parlamento una legge per disciplinarne
l'esercizio. Lo stesso dispositivo che ne accompagnerà la nascita
porterà comunque il marchio dello scambio politico, oltre che la
possibilità di una sua utilizzazione a fini non soltanto abrogativi.
Il primo aspetto emerge dal modo con cui si arriverà - in occasione della discussione sul divorzio - alla quasi contestuale approvazione sia della tanto sospirata legge, sia della sua possibilità di
abrogazione. Pressata dalla Santa Sede, la Dc getta infatti le basi
dell'accordo che Fanfani si incaricherà a sua volta di garantire. I
partiti laici si sarebbero impegnati ad approvare rapidamente
l'introduzione del referendum abrogativo, offrendo così al fronte
antidivorzista lo strumento per eliminare, dopo averlo comunque
approvato, l'odiato divorzio; la Dc avrebbe invece fatto cessare il
suo ostruzionismo, dando in tal modo alla già esistente maggioranza
divorzista la possibilità di arrivare all'approvazione della legge. Sia
pure tra le inevitabili traversie determinate da una crisi di governo,
il patto resse: in gran fretta e non senza ambiguità, la legge 352/70
che disciplinerà le modalità di attuazione del referendum viene
approvata il 25 maggio; a sua volta, il 1° dicembre dello stesso anno
passerà in parlamento la legge Fortuna-Baslini sul divorzio.
Non è necessario entrare nel merito della sconfitta che il fronte
antidivorzista subisce inaspettatamente in occasione del referendum
del 1974, perché - mutati gli attori , i temi e il momento politico - il
succo della vicenda che a noi interessa, è in buona misura contenuto
nella dinamica che abbiamo sommariamente riassunto. Rimasto
inattuato sino agli anni settanta, già in occasione della sua prima
prova l'istituto del referendum fuoriesce dal solco lineare, ma
evidentemente non sufficientemente profondo, al cui interno era
stato collocato dalla dottrina costituzionalista. Disinnescata la
sicura, questo istituto assume infatti i profili di una forza antisistema
in senso tecnico, soprattutto con riguardo ai delicati equilibri
esistenti tra partiti e società civile e tra democrazia rappresentativa e
82
democrazia diretta. E' una "bomba" che le forze politiche si
scagliano le une contro le altre, quando avvertono di non avere altre
risorse sulla cui base negoziare. Capita la musica, i radicali - ancora
una volta per primi - lo trasformeranno in un vero e proprio cavallo
di Troia, da lanciare contro la "solidarietà nazionale". Nel 1978 si
voterà perciò sul finanziamento pubblico ai partiti e sulla legge
Reale.
Ma è con gli anni ottanta che il referendum si sviluppa senza più
freni incrociandosi, a seconda dei casi, con le strategie delle nuove e
delle vecchie forze politiche. Tra la fine del 1978 e i primi mesi del
1979 viene infatti messo a punto un pacchetto di dieci quesiti, che
contiene alcuni bocconi avvelenati sia sotto il profilo politico, sia
sotto quello istituzionale. Approvata tra infinite difficoltà e
polemiche nell'aprile del 1978, la legge 194 sull'aborto verrà nel
1981 sottoposta, sia pur senza successo, alla verifica di un doppio
referendum, quello radicale che intendeva allargare il diritto delle
donne ad avvalersi dell'aborto di stato e quello promosso dal
Movimento per la vita, che invece voleva in larga misura abolire
l'intero testo di legge. E' evidente ormai come chi si sente
minoranza, cerchi di diventare maggioranza ricorrendo alla
consultazione popolare. Per altro verso, posti di fronti al pericolo di
un possibile conflitto con l'opinone pubblica, i grandi partiti il più
delle volte utilizzeranno i referendum per rilegittimarsi, favorendo
in tal modo la emergenza di maggioranze per il "sì" a carattere
oceanico : tutti contro la caccia, contro il nucleare o per la responsabilità dei giudici 21.
Vi è però anche un uso più spregiudicato di questo istituto, il
quale riassume il secondo aspetto di debolezza della legge che ne
aveva definito le modalità di attuazione. E' qualcosa di più grave,
una vera e propria fraus constitutionis. Benché la sola forma
ammessa fosse quella abrogativa, spesso il referendum è stato
attivato piuttosto al fine di sollecitare unadecisione del parlamento,
che non per conoscere la volontà del corpo elettorale. Amato
ricostruirà in questi termini la nuova situazione: "tu raccogli le
500000 firme non per consentire ai cittadini, così come la
costituzione prevede, di dire la loro che diventa determinante e
decisiva sull'argomento, ma ti avvali strumentalmente di loro per
83
mettere una spada di Damocle sulla testa del parlamento e per farlo
decidere in condizioni che sono spesso del tutto disadatte ad una
decisione"22. Per la verità e sia pure con tutte le differenze del caso,
questa è anche la puntuale ricostruzione delle modalità attraverso le
quali i socialisti, minacciando il ricorso al referendum, nel 1990
imporranno la legge sulle tossicodipendenze, forzando una
maggioranza parlamentare che inizialmente non c'era. Non vi è
dubbio però che l'analisi proposta colga nel segno, sollevando anche
un problema più generale.
Presentata semplicisticamente come uno strumento di partecipazione popolare all'esercizio dei pubblici poteri, la strategia
referendaria non si è limitata ad esercitare pressioni adeguate per
spingere le istituzioni a decidere. Sempre più spesso, infatti, le sue
reali finalità sono state quelle di mettere in difficoltà il sistema della
rappresentanza nel suo complesso, attraverso la creazione di nuove
maggioranze. Figlio di una cultura ormai al tramonto che assegnava
alla iniziativa popolare un ruolo ancillare rispetto alla legislazione
statale, il meno che si possa dire del referendum abrogativo è che
questo sia sempre stato "estremamente ambiguo", sicché ogni
interrogativo che lo riguarda si muove inevitabilmente sulle sabbie
mobili: "è un atto di controllo o un atto di legislazione?"23.
La "dottrina" avrà le sue ragioni nell'avanzare le proprie
incertezze, ma politicamente non dovrebbero esserci dubbi. "Da
strumento di semplice abrogazione di leggi già operanti, il
referendum è andato evolvendosi in istituto per la formazione di
vere e proprie piattaforme politiche" diventando in tal modo,
concluderà amaramente Calise24 che di questa dinamica ha
intravisto non solo i limiti ma anche i pericoli, "un referendum
legislatore".
Negli anni ottanta gli elettori saranno perciò chiamati alle urne in
cinque occasioni, per dire la loro su ben quattordici quesiti
referendari. La discussione avrà caratteri politici soltanto in
occasione del referendum sulla scala mobile dell'85, per volontà dei
comunisti; e del voto sulla preferenza unica del 1991, per scelta di
Craxi. In entrambi i casi però i partiti che cercheranno di
politicizzare il problema referendario, né usciranno sconfitti perché
i tempi ormai sono cambiati. La tendenza che alla fine prevarrà, sarà
84
dunque un'altra: nella maggior parte dei casi, i partiti sceglieranno
infatti di assecondare gli orientamenti della opinione pubblica,
piuttosto che di indirizzarla in un senso o nell'altro.
Tutti cercheranno perciò di salire sul carro del vincitore. Sarà
così nel 1987 allorché, accanto agli originari promotori del
referendum sulla responsabilità dei giudici e cioè radicali, socialisti
e liberali, un po' alla volta si affiancheranno anche la Dc e il Pci,
determinando un trionfo dei "sì". La stessa situazione si ripresenterà
sul "nucleare", inizialmente promosso dall'arcipelago ambientalista
insieme alla Fgci e alla Sinistra Indipendente e che alla fine vedrà
sul fronte del "no" soltanto i repubblicani e i liberali. Nei
referendum sulla caccia e sui pesticidi, si arriverà poi al paradosso
di trovare tra i promotori degli ambientalisti quantomeno sospetti
come comunisti e socialisti, notoriamente difensori di potenti
lobbies venatorie. La Dc invece, assumerà un prudente ma esplicito
atteggiamento neutrale, lo stesso che nei fatti verrà tenuto in
occasione del referendum del '91 sulla preferenza unica, allorché
l'unica dichiarazione per il "no" sarà quella dei socialdemocratici.
Chi ormai decide la musica da suonare, è dunque l'opinione
pubblica opportunamente sollecitata, perché i partiti si guarderanno
bene dal proporre un diverso spartito, preferendo esser magari dei
secondi violini, piuttosto che vedersi esclusi dall'orchestra. In tal
modo la rappresentanza si impasterà con un nuovo tipo di
convenzione democratica, dando vita ad un processo decisionale
ormai lontano da quello originariamente prefigurato dal legislatore.
La stessa musica, inoltre, spesso ricorderà più una banda di paese
che non una austera filarmonica.
Guardando a ciò che in effetti è successo, Mezzanotte e Nania
hanno perciò tirato le somme in questo modo. I giuristi della costituente sbagliarono nel pensare che il referendum popolare
avrebbe potuto incidere sulla forma di governo, solo nell'ipotesi in
cui il potere di iniziativa fosse stato conferito ad organi
dell'apparato, come il Capo dello stato o lo stesso esecutivo. In
realtà la vicenda iniziata negli anni settanta ed esplosa ulteriormente
nel successivo decennio, ha dimostrato a sufficienza come i referendum fossero nei fatti "suscettibili di giocare un ruolo analogo",
una volta trovatosi in "presenza di determinate condizioni politico-
85
istituzionali"25. Esaminando il problema con il distacco che gli anni
giustificano, è evidente che queste "condizioni" sono state di
diversa natura: hanno riguardato il logoramento del legame di
rappresentanza in passato assunto attraverso il sistema dei partiti;
sono dipese dalla crescente perdita di capacità decisonale e, nello
stesso tempo, dalla ridotta funzione di integrazione che il
parlamento ha reso sempre più evidente; e infine, sono dipese
anche dalla fragilità che l'istituto referendario ha dimostrato,
piegandosi a una torsione istituzionale che, peraltro, non rimarrà
isolata.
4.massmedia e sistema politico
Chi si occupa degli effetti indotti dai massmedia sulla vita politica di ogni giorno, il più delle volte sottolinea gli aspetti manipolativi che questi possono produrre. Non è detto però che una
simile "distorsione comunicativa" dipenda necessariamente dalle
cattive intenzioni di chi la propone. Spesso, sostiene ad esempio
Zolo26, sarebbe infatti la stessa tecnologia della comunicazione ad
imporre un "pregiudizio involontario" (unwitting bias), causato più
dal "codice funzionale" dei singoli media, che non dalle ideologie
del suo utilizzatore. Gli effetti "asimmetrici" e la funzione "narcotizzante" delle procedure le quali offrono informazione, andrebbero perciò ricondotte anche all'inevitabile trasmissione di
"griglie selettive-distorsive", specifiche del medium utilizzato.
In queste linee di tendenza, Zolo vede alcuni dei principali pericoli che oggi minacciano la democrazia. E Rodotà insiste
sull'importanza di contrastare i processi di "verticalizzazione" della
comunicazione che sempre più riducono l'autonomia del cittadino27.
Resta vero però che, quand'anche fosse possibile ricorrere a sistemi
meno manipolatori nella selezione dei valori sociali, la
comunicazione continuerebbe a esercitare un significativo impatto
politico, per ragioni che sono anche più profonde. L'eventualità che
la singola notizia venga trasmessa in un identico modo, indipendentemente dal formato di volta in volta utilizzato, non impedisce
infatti che i potenziali destinatari reagiscano in maniera comunque
86
diversa, confermando perciò l'esistenza di un altro - e ormai
ineliminabile - aspetto del problema. Quand'anche fosse possibile
controllare il potenziale manipolativo dell'emittente, il ricevente è
ormai diventato libero di pensarla come vuole!
ll ricorso sempre più frequente ai sondaggi dipende da tutto ciò.
E' necessario verificare le reazioni determinate nella "gente" dai
nuovi criteri di differenziazione che di volta in volta vengono
proposti. Poiché i partiti non riescono più a prefigurare degli
equilibri possibili attraverso i rispettivi programmi, governo e
parlamento a loro volta si orientano sempre più decisamente verso
l'opinione pubblica, perché la crisi delle subculture e le
caratteristiche assunte dai mezzi di comunicazione rendono da
tempo problematica la stessa interpretazione di ciò che accade
all'interno del sistema politico. In tal modo i vari attori politici
cercheranno di riacquistare a un livello anche più profondo, quel
consenso sui fini ultimi che le trasformazioni intervenute nei partiti,
hanno da tempo reso pericolosamente instabile.
Per distinguere i caratteri principali di queste tendenze, da anni
presenti anche in sistemi politici diversi da quello italiano, March e
Olsen parlano al riguardo di "politiche integrative" basate sulla
ragione, sull'obbligazione e sulla storia, laddove le vecchie politiche
"aggregatrici" presupponevano invece un ordine fondato sulla
razionalità utilitaristica e sullo scambio. Ma le differenze sono
anche più numerose. "Nei processi aggregativi la leadership implica
la mediazione tra coalizioni e interessi. In un processo integrativo
la leadership implica una amministrazione fiduciaria di tradizioni
sociali e bisogni futuri e per di più comporta un ruolo educativo. Le
teorie dei processi aggregativi pongono l'accento sulla risposta
istantanea agli interessi delle persone in un particolare momento. I
processi integrativi presuppongono un adattamento più lento del
sistema e l'esistenza di protezioni contro passioni e razionalità
momentanee".28 Nel passaggio da un profilo all'altro dell'azione
politica, si consuma così quel cambiamento che nei diversi sistemi
assumerà poi delle modalità specifiche, a seconda delle rispettive
tradizioni, dei vincoli esistenti o dei diversi caratteri degli attori
coinvolti nella vita delle istituzioni.
87
Per quel che ci riguarda, non è necessario a questo punto indicare
con precisione quando le forme della rappresentanza comincino a
cambiare. Avendone ricostruito le dinamiche, possiamo invece
capirne le ragioni. La questione istituzionale ha infatti origini
lontane nel tempo ma diventa esplosiva soprattutto negli anni
ottanta, allorché verrà meno la possibilità di produrre politiche
aggregative, basate sulla sommatoria degli interessi negoziati
attraverso i partiti politici. Urgente diventa a quel punto la necessità
di integrazione, che presuppone però un contesto difficilmente
riproducibile di finalità condivise.
Attraverso la riformulazione del processo decisionale che le
istituzioni avviano in uno stretto rapporto con l'opinione pubblica,
alcune tradizioni verranno così conservate, mentre altre potranno
alla fine risultare sacrificate, in nome di un idem sentire che è tale
appunto perché è un valore di ordine superiore. Naturalmente anche
le istituzioni hanno un loro ciclo di vita al cui interno le fasi di
stabilizzazione si alternano con quelle del cambiamento perché, per
imporre nuove regole tra i partecipanti al gioco politico, ci deve
comunque essere un attore che è più forte e più lungimirante degli
altri. Se però il gioco non ha mai termine, può anche accadere che le
regole nel frattempo cambino comunque. Poiché "la politica non
tollera vuoti" subito comparirà infatti qualcuno o qualcosa pronto
ad occupare lo spazio improvvisamente creatosi29.
Il ruolo crescente oggi svolto dall'opinione pubblica all'interno
delle istituzioni rappresentative, inizialmente non era stato ad
esempiovoluto da nessuno degli attori tradizionali ed è stato favorito
invece dal fatto che tutta la "partita" si è alla lunga rivelata inconcludente sicché, per uscire dallo stallo decisionale, si sono
comunque affermate altre routines operative. Cumulandosi tra loro
diversi effetti del genere di quelli sinora indicati, a partire dagli anni
ottanta si è in tal modo inciso con forza sull'impianto complessivo
della rappresentanza, spingendo sempre più l'intero sistema politico
all'interno di un vortice incontrollato. Bisogna chiedersi se ciò che è
accaduto sia soltanto un'altra versione della ben nota crisi dei partiti
di cui da tempo si parla, oppure se l'insieme dei processi sinora
richiamati non indichino invece delle tendenze più di fondo, che in
88
futuro potranno essere incanalate e magari controllate, ma di certo
non cancellate.
Coloro i quali vivono drammaticamente il cambiamento politico,
di solito disegnano anche cupi scenari ogni volta che viene messo in
forse il ruolo dei partiti. E' un pò come toccare la costituzione, si
tratta di limiti che è sempre pericoloso superare. In termini generali
però, non è vero che le tendenze plebiscitarie insite nelle società
moderne, siano come tali incompatibili con la tradizione
democratica. Luciano Cavalli30 ha più volte segnalato come anche i
sistemi politici più avanzati siano nel corso di questo secolo andati
spesso alla ricerca di un leader, per compensare i limiti presenti
nella "democrazia acefala", organizzata intorno alla mediazione
partitica.
Quest'ultimo sarà lo stesso problema affrontato in Italia da uno
degli uomini politici che diverrà tra i più popolari all'inizio degli
anni novanta e cioè Mario Segni. Lo dirà del resto apertamente in
più occasioni e anche in un dibattito che nel 1991 si svilupperà in
parlamento, intorno alla questione istituzionale. "Se di fronte ad un
sistema dei partiti immobile e paralizzante la strada è quella di far
decidere ai cittadini, noi la percorreremo. Se dovessero esservi
elezioni anticipate, chiederemo a tutti i candidati che intendono
camminare sulla strada delle riforme, di impegnarsi pubblicamente
con gli elettori a sostenere queste iniziative, anche nella eventualità
di decisioni diverse dei partiti cui appartengono e del governo. Se i
partiti ne sono incapaci, vogliamo essere a questo punto noi
l'espressione dei cittadini che vogliono ad ogni costo le riforme"31.
Nonostante l'incomprensione e a volte anche il dileggio dimostrato
dalle elités politiche vecchie e nuove, non c'é stato negli ultimi anni
nessun uomo politico che abbia con più chiarezza perseguito un
obiettivo, che poi si sarebbe anche verificato.
Sarà infatti Segni e non Craxi, al quale pure hanno generalmente
pensato in un passato non troppo lontano tanti innovatori, il leader
inizialmente più popolare che gli anni ottanta lasceranno in eredità
al successivo decennio. Assumendo simbolicamente un valore
politico e morale che il progetto della governabilità non era invece
riuscito in nessuna occasione ad acquisire, la tematica della riforma
istituzionale si affermerà infatti contro ogni iniziale previsione, solo
89
grazie al sostegno
e alla credibilità acquistata agli occhi
dell'opinione pubblica. In tal modo il sistema dei partiti e l'apparato
statale centralizzato confermeranno però di essere ormai diventati
soltanto gli intermediari - e magari i secondi attori, ma di certo non i
promotori - delle nuove forme che la domanda di cambiamento
politico ha ormai assunto, rispetto al decennio da poco concluso.
Prefigurando i possibili destini della democrazia politica,
Bernard Manin ha segnalato peraltro una interessante "simmetria"
fra la situazione in cui attualmente versa la rappresentanza in quei
paesi che hanno conservato una "democrazia dei partiti" e il declino
del parlamentarismo consumatosi in Europa tra la fine del
diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo. In entrambi i casi
questa simmetria - ha osservato Manin - suggerisce anche l'ipotesi
che al giorno di oggi si assista meno a una crisi della rappresentanza
di per sé, che non "all'emergenza di una nuova forma di governo
rappresentativo", al cui interno il momento della decisione si sposta
sempre più verso l'opinione pubblica o, più precisamente, verso una
frazione particolarmente attiva sul piano elettorale32. Manin la
chiama "democrazia del pubblico" e noi adesso capiamo meglio il
perché. Alla decisione politica non si arriva più attraverso una
delega in bianco nei confronti dei partiti, ma grazie ad un intreccio
oggi molto più complesso tra vecchi e nuovi decisori. Ci sono i
poteri istituzionali, ci sono i poteri politici ed, infine, c'é anche una
opinione pubblica che ormai è in grado di esercitare una sua
specifica influenza sull'intero sistema decisionale.
Chi pone al centro della propria analisi il "sistema di vincoli e di
incentivi costituito dalla struttura decisionale"33, naturalmente non
percepisce la radicalità del cambiamento intervenuto nell'intero
processo, perché assume come "variabile indipendente" la logica
sulla cui base opera il sistema di rappresentanza e cioè il
parlamento, mentre lascia invece ai fautori del "primato della
società" l'onere di provare l'eventuale importanza dell'input. Ma il
processo decisionale non si lascia frantumare in variabili che
assumono caratteristiche tra loro diverse una volta per tutte e,
magari, anche per sempre. Lo dimostra bene l'analisi di Duverger,
che da tempo ha colto invece la circolarità dell'intero dinamica.
90
Ogni sistema dei partiti genera infatti un diverso tipo di
rappresentanza politica e assimila perciò l'opinione pubblica a "uno
dei fattori del sistema". E' quello che si è verificato in Italia sino agli
anni settanta. Dipendendo a sua volta dal regime elettorale, anche il
sistema dei partiti può, all'inverso, diventare però uno dei fattori che
daranno voce all'opinione pubblica. E' il processo che ha preso
piede a partire dagli anni Ottanta. "Opinione pubblica, regime
elettorale e sistema dei partiti formano in tal modo - conclude perciò
Duverger - tre termini indipendenti gli uni dagli altri, i rapporti tra i
quali non sono affatto a senso unico"34. In passato era l'opinione
pubblica ad accodarsi ai partiti, dalla cui esistenza dipendeva. Oggi
sono invece questi ultimi che si accodano alla prima, cercando di
ritrovarvi la fonte di una necessaria rilegittimazione. Pur di
restituire energia a un processo decisionale da tempo paralizzato, il
sistema non mancherà infatti di utilizzare a piene mani il consenso
che di volta in volta riuscirà a raccogliere tra la "gente", ricorrendo
a quelle tecniche popolari che la democrazia referendaria ci ha
ormai abituato a riconoscere.
In tal modo però e forse non troppo paradossalmente, la nuova
domanda di cambiamento politico si avvarrà della stessa strumentazione istituzionale emersa dalla crisi delle vecchie forme della
rappresentanza, ereditandone perciò sia le ambiguità, sia la
propensione al compromesso. Lo si vedrà molto bene dopo il
referendum sulla legge elettorale per il Senato (1993), allorché
matureranno le condizioni politiche per il passaggio, così a lungo
invocato, dalla prima alla seconda repubblica.
1
C. Donolo, Mutamento o transizione?, Il Mulino, Bologna 1977
L. Manconi, Solidarietà, egoismo, Il Mulino, Bologna 1990, p. 31
3
una prima ricostruzione di queste tendenze, è quella di S. Cassese, Questione
amministrativa e questione meridionale, Milano Giuffré, 1977; più
recentemente, F.P. Cerase, Un'amministrazione bloccata, Angeli, Milano, 1990,
pp. 41-72
4
S. Lupo, Il crepuscolo della repubblica, in AA. VV., Lezioni sull'Italia
repubblicana, Donzelli Editore, Roma 1994, p.76
5
E.J. Hobsbawm, Tradizioni e genesi dell'identità di massa in Europa, in E.J.
Hobsbawm - Ranger T., L'invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987, p.
255 ?
2
91
6
F. Cazzola, Consenso ed opposizione nel parlamento italiano: il ruolo del Pci
dalla I alla IV legislatura, in Rivista Italiana di Scienza Politica, n. 1, 1972
7
VII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto di Assemblea, seduta del 21
settembre 1979, p. 1796. L'analisi sviluppata nelle pagine che seguono, si
riferisce naturalmente soltanto all'attività della Camera dei Deputati ed al suo
'regolamento', perché la stessa si presenta come un indicatore più significativo ai
fini delle problematiche che esamineremo.
8
VIII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto della seduta del 4 novembre
1981.
9
Si veda per tutti l'analisi di G. Di Palma, Sopravvivere senza governare, Il
Mulino, Bologna 1979
10
S. Cassese, Esiste un governo in Italia?, in Il sistema politico italiano, a cura
di G. Pasquino, Laterza, Bari 1985, p. 302
11
A. Manzella, Il Parlamento, Il Mulino, Bologna 1991 ,p.13
12
O. Mayer, La bilancia e l'orologio, Il Mulino, Bologna 1988
13
Va segnalato che la sola modifica apportata prima di questa data avverrà nel
1978 e riguarderà le "procedure di indagine, informazione e controllo in
Commissione" (art.143). A partire dalla VIII legislatura, le modifiche si
succederanno invece rapidamente. Ad oggi la Camera ha infatti deliberato sui
propri regolamenti in ben quindici occasioni. Si veda al riguardo la "tavola
cronologica delle modificazioni...", ora in Camera dei Deputati, Costituzione
della Repubblica. Regolamento della Camera , Roma 1990
14
Queste considerazioni, è appena il caso di segnalarlo, non si riferiscono invece
al Senato, dove il ricorso al voto segreto era comunque più circoscritto.
15
Le dichiarazioni di Moro sono riportate in un articolo di G. Corbi,
Quarant'anni di imboscate, La Repubblica, 25 settembre 1988
16
Atti Parlamentari, Resoconto di Assemblea, seduta del 13 ottobre 1988, p.
20420
17
S. Cotta, Mutamenti istituzionali e cicli politici, in Quaderni Costituzionali, n.
2, 1991, p. 222; dello stesso autore si veda anche Classe politica e parlamento in
Italia, Il Mulino, Bologna 1979
18
A. Baldassarre, Le performances del Parlamento italiano nell'ultimo
quindicennio, in Il sistema politico italiano, cit. p. 342
19
G. Galli, I partiti politici italiani, Rizzoli, Milano 1991, p. 201
20
A. Chimenti, Storia dei referendum, Laterza, Bari 1993, p. 8 e ss., dove viene
ricostruita con efficacia la dinamica delle forze politiche sottesa ad ognuno dei
referendum.
21
una analisi comparativa del ruolo svolto dai referendum nei sistemi politici
contemporanei la si ritrova in M. Caciagli - P.V. Uleri (a cura di ), Democrazie e
referendum, Laterza, Bari 1994; diversa è comunque la valutazione del caso
italiano, nei cui confronti viene avanzato un giudizio complessivamente positivo,
soprattutto nel saggio conclusivo di P. V. Uleri, Dall'instaurazione alla crisi
democratica. Una analisi in chiave comparata del fenomeno referendario in
Italia (1946-1993),
92
22
G. Amato: Intervento, in M. Luciani - M. Volpi, (a cura di), Referendum,
Laterza, Bari 1992, p. 192
23
A. Baldassarre, Referendum e legislazione, in M. Luciani - M. Volpi, (a cura
di), Referendum, cit., p. 40
24
M. Calise, Dopo la partitocrazia, cit., p. 68
25
C. Mezzanotte - R. Nania, Referendum e forme di governo in Italia, in
Democrazia e Diritto, n. 1-2, 1992, pp. 51 e ss.
26
D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia,
Feltrinelli, Milano 1992, cap. 5
27
S. Rodotà, La sovranità nel tempo della tecnopolitica. Democrazia elettronica
e democrazia rappresentativa, in Politica del diritto, n.4 1993
28
J. March - J.P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, cit., pp. 178-9; sulla centralità
della ricerca sociale come antidoto alla iperpoliticizzazione, dopo avervi in più
occasioni insistito, è ritornato nuovamente U. Cerroni, La cultura della
democrazia, Metis, Chieti 1991
29
G. Urbani, La politica ai raggi X, in Urbani G., (a cura di), Dentro la politica.
Come funzionano il governo e le istituzioni, Edizioni Sole 24 Ore, Milano 1992,
p. 114
30
Si veda, da ultimo, L. Cavalli, Governo del leader e regime dei partiti, Il
Mulino, Bologna 1992
31
M. Segni, Camera, X legislatura, Atti Parlamentari, Discussione del 24 luglio
1991
32
B. Manin, La democrazia dei moderni, Anabasi, Milano 1992, p. 166
33
A. La Spina, La decisione legislativa, Giuffré, Milano 1989 ,pp. 453-473
34
M. Duverger, Les partis politiques, I partiti politici (Paris 1952),Milano,
Edizioni di Comunità, Milano 1970, p. 463
93
cap. 4: Decisioni controverse
94
1. Il ruolo dei processi di comunicazione
C'è molta più affinità di quanto si sia portati normalmente a
pensare, tra le ragioni che spingono le istituzioni ad assumere delle
decisioni e le modalità attraverso le quali le stesse cercano di
acquisire consenso. Chi classifica le democrazie contemporanee
contrapponendo il "modello Westmister" basato sul "governo della
maggioranza" al "modello consensuale" che generalmente si
1
afferma nelle "società plurali" , in realtà fotografa i poli estremi di
un processo e non le dinamiche attraverso le quali il cambiamento
matura, nel passaggio da un modello all'altro. Nella crisi della
rappresentanza che segna i momenti del passaggio, non è detto
inoltre che i caratteri i quali accompagnano la formazione del
processo decisionale e quelli che invece riguardano la
organizzazione del consenso, debbano manifestarsi simultaneamente e magari riferirsi anche allo stesso problema. Al contrario.
A volte è proprio la possibilità derivante da un diffuso consenso
popolare il prerequisito operativo grazie al quale le istituzioni
avviano anche un altro tipo di scelte, che l'opinione pubblica potrà
addirittura non conoscere o, qualora ne sia informata, magari non
condividere. In questi casi la logica delle decisione si distacca dagli
interessi che la hanno sino a quel momento sollecitata e si intreccia
invece con l'esistenza di aspettative diffuse sufficientemente
generiche, che rendono possibile l'adozione di una soluzione, senza
per questo vincolarla a requisiti specifici. Un esempio per tutti: i
motivi per i quali si arriverà in Italia all'introduzione di un sistema
maggioritario, dipenderanno molto più dalla interpretazione che
l'opinione pubblica, i massmedia e anche le istituzioni daranno dei
risultati emersi attraverso i referendum, che non dalla specificità
delle richieste le quali verranno avanzate dall'elettorato.
Naturalmente i diversi attori politici non smarriscono in una
situazione del genere i rispettivi orientamenti di scopo. Piuttosto,
decisioni in passato mai assunte come quelle relative al sistema
elettorale, riusciranno ad affermarsi più o meno ampiamente a
seconda dei casi, soltanto perché l'esistenza di una diffusa domanda
"popolare" renderà non solo possibile - ma addirittura imporrà - la
ricerca di una soluzione. Significativa diventa perciò la valutazione
95
del coinvolgimento sociale che viene di volta in volta sollecitato
intorno alle questioni che sono in discussione. Pur essendo
importanti, alcuni problemi risultano infatti poco credibili e perciò
si rivelano anche inattuali. Gli esperti cessano di occuparsene, il
tema assume soltanto una funzione rituale in particolari occasioni
pubbliche o in discorsi ufficiali e chi continua a riversare energie e
impegno nei confronti dello stesso, dimostra soltanto di essere in
ritardo sui tempi. Come gli individui o le stesse istituzioni, i
problemi hanno insomma un loro "ciclo di vita", che li rende più o
meno maturi e anche, a volte, decisamente superati.
Esistono tuttavia problemi che, pur non essendo necessariamente
'nuovi', restano comunque drammatici perché investono non
soltanto il sistema di interessi, ma gli stessi valori della comunità.
Questioni vitali come quelle rappresentate dalla lotta alla
criminalità, la sicurezza personale, le crisi politiche e, soprattutto, le
crisi economiche simbolicamente riassunte attraverso l'aumento
della inflazione o la perdita di valore nel cambio della moneta
nazionale, sono temi che non invecchiano mai, come del resto quelli
che riguardano l'esistenza o meno di un diritto individuale, sia esso
rappresentato dalle richieste di informazione avanzate dalla stampa
nei confronti del potere politico, o dai diritti degli imputati nei
riguardi della magistratura o anche dai diritti dei cittadini nei
2
confronti dello stato .
Qualora questi problemi divengano attuali e grazie ai processi di
comunicazione che in questi casi inevitabilmente si attivano,
l'opinione pubblica acquista perciò lo status di un attore politico
come gli altri, per almeno due di ordini ragioni: perché attraverso il
3
processo di comunicazione si crea una opportunità decisionale che
altrimenti il sistema rappresentativo in quanto tale, non
necessariamente è in grado di assicurare; perché, oltre a mantenere
viva l'attenzione sul tema, il processo di comunicazione può
favorire anche la convergenza o meno della opinione pubblica su
una determinata soluzione, esercitando in tal modo un ruolo ben più
significativo all'interno del processo decisionale.
Nell'adottare queste strategie, le istituzioni devono comunque
tener sempre conto di alcuni limiti che sono strutturali. L'azione
dell'opinione pubblica infatti perde in efficacia allorché si amplia
96
l'arco temporale nel corso del quale questa interviene, perché
l'interesse lascia spesso il posto al disinteresse o anche ad altri tipi
di problemi. Le tradizionali strutture della rappresentanza e cioè
partiti e sindacati, svolgono invece una pressione di tipo
continuativo. In alcuni casi accade che l'opinione pubblica influenzi
l'orientamento del governo nella ricerca di una soluzione, ma
quest'ultimo non sia poi in grado di imporla a sua volta al
parlamento, soprattutto nel momento in cui si riduce l'attenzione
verso il tema. Un esempio per tutti? La nuova legislazione sul fumo
nei locali pubblici, di cui si parla inutilmente da anni, perché non c'é
ministro che non si impegni a difendere la salute del cittadino; al
dunque, però, il parlamento non decide.
Raramente accade invece il processo inverso e cioè che il
governo contrasti una decisione sulla quale c'é già l'accordo della
maggioranza parlamentare, magari raggiunto grazie a pressioni di
tipo "popolare". Incrociandosi tra loro, le due logiche decisionali
daranno perciò vita a conseguenze contraddittorie, che non sono
preventivamente imputabili né alla razionalità degli attori politicoistituzionali, né a quella dell'opinione pubblica.
Si stabilisce in tal modo una relazione tra le modalità attraverso
le quali le istituzioni arrivano ad una decisione e le forme che
assume il processo di comunicazione politica: è la stessa che esiste
tra una chiave e la sua serratura. Per aprire una porta ciò che conta
non è tanto l'energia con cui viene girata la chiave, quanto la
corrispondenza dei suoi incavi con quelli della serratura4!
Francamente, è ormai tempo di abbandonare l'idea che la ripetizione
ossessiva dei "messaggi" sia di per sé efficace ad assicurare un
adeguato processo di coinvolgimento, anche perché la dispersione o
il sovraccarico di notizie è strettamente legato alla natura dei temi.
La chiave che metaforicamente rappresenta il processo di
comunicazione in realtà apre solo quando la sua corrispondenza con
la serratura è perfetta e ogni serratura viene aperta da una sola
chiave! L'impatto che la comunicazione esercita sulla competizione
elettorale, è insomma ben diverso dalle modalità con le quali lo
stesso si manifesta all'interno del processo decisionale5.
Naturalmente anche le decisioni politiche hanno bisogno di
consenso per esser prese e ciò comporta sempre un tremendo lavoro
97
di comunicazione, per costruire coalizioni che risulteranno vincenti
solo se avranno sia gli argomenti, sia la forza per imporli. In questi
casi il legame tra le reti mediali e il processo legislativo diventa
inevitabilmente diverso da quello sinora messo in luce nelle analisi
sulla "videopolitica" o sugli effetti della "politica spettacolo"6. Il
problema da comunicare riguarda infatti una issue e non un partito o
un candidato e lo stesso iter decisionale ha inoltre come destinatari
molti attori e non il singolo elettore. Nel contesto circoscritto dai
confini del processo legislativo, la comunicazione si configura
perciò come una "window of opportunity" 7, una "opportunità" che il
sistema politico potrà a sua volta essere o meno in grado di cogliere
a seconda della natura del tema, del tipo di attori, dei caratteri del
sistema di rappresentanza o di eventuali problemi sociali che non è
sempre possibile prevedere.
Il sovrapporsi di logiche diverse all'interno di una stessa arena
politica, a sua volta condiziona la dinamica dell'intero processo
decisionale. Non è detto che questo si presenti in una successione
sequenziale e cioè causale . I processi che portano alla decisione
legislativa possono infatti avere uno sviluppo soltanto temporale e
cioè del tutto casuale. In sostanza, quando le istituzioni scelgono, le
stesse non sempre seguono lo schema caro a quegli analisti delle
politiche pubbliche, che restano attaccati ad un "modello razionale"
del processo, del tipo "problema-soluzione-decisione". Ciò che più
frequentemente accade è invece il caso in cui - come si dice in
gergo parlamentare - il "treno" della decisione parta, proprio perché
in un determinato momento attori, problemi, soluzioni e occasioni
di decidere, si rivelano simultaneamente disponibili: in "quel"
momento, le istituzioni scelgono e il processo politico si configura
come una serie di procedure che muovono l'intero apparato delle
informazioni, dei desideri e delle opzioni in una direzione
politicamente produttiva.
La decisione politico-legislativa, che normalmente viene vista
come il risultato di una dinamica sequenziale, a volte si configura
dunque come il punto di arrivo di un processo che invece è
contestuale. E' in questo modo del tutto occasionale - osserveranno
8
perciò March e Olsen - che spesso prende corpo sia "la concezione
di ciò che è produttivo", sia "gli strumenti per realizzarla".
98
Naturalmente mentre i problemi sono tanti, le risorse per risolvere
gli stessi sono di gran lunga inferiori: ci vuole tempo, interesse,
attenzione e capacità di convinzione per orientare le istituzioni ad
affrontare un tema piuttosto che un altro. In alcuni casi le questioni
stazioneranno per anni in un ambito di discussione che precede la
decisione. In altri casi invece, i temi entreranno rapidamente nell'agenda parlamentare creando le premesse per nuove decisioni che
modificheranno, sia pur parzialmente e a volte a distanza di pochi
anni, l'orientamento degli attori istituzionali.
L'eventualità che un problema diventi trattabile all'interno di una
analisi finalizzata alla decisione, naturalmente dipende pur sempre
dal suo grado di "pericolosità" sociale, anche se è ormai largamente
accettata l'idea che - una volta isolati dal contesto culturale che li
esprimono - questo tipo di indicatori risultino in realtà del tutto privi
di significato. Tanto i rischi, quanto le urgenze sono infatti presenti
in ogni genere di problema, salvo che l'attenzione selettiva del
sistema istituzionale generalmente si concentra su alcuni, lasciando
scivolare in secondo piano gli altri. Per queste ragioni, Mary
9
Douglas giustamente sottolinea come un discorso del genere rinvii
ad una valutazione che è politica o culturale, ma mai soltanto
fattuale. Definire un problema, infatti, significa anche crearlo, ipotecando in tal modo i possibili contenuti della sua soluzione.
Comprensibilmente, in questi casi i valori divengono importanti
quanti i fatti, perché questi ultimi risultano autoevidenti soltanto
quando non sono in discussione i fini attraverso i quali gli stessi
vengono interpretati. Le serie storiche grazie alle quali si
confrontano i morti per incidenti stradali o a causa dell'alcool con le
vittime della droga, sono perciò - per fare solo un esempio - di per
sé poco significative, appunto perché ci dicono soltanto le
probabilità che un evento si realizzi, ma non aggiungono alcuna
informazione sulle possibili conseguenze sociali di questa
realizzazione. E' difficile inoltre spiegare perché la eventualità che il
parlamento neghi la autorizzazione a procedere nei confronti di un
membro della assemblea, normalmente generi - come ad esempio è
successo nel caso di Craxi - più allarme che non l'esistenza di un
disegno di legge sulla immunità parlamentare, diretto a modificare
99
la disciplina vigente. Per capirne le ragioni, bisognerà quantomeno
guardare diversamente ai processi di comunicazione.
Sul versante massmediologico, la banalità di programmi televisivi come Cream Caramel o Tribuna politica, smette in questi casi
di occupare tutta la scena. Importanti diventano invece quei processi
di comunicazione capaci di porre le questioni in un modo
spregiudicato10, evitando di mortificare queste ultime già nel
momento in cui vengono presentate. Per ottenere questo risultato la
comunicazione politica deve però avere una attenzione ai tempi che
non riguarda il 'ritmo' dello spettacolo, bensì quello dei diversi
processi decisionali e spesso ci vuole anche coraggio, perché
bisogna opporsi a convinzioni da tempo diventate dei luoghi
comuni. Quanto più si sviluppano, tanto più le istituzioni diventano
infatti insensibili, accrescendo i loro apparati e routinizzando i
rispettivi processi decisionali. La comunicazione riuscirà perciò ad
essere efficace soprattutto se interverrà nei momenti di maggior
libertà operativa e cioè allorché all'interno dell'opinione pubblica si
diffondono dei processi di allarme sociale11.
Consolidandosi sia la percezione di un pericolo, sia la richiesta
di uscirne al più presto, decisiva diventa infatti in questi casi la
capacità che le istituzioni dimostrano nel prefigurare i percorsi più
adatti ad avviare dei processi di rassicurazione, con la possibilità di
acquisire consenso. La particolare congiuntura di problemi,
soluzioni e decisioni che nell'allarme sociale trova l'occasione per
avviare un processo decisionale, mette perciò capo ad un particolare
tipo di decisioni che definiamo "controverse" , perché la loro tematizzazione all'interno del sistema istituzionale è fortemente
condizionata dal rapporto che le stesse stabiliscono con l'opinione
pubblica, secondo delle modalità che meritano di essere esaminate.
In questi casi infatti e in primo luogo, il tema viene presentato
come una questione di valori che deve fronteggiare una minaccia
attuale o potenziale nei confronti del sistema sociale, perché in tal
modo si può ricostruire quella "logica della appropriatezza" che
sottrae le decisioni ai processi di negoziazione tipici dello scambio
politico. La società moderna, per dirne una, non ha ad esempio
bisogno di porre degli specifici ostacoli alla "necrofilia", perché il
sistema ha ormai sviluppato al proprio interno sufficienti anticorpi
100
che ne escludono un'eventuale epidemia. Difficile è invece stabilire
sino a che punto possa spingersi l'autorità di un genitore nei
confronti del proprio figlio; quello della magistratura nei confronti
dei possibili imputati; oppure, per fare ancora un ultimo esempio,
difficile è stabilire se in un determinato sistema politico sia
preferibile la legge elettorale maggioritaria, piuttosto che quella
proporzionale.
Tutti questi casi possono dar vita a "decisioni controverse"12 a
seconda dell'importanza che il sistema istituzionale e l'opinione
pubblica assegnano - in successione - ai seguenti valori: la difesa
dell'integrità fisica dei bambini nei confronti di chi esercita su di
loro delle violenze, all'ombra delle mura domestiche; il principio
secondo il quale la magistratura deve essere responsabile delle
sofferenze ingiustamente inflitte ai cittadini; oppure, e per
concludere, la convinzione che sia più importante un sistema che
assicura innanzitutto la governabilità, piuttosto che un altro il quale
premia invece la rappresentatività.
Come può rilevarsi facilmente, la stessa precisazione di cosa si
configuri realmente come più importante per la collettività, in fondo
è soggetta a valutazioni che cambiano sia a seconda degli attori che
ne sono coinvolti, sia a seconda del momento storico nel quale le
stesse vengono formulate. Il finanziamento pubblico dei partiti
politici fu considerato legittimo dalla maggioranza degli italiani in
occasione del referendum del 1981, ma la richiesta di abolizione
dello stesso è risultata maggioritaria nei referendum del 1993. La
legge nel 1975 stabilì la non punibilità del tossicodipendente,
purché questo non fosse anche uno spacciatore; nel 1990, però, il
parlamento ha definito "illecito" drogarsi mentre restava possibile
fumare, bere, non lavorare, studiare o non studiare, perché queste
erano scelte che riguardavano l'autonomia dell'individuo e non
presentavano alcun pericolo sociale. Il referendum del 1993, infine,
ha a sua volta modificato la regolazione, circoscrivendo
nuovamente le ipotesi di punibilità del tossicodipendente. Una
decisione controversa è dunque, innanzitutto, una scelta che
coinvolge i valori dei cittadini, in nome dei quali le istituzioni
vengono sollecitate ad intervenire, ridefinendo nello stesso tempo
101
sia il proprio ruolo, sia le modalità di regolazione delle relazioni
sociali.
Perché ciò risulti possibile, è però necessario che la distribuzione
dei valori all'interno della opinione pubblica massimizzi nella stessa
un senso di insicurezza. Perlomeno per il passato, non è stato questo
il caso dei sistemi pluralisti o "consensuali", quale appunto era il
sistema politico italiano: anziché sentirsi minacciati dalla crescita
del debito pubblico, del clientelismo politico o della stessa
pressione fiscale, i vari attori politici e sociali hanno infatti potuto
mantenere una ambivalenza rispetto ai diversi problemi, restando in
tal modo liberi di esplorare le possibilità legate ad azioni alternative.
Raramente la decisione ha assunto dunque un carattere controverso,
perché il più delle volte la stessa è emersa come l'esito di una
negoziazione tra gruppi o tra individui.
Né tantomeno un simile processo si verifica, allorché la distribuzione dei valori assume un carattere "unimodale". Il modello di
democrazia sviluppatasi negli Stati Uniti sino alla fine degli anni
sessanta, si è ad esempio accompagnato con un tale grado di
linearità dei codici decisionali e delle modalità di organizzazione
del processo politico, da presupporre un preesistente ed elevato
grado di consenso. Sapendo di non dover fronteggiare una
opposizione consistente, la presidenza americana ha potuto in questi
casi rivolgersi ai cittadini addirittura in forme "teatrali",
promuovendo una great society in sintonia con la "filosofia
pubblica" di quegli anni, che Beer con grande efficacia ha a suo
tempo riassunto in poche parole: "qualunque cosa si dovesse fare,
questa doveva comunque essere diretta e largamente governata dal
governo federale"13.
E' soltanto allorché si configura una distribuzione "bimodale" dei
valori, che le decisioni controverse prendono corpo perché,
trovandosi gli individui di fronte a problemi che li coinvolgono
emotivamente, il senso di minaccia e la percezione dell'insicurezza
si massimizzano: "quelli che sostengono l'altro valore - dirà
Edelman sviluppando in tal modo una prospettiva già presente nelle
analisi di Adorno - diventano dei nemici"14. Decisioni controverse
divengono dunque quelle che: vengono presentate come una
questione di valori centrali ai fini della convivenza sociale; danno
102
vita ad una distribuzione "bimodale" degli stessi all'interno della
opinione pubblica, massimizzandone il senso di insicurezza; e, terza
condizione che ora chiariremo, generalmente vengono proposte in
nome e a difesa della collettività piuttosto che di singoli gruppi
sociali, perché il pericolo diverrà più efficace solo se riguarderà la
comunità nel suo insieme, piuttosto che le singole componenti.
Prescindendo dai reali contenuti della decisione, la percezione
della stessa assume infatti dei caratteri che sono soprattutto
simbolici, anche se gli effetti determinati presentano un impatto di
tipo materiale. Chiudere al traffico i centri storici, è ad esempio una
decisione che ha forti conseguenze economiche su diverse categorie
di cittadini: i commercianti, coloro che vi abitano all'interno, coloro
che vi si recano a lavorare, coloro che provvedono ai lavori di
manutenzione, coloro che utilizzano l'automobile come unico
mezzo di trasporto e anche coloro che invece non utilizzano
l'automobile. Una decisione del genere non ha nessuna possibilità di
essere presa, se non viene preliminarmente definita in termini di
minaccia o di valori. Si dovrà sostenere che il centro storico è
sull'orlo di un collasso a causa del traffico, oppure che
l'inquinamento atmosferico ha raggiunto livelli guardia; a volte,
bisognerà addirittura ricorrere ad entrambi gli argomenti nonostante
il carattere tutto sommato circoscritto degli interessi coinvolti .
Si immagini soltanto, per ora , cosa può succedere allorché si
diffonderà la convinzione che sia ormai necessario cambiare le
regole che presiedono all'organizzazione dei poteri pubblici.
Inevitabilmente il sistema verrà attraversato da profonde tensioni e
la domanda di cambiamento cercherà comunque di essere
soddisfatta. E non importa nemmeno se la soluzione trovata potrà
ben presto rivelarsi causa di nuovi problemi. Ciò che infatti conterà
al momento, sarà solo la possibilità di trovare un punto di accordo
che riduca la tensione. Al resto, invece, si penserà dopo.
In tutti questi casi, l'impostazione del problema potrà naturalmente essere molteplice, purché non si percepisca mai che la posta
in gioco soddisfa solo interessi di parte o comunque implica valori
non necessariamente rilevanti per l'opinione pubblica. In un sistema
a basso rendimento istituzionale come quello italiano, se il conflitto
si sposta infatti dai valori agli interessi, generalmente si produce
103
uno scollamento tra governo e maggioranza parlamentare
innanzitutto,
con
evidenti
benefici
per
l'opposizione;
secondariamente, le leadership politiche intese nel loro insieme,
rischiano di accentuare il loro isolamento nei confronti del sistema
sociale. Per queste ragioni i vari provvedimenti verranno perciò
giustificati sempre in nome di un interesse generale. Nel '92 il
parlamento doveva approvare le leggi delega del governo Amato,
perché altrimenti si sarebbe aperta una crisi economica e sociale di
grande portata. I sindacati dovevano a loro volta accettare la
sostanza della manovra economica, perché altrimenti la sconfitta del
governo avrebbe portato ad una crisi politica al buio. E così accadrà
anche ad alcune decisioni del governo Ciampi.
L'interpretazione che generalmente tende ad essere proposta per
spiegare questo genere di processi, il più delle volte pecca per
eccessiva unilateralità. La connessione troppo stretta che Edelman
ad esempio stabilisce tra gli esiti pratici di una decisione politica e i
suoi significati simbolici, tradisce una visione poco elaborata dei
sistemi contemporanei: secondo Edelman, i simboli servirebbero
infatti alle elités soprattutto per garantirsi una "acquiescenza" delle
masse, a fronte di una distribuzione iniqua delle risorse materiali. In
realtà la decisione politica non è mai soltanto una scelta pratica ma
anche - e soprattutto - un processo simbolico di interpretazione, la
cui importanza trova peraltro una conferma nel tempo che allo
stesso è dedicato da coloro che svolgono professionalmente il ruolo
dei decisori: attraverso questi processi gli aspetti rituali degli eventi
politici contribuiscono infatti a rendere gli stessi naturali, non
perché questi possono "essere considerati desiderabili o piacevoli",
ma perché ciò che è accaduto viene "ricondotto ai modi legittimi in
cui avvengono le cose"15. Gli esperti confermano che quella scelta è
giusta; i sondaggi assicurano che ha il consenso della opinione
pubblica; il confronto con quanto è accaduto in altri paesi dimostra
che vi sono dei precedenti significativi e la decisione, alla fine,
risulta legittima.
La predominanza degli aspetti simbolici sulle conseguenze
pratiche della decisione politica, permette inoltre alle istituzioni di
ridefinire i confini del proprio ruolo nei confronti del sistema
sociale. Specifico delle decisioni controverse è proprio il fatto che
104
queste stabiliscono la legittimità o meno di quei poteri che le
istituzioni e i governi intendono esercitare, smentendo in tal modo
la tesi di quanti sostengono che le istituzioni decidano solo allorché
possono imporre provvedimenti di tipo popolare. Che le
conseguenze pratiche della decisione possano essere "distributive",
"redistributive" o "regolative"16, diventa in questi casi
assolutamente meno importante della valutazione che l'opinione
pubblica sviluppa intorno alla necessità di intervenire o meno sui
diritti politici o sociali degli individui.
Negli anni cinquanta sarebbe stato impossibile immaginare del
resto che - nel successivo ventennio - il governo avrebbe realizzato
un ampio consenso, avviando ad esempio una politica a favore dei
diritti civili; approvando un sistema sanitario su base nazionale,
stabilendo delle misure a sostegno della disoccupazione;
finanziando i partiti politici con fondi pubblici o, anche, regolando
attraverso un apposito statuto i diritti dei lavoratori. Anche negli
anni settanta sarebbe stato impossibile prevedere che nel decennio
successivo la tutela di alcuni interessi sarebbe stata lasciata ad
associazioni volontarie di cittadini nate intorno a valori comunitari e
perciò considerate più efficaci nella difesa di fasce sociali
particolarmente deboli della popolazione come i poveri, gli
handicappati, i drogati, gli ex detenuti o gli stessi inquilini che oggi
si fanno assistere dalle loro associazioni nella stipula dei contratti di
locazione. Ancora pochi mesi prima della costituzione del governo
Ciampi, nessuno avrebbe scommesso infine sulla eventualità che
l'esecutivo, abbonando la neutralità scelta dal procedente governo,
avrebbe garantito la rapida approvazione da parte del parlamento di
una legge elettorale intorno alla quale in realtà si discuteva da anni.
Né, al momento, sappiamo con certezza cosa ci riservi il futuro! Le
"decisioni controverse" permettono insomma alle istituzioni di
ridefinire i confini del proprio ruolo, in funzione dei nuovi scenari
sociali.
Sarebbe sbagliato ricostruire questi cambiamenti come il risultato di processi che sono soltanto istituzionali o come soluzioni che
realizzano il massimo punto di equilibrio rispetto ai conflitti di
interesse presenti tra gli attori sociali. Al contrario, questi
cambiamenti generalmente seguono ad eventi critici di grande
105
portata. E' stato ad esempio necessario un plebiscito referendario a
favore di una nuova legge elettorale (1993) , per ottenere dal
parlamento la approvazione di un sistema tendenzialmente
maggioritario. Ed è il richiamo ai "valori" che generalmente dà vita
ad alternative del tipo "tutto o niente" (all-or-nothing issues"17),
perché decidere in questi casi diventa una "questione di principio"
la quale coinvolge sia coloro che decidono, sia coloro che sono in
attesa della decisione.
In questi ultimi anni, peraltro, tutto ciò si è verificato puntualmente in una tale varietà di situazioni, da includere in una ipotetica
elencazione non soltanto vicende con un forte impatto simbolico
come quelle che riguardano le tossicodipendenze, la detenzione
carceraria o la regolazione dei processi di immigrazione. Al
contrario, a partire da tutte le questioni relative alla finanza pubblica
che annualmente si sono addensate nella decisione di bilancio, sino
alla più recente presentazione di leggi delega da parte del governo
(1992), le decisioni sono normalmente state assunte sempre grazie
ad una forte pressione esercitata sulla - o anche dalla - opinione
pubblica ora in nome di nuovi valori, ora in nome della stessa
insicurezza sociale di volta in volta sollevata. Chi coinvolge
l'opinione pubblica, insomma, lo fa perché poi vuole decidere e
viceversa: se l'opinione pubblica si attiva autonomamente, vuol dire
invece che c'è bisogno di prender decisioni.
Nonostante la crescente importanza di questo tipo di comunicazione, va detto che - perlomeno in Italia - gli osservatori hanno
sinora guardato soprattutto ai processi maturati nei partiti e tra i
partiti, mentre secondaria è sempre stata considerata l'interazione da
tempo operante tra l'insieme del sistema sociale e le istituzioni in
quanto tali. Marletti - che pure è tra i pochi ad esser pienamente
consapevole della possibilità di strategie che fanno leva "su aspetti
emotivi profondi18" - comunque giudica negativamente questo tipo
di dinamiche, perché le spaccature culturali "non si possono
prendere alla leggera". Ma che piaccia o meno ormai poco importa,
perché queste spaccature in realtà esistono. Già a partire dagli anni
ottanta ha infatti preso piede anche nel sistema politico italiano un
modello di comunicazione che, quando ha proposto dei temi all'opi-
106
nione pubblica, ha permesso agli stessi di assumere il carattere
proprio degli issues di tipo anglosassone.
Ogni volta che la distanza tra gli attori politici su un tema è
sembrata troppo elevata, immediato è risultato inoltre il ricorso
all'opinione pubblica, ora nelle forme istituzionalmente previste dal
referendum popolare, ora attraverso vere e proprie campagne di
persuasione, destinate a coinvolgere i cittadini nel processo
decisionale. Ciò si è verificato nel 1981 con i vari referendum
sull'aborto, sulla abolizione dell'ergastolo, sulla abrogazione della
cosiddetta legge Cossiga, ecc; è continuato nel 1987 con i
referendum sul nucleare o sulla responsabilità dei giudici; si è
riproposto nel 1991 con il referendum sull'abolizione della
preferenza unica e, per finire, ha raggiunto il suo apice nel 1993,
allorché l'evidente impotenza delle istituzioni ha permesso che la
stessa legge elettorale venisse nei fatti decisa attraverso i
referendum. Quando invece non si è fatto ricorso a questi ultimi, si
sono comunque avviate vere e proprie campagne popolari le quali
hanno naturalmente avuto esiti e origini diverse, riguardando di
volta in volta la riforma della legge sulle tossicodipendenze, la
modifica della legge Gozzini sulle misure alternative della
detenzione o, per fare ancora esempio, la campagna per la riforma
del servizio pubblico televisivo.
Che questo tipo di comunicazione abbia assunto spesso degli
indesiderati caratteri manipolatori, al cui interno la soluzione
ipotizzata è stata il più delle volte individuata soprattutto in
funzione delle sue capacità di attrazione, non dovrebbe a questo
punto meravigliare. A volte la comunicazione è risultata manipolata
perché il suo oggetto non era tanto il tema che veniva affrontato,
quanto le emozioni che la mancata soluzione di quest'ultimo
eventualmente sollevavano all'interno della opinione pubblica. La
crescita dell'inflazione negli anni '70; la diffusione incontrollata
della droga, negli anni '80; il rischio evocato dal governo Amato di
essere "sull'orlo dell'abisso", sono così diventati un "oggetto
simbolico" nei cui confronti i ceti medi hanno di volta in volta
indirizzato le proprie insicurezze, fossero queste di tipo culturale o
legate a problemi di status.
107
Su un impianto del genere di quello sinora ricostruito si è infine
innestata l'involuzione indotta della crisi del sistema dei partiti e dal
mutamento dei suoi processi di regolazione sociale. Trasformatesi le
reti di appartenenza politica in circuiti clientelari basati su una
"fiducia personale", il ruolo delle leadership ha naturalmente
acquistato un maggior rilievo. La comunicazione "orizzontale"19 tra
i partiti è stata perciò sempre più spesso sostituita dai nuovi modelli
di comunicazione "verticale" con l'opinione pubblica, capaci di far
impallidire nel ricordo un intera schiera di leader 'popolari' di
seconda generazione, da Pannella a Berlinguer, da De Michelis a
Craxi. Oggi poi, siamo già oltre il modello classico di costruzione
dell'immaginario, quello basato sui partiti di massa, perché leader
come Segni, Orlando, Bossi o Berlusconi, legano generalmente la
propria immagine politica a singoli temi o problemi, piuttosto che a
questioni di ordine generale.
Si è consumato in tal modo il paradosso di un sistema politico
che, pur assicurando ai partiti una elevata centralità, ha dato vita a
nuovi modelli di comunicazione, prima ancora che si stabilizzassero
quelli che nelle altre democrazie occidentali vengono considerati i
corrispondenti prerequisiti istituzionali. La issue politics negli Stati
Uniti si è infatti sviluppata grazie ad un assetto che ha reso
l'esecutivo responsabile di fronte all'opinione pubblica. In Italia,
invece, il ricorso all'allarme sociale è stato sinora utilizzato a mani
basse da attori nascenti o da politici consumati, obbligati a
compensare attraverso la creazione di occasionali maggioranze
morali, le carenze decisionali del sistema istituzionale.
Si sono determinati perciò degli inevitabili scompensi perché
ciò che il processo decisionale ha acquistato in termini di consenso,
non sempre è stato riequilibrato dalla instabilità che i confini assunti
dalla comunicazione hanno introdotto nelle relazioni politiche.
Ricorrendo a forme di sostegno "popolare" che si coagulano intorno
a nuovi valori, le istituzioni da tempo registravano perciò al loro
interno elementi di discontinuità che in alcuni casi hanno
assecondato, mentre in altri hanno ostacolato, la regolarità dei
rispettivi processi decisionali.
2. gli indicatori di processo
108
Le tipologie che descrivono i diversi processi decisionali sono
ormai molto sofisticate, ma ai fini della nostra analisi poche
distinzioni sono in realtà sufficienti per esaminare più dettagliatamente il processo delle "decisioni controverse". Sappiamo infatti
che, perlomeno nella trattazione delle grandi questioni nazionali, la
stagione delle "decisioni incrementali" basate su un continuo
20
bargaining tra gli attori politici è ormai tramontata. Incalzate dai
processi di crisi e dalla necessità di avviare nuove forme di
regolazione, le istituzioni non sempre possono infatti rifugiarsi nella
soluzione offerta dalla "non decisione". In questi casi le questioni
vengono generalmente presentate in termini "radicali", perché è solo
in tal modo che i conflitti esistenti riescono ad essere superati.
Naturalmente l'intero processo si configura meno costoso in termini
politici se riguarda minoranze piuttosto che larghi gruppi sociali, o
diritti piuttosto che beni economici. In tutti i casi la scelta diventa
quella di integrare proponendo dei nuovi valori, laddove sino a ieri
sembrava invece sufficiente aggregare combinando tra loro i diversi
interessi. E' il momento delle decisioni controverse che perciò,
perlomeno sul piano simbolico, generalmente si presentano anche
come "decisioni radicali" .
Lo scenario al cui interno queste ultime emergono, si caratterizza
peraltro in maniera duplice. Esistono infatti tanto dei potenziali
decisori alla ricerca di problemi, quanto problemi che a loro volta
cercano invano dei decisori. L'influenza che il decisionismo di
Craxi ha esercitato sulla approvazione di una nuova legislazione
sulla droga (L. 162/90), riassume bene il primo caso. Un esempio
del secondo tipo può essere invece ritrovato nelle crescente
importanza assunta dai problemi istituzionali, che alla fine
troveranno una loro sia pur parziale soluzione grazie alla decisione
legislativa che riguarderà la riforma del sistema elettorale (agosto
'93) . Chi ha delle soluzioni, deve insomma trovare l'occasione o il
tema per poterle applicare: è ciò che è accaduto con la legge sulla
droga, fortemente voluta da Craxi e non a caso divenuta poi il
simbolo di un "altro" modo di governare. Così come i problemi non
possono sempre essere rinviati, ma debbono prima o poi trovare un
loro decisore: è il caso della legge elettorale, grazie alla quale il
109
parlamento accoglierà in larga misura le indicazioni a favore del
maggioritario espresse dagli elettori.
Entrambe le decisioni presentano inoltre dei caratteri comuni
perché - andando oltre la evidente distanza tematica - sono state
assunte solo attraverso un processo decisionale del genere di quello
che abbiamo sinora indicato. In primo luogo, i due temi rientrano
tra i casi per i quali il regolamento della Camera - anche dopo le
tassative restrizioni introdotte a partire dal 1988 - prevede che la
votazione avvenga ancora oggi a scrutinio segreto. L'esistenza di
questa comune fattispecie regolamentare si spiega con il fatto che
vengono messe in discussione questioni di coscienza, come quelle
che investono l'introduzione del trattamento sanitario obbligatorio o
il procedimento elettorale. Naturalmente si possono manifestare
delle decisioni controverse che coinvolgono valori, anche al di fuori
delle specifiche previsioni regolamentari. Nei due casi in esame,
significativo si è rivelato però l'esplicito riconoscimento della
centralità dei "valori" da parte dello stesso processo istituzionale,
che perciò ne subordinerà la regolazione alla possibilità di adottare
21
particolari procedure decisionali .
Importante è inoltre il fatto che entrambi le decisioni siano state
approvate ora su iniziativa del governo, ora in seguito ad una sua
chiara assunzione di responsabilità politica . Attraverso la proposta
di un proprio disegno di legge nel caso delle tossicodipendenze; e
con un esplicito richiamo fatto da Ciampi in sede programmatica
nel caso della legge elettorale, il governo ha infatti operato come
custode di quei principi sociali che si intendevano riaffermare.
In terzo luogo, gran parte della discussione che si è avviata durante l'iter legislativo, ruoterà intorno all'esigenza di allontanare
dalla collettività un "danno sociale" potenziale. Quello prodotto dal
diffondersi di comportamenti individuali non sanzionati penalmente
(la "libertà di drogarsi") nel caso delle tossicodipendenze; oppure,
quello indotto dal diffondersi all'interno del sistema politico di un
senso di instabilità, dall'opinione pubblica generalmente imputato al
carattere rigidamente proporzionale del nostro sistema elettorale. Da
ciò l'affermazione del divieto di drogarsi nel caso delle tossicodipendenze; oppure l'esistenza di un consenso politico diffuso
sull'opportunità di non superare il limite del venticinque per cento
110
nella quota di seggi che - con l'approvazione della legge elettoraleavrebbero potuto essere assegnati attraverso il sistema
proporzionale.
In quarto luogo, entrambe queste decisioni risultano controverse
perché il riferimento pregiudiziale ai valori si è incrociato con un
processo di radicalizzazione politica, che ha messo capo ad
iniziative referendarie ora a valle (tossicodipendenze), ora a monte
(sistema elettorale) della decisione legislativa. Le stesse questioni
avrebbero potuto naturalmente esser affrontate con modalità meno
drammatiche, come del resto dimostra l'esperienza di altri paesi, ma
questa è un tipo di scelta che normalmente discende dalle modalità
che le istituzioni privilegiano per definire un problema. Nel caso
delle tossicodipendenze la drammatizzazione ad esempio è nata
dalla decisione assunta da un leader politico, Craxi, la quale ha
coinciso con un più profondo orientamento della opinione pubblica,
prima di allora mantenuto in uno stato di latenza; nel caso della
legge elettorale, l'impostazione del problema in termini controversi
e cioè come un valore da affermare, si è generalizzato grazie all'azione del movimento referendario, imponendosi alla fine nei
confronti dell'intero sistema politico.
La centralità che assume il rapporto con l'opinione pubblica
chiarisce inoltre una significativa caratteristica delle decisioni
controverse e cioè il loro carattere fortemente simbolico.
Naturalmente queste decisioni hanno anche dei costi sia diretti che
indiretti, come potrebbero del resto facilmente documentare tanto i
tossicodipendenti, quanto alcune fasce dell'elettorato e del sistema
politico. Il richiamo simbolico esercita però una funzione di
orientamento agli occhi dell'opinione pubblica, ribadendo in tal
modo la legittimità e la naturalità degli stessi costi che discendono
dalle scelte effettuate. La decisione, in altri termini, presenta due
diversi livelli: il primo è dato dai valori che si intende difendere, il
secondo riguarda invece le conseguenze ne derivano. Controverse
sono naturalmente soltanto le scelte che si riferiscono al primo livello perché le conseguenze, come vedremo, risulteranno invece in
buona misura obbligate.
La prospettiva offerta da quelle che abbiamo definito come
decisioni controverse non va comunque considerata un "modello",
111
perché è priva di quei requisiti istituzionali che soli ne potrebbero
permettere una stabilizzazione. Piuttosto, questa prende le forme di
un processo al quale le istituzioni ricorrono, soprattutto allorché
entra in crisi la vecchia trama su cui è stata tessuta la "forma" della
decisione politica. Anziché esser rappresentata, l'opinione pubblica
diventa un attore tra gli altri che partecipano al processo,
assicurando attraverso la sua presenza quell'unità sociologica e non
più costituzionale del sistema, al cui interno stazionano i problemi
in attesa di decisione.
Alcuni esempi. Durante l'iter di approvazione della legge sulla
droga, il parlamento sarà tenuto sotto pressione ora attraverso la
minaccia del ricorso al referendum, ora in nome di preesistenti
"patti di governo" assunti al riguardo dalle forze politiche. Nel caso
della legge elettorale invece, l'originario impegno assunto dal
governo Ciampi si rivelerà sufficiente a rassicurare l'opinione
pubblica, ma non basterà ad evitare alcune resistenze che si
manifesteranno soprattutto attraverso le ripetute letture, alle quali il
provvedimento verrà sottoposto dai due rami del parlamento.
Naturalmente questa dinamiche hanno sinora preso corpo anche
in contesti diversi dai casi che esamineremo, perché quello di essere
controverso non è un carattere specifico dei problemi che di volta in
volta si affrontano, bensì la conseguenza del modo in cui gli stessi
vengono definiti. In larga misura, più o meno controverse
risulteranno del resto anche gran parte delle decisioni radicali
approvate nell'ultimo decennio, dalla regolamentazione del voto
segreto a quella della sistema televisivo. Abbandonato il modello
22
"causale" che assicurava uno sviluppo delle soluzioni a partire dai
problemi ai quali le stesse dovevano essere applicate, le istituzioni
riveleranno perciò il diffondersi di una logica "casuale": le decisioni
si prenderanno soltanto perché in un determinato momento si
manifesterà una presenza contestuale di soluzioni, problemi e attori
disponibili, come del resto confermano le vicende che adesso
esamineremo.
3. decisori alla ricerca di problemi
112
Secondo alcuni osservatori23 il concetto di opinione pubblica è
oggi diventato talmente labile, da render discutibile la stessa
possibilità di una sua sistematica utilizzazione. Tanto l'esistenza di
opinioni, quanto l'interesse del sistema politico verso di esse, non
sempre si rivelano infatti necessari per definire i criteri della azione.
Poiché solo alcuni temi meritano un interesse tale da giustificare la
fatica della partecipazione e dell'informazione, le istituzioni non
dovranno perciò mettere necessariamente "tutti d'accordo", prima di
arrivare ad una decisione. Solo in sistemi sociali molto semplici e di
breve durata, si potrebbe del resto "immaginare che coloro che
agiscono siano contrapposti ad un gruppo unitario di soggetti che
attendono il loro comportamento"24. Nei sistemi complessi invece, e
purché il "terzo" non nutra particolari aspettative, ci potranno anche
essere delle opinioni diverse, senza che perciò il processo
decisionale ne debba in ogni caso tenere conto.
L'eventualità che non tutte le opinioni siano importanti, resta
comunque legata alla capacità del tema di selezionarne alcune e
farne passare altre in secondo piano, realizzando in tal modo quel
mix di indifferenza e partecipazione che generalmente assicura alle
istituzioni la possibilità di assumere delle decisioni complesse.
Queste premesse decisionali vengono però meno se il tema non
mostra una sua capacità di "diminuire l'insicurezza" o di "fornire
strutture" accettabili per il sistema sociale. E' ciò che accadrà nella
decisione sulle tossicodipendenze, durante la quale l'originaria
"indifferenza" del terzo si trasformerà infatti in un interesse attivo
non tanto per il contenuto in senso stretto delle possibili soluzioni,
quanto per le conseguenze sia pure indirette che da esse potranno
derivare.
Non è facile individuare delle regolarità all'interno di processi
che tali in realtà non sono. Anche una semplice analisi delle notizie
date dalla stampa sul 'pianeta droga' nel periodo che va da un anno
prima dell'avvio dell'iter legislativo a un anno dopo la sua
conclusione (gennaio 1988 - giugno 1991), ci aiuta però a capire le
ragioni che hanno in questo caso favorito l'emergere di una opinione
pubblica, sia pure indirettamente interessata al problema. Nel caso
della regolazione delle tossicodipendenze l'attenzione della stampa
era naturalmente preesistente, perché c'erano già fondate ragioni che
113
giustificavano il diffondersi dell'allarme sociale all'interno dell'opinione pubblica. Il vero punto di svolta maturerà però nel momento
in cui l'Onorevole Craxi, ritornando da un viaggio negli Stati Uniti
(ottobre 1988), affermerà la necessità di dichiarare "guerra alla
droga" attraverso la previsione di pene più severe per i consumatori
e addirittura dell'ergastolo, che poi verrà smentito, per gli
spacciatori (graf. 1)25. Questa impostazione determinerà infatti un
cambiamento radicale nella tradizionale definizione del problema.
Delineata una diversa soluzione la quale esplicitamente prevede che
il tossicodipendente debba essere considerato colpevole, Craxi
dovrà perciò individuare anche nuove strade attraverso le quali
imporla alle istituzioni che decidono e cioè governo e parlamento.
GRAFICO 1
Distribuzione mensile dei pezzi giornalistici pubblicati sul tema droga
250
200
150
100
50
mar.91
magg.91
genn.91
sett.90
nov.90
lug.90
magg.90
mar.90
genn.90
nov.89
sett.89
lug.89
mar.89
magg.89
nov.88
genn.89
sett.88
lug.88
magg.88
mar.88
genn.88
0
periodo dell'iter legislativo
Il processo decisionale è un labirinto al cui interno non è facile
orientarsi, ma l'iter della legge sulle tossicodipendenze rappresenta
un caso particolarmente significativo per capire cosa succede
allorché: a) non esiste un accordo tra i diversi attori politici su come
definire il problema in esame; b) la maggioranza è divisa non solo
dalle opposizioni, ma anche al suo interno, determinando perciò una
divaricazione di indirizzo tra governo e parlamento; c) un attore
politico, in questo caso il Psi, fa esplicito riferimento all'opinione
pubblica,
per
esercitare
una
pressione
sull'esecutivo,
subordinandone la stabilità alla approvazione della legge. Per
114
arrivare ad una decisione-soluzione, tutta la discussione subirà
perciò una torsione in termini di 'valori' e l'approvazione finale del
provvedimento avrà innanzitutto un significato politico e anche
simbolico, mentre non mancheranno di manifestarsi in seguito
pesanti conseguenze negative, quantomeno sul piano della effettiva
26
governabilità del problema in esame .
Le differenze esistenti tra le forze politiche riguardo al modo in
cui intendono affrontare la questione delle tossicodipendenze,
emergono infatti già all'avvio della discussione parlamentare,
allorché le diverse proposte vengono messe all'ordine del giorno.
Mentre il progetto governativo parlava di "aggiornamento, modifica
e integrazione della Legge 22 dicembre 1975", i comunisti
presenteranno un primo disegno di legge "contro il traffico di
stupefacenti"
e un secondo "per la prevenzione delle
tossicodipendenze e dell'alcolismo", che dunque ampliava
l'orizzonte di intervento legislativo, inizialmente circoscritto alla
assunzione di sostanze illegali e oppiacei. A loro volte le altre
minoranze presenteranno dei disegni di legge "contro il mercato
nero e per il rispetto dei diritti dei cittadini tossicodipendenti" nel
caso dei demoproletari, o a favore della "legalizzazione della
cannabis indica" nel caso dei radicali. La Democrazia cristiana, che
sin dal 1980 aveva elaborato una propria posizione originale,
presenterà infine un disegno di legge ben articolato per "una nuova
disciplina di prevenzione, riabilitazione e recupero dei
tossicodipendenti", che all'articolo finale prevede addirittura la
completa abrogazione della Legge 685/75.
E' chiaro dunque che, volendo ad ogni costo "ridefinire" sia il
problema , sia la sua regolazione , il governo si troverà sin
dall'inizio in rotta di collisione totale non solo con l'opposizione, ma
anche con diverse componenti della maggioranza e, soprattutto, con
la Democrazia cristiana. Per ottenerne la approvazione, alla fine
Craxi dovrà perciò trasformare la legge in discussione, in un vero e
proprio "banco di prova" della stessa esistenza di una maggioranza.
Ottenuta la corsia preferenziale per l'avvio dell'iter al Senato,
inizieranno dunque le pressioni all'interno e all'esterno del Partito
socialista. Craxi convocherà il suo gruppo per decidere la strategia
e i tempi dell'iter, escludendo in tal modo qualunque possibilità di
115
dissenso. All'esterno invece, partiranno le richieste nei confronti
della Democrazia cristiana affinché ritiri il proprio disegno di legge,
perché in contrasto "con le scelte del progetto governativo su aspetti
27
non certamente secondari" .
Generalmente, nello svolgimento del processo legislativo il
parlamento tende a dividersi pubblicamente, mentre in segreto crea
le premesse per i successivi accordi politici; l'opposto, insomma, di
ciò che accade al governo il quale, di solito, appare unito agli occhi
della opinione pubblica, anche se poi è profondamente diviso al suo
interno. In questa prospettiva, la fase più significativa del processo
legislativo diventa quella dei lavori del "comitato ristretto"
composto da membri designati dai vari gruppi parlamentari. Nel
"comitato ristretto" si media, si scambia, si assumono impegni, ci si
vede lavorando sul testo che dovrà poi tornare in commissione per
l'approvazione e la successiva trasmissione all'Assemblea e tutto ciò
avviene al di fuori di ogni verbalizzazione, perché questa non è
prevista dai regolamenti.
Sarà dunque in questa sede che diverrà chiaro come il dissenso
sul testo del governo non riguardi soltanto la Dc, ma anche altre
forze della maggioranza. Disapprovando tutto ciò duramente, i
socialisti incominceranno perciò a ripetere in ogni occasione che "il
Senato lavora male", perché la discussione va troppo per le lunghe.
La chiave che spiega la forte pressione sul governo, sarà comunque
legata alla convinzione di sostenere una causa che può contare su un
largo consenso all'interno della opinione pubblica e che invece trova
delle forti resistenze nel Palazzo. Poiché "la gente è con noi" dirà
l'onorevole Andò, ci aspettiamo che "dalla opinione pubblica debba
venire un forte sostegno, soprattutto a fronte di manovre sempre più
scoperte come quelle della Dc, che con una mano porta avanti al
Senato la proposta del governo e con l'altra propone testi di legge
28
dai principi e dai contenuti antitetici."
Puntualmente, l'argomento dell'urgenza si sposerà inoltre con la
minaccia esplicita di una richiesta di referendum abrogativo della
Legge 685/1975, dietro la quale si raccoglie quella che
spregiativamente viene chiamata "l'associazione degli amici della
modica quantità". Ancora una volta dunque - e non sarà l'ultima
cosi, come i socialisti non saranno i soli a percorrerla - ci si illuderà
116
di poter assicurare una migliore governabilità, incamminandosi
sulla strada della democrazia referendaria .
Confrontate con le risibili alternative sulle quali si è discusso in
Italia per più due anni, giocherellando tra proibizionismo e
antiproibizionismo o tra punibilità o meno del tossicodipendente, le
dimensioni assunte nel frattempo dal problema, lasciano comunque
senza fiato per la loro tragicità. Grazie all'attualità assunta attraverso
la vicenda legislativa, la contabilità delle vittime diventa prima
semestrale, poi mensile, sino ad anticipare la portata degli stessi
eventi, attraverso una accurata previsione dei trend della morte. Nel
giugno '89 sono "già 408 i morti per droga"; diventano 599 a
settembre e circa 1000 a dicembre, poco prima che inizi cioè la
discussione parlamentare. In realtà il testo di legge sul quale ci si
dividerà, sfiora appena i termini sociali del problema che pretende
di regolare, per una ragione di fondo che è sostanziale. La scelta dei
socialisti di imporre attraverso il governo una decisione popolare,
aveva infatti - come vedremo - innanzitutto delle motivazioni
politiche che, solo secondariamente, avrebbero poi determinato
anche delle conseguenze operative.
Nel mese di maggio il Comitato concluderà comunque i propri
lavori, modificando il testo di legge attraverso l'introduzione di una
fascia intermedia di sanzioni per coloro che si rendono responsabili
di spaccio di lieve entità e sostituendo il concetto di "dose media
giornaliera" con quello di "uso personale", la cui determinazione
dovrà essere affidata al giudice attraverso una serie di criteri
probatori. Importanti nodi resteranno però ancora da sciogliere, per
ottenere il necessario consenso su quello che appare come il punto
centrale della ridefinizione del problema: la "punibilità" penale del
tossicodipendente.
Come conseguenza di una impostazione che non trova dei reali
punti di accordo, si incomincerà dunque a parlare esplicitamente del
rapporto esistente tra il "patto" stretto a livello di governo e il tipo di
soluzioni previste nella legge sulla droga. Lo dirà apertamente
Goria: "mi sembra ci sia un patto politico che costringe a fare una
legge comunque". Anche chi non è d'accordo su questa
interpretazione radicale, comunque ammetterà che ci sia stato un
"eccesso" di politicizzazione nel dibattito sulla legge : "basti
117
pensare che mentre il parlamento si stava predisponendo con un
largo accordo ad abolire l'ergastolo, lo stesso rischiava - dirà il
senatore Toth (Dc) - di essere introdotto per un reato che non lo
prevedeva". Altrettanto chiaro il giudizio del senatore Cabras. La
Dc aveva ripresentato all'inizio della decima legislatura una
proposta di depenalizzazione del tossicodipendente e a sostegno
della modica quantità:"poi c'è stato il cambiamento nonostante non
vi sia stata discussione... e la maggioranza abbia deciso la difesa
29
della legge per necessità politiche" . Una "legge di scambio"
dunque, che trova molte contrarietà per quello che a Cabras
sembrerà un motivo di fondo:" la difesa dei diritti umani".
Il problema è comunque talmente sentito, che ben presto inizieranno anche le manifestazioni di massa. A Roma il "Movimento
unitario dei volontari per la lotta alla droga" (Muvlad) presieduto da
don Gelmini e da Muccioli, il 5 novembre sfilerà per la città diretto
a Piazza San Pietro. Dietro a un grande cartello sul quale è scritto
"drogarsi è illecito", ci sarà il ministro Russo Jervolino, il
sottosegretario alla Sanità Maria Pia Garavaglia, sindacalisti come
Benvenuto, giuristi, democristiani o liberali come Costa. Due
settimane dopo, l'altra parte del paese verrà chiamata a raccolta
dalle forze politiche di opposizione e dal Coordinamento nazionale
delle comunità di accoglienza di Don Ciotti: il corteo si snoderà di
nuovo attraverso il centro della città per raccogliersi questa volta a
Piazza Navona, dove verrà letto un appello per il' No" alla legge
Vassalli-Jervolino.
Il punto di fondo, che anche queste manifestazioni rendono
evidente, resta comunque il fatto che la legge divide effettivamente
in due il paese, disgregando vecchi legami di solidarietà e
aggregandone di nuovi. Il mondo cattolico è spaccato al suo interno,
così come la Democrazia cristiana. Il volontariato che prima era
unito nel sostegno alle tossicodipendenze, ora si divide sulla
questione della punibilità, correndo il serio rischio di farsi
colonizzare dalle forze politiche. Lo stesso accade tra gli operatori
e, infine, lo stesso accade in Parlamento, dove salta sia qualunque
modalità consociativa di presa delle decisioni, sia l'accordo interno
alla maggioranza. Per arrivare a una prima stesura del testo
legislativo, alla fine risulteranno necessarie venticinque sedute di
118
commissione, quindici riunioni del comitato ristretto e quattordici
sedute dell'assemblea.
Il conflitto con l'opposizione e la debolezza politica della stessa
maggioranza si ripropongono del resto allorché i lavori
riprenderanno alla Camera. Quattordici deputati democristiani
dichiareranno apertamente il proprio dissenso sul nodo della
'punibilità' di chi si droga. Compattata dall'avvicinarsi delle elezioni
amministrative, la maggioranza raccoglierà comunque tutte le
proprie modifiche in un maxi-emendamento, ma ciò non basterà ad
impedire lo slittamento dell'approvazione. Quando la Camera
tornerà a riunirsi, il maxi-emendamento sulla questione della
'punibilità' verrà finalmente approvato con il dissenso di una
trentina di franchi tiratori e grazie all'applicazione del nuovo
regolamento che, prevedendo il contingentamento dei tempi di
intervento, vanificherà la presentazione di 1400 emendamenti.
Caduta la tensione precedentemente legata al clima elettorale, il 12
maggio 1991 la legge sarà definitivamente licenziata nella versione
finale che di lì ad un mese anche il Senato farà propria, in seconda
lettura.
Commentando la conclusione di un iter rivelatosi particolarmente difficile, Craxi riproporrà il tradizionale schema di analisi:"
ci siamo scontrati nel parlamento e nel paese con opposizioni e
resistenze accanite - egli dice, ma - sapevamo di poter contare sul
30
sostegno di una grande maggioranza del paese." Una impostazione
del genere, che naturalmente viene formulata in termini così netti
soltanto dal Psi mentre risulta ben più sfumata negli altri
componenti della maggioranza, in effetti conferma come la
discussione intorno alla regolazione delle tossicodipendenze abbia
sin dall'inizio avuto delle finalità ben più ampie, che non quelle
ricavabili dalla semplice approvazione del provvedimento.
Dell'impianto di regolazione inizialmente contenuto nel disegno
di legge presentato dal governo, alla fine resterà in piedi soprattutto
la "punibilità del tossicodipendente'' che rappresentava il cuore della
proposta socialista, contro i cui possibili effetti negativi tanto
l'opposizione, quanto il resto della maggioranza avevano
inutilmente cercato di sollevare degli argini. Ciò che invece non
verrà rimesso in gioco, sarà l'affermazione di un diverso ruolo dello
119
stato nei confronti del tossicodipendente. Importante risultava infatti
rassicurare innanzitutto l'opinione pubblica, nel cui nome il Psi
aveva nel corso dell'intero iter legislativo esercitato una pressione
sul resto del sistema politico.
Non a caso il governo terrà perciò fermo nel testo una sorta di
preambolo assolutamente irrituale sotto il profilo giuridico, perché
più simile ad un comandamento che non a una norma penale:" è
31
vietato l'uso personale di sostanze stupefacenti"(art. 12) . Questa
torsione in chiave 'etica' del dispositivo legislativo si spiega con la
esplicita volontà del legislatore di esprimere un "giudizio di
disvalore" sull'intero processo che viene sottoposto a regolazione.
Solo in tal modo si potrà del resto giustificare la rigida difesa del
vincolo di maggioranza, su quello che è il vero punto di tensione
all'interno della stessa: ossia, la predisposizione di un apparato
sanzionatorio di tipo penale nei confronti del tossicodipendente.
La pregiudiziale alla quale il governo subordina gli sviluppi di
tutto l'iter decisionale, non troverà peraltro confronti con precedenti
discussioni del genere, magari assunte in passato. Chi dissente avrà
dunque buon gioco nel ricordare come in situazioni altrettanto
delicate, quali quelle sull'aborto e sul divorzio, era stata teorizzata la
relativa neutralità del governo, appunto per impedire che una delle
sue componenti potesse esercitare un potere di interdizione su
problemi i quali - dirà Granelli - "per la loro delicatezza,
comprensiva di evidenti questioni di coscienza, dovrebbero
ammettere una maggiore libertà del parlamento, senza per questo
32
coinvolgere le sorti del governo". Non è una differenza da poco.E
rende inoltre chiaro il modo in cui è ormai cambiato il processo
decisionale.
Il Psi intende infatti consolidare la ristrutturazione del sistema
politico avviata a partire dagli anni ottanta, ostacolando quel legame
sotterraneo da sempre operante tra mondo cattolico e comunisti. La
legge sulla droga rappresenterà l'occasione adatta per rompere la
logica della democrazia "consensuale", da ultimo ricomparsa in
occasione della discussione alla Camera sul servizio pubblico
televisivo, dove la sinistra democristiana aveva votato con le
opposizioni e contro il governo (luglio 1990). Su un piano più
generale, la legge si rivolgerà inoltre ai cittadini comuni, alle tante
120
persone giustamente spaventate dal crescere della piccola
criminalità legata alle tossicodipendenze, lanciando un messaggio
semplice e chiaro. A questi cittadini risentiti, il governo cercherà di
dimostrare che lo Stato è in grado di tenere sotto il proprio controllo
le diverse forme di devianza sociale.
Che ciò non si riveli poi vero perché la legge in realtà non offre
al tossicodipendente reali alternative a quelle del carcere, è
questione che, soprattutto al partito socialista, al momento non
interessa. Una volta scelta la strada dell'affermazione dei valori, il
vincolo di maggioranza non verrà infatti più toccato dal confronto
con la pluralità di posizioni culturali e di interessi sociali espressi
nel sistema di rappresentanza parlamentare e l'ingresso dell'opinione
pubblica nel processo decisionale renderà l'esito dello stesso sia
imprevedibile, sia non necessariamente coerente con le finalità e le
ragioni nel cui nome questo è stato avviato.
A grandi linee, è questa la stessa dinamica che si manifesterà
anche di lì a pochi anni, allorché il parlamento dovrà assumere
un'altra decisione controversa, questa volta legata alla riforma del
sistema elettorale. Non è che infatti non ci fossero da tempo ragioni
che spingevano a questa decisione. Semmai, mancava l'accordo tra
gli attori politici che di riforme istituzionali parlavano ormai da più
di un decennio, senza per questo riuscire ad arrivare ad alcuna
conclusione. A partire dai risultati del referendum sull'abrogazione
della preferenza unica (1991), la pressione dell'opinione pubblica
crescerà però rapidamente con il passare dei mesi, sinché nel luglio
del 1993 si arriverà all'approvazione della legge elettorale.
Che il processo attraverso il quale si è giunti a quest'ultima
decisione si sia rivelato di tipo controverso nel senso che abbiamo
sinora cercato di documentare, non è stato tanto dovuto all'esistenza
di un comune indicatore istituzionale come quello rappresentato dal
voto segreto, che i regolamenti della Camera prevedono anche nella
votazione delle leggi elettorali. Per scelta dei partiti, quest'ultimo
non verrà del resto utilizzato durante l'iter di approvazione della
nuova legge. Più significativa sarà invece un'altra circostanza: il
parlamento arriverà a questa decisione soltanto dietro la pressione
dell'opinione pubblica e perché il governo Ciampi farà della stessa
l'impegno prioritario del proprio programma.
121
Sia pure con tutte le differenze del caso, che in seguito prenderemo comunque in esame, si riprodurrà perciò l'intreccio tipico delle
decisioni controverse tra la razionalità parziale degli attori politici e
la logica della democrazia referendaria. Dopo il "voto di
liberazione" a favore del cambiamento espresso nel referendum del
1993, all'improvviso diverranno infatti contestualmente disponibili
attori, soluzioni e problemi. Abbandonando la logica sequenziale
delle grandi riforme, rivelatasi nel passato del tutto inconcludente,
la nuova legge elettorale verrà perciò finalmente approvata.
4. le riforme elettorali
Gli storici del futuro i quali vorranno ricostruire le vicende che
hanno portato all'approvazione delle nuove leggi elettorali, faranno
bene a stare in guardia contro due diverse teorie del complotto, che
pure hanno in questi anni avuto le loro buone ragioni per
diffondersi prima e poi anche per consolidarsi. La prima teoria
affonda le sue radici nel realismo di chi ha sempre diffidato del
cambiamento e perciò ha visto sia in Tangentopoli, sia nelle riforme
elettorali che poi sono seguite, il grimaldello attraverso il quale i più
svariati poteri - finanziari, politici, editoriali e anche massonici sono riusciti a scardinare la vecchia e cara democrazia dei partiti.
Apertamente e anche polemicamente, questa tesi è stata sostenuta
soprattutto da Craxi. A bassa voce ma con non minor convinzione,
la stessa è stata però fatta propria anche da tutti coloro che il
cambiamento ha danneggiato, ponendo fine a immunità per lungo
tempo garantite o anche a carriere appena avviate.
La seconda tesi sostiene invece l'opinione opposta. Il complotto
sarebbe stato quello delle oligarchie di partito, che per più di
quarantanni avrebbero espropriato il paese della sua sovranità
popolare, prima che i cittadini riuscissero nuovamente a imporre il
cambiamento. E' questa la versione "popolare" che è stata alla base
della democrazia referendaria durante gli anni ottanta e anche negli
anni novanta, allorché al centro delle consultazioni sono stati posti
dei quesiti che riguardavano più direttamente il sistema elettorale.
122
Naturalmente quanti hanno sostenuto con il loro voto il
plebiscito del 1993 a favore di una nuova legge elettorale, in realtà
non avevano neanche lontanamente l'idea che in parlamento le
diverse forze politiche si sarebbero poi divise tra loro in nome dello
"scorporo", del "mammozzo", dell'alternanza uomo-donna o anche
del voto agli emigrati. Così come chi aveva votato a favore della
preferenza unica nel precedente referendum del 1991, non aveva
certo in mente di favorire signori delle tessere noti e anche ignoti,
come invece poi si verificherà, perlomeno in alcuni casi33. La
deliziosa ebbrezza semplificatrice che accompagna le "retoriche"
del complotto34 rivelerà dunque i suoi costi, perché l'intero processo
di cambiamento risulterà in realtà molto più complicato.
Dirà ad esempio Rusconi, che pure ne è stato un sostenitore:
"Non è più accettabile che le riforme istituzionali nel nostro paese
vadano avanti quasi casualmente, a pezzi, a bocconi e spintoni,
senza un disegno complessivo, senza sapere che tipo di repubblica
stiamo costruendo".35 Non solo non ci sarebbe stato dunque alcun
complotto, ma sarebbe addirittura mancato un vero "progetto
politico complessivo", come del resto provano i numerosi tentativi
di "riforma della riforma" che sono stati sia pure inutilmente avviati,
già all'indomani dell'approvazione della nuova legge elettorale. Ed è
questo il vero problema da chiarire, perché la produzione legislativa
di "soluzioni a perdere" che ben presto si rivelano inutili, non è
nuova e non è nemmeno l'esito di una malvagia disposizione
soggettiva delle forze politiche. Le sue cause affondano piuttosto in
problemi che, essendo di ordine istituzionale, come tali meritano di
essere esaminati.
Da lungo tempo il processo decisionale che le istituzioni della
prima repubblica sono state in grado di assicurare ha assunto le
caratteristiche di un "cestino di rifiuti"36 al cui interno problemi,
soluzioni, opportunità di scelta e decisori si sono mescolati tra loro,
senza alcun ordine che non fosse quello offerto da un'occasionale
coincidenza temporale, tra problemi i quali non potevano essere più
rinviati e decisori i quali si rivelavano in quel momento disponibili a
scegliere. Abbiamo già visto come la legislazione sulle
tossicodipendenze riassuma in maniera significativa le principali
modalità di questo processo, che peraltro è stato applicato ormai in
123
una infinità di casi. La legge Gozzini sulle misure alternative alla
detenzione carceraria; la riforma del servizio pubblico televisivo;
gran parte della legislazione di riforma dello stato sociale, o la
stessa legislazione sull'ordinamento delle autonomie locali
finalmente approvata nel 1990, sono solo alcuni dei possibili esempi
ai quali conviene rivolgersi, per capire anche le vicende che - sia
pure attraverso iter diversi - hanno portato anche alla riforma del
sistema elettorale.
Naturalmente il diffondersi di un decision making a "spazzatura"
è in buona misura dipeso da tendenze di crisi che, nel passato
decennio, hanno in realtà coinvolto non solo il nostro paese, ma
anche gran parte delle democrazie occidentali. E' però rimasta pur
sempre una differenza nel rendimento dei diversi sistemi politici,
quantomeno in ordine al tipo di controllo che questi ultimi sono
riusciti a mantenere su i rispettivi processi decisionali. Né si
possono sottovalutare le conseguenze che si sono venute a
determinare, allorché sono state poste in discussione questioni di
tipo istituzionale, come la stessa riforma elettorale. In questo caso i
risultati si sono infatti rivelati ben più gravi, per una ragione
ulteriore e specifica. Le decisioni che coinvolgono la vita delle
istituzioni presentano infatti un'ulteriore ambiguità costitutiva,
perché l'impatto delle innovazioni in questi casi ricadrà non solo su
i destinatari ambientali ( "i cittadini"), ma anche su i decisori che
le avranno promosse. E' questo del resto il noto "paradosso" delle
riforme istituzionali: "sebbene esse abbiano implicazioni di lungo
periodo e di grande rilevanza per il sistema politico, sono spesso
realizzate -ha detto ad esempio Tarrow - da attori che perseguono
interessi e valori contingenti"37.
Mentre i decisori continueranno perciò a motivare in pubblico le
proprie scelte sulla base delle conseguenze prevedibili nell'ambiente
esterno e cioè tra i destinatari della riforma, le schede di preferenza
individuali diventeranno invece estremamente indefinite e, a volte,
addirittura segrete. Chi ad esempio teme le conseguenze che
l'uninominale maggioritario a turno unico potrebbe avere sulla
propria elezione, naturalmente non lo dirà apertamente. Piuttosto, in
un primo momento ostacolerà questo genere di innovazione,
magnificando le qualità del doppio turno; poi appoggerà le
124
proposte dirette a permettere il ballottaggio a più di due candidati e,
infine, sarà forse soddisfatto se resterà comunque una quota di
seggi, che verranno assegnati con il sistema proporzionale.
In questi casi entrano dunque in gioco non soltanto le diverse
razionalità degli attori di tipo partitico, ma anche le preferenze
individuali e tutto ciò influisce enormemente sia sul processo di
tematizzazione, sia sulle decisioni che vengono assunte, sia - a volte
- sulla stessa possibilità che alla decisione segua poi una effettiva
implementazione. Un esempio? La legislazione sulle aree
metropolitane, che maturerà nel 1990 all'interno di una più ampia
negoziazione relativa alla riforma delle autonomie locali, ma la cui
realizzazione verrà subito dopo bloccata, nel timore di imprevedibili
effetti indiretti sui processi di selezione della classe politica locale.
Anche nel caso dell'introduzione del sistema maggioritario, il
nodo intorno al quale ruotano le decisioni di riforma istituzionale, si
rivelerà dunque lo stesso di sempre. Se il referendum ha per un
verso confermato l'esistenza di una domanda ambientale di
efficienza, per l'altro questa non potrà venire però soddisfatta senza
che nello stesso tempo venga avviata anche una redistribuzione di
poteri e di opportunità tra gli attori politici e istituzionali. Tutti
invocheranno perciò la riforma, senza riuscire tuttavia a deciderla.
Come accade nelle navigazioni a vela, l'iter di approvazione del
sistema maggioritario sarà dunque interamente costellato da bordi,
virate improvvise, traiettorie inseguite attraverso la somma di
singoli segmenti e così via.
Già nel nostro sistema politico erano del resto risultate
controverse numerose decisioni di importanza minore, che tuttavia
venivano necessariamente presentate come tali, perché solo in tal
modo le stesse riuscivano ad essere inserite nella agenda legislativa.
Non ci vuole molta fantasia per immaginare cosa accadrà nella XI
legislatura, allorché il parlamento "dovrà" approvare la legge di
riforma elettorale con tempi e modalità che lo stesso governo
Ciampi si vedrà consigliare per iscritto dal Capo dello Stato, sia
pure in nome della volontà popolare.
Ma non era l'italia una repubblica parlamentare? Certo che lo
era e lo è anche tuttora, perché la costituzione assegna al Capo dello
Stato dei poteri ben circoscritti. Rendendolo politicamente non
125
"responsabile", la costituzione assimila inoltre questo organo ad una
sorta di suprema magistratura, che raccoglie e coordina le volontà
degli altri poteri. Cosa succede però allorché il parlamento non si
rivela capace né di esprimere una sua maggioranza politica, né di
indicare il Presidente del Consiglio, né di definire un programma?
Succede quello che si è visto e cioè che il Capo dello Stato formi un
"suo" governo, ponendo il parlamento nella alternativa di prendere
o lasciare, sotto la minaccia dello scioglimento anticipato della
legislatura. Mettendo in gioco il suo prestigio personale, Scalfaro
ha difeso in tal modo la "barca" delle istituzioni repubblicane, dalle
ondate rabbiose che molte forze politiche non hanno mancato di
sollevargli intorno. Ma almeno ci fosse stata più misura nel
continuo richiamo alla volontà popolare. Ed invece la retorica delle
istituzioni ha proceduto di pari passo con quella della realpolitik..
Che cosa ha detto ad esempio Ciampi, il giorno dopo
l'approvazione della legge elettorale? Niente altro se non ciò che
tutti si aspettavano venisse detto dal Capo del Governo, ma ciò che
il Capo del Governo ha detto è anche un tipo di retorica che oggi
non si vorrebbe più sentire. "L' approvazione delle nuove leggi è
una manifestazione della vitalità e della solidità delle istituzioni
repubblicane. E' infatti ancora una volta confermato che il paese,
sotto la guida del Capo dello Stato, ha la capacità di rinnovarsi
profondamente con la semplice applicazione delle vigenti regole
costituzionali e parlamentari, senza procedure straordinarie, né
forzature istituzionali". Come no! Le istituzioni hanno in effetti
retto bene, anche perché quasi niente si è più appoggiato su di esse e
tutto si è invece realizzato nel nome di scelte, pressioni e soluzioni
che di istituzionale ormai avevano soltanto il nome, ma non la
logica operativa. Basti pensare al modo in cui si è arrivati alle
modifiche dei sistemi elettorali comunali e nazionali.
La prima delle due riforme, quella che porterà alla elezione
diretta del sindaco, è infatti nata solo perché la XI legislatura ha
ritenuto di doverla utilizzare come banco di prova della successiva
riforma nazionale. "La leve non la puoi scegliere tu, la sceglie la
storia. Ed è avvenuto - dirà forse con troppa enfasi il Presidente del
Consiglio Amato - che la leva è l'elezione diretta del sindaco".
Audacia senza pari della storia! Solo nel giugno del 1990 il
126
parlamento era intervenuto attraverso l'approvazione della legge
142 sulla funzionalità dei sistemi di governo locale. Ora questi
ultimi saranno però stravolti nuovamente, per permettere alla classe
politica nazionale di sperimentare gli effetti indotti dalle nuove
modalità di rilegittimazione. E quale importanza potrà avere il fatto
che, in attuazione della "142", sono appena stati varati i vari statuti
comunali e sono ancora in corso di elaborazione i regolamenti?
Naturalmente non ha nessuna importanza, risponderà
implicitamente il parlamento con la sua azione, così come importa
poco che l'elezione diretta del sindaco sia in qualche parte
incoerente rispetto all'impianto complessivo della "142" la quale,
non essendoci accordo, non era affatto intervenuta sulla forma di
governo. Cosa farà invece la nuova legge sui sindaci (82/1993)?
Capovolgendo i "paradossi" della precedente legislazione, la nuova
normativa affronterà con una "determinazione inaudita il versante
del "sindaco-politico"" e lascerà invece "in gran parte invariato"
l'altro versante, quello "sindaco-amministratore"38.Le ragioni, è
appena il caso di dirlo, sono intuibili.
Tutta la legge elettorale è stata costruita in modo che la
competizione verta intorno alle figure dei candidati, anche se poi i
benefici continueranno a cadere sui partiti. L'elettore potrà infatti
anche scegliere di non votare per un partito, ma non potrà
comunque impedire che, votando il sindaco, di questa sua scelta
possano beneficiarne anche la lista o le liste che lo hanno
presentato. Ha ragione dunque chi protesta, denuciando l'equivoco
di fondo del cambiamento maturato a livello comunale: alla fine si è
trovato un compromesso che ha assicurato il controllo dei partiti
sull'elettore, mentre poco si è fatto per migliorare l'efficienza
dell'amministrazione, la cui forma di governo non sarà più quella di
un regime "monistico", senza per questo trasformarsi però sino in
fondo in un regime di tipo dualistico39.
Sin dall'articolo 1 della legge 81/1993 si può infatti leggere: " il
consiglio è composto dal sindaco" e da un numero variabile di
membri a seconda delle dimensioni del comune; ed è il sindaco, si
aggiungerà, che naturalmente presiede il consiglio. Ma come! Sia
pure tra mille cautele si introduce il sistema maggioritario per
sottolineare l'esigenza di un dualismo tra i meccanismi di governo
127
di una città e quelli di rappresentanza dei suoi cittadini e poi si
approva invece una legge che implicitamente mantiene un ossequio
non soltanto formale, verso l'intramontabile e tuttavia ormai
imputridito principio della cogestione dei poteri? Proprio così,
anche perché i partiti si divideranno sulla riforma delle elezioni
comunali, ma in realtà penseranno già alle modifiche che di lì a
pochi mesi verranno introdotte nel sistema elettorale nazionale.
A volerle cercare, le conferme non mancano. Il governo Amato
ottiene ad esempio la fiducia nel luglio del 1992. Già il 13 agosto
l'assemblea siciliana avrà però approvato un legge ben più radicale
sulle elezioni del sindaco, la quale prevederà sia la doppia scheda,
sia un effettivo dualismo: avendo un'investitura diretta dal corpo
elettorale, il sindaco presiederà infatti la giunta, ma non il
consiglio40. Non si tratta affatto di una rivoluzione contro i partiti, i
quali continueranno a svolgere naturalmente la loro funzione di
selezione delle leadership politiche. E tuttavia in questo modo si
afferma per la prima volta il principio secondo il quale nessun
consigliere potrà più ricattare il sindaco, perché questo è diventato il
solo titolare del potere di governo. Saranno semmai sempre i
cittadini che, dopo averlo eletto, potranno eventualmente destituirlo
attraverso un apposito referendum.
L'idea di fondo è dunque abbastanza semplice e in Sicilia
prenderà vita in poche settimane. Arrivata a Roma sui banchi dei
deputati, verrà invece passata subito al microscopio perché, dirà
Craxi prima di partire come al solito per Hammamet, "è meglio fare
le cose bene, magari con più tempo, che non in fretta". Ed infatti la
legge verrà approvata dal parlamento solo nel marzo del 1993,
giusto in tempo per evitare un altro referendum e per usarla come
banco di prova per la successiva e più impegnativa riforma
nazionale. In che altro modo si potrebbe infatti stabilire se ai partiti
convenga più il turno unico o il doppio turno, se non verificandone
gli effetti?
Martinazzoli farà capire le sue speranze, anticipando che i
risultati di Milano sarebbero stati la "Stalingrado della Lega". Dopo
il sei giugno cambierà però rapidamente parere, perché risulterà
chiaro che il vecchio sistema di alleati è ormai definitivamente
scomparso. La Dc andrà dunque a ingrossare le file di coloro che
128
vogliono il maggioritario così come lo ha indicato il "popolo" nel
caso del Senato e cioè con una quota riservata di seggi, che
dovranno continuare ad essere assegnati con il sistema
proporzionale. Insomma, "all'italiana". Gli elettori non faranno
perciò in tempo ad appassionarsi alla gara in due tempi appena
iniziata che, già pochi giorni dopo aver appreso i risultati della
prima tornata, alla Camera verrà in gran fretta capovolto il principio
basilare del nuovo sistema elettorale e il doppio turno sarà
sostituito dal turno unico, corretto con la "riserva indiana" della
proporzionale per il 25 per cento dei seggi. Si riproporanno perciò
attraverso il "Mattarellum41" le filosofie e i bizantinismi della
prima repubblica che, sia pure assediata, continuerà a individuare
nel sistema proporzionale un possibile "sentiero" di sopravvivenza
per alcune sue forze .
Sarà d'accordo con questa soluzione la Lega, perché il turno
unico comunque le permetterà di ridurre l'handicap determinato
dalla evidente incapacità di sfondare sul piano elettorale la "linea
gotica". E' naturalmente d'accordo anche la Dc, perché la legge è
stata in effetti scritta in suo nome e da un suo esponente,
nell'illusione di poter in tal modo tornare solo un pò indebolita, al
centro del vecchio sistema. Si opporrà invece il Pds ma non ne farà
comunque una tragedia, perché la crescita della Lega e la
contestuale crisi della Dc lo hanno ormai rimesso in gioco,
facendone il principale baluardo sia contro il "vecchio" che non
vuole morire, sia contro quella parte del "nuovo" la quale non dà
garanzie sull'unità del paese. Tra tante macerie, il Pds sarà del resto
una delle forze politiche che comunque riuscirà a sopravvivere.
Grazie all'assunzione di decisioni controverse come quella che
porterà alla approvazione della legge elettorale maggioritaria, il
cambiamento riuscirà potrà dunque istituzionalizzarsi all'interno del
sistema politico italiano.Con quali conseguenze? Lo si vedrà presto,
allorché agli elettori sarà data la possibilità di tornare a votare
(aprile 1994).
1
E' questo il criterio seguito da A. Lijpphart, Le democrazie contemporanee, cit.
Questa prospettiva di analisi è sviluppata con particolare efficacia, soprattutto in
riferimento ai problemi della istituzionalizzazione delle aspettative, da N.
2
129
Luhmann Sociologia del diritto, (Hamburg, 1972),Laterza, Bari 1977, pp. 7997
3
Una rassegna aggiornata del dibattito sulla formazione della agenda politica la
si ritorva in S. Bentivegna (a cura di), Mediare la realtà. Massmedia, sistema
politico e opinione pubblica, Angeli, Milano 1994
4
K.Deutsch, I nervi del potere, (New York, 1963),Etas, Milano 1972 p. 154
5
Questa prospettiva non viene generalmente presa in esame negli studi sulla
comunicazione politica; si veda M. Calise, Introduzione alla comunicazione
politica, in Teoria politica, n.1 1993
6
Per queste due prospettive di analisi, si vedano G. Sartori,Videopolitica, in
Rivista Italiana di Scienza Politica, n. 2, 1979; G. Statera, La politica spettacolo.
Politici e massmedia nell'era dell'immagine, Mondadori, Milano 1986
7
J.Kingdon, Agendas, alternatives and public policy, Little, Boston 1984
8
J. March - J.P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, cit. p. 87
9
M. Douglas, Come percepiamo il pericolo,(New York, 1985) Feltrinelli,
Milano1991, p. 12
10
A. Abruzzese, Ipermedialità catastrofiche, in Democrazia e Diritto, n. 3-4,
1990, p.138
11
Una prima analisi dell'impatto esercitato sulle istituzioni di governo dall'
allarme sociale, è in M. Fedele, La deriva del potere. Saggio sul sistema politico
americano, De Donato, Bari 1982; più recentemente, I nuovi confini della
comunicazione politica, Quaderni di Sociologia, n. 3 1992
12
Nell'ultimo decennio la tradizione giuridica più attenta ai caratteri del processo
decisionale si è in diverse occasioni occupata delle "scelte tragiche". Esempi di
queste ultime sarebbero innanzitutto le questioni che riguardano la vita o la
morte dei cittadini: la scarsezza di reni artificiali, un limitato numero di
macchine per emodialisi o la necessità di stimolatori cardiaci pongono infatti il
decisore in un dilemma tragico, causato dalla impossibilità di soddisfare la
domanda di beni considerati "essenziali". Formulato inizialmente da G.
Calabresi e P. Bobbit , Scelte Tragiche, (Norton, New York 1978),Giuffré,
Milano 1986, questo paradigma è stato esteso anche ad altri contesti. Le scelte
tragiche, dicono ad esempio Mazzoni e Varano nella presentazione del volume
curato, potrebbero ugualmente riguardare casi diversi come la necessità di
definire i confini di una politica di immigrazione, le misure di sicurezza da
adottare nei passaggi a livello, la scelta di soggetti per sperimentazioni mediche,
la pena di morte ed altri ancora: "non che tutti questi casi siano esempi di scelte
tragiche in sé, ma tuttavia sono settori nei quali si possono verificare".
Nell'orizzonte della decisione si inseriscono in tal modo delle scelte che non
sono oggettivamente "tragiche", come una casistica basata sulla limitatezza di
risorse invece suggerirebbe, ma che vengono semmai definite prima ed accettate
poi, come tali. In realtà il modello delle "scelte tragiche" resta profondamente
vincolato dalla natura dei temi che vengono sottoposti alla decisione,
sottovalutando invece il processo attraverso il quale si arriva alla definizione
130
degli stessi. Per ovviare a questo tipo di equivoci, preferiamo parlare perciò di
"decisioni controverse".
13
S. Beer, In search of a new public philosophy, in King A. (a cura di), The new
political system, cit.
14
M. Edelman, Gli usi simbolici della politica, ( Chicago, 1976),Guida, Napoli
1986, Introduzione di G.Fedel, p. 247
15
J.March - J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni, cit., p. 87
16
T.J. Lowi, American business, Public policy, Case studies and Political theory,
in World Politics, n. 16 1964, p. 689
17
B. W. Hogwood, From crisis to complacency? Schaping public policy in
Britain, Oxford Press, London 1987, p. 31
18
C. Marletti, I 'Politici' e i 'problemi'. Agenda di governo e comunicazione
politica, in Polis, n.2, 1990, p. 241
19
Il modello di comunicazione orizzontale è quello che emerge con più forza
nelle analisi di P. Mancini, Tra di noi. sulla funzione negoziale della
comunicazione politica, Il Mulino, n.2 1990 ed in G. Mazzoleni, Dal partito al
candidato. Come cambia la comunicazione elettorale, in Polis, n.2 1990
20
Questa linea di analisi è ricostruita in M. Ferrera, La logica delle scelte
pubbliche, in G. Urbani, (a cura di), Dentro la politica. Come funzionano il
governo e le istituzioni, cit.
21
Ciò risulta da una nostra elaborazione effettuata sui dati disponibili presso la
Camera dei Deputati che si riferiscono alla X legislatura. Oltre al sistema
elettorale ed ai problemi della tossicodipendenza, gli altri temi sui quali c'è stata
una votazione segreta nei rimanenti casi sono: violenza sessuale, procedimento
elettorale, custodia cautelare, caccia, amnistia ed indulto, sistema
radiotelevisivo, minoranze linguistiche.
22
Il modello delle due "logiche" della decisione è presentato in J. March -J. P.
Olsen , Riscoprire le istituzioni, cit.; una analisi dei supporti decisionali nel
policy making in condizioni avverse è avanzata da L. Gallino, Intelligenza
artificiale, policy making e teoria dell'azione, in L. Gallino (a cura di), Teorie
dell'attore e processi decisionali, Angeli, Roma 1993, pp. 19-42; con riferimento
al sistema politico italiano, si vedano invece G. Pasquino, Regolatori sregolati:
partiti e governo dei partiti e B.Dente - G. Regonini, Politica e politche in Italia,
in P. Lange - M. Regini , (a cura di), Stato e regolazione sociale , cit.
23
N. Luhmann, Stato di diritto e sistema sociale (Verlag GMBH 1970), Guida,
Napoli 1978, p. 87
24
N. Luhmann, Sociologia del diritto, cit., p. 80
25
I dati presentati, sono stati raccolti attraverso una analisi della copertura
accordata da tre quotidiani nazionali (La Repubblica, Il Corriere della Sera e La
Stampa) al tema delle tossicodipendenze, nel periodo che va da un anno prima
dell'avvio del processo legislativo, ad un anno dopo la sua conclusione (legge
sulle tossicodipendenze:gennaio '88-giugno '91). Le unità di analisi rilevate,
corrispondono a 2289 articoli. Rilevazione ed elaborazione dei dati sono stati
curati dalla Dott. ssa Sabrina Cavatorto.
131
26
E' questa la tesi di fondo ben documentata del lavoro di L. Manconi, (a cura
di), Legalizzare la droga. Una ragionevole proposta di sperimentazione,
Feltrinelli, Milano 1991
27
Avanti, 16 febbraio 89
28
Avanti, 12 maggio 89
29
Le tre dichiarazioni riportate sono state rilasciate rispettivamente a: Il Tempo
(21 ottobre 89), Il Popolo (2 ottobre 89) ed il Manifesto (23 novembre 89)
30
Avanti, 12 maggio
31
Prendendo in esame le più ampie implicazioni negative che da questa
impostazione discendono, Ferrajoli giustamente sottolineerà perciò come gli
ordinamenti penali moderni non presentino norme di questo genere che
enunciano un "precetto morale", ma bensì si limitino a disporre determinate
sanzioni a fronte di comportamenti lesivi dei diritti di terzi. Cfr. L. Ferrajoli,
Proibizionismo e diritto, ora in Legalizzare la droga., cit.
32
Senato, cit., vol. 6, p. 104
33
Si veda la ricerca coordinata da G. Pasquino ( a cura di), Votare un solo
candidato, Il Mulino, Bologna 1993
34
Sull'utilizzazione di questo concetto chiave nella vita politica italiana, si veda
Z. Ciuffoletti, Retorica del complotto, Il Saggiatore, Milano 1993
35
G. Rusconi, Presidente o premier, in Il Mulino, n. 4, 1993, p. 790
36
E' l'immagine utilizzata da J. March, per indicare i caratteri del processo
decisionale, in Riscoprire le istituzioni, cit., p. 56-58
37
S. Tarrow, Decentramento incompiuto o centralismo restaurato? in Rivista
Italiana di Scienza Politica, n.2, 1979, p.230. E' la stessa osservazione che viene
avanzata dai costituzionalisti più avvertiti. Per tutti si veda, G. Zagrebelsky, I
paradossi della riforma istituzionale, in Politica del diritto, n. 1 1986
38
M. Cammelli, Eletto dal popolo: il sindaco fra ruolo nuovo e vecchi poteri, in
Il Mulino, n. 4, 1993, p. 779
39
E. Rotelli, Una democrazia per gli italiani, cit., p. 146
40
Merita di essere segnalato il giudizio positivo di A. Manzella sulla legge
siciliana, soprattutto in confronto alle modalità con le quali il Parlamento
affronterà poi lo stesso tipo di problema (Quella legge che il vuole il sindaco in
trappola, su La Repubblica, 20 agosto 1993). A conferma delle incertezze
presenti all'interno dello schieramento referendario in ordine ai caratteri che
avrebbe dovuto assumere la legge sui sindaci, si veda anche la discussione che si
svolgerà sulla Unità alla ripresa dei lavori parlamentari, con gli interventi di G.
Moro (14 settembre), la replica di C. Salvi (16 settembre) e quella di A.
Barbera (12 ottobre).
41
Questa felice definizione proposta da G. Sartori, prende spunto dal nome dell'
On. Mattarella,
presentatore del disegno di legge che poi ha portato alla
approvazione della nuova legge elettorale
132
cap.5. cambiamento e risentimento
133
1. rivoluzione o diaspora?
Discutendo del significato assunto dal termine "rivoluzione",
Bobbio1 ha a suo tempo osservato come la stessa espressione venga
ormai utilizzata per indicare non soltanto la "causa" ma anche
"l'effetto" e cioè due diversi tipi di eventi, che invece stanno tra loro
in un rapporto di "mezzo" a "fine". Tocqueville aveva del resto già
parlato della vicenda dell'89, come di un "movimento" a cui non era
poi seguito un "mutamento"; così come la storia del mondo antico,
nell'interpretazione avanzata da Finley, rappresenterebbe un
esempio opposto. Per comprendere la "rivoluzione", bisognerebbe
dunque ricorrere ad un doppio tipo di giudizio. Quello sul
"movimento" il quale, in genere, investe l'atto o la componente che
lo determina; e quello sul "mutamento" che invece è di ben diversa
natura, perché investe strumenti di valutazione completamente
differenti e anche perché, a differenza del movimento che ha un
decorso ben limitato nel tempo, ha generalmente tempi lunghi e
indefiniti.
Chi guarda ai processi politici maturati negli ultimi anni, ha
buoni motivi per far tesoro di questo tipo di distinzione analitica,
perché le ragioni e le forze che hanno prodotto l'iniziale
"movimento" con il quale si è aperta la XI legislatura, sono risultate
ben diverse da quelle che hanno dato alla fine vita al "mutamento"
con cui la stessa verrà poi chiusa. Le "rivoluzioni", del resto, non
nascono a colpi di referendum e nessuna classe politica al potere ha
sinora dimostrato di sapersi riformare da sola e cioè senza la spinta
di un evento traumatico, generalmente costituito da una sconfitta
militare o da una crisi economica profonda. La "rivoluzione
italiana" è andata però diversamente, perché nessuno ha avuto dubbi
nell'indicare i possibili eventi ai quali ricondurre l'avvio del
cambiamento. La "nostra Algeria" è diventata perciò, di volta in
volta: Tangentopoli; la nascita del movimento referendario di Segni,
oppure - soprattutto dalle parti di Pontida e nella bassa Brianza quella delle Leghe di Bossi in passato e, oggi, anche l'affermazione
di Forza Italia.
134
Pur nelle loro differenze, queste interpretazioni si sono mosse
comunque lungo una stessa linea di analisi. Sono state ricercate
regolarità storiche di tipo causale, perché solo in tal modo è
diventato poi possibile identificare il'movimento-causa" con il
"mutamento-fine", riassumendo entrambi in quella comune
accezione a cui generalmente ci si riferisce, allorché si parla del
cambiamento politico. Si è trascurata in tal modo l'eventualità che
questo sia stato casuale nel suo movimento e perciò indeterminato
anche nel suo possibile mutamento, perché aperto ad esiti diversi a
seconda dei processi, dei tempi, degli interessi e anche del caso.
In realtà, possiamo forse capire meglio ciò che negli ultimi anni
è successo, ricostruendo l'intero processo come una "diaspora"
interna a quella democrazia dei partiti, che in passato aveva
assicurato la governabilità della prima repubblica. Nel giro di due
anni, il movimento che aveva accompagnato l'iniziale processo di
"dispersione" è stato infatti rapidamente sostituito con il mutamento
che si manifesterà non appena risulterà possibile il "ritorno al
tempio" e cioè, fuor di metafora, quel processo di riunificazione
politica che prenderà corpo con le elezioni del 1994 e da cui nascerà
anche un nuovo "centro".
Il ricorso a una metafora non meravigli: chi ne ha studiato il suo
uso, lo giustifica ricordandoci che il "parlare di politica" spesso
presenta le stesse difficoltà che si incontrano nel parlare del tempo o
nel parlare di Dio2. Perché maturi una diaspora è necessario
comunque che intervenga un evento imprevisto, in grado di
minacciare l'identità della comunità. In Italia questo evento non è
stato di tipo esterno come nelle rivoluzioni, bensì interno. Lo
dimostra l'impatto moralmente distruttivo esercitato da
Tangentopoli sulla intera sistema politico
nazionale. Si è
manifestata così una "catastrofe" che ha dato a sua volta vita a una
rottura temporale, con un "prima" rappresentato dal governo Amato
e un "dopo" identificato con il governo Ciampi. Sono nati inoltre
tutti gli elementi che generalmente accompagnano il processo della
diaspora: i "miti fondativi" dell'evento (Tangentopoli), le
periodizzazioni cronologiche che hanno distinto il "nuovo" dal
"vecchio"; i meccanismi di controllo sociale che hanno assicurato la
conformità delle interpretazioni autentiche di ciò che è accaduto e
135
anche il proselitismo diretto a consolidare i legami tra i "dispersi"
del vecchio sistema politico.
Sollecitati dalla pressione referendaria, i partiti hanno cercato
naturalmente di approvare una legge fatta a propria misura. Sarà
però Forza Italia e cioè una aggregazione politica apparsa sulla
scena solo pochi mesi prima delle consultazioni nazionali, ad
intercettare buona parte del consenso espresso dal tanto invocato
elettore sovrano. Verrà in tal modo confermata, sia pure
indirettamente, l'esistenza di una profonda distinzione tra le ragioni
per le quali è nato il movimento e gli esiti a cui alla fine ha invece
messo capo il mutamento.
Nata per caso, quella del cambiamento politico è dunque
un'esperienza specifica, che generalmente non è facile prevedere.
Visti da vicino, alcuni dettagli del processo possono apparire poco
significativi. Allorché l'osservatore si colloca però alla distanza
necessaria, ci si accorge che in effetti è iniziato un percorso più o
meno lungo nel corso del quale, essendosi progressivamente ridotte
le possibilità di ricorrere al vecchio repertorio di soluzioni, si stanno
più o meno consapevolmente gettando le basi per il successo di altre
e non previste alternative. Sono processi, questi, che si sono
manifestati per la prima volta nella passata legislatura in due
momenti: quando maturò la scelta di eleggere Scalfaro alla
Presidenza della Repubblica e quando si costituì il governo Amato.
Le modalità con cui i partiti fronteggeranno questi iniziali segnali di
cambiamento, riassumono bene la casualità con la quale verranno
scritte le prime pagine del nuovo corso.
La designazione di Scalfaro intorno alla quale si forma una
maggioranza che raccoglie le forze del quadripartito insieme al Pds,
i Verdi, la Rete e Pannella, nasce infatti in maniera del tutto
occasionale. Nonostante la sconfitta elettorale subita dai partiti di
governo poche settimane prima (aprile 1992), la XI legislatura si
apre secondo il solito copione. Alla Democrazia Cristiana sarebbe
dovuta andare la presidenza della repubblica; i socialisti avrebbero
dovuto invece guidare l'esecutivo. Dopo le prime votazioni
esplorative, salta però la designazione di Forlani che
"autosospende" la propria candidatura, perché mancano almeno una
settantina di voti dalla conta di quelli previsti sulla carta. Se ciò non
136
fosse successo, la legislatura iniziata nel 1992 e non - si badi bene cento anni addietro, si sarebbe forse aperta con Forlani alla
presidenza e Craxi al governo!
Caduta la possibilità di tenere in piedi la vecchia maggioranza, si
cerca a quel punto di mettere insieme uno schieramento di sinistra
che politicamente non c'era mai stato e che sventola come bandiere i
nomi della Iotti, di Vassalli, De Martino e poi Gallo e Conso. In
realtà non c'è più alcuna alleanza in grado di funzionare, sia essa
rappresentata dal vecchio quadripartito, dall'unità delle sinistre o
dallo stesso "metodo De Mita", che cerca inutilmente di riportare in
vita la logica della solidarietà nazionale.
Sia pure senza alcun risultato, i soci fondatori della prima repubblica utilizzano perciò ben quindici scrutini, per mettere in
campo tutto ciò che avrebbe potuto aiutarli a mantenere - o anche ad
acquistare - il controllo di un processo che nessuno riesce ormai a
governare. Anche il bizzarro ballottaggio che sino alla fine vedrà
contrapposte due alte cariche dello stato come Spadolini e Scalfaro,
non serve per arrivare a una soluzione. Per convincere i grandi
elettori a un accordo, ci vorrà invece lo shock imposto al paese dalla
uccisione del giudice Falcone.
Pur essendo stata la sua
designazione del tutto casuale, sarà perciò Scalfaro a farsi carico di
assicurare quel difficile passaggio istituzionale, che poi prenderà
corpo con il governo Amato.
Il nuovo esecutivo nasce peraltro con una evidente anomalia.
Per forza di cose, il governo Amato si colloca infatti all'incrocio di
due diverse maggioranze3: quella che si è affermata nella elezione
di Scalfaro alla presidenza e quella del quadripartito che in
parlamento ha ancora i numeri, ma non i principi politici per
governare. Condizionato da tante parti, questo esecutivo in realtà
nasce soprattutto solo: nessuno lo aveva in mente e nessuno in
effetti lo ha scelto. E' stato imposto semmai dalla logica delle cose,
dalla debolezza del "vecchio" quadripartito e, forse, anche dal caso.
Per il governo tutto ciò si trasformerà dunque in un peso enorme,
ma anche in una grande opportunità. La stabilità rende infatti le
scelte più facili, ma riduce il ventaglio delle possibili routines
operative; le crisi, invece, lo riaprono, imponendo a loro volta nuovi
vincoli. Programmi e obiettivi che sino a quel momento non erano
137
mai riusciti a passare attraverso le formule, potranno perciò
insinuarsi - purché il governo sia disposto a rischiare - attraverso il
reale processo di formazione dell'indirizzo politico, in una inevitabile miscela del "vecchio" con il "nuovo".
Chi propone delle innovazioni,
infatti deve non solo
fronteggiare quegli interessi che con il tempo si sono consolidati e
magari anche istituzionalizzati nella forma di diritti. C'è anche il
peso, difficilmente valutabile, delle resistenze che accompagnano il
senso comune e delle stesse aspettative a cui in tanti si sono ormai
abituati. Un governo il quale, anziché ripetere le solite litanie sul
"momento difficile", dichiari ad esempio che "lo stato non può dare
tutto a tutti", inevitabilmente diventerà un interlocutore scomodo
non solo per le forze che lo ostacolano, ma anche per quelle che lo
sostengono. Trasformando in un problema delle tendenze che
nessuno aveva sino a quel momento per davvero messo in
discussione, Amato contrasterà comportamenti, culture e valori
profondamente radicati all'interno del sistema, sollevando perciò - e
indipendentemente dalle questioni concrete - inevitabili sospetti.
Sulla scena politica si è infatti affacciato un nuovo attore, il
quale avanza delle pretese di comando prima di allora mai sentite. E
poco importa che in questo caso si tratti dell'esecutivo. Allorché
Amato proporrà una legge per la delega al governo di "poteri
straordinari" in situazioni di emergenza economica, tra le tante
proteste ci sarà anche quella di chi dirà : "in tal modo il governo
pensa di poter restare in carica per tre anni". In effetti, lo sappiamo
bene, questa eventualità è sempre stata molto rara nel nostro sistema
politico. Il problema sarà però politico e non cronologico. Anche se
la richiesta di "poteri straordinari" non avrà alcun seguito, qualcosa
comunque è cambiato, perché per la prima volta qualcuno farà
capire chiaramente che le istituzioni debbono venire anteposte ai
partiti: stanno lì per governare e non solo per farsi benvolere.
Una sfida del genere renderà naturalmente più difficile la vita del
governo. Le aspettative e i diritti si sono infatti sviluppati
inavvertitamente. Per modificarli bisogna stabilire invece dei nuovi
principi, trovare le parole giuste, l'idea capace di modificare una
realtà ormai stabilizzata4. Spesso non basta nemmeno esporsi in
prima persona, scommettendo il proprio futuro sulla bontà della
138
soluzione che si propone. Bisognerà minacciare, costringere coloro
che intendono utilizzare la situazione per scopi completamente
diversi, a svilupparla invece nella direzione voluta, facendosi
interpreti di un malessere che è latente e che deve venir portato alla
luce per riuscire a diventare politicamente efficace.
E' ciò che è successo con il governo Amato. Nato "piccolo
piccolo" da una maggioranza parlamentare esigua e anche da una
decisione personalissima di Craxi che - indicando il 'delfino' impone per l'ultima volta una sua scelta, questo esecutivo non
avrebbe avuto di certo avuto alcun futuro se nel frattempo non fosse
improvvisamente maturata un'opportunità decisionale, da nessuna
forza politica peraltro anticipata o anche soltanto richiesta. Messo
con le spalle al muro da una delle peggiori crisi finanziarie del
dopoguerra, il governo sarà infatti costretto a scegliere se continuare
con le piccole cattiverie di sempre fatte di una tantum, di ticket e di
provvedimenti tampone; oppure imboccare decisamente un'altra
strada. Nonostante l'ostilità crescente del sistema politico, Amato
sceglie questa seconda soluzione e il welfare state "all'italiana"
verrà perciò individuato come il principale aspetto del sistema sul
quale è necessario intervenire.
Sin dai suoi primi mesi la vita del governo si era incrociata del
resto con una crisi economica e finanziaria di particolare gravità.
Forse perché non aveva molto da perdere; forse perché se avesse
passato la mano questa volta molti suoi componenti sarebbero
ritornati a casa, anziché ai rispettivi seggi parlamentari; o forse,
infine, perché circolava ormai un aria politica diversa, per una volta
l'esecutivo non si limiterà alle solite litanie e affronterà invece
decisamente la crisi. Sostenuto dai vertici sindacali e dal mondo
industriale più che dal parlamento, Amato avvia infatti una manovra
economica complessiva che ridisegnerà i nuovi confini dello stato
sociale.
In verità la scelta matura in due fasi (luglio e settembre 1992) e
comunque con ritardo rispetto alle urgenze della crisi, perché
all'interno della stessa maggioranza i partiti inizialmente frenano
qualunque decisione che possa mettere in discussione le basi sociali
dei rispettivi consensi elettorali. La svalutazione della lira
(settembre'92) ridà però slancio all'esecutivo, i cui provvedimenti
139
ricevono il plauso della comunità internazionale e entro la fine
dell'anno sono approvati anche dal parlamento. Naturalmente
l'intera manovra viene accompagnata da prevedibili polemiche, più
spesso pretestuose che non fondate. Il governo questa volta segue
però una strada diversa dalla solita. Rifiutandosi di minimizzare la
portata della crisi, conferma infatti che l'allarme è pienamente
giustificato dalla gravità della situazione economica e che le stesse
soluzioni approntate saranno altrettanto dolorose.
Presentando i provvedimenti del luglio '92, Amato utilizza infatti
per la prima volta quella che poi diverrà la metafora preferita,
attraverso la quale cercherà anche in seguito di rendere
comprensibile la gravità raggiunta dalla situazione economica. Per
permettere al paese che è "sull'orlo del precipizio" di fare "un passo
indietro", la manovra è sia necessaria, sia "difficile da digerire". Da
tempo non si sentiva un Presidente del Consiglio parlare così chiaro
e chiedere "scusa" agli italiani per la ridda di ipotesi, che
irresponsabilmente l'amministrazione aveva fatto come al solito
trapelare .
E' un linguaggio che l'opinione pubblica capisce, buona parte del
mondo del lavoro accetta e i massmedia sostengono. Permetterà al
governo di acquistare quel consenso che invece i partiti cercheranno
ben presto di lesinargli, preoccupati da tanta indipendenza di
giudizio e di iniziativa. E darà anche slancio a quella che con il
tempo diventerà la principale rivendicazione del governo : "esistere
per cambiare e non solo per campare".
Naturalmente questo diverso assetto istituzionale si rivelerà
possibile solo grazie alla debolezza della democrazia dei partiti.
Mancava infatti una vera maggioranza politica o, comunque, quella
che c'era risultava troppo ristretta. Per capire come questa debolezza
si sia però potuta rivelare fruttuosa ai fini del cambiamento, è forse
meglio guardare all'opinione pubblica e alle modalità con le quali
questa ha reagito, di fronte ai due diversi tipi di decisioni
controverse assunte dal governo Amato. Quella economica, che
arrestava l'allarme sociale scatenato dalla crisi finanziaria con una
azione tendente ad offrire nuove strutture di rassicurazione; e quella
legata a Tangentopoli, che invece introduceva degli elementi di
insicurezza, non importa per ora quanto fondati, legati
140
all'eventualità che venissero assicurate nuove forme di impunità alla
corruzione.
Cronologicamente questa ultima vicenda è maturata dopo che il
governo aveva avviato il risanamento dello stato sociale.
Politicamente però, e anche logicamente, entrambe le scelte hanno
ruotato intorno ad una stesso problema che è emerso con sempre
maggior chiarezza, quanto più il governo ha realizzato la propria
autonomia. E' impossibile governare a lungo utilizzando il sostegno
dell'opinione pubblica, se a quest'ultima prima o poi non si
trasforma in un indicatore di tipo istituzionale. Pur avendo avviato
per primo il cambiamento, Amato ha fatto perciò ben presto le spese
di questa dinamica, non appena ha dovuto affrontare la crisi aperta
da Tangentopoli. Ciampi ne ha ricavato invece tutti i possibili
vantaggi perché, dopo le consultazioni del 1993 che hanno aperto
la strada alle modifiche del sistema proporzionale, si è potuto
mettere alla guida di di un esecutivo privo di maggioranza politica e
sostenuto soprattutto dal consenso dell'opinione pubblica che,
significativamente, verrà appunto chiamato "il governo del
referendum" .
2.tangentopoli
Non è necessario entrare in un'analisi testuale dei decreti su
Tangentopoli annunciati e poi ritirati (marzo 1993) dal governo,
perché se nella vita politica i fatti non seguono necessariamente alle
parole, queste ultime hanno sempre - e comunque - la stessa
importanza dei fatti. Amato avvertiva come urgente un problema il
cui "ciclo di vita" era appena iniziato tra le forze politiche, mentre
risultava ancora del tutto immaturo all'interno dell'opinione
pubblica, che peraltro già cominciava a sentire i pesanti effetti della
manovra economica avviata a fine anno. "Essendo andati alla
ricerca di una soluzione equilibrata che non fosse condanna
indiscriminata e che non fosse colpo di spugna, abbiamo avuto la
sensazione - dirà perciò il capo del governo - di aver deluso quanti
aspettavano i colpi di spugna e di non aver dato, a chi voleva la
mattanza, sufficiente sangue per fare la corrida"5.
Alla base di questa diversa percezione del governo rispetto al
parlamento,c'era certamente una sensibilità ferita dalle continue
141
amputazioni che lo stesso esecutivo aveva dovuto subire, accettando
le ripetute dimissioni presentate da numerosi suoi autorevoli
componenti, raggiunti da un avviso di garanzia. Nel punto più
basso della sua parabola, il governo si ritroverà perciò di nuovo
solo, come già era in buona misura accaduto al momento della sua
nascita.
Prima ancora che politica, questa solitudine rinvia però ad una
diversa logica della responsabilità istituzionali. A giustificazione del
proprio operato l'esecutivo citerà infatti testualmente alcune
dichiarazioni rilasciate alla stampa da parte di autorevoli
rappresentanti delle opposizioni oltre che della magistratura: da
D'Alema a Petruccioli; dal direttore del Corriere della Sera ad
Alessandro Galante Garrone; dal giudice Viglietta a Palombarini o
Caponetto, c'era stato un coro di voci che, con diverse tonalità e
sfumature, comunque aveva ritenuto possibile la derubricazione
delle violazioni alla legge sul finanziamento pubblico in illeciti
soltanto amministrativi. Per permettere al governo di tenerne conto,
anche il Senato aveva approvato in seduta notturna solo pochi giorni
prima, un disegno di legge che trasformava l'illecito penale in un
reato amministrativo. Per dirla chiaramente: le opposizioni,
sapevano!
L'insieme di questi elementi avevano fatto dunque ritenere
opportuno il varo di un complesso di provvedimenti, che avrebbe
potuto offrire maggior organicità alla soluzione politica che si
andava prospettando.E'stato sufficiente però che tra l'opinone
pubblica si diffondesse il messaggio del "colpo di spugna", perché
tutte le disponibilità prima manifestate venissero meno. L'esecutivo
verrà subito accusato di aver voluto sottrarre ai giudici naturali le
indagini in corso e a nulla serviranno le ripetute precisazioni del
ministro Conso il quale chiarirà che, per il principio della
connessione, laddove vi era un rapporto tra l'illecito amministrativo
ed eventuali reati di ricettazione, concussione o corruzione, la
competenza su quei fatti, compresi quelli depenalizzati, sarebbe
rimasta al giudice penale.
Lo stesso presidente del Consiglio sarà in prima persona
accusato di aver voluto favorire Craxi sottraendolo alle possibili
sanzioni legate alla violazione del finanziamento pubblico ai partiti,
142
laddove quest'ultimo era invece imputato di ricettazione, di
concorso in corruzione e - dirà Amato - "credo anche di
concussione". Si ignorerà che, unitamente al decreto sul
finanziamento pubblico, erano stati presentati dal governo altri tre
disegni di legge riguardanti la corruzione, il giudizio abbreviato e
quello pretorile al cui interno, per i reati più gravi, veniva previsto
l'allontanamento perpetuo dalla vita politica.
Sarà tutto inutile. Terminata già da qualche mese la parte difficile del lavoro, quella che comportava scelte economiche
impopolari, maggioranza e opposizioni nei fatti - anche se non ancora in parlamento - si salderanno tra loro, schierandosi con un
intuito fulmineo al fianco dell'opinione pubblica, la prima con
l'obbiettivo di non perdere altri voti, le seconde con la certezza di
guadagnarli. La parola d'ordine che correrà di bocca in bocca sarà
"no alla soluzione spugna" e non importa se poi questa sia davvero
tale: l'immaginario collettivo ha ormai una forza che è superiore a
qualunque dimostrazione, perché da tempo è caduta la "fiducia" e i
mezzi di comunicazione indirizzeranno verso un solo obiettivo quel
poco che si muoverà sulle piazze, quel tanto che si dibatterà in
programmi televisivi del genere Rosso e Nero, Pegaso o Mixer e
quel molto che si sentenzierà attraverso la stampa. Seriamente
indebolito da questa vicenda, subito dopo il governo cercherà
nuovamente - anche se inutilmente - di allargare la maggioranza.
Nei fatti, inizierà però il "conto alla rovescia" e di lì ad alcune
settimane verranno presentate le dimissioni ufficiali .
Si consumerà in tal modo la storia del primo esecutivo repubblicano che è riuscito ad imporre al parlamento misure
economiche prima mai applicate, fintanto che ha mantenuto un
consenso popolare e perciò anche extraparlamentare. E che è dovuto
però soccombere davanti alle opposizioni e alla sua stessa
maggioranza, nel momento in cui il parlamento sentirà di avere alle
spalle il sostegno di un opinione pubblica che in nessun modo
voleva una "soluzione politica", peraltro difficile da capire e
comunque ben presto abbandonata anche da parte di coloro i quali
la avevano inizialmente sollecitata.
A documentazione della tragedia vissuta, resteranno soltanto le
amare riflessioni del Presidente del Consiglio il quale, respingendo
143
per l'ennesima volta ogni addebito, dichiarerà: "neppure il giusto, in
un sistema democratico, ha diritto all'estremismo e all'irrazionalità
della distruzione. La giustizia è diritto, la giustizia è regola, la
giustizia è distinzione. Onorevoli Senatori, non è dei regimi
democratici quel codice penale che alcuni di voi sembrano volere e
che è composto di un unico articolo che prevede la pena di morte
per qualunque reato e la pena del linciaggio per qualunque fatto. La
civiltà è costituita da un sistema sanzionatorio composto da
centinaia di regole...".
Per tutta risposta, allorché Amato prenderà la parola alla Camera
di lì a pochi giorni, dai banchi della Lega incominceranno a volare
manette, banconote e cordoni da forca, in omaggio ad una retorica
dell'immagine, il cui impatto le riprese televisive contribuiranno
involontariamente a moltiplicare. Anche ad essere estremamente
critici sul merito dei provvedimenti, ad esempio sul ruolo assegnato
ai prefetti nel decreto legge, la reazione sarà dunque molto forte.
Questo è sempre stato un sistema che ha vissuto di "non decisioni";
che ha obbligato decine di volte il governo a modificare i propri
decreti o addirittura a ritirarli; che ha pubblicamente assunto in più
occasioni impegni che poi sono stati modificati nei corridoi delle
commissioni parlamentari; che ha sistematicamente aggirato la
costituzione ogni volta che si configurava come un ostacolo agli
interessi delle forze politiche. Un escamotage diverso si sarebbe
dunque potuto pur sempre trovare. Evidentemente c'era dell'altro e
di cosa si trattasse diverrà molto più chiaro, allorché il parlamento
discuterà la fiducia al governo Ciampi.
I partiti assimilano le funzioni dell'esecutivo a quelle di un
autobus che li deve portare da un posto all'altro, mettendosi da parte
una volta giunti a destinazione. Amato era servito soprattutto per
fronteggiare la crisi finanziaria ed anche Ciampi dovrà adesso
limitarsi ad approvare la nuova legge elettorale. E' la versione
referendaria dei vecchi "governi balneari" che, in nome del nuovo,
deturpa ulteriormente il volto delle istituzioni, con la previsione di
esecutivi " a termine", i quali sono una autentica bestialità sotto il
profilo costituzionale e anche intimamente contraddittori sul piano
politico. Un governo può cadere in parlamento, può perdere la
fiducia della maggioranza che lo sostiene, ma non può essere
144
"programmaticamente" a termine, perché in tal caso viene meno alla
sua funzione essenziale. Eppure questo sono stati, in alcuni casi
esplicitamente, in altri tacitamente, alcuni degli esecutivi che si
sono succeduti durante buona parte della prima repubblica.
Chi la pensa diversamente, agisce anche in un altro modo.
Nonostante la sua debolezza, il governo Amato è stato il primo a
presentare le proprie dimissioni in parlamento, interrompendo in tal
modo una prassi consolidata, che portava ad aprire le crisi
discutendone all'interno delle segreterie dei partiti. Al di là di ogni
differenziazione tra tecnici o meno, le istituzioni vengono difese
soltanto da coloro che credono nella loro funzione.
Vi sono inoltre delle decisioni politiche per le quali non serve - o
quantomeno non basta - che vi sia un accordo. Perché risultino
efficaci ci vuole anche dell'altro. Le decisioni debbono ad esempio
dar vita a soluzioni che risultino credibili allorché i problemi
divengono maturi, evitando in tal modo sia il rischio di risultare
tardive, sia quello di poter essere troppo premature. Il vero
problema che ha ostacolato l'azione del governo Amato, in fondo,
era questo: per avere il necessario consenso, l'esecutivo ha dovuto
appoggiarsi alle forze sociali e all'opinione pubblica, ma per essere
tempestivo è stato costretto a negoziare almeno in parte il processo
decisionale con le istituzioni che c'erano, fossero queste costituite
dal parlamento, dal Capo dello Stato o da quelle forze politiche che
ancora detenevano significativi poteri di veto.
Poiché il governo riuscirà a liberarsi solo lentamente dal
controllo dei partiti, le decisioni maturate si riveleranno perciò almeno in parte - tardive, anche se pur sempre efficaci per
determinare un' inversione di rotta nel ruolo dello stato sociale. E'
quanto accaduto durante la manovra economica avviata nel 1992,
che comunque ha avuto il merito di modificare aspettative sino a
quel momento istituzionalizzate nella forma di diritti acquisiti,
anche se ormai incompatibili con la crisi del nostro stato sociale.
Allorché Amato cercherà invece di intervenire sulla questione
morale che stava distruggendo l'esecutivo, la decisione è risultata
invece prematura6 e il governo è entrato in rotta di collisione con
quella stessa opinione pubblica che pure lo aveva inizialmente
145
sostenuto, senza peraltro riuscire a mantenere almeno un consenso
di tipo parlamentare.
Da tempo era infatti all'opera un partito che non aveva simboli; il
cui retroterra sociale ricopriva, sia pure per motivi diversi, l'intero
territorio nazionale; e il cui reale collante era rappresentato dalla
più micidiale forma di "rivoluzione", che nessun sistema politico
sarebbe stato in grado di fronteggiare troppo a lungo: il risentimento
che da anni covava all'interno dell'opinione pubblica e che i partiti
puntualmente asseconderanno, amplificandone l'impatto attraverso i
massmedia.
Facendo del risentimento il principale combustibile del processo
di cambiamento, la Lega si metterà perciò a capo della protesta che
dal Nord si indirizzerà nei confronti del Sud, mentre il Pds
continuerà a raccogliere lo scontento delle forze sociali più deboli,
indirizzandolo contro il governo Amato, ritenuto soltanto
un'espressione del vecchio sistema dei partiti. Sarà la scelta
peggiore, tra quelle che le leadership politiche avrebbero mai potuto
favorire, per facilitare il passaggio dalla prima alla seconda
repubblica. Il risentimento è infatti un focolaio che va spento,
evitando accuratamente che il fuoco possa trasmettersi da un punto
alla altro del sistema. Non avendo un programma credibile in nome
del quale governare, tutti invece vi soffieranno sopra e non importa
se in tal modo si rischierà seriamente di far crollare non solo il
"Palazzo", ma anche la stessa cornice istituzionale di qualunque
futura forma di cittadinanza.
Bisognerebbe probabilmente interrogarsi più a fondo su questa
tendenza che si è andata affermando con sempre più forza sin
dall'inizio della XI Legislatura, trasferendo sul piano politico
dinamiche collettive che sono da tempo note a livello sociale.
Sappiamo bene che le folle possono diventare violente, oppure che
soggetti equilibrati sul piano individuale possono manifestare una
insospettata agressività verso l'esterno, allorché vogliono
riaffermare delle identità collettive. Se i
gruppi optano
generalmente per il rischio e contro la prudenza, le istituzioni
dovrebbero avere comunque un'altra logica. Da prerogativa
destinata ad emergere prevalentemente nelle manifestazioni di
massa, il "risky shift"7 e cioè lo spostamento delle opzioni a favore
146
del rischio maggiore, si è invece trasferito alla stessa logica del
sistema politico.
Essendo l'idea di scambiare un sacrificio presente con un
vantaggio futuro diventata un caput mortuum che nessuna forma di
auctoritas impersonale era ormai da tempo in grado di garantire, le
opposizioni hanno scelto di svolgere soprattutto delle funzioni
espressive contro qualcosa la cui ingiustizia tutti potevano vedere,
lasciando così perdere ogni azione in favore di un "bene pubblico"
che nessuno riusciva più ad identificare. E' in questo modo che il
risentimento è emigrato dal sistema sociale al cui intero lo stesso era
da tempo nato con buone ragioni, al sistema politico che avrebbe
dovuto provvedere a disattivarlo, invece che rafforzarlo.
Inteso al singolare, il risentimento è infatti una pulsione che, non
diversamente dalla paura, gli individui associano ad un pericolo
avvertito come ingiusto e in grado di minacciare seriamente la
incolumità di chi lo prova8. E' infatti ovvio e anche perfettamente
comprensibile che un disoccupato meridionale possa essere
esasperato, non diversamente da quei piccoli imprenditori
settentrionali che dall'attuale sistema fiscale rischiano di essere
stritolati. Inaccettabile è invece il fatto che, non volendo proporre
soluzioni "impopolari", ma soltanto raccogliere e amplificare tutti i
possibili problemi, il sistema politico abbia fatto emergere al
proprio interno divisioni destinate ad alimentarsi incessantemente,
in una spirale senza fine.
Nella lotta a Tangentopoli, le richieste di giustizia sociale si
sono perciò mescolate con la protesta fiscale e chi voleva un
cambiamento si è unito a chi spingeva per una rivoluzione. La cupa
previsione di Weber, che vedeva nello "sfruttamento della natura
sentimentale delle masse" un possibile esito della democrazia in
occidente, ha riacquistato in questo modo una sua inquietante
attualità. Unendo l'esagerazione propria di un cultura che è sempre
stata populista con la stimolazione diretta dei risentimenti
individuali, alcune leadership politiche naturalmente hanno
dimostrato di capire a volo gli umori dominanti. Ma fare proprie le
ragioni di tutti così da evitarne poi le possibili reazioni, non è però
qualcosa che non lasci un segno, soprattutto nel difficile momento
della transizione.
147
Per la ristrettezza della sua base parlamentare, Amato pagherà
perciò dei costi ai quali potrà invece sottrarsi il successivo
esecutivo, perché nel frattempo l'iniziale domanda di cambiamento
avrà ricevuto una sua sia pur provvisoria conferma, attraverso i
referendum (aprile 1993). Equivocando sulla natura del
'movimento', inizialmente le forze di sinistra -con il Pds in testaesulteranno in nome del 'mutamento'. Solo dopo qualche mese,
allorché saranno resi noti i risultati delle elezioni politiche (marzo
1994), diverrà però chiaro che quest'ultimo ha ormai dei nuovi e più
significativi protagonisti: per la prima volta, l'elettorato si orienterà
infatti in maniera del tutto diversa dal passato, decretando il
successo di Lega, Forza Italia e Alleanza Nazionale e cioè di quelle
sole forze politiche percepite come radicalmente 'nuove', che
sopravivveranno al giustizialismo con cui si concluderà la prima
repubblica.
3. Il governo del referendum
Come osservatore politico di solito chi vota vale meno del
militante perché le sue interpretazioni mancano di profondità e,
quando non risultano dettate dalla reazione del momento, generalmente si adagiano su vecchie abitudini. Per tradizione, del
resto, l'elettore è sempre stato più accomodante: durante un lungo
tratto della nostra storia repubblicana, e cioè perlomeno nei primi
quarantanni, ha dato fiducia a chi gli piaceva e ha invece ignorato
tutto ciò che lo disturbava, grazie ad una disattenzione selettiva che
gli ha sempre permesso di non rischiare troppo del suo. Chi votava
era insomma anche disposto a cambiare idea, ma non ne faceva una
questione di vita o di morte, come prova del resto l'impressionante
continuità nella forza dei diversi gruppi politici.
Anche per queste ragioni, la competizione elettorale non è mai
stata dunque una guerra di tutti contro tutti, ma piuttosto una serie di
battaglie che si sono combattute in larga misura in arene diverse,
perché destra e sinistra - perlomeno in passato - hanno stabilizzato
delle aree di competizione così nettamente separate tra di loro, da
potersi considerare dei veri e propri "compartimenti stagni". Sarà
tutto molto diverso non appena il moltiplicarsi degli stimoli culturali
e l'impatto dei mezzi di comunicazione di massa, metteranno però
148
l'elettore in condizione di uscire da quel "guscio"9, al cui interno
aveva così a lungo vissuto. Il referendum del 18 aprile 1993 sulla
legge elettorale per il Senato, si concluderà infatti con un plebiscito
di "sì", che andrà di almeno un 15 per cento oltre le stesse
aspettative dei suoi più ottimistici sostenitori.
Un mutamento di queste dimensioni si era in realtà verificato
solo nel 1948, allorché la Dc era stata premiata con una crescita di
consensi del 13 per cento circa. Pensando evidentemente a quella
vicenda, anche nel 1993 si parla perciò di un "voto di liberazione"
perché più dell'80 per cento degli italiani dimostra il proprio sostegno all'introduzione del sistema maggioritario e, in generale, al
progetto di cambiamento in corso nel paese. Naturalmente non tutti
assumono un atteggiamento così ottimistico e ci sarà anche qualche
voce più cauta. Dirà ad esempio Bobbio: "i risultati ... sono
significativi e positivi. Ma non certo tali da indurci a cantare
vittoria. Preferisco la prudenza...Il referendum non è un risultato,
ma solo un buon punto di partenza"10. Nell'euforia del momento,
pochi si rendono però conto che la situazione è diversa e che il
confronto dovrebbe esser fatto non con il 18 aprile del 1948, ma
semmai con il 2 giugno del 1946, allorché il paese scelse tra
Repubblica e monarchia. Le differenze tra i due quesiti referendari
intorno al quale viene chiamato a votare l'elettore, non bastano
infatti a nascondere ciò che invece è comune alle due vicende .
Nel 1946 De Gasperi aveva optato per il referendum, pur di
evitare un pronunciamento diretto delle forze politiche che avrebbe
creato delle divisioni innanzitutto all'interno della stessa Dc. De
Gasperi guardava infatti con preoccupazione al voto moderato e
temeva che una chiara presa di posizione sulla questione
istituzionale avrebbe ridotto l'influenza del suo partito. Per vincere
le resistenze interne alla forte corrente "repubblicana" che faceva
capo a Dossetti, gli alleati furono perciò riservatamente invitati a
chiedere "un plebiscito" sulla questione istituzionale. De Gasperi se
ne sarebbe servito - dirà l'ambasciatore americano Alexander Kirk
in un rapporto riservato del 7 gennaio '4611 - "per imporre una
soluzione nelle prossime riunioni del Consiglio" e rafforzare così la
posizione dei partiti moderati. Nonostante il carattere tipicamente
bipolare dello strumento referendario, lo stesso servì dunque alla
149
realizzazione di un "compromesso", facilitando in tal modo la saldatura tra l'Italia repubblicana che stava nascendo e quella monarchica
che godeva ancora di solidi consensi.
A distanza di quasi mezzo secolo, l'incapacità dimostrata dalla
democrazia dei partiti nel superare le rispettive divisioni, imporrà
nuovamente lo stesso tipo di soluzione: il rinvio al corpo elettorale.
Nel '46 questa scelta era stata tortuosamente fatta valere da De
Gasperi, pur di mantenere l'unità della nascente Democraiza
Cristiana. Come risultato, i due primi Presidenti della Repubblica, e
cioè De Nicola e Einaudi, furono "notoriamente due monarchici e
non due repubblicani"12. Nel 1993 il ricorso al referendum sarà a
sua volta accettato dai principali partiti, più o meno per le stesse
ragioni: bisognava mantenere una libertà operativa, anche a prezzo
di un nuovo compromesso. Segni vincerà del resto le elezioni, ma
sarà invece Ciampi - e cioè un tecnico e non un uomo politico - ad
assicurare la approvazione della nuova legge elettorale, superando
in tal modo le resistenze presenti nel sistema politico.
La Commissione che nell'immediato dopoguerra aveva scritto
l'intera carta costituzionale, era composta da settantacinque membri;
nel 1992 i trenta deputati e trenta senatori appositamente riuniti
nella "Bicamerale", non erano invece riusciti a varare una sola
riforma. Scoppieranno infatti polemiche di tutti i tipi: dai poteri
della commissione rispetto a quelli del parlamento, sino agli
ultimatum che di volta in volta si lanceranno i leader dei diversi
partiti, minacciando di abbandonare i lavori. Lo stesso Segni sentendosi legittimato a parlare a nome dei cittadini - non entrerà
nella logica della Bicamerale e tirerà dritto in difesa del sistema
uninominale, convinto che a proporlo ci penseranno gli elettori,
allorché saranno chiamati a votare. In un clima di confusione
ingovernabile e con i partiti che modificavano di volta in volta le
loro posizioni sull'onda di sollecitazioni occasionali, si arriverà così
alla scadenza del tempo utile per evitare i vari referendum, con il
parlamento che riuscirà ad approvare invece una nuova legge per il
voto nei comuni. La decisione in ordine ai problemi di ingegneria
istituzionale, verrà perciò nuovamente affidata alla volontà popolare. Si getteranno in tal modo le basi perché ad un primo
150
equivoco se ne aggiunga un secondo, questa volta legato alla
significatività dello strumento istituzionale scelto per decidere.
I partiti - è questo il primo equivoco - non intendono spogliarsi
affatto dei propri poteri e accettano la soluzione referendaria
soltanto perché si trovano in una situazione di stallo. Come era del
resto prevedibile, si riserveranno perciò il diritto di interpretarne il
risultato finale, limitandosi ad ossequi formali nei confronti della
tante volte richiamata "volontà popolare". Sulla stessa alternativa tra
"si" e "no" si scatena poi - e questo è il secondo equivoco - una
ulteriore polemica che attraverserà tutte le forze politiche
aumentando, se possibile, la già sin troppo estesa confusione.
In passato lo strumento referendario era infatti stato spesso
criticato per la semplificazione alla quale sottoponeva i "fini".
Nessuno però aveva mai messo in discussione il significato da
attribuire ai "mezzi": era un ovvia considerazione pensare che chi
votava a favore fosse d'accordo, mentre gli altri fossero contrari.
Nel 1993 però nessun forza politica oserà dichiararsi contro il
cambiamento, perché è del tutto evidente che questo significherebbe
andare incontro a sicura sconfitta. La discussione si sposterà invece
sull'importanza dei "mezzi" e sull'interpretazione da dare a questi
ultimi si apriranno nuove divisioni: alcuni sosterranno che il
cambiamento sarà assicurato più facilmente se vinceranno i "no",
altri insisteranno invece perché emerga una valanga di "si".
Il fronte referendario che era stato compatto in occasione del
voto sulla preferenza unica (1991), si spaccherà perciò duramente.
Chi non si fida del parlamento perché teme che questo possa
utilizzare il responso della volontà popolare per prolungare la
legislatura, vedrà dunque nel "no" il mezzo più adatto per assicurare
il cambiamento e in tal modo si troverà in compagnia di quei pochi
che apertamente lo osteggiano: la Rete e Rifondazione saranno
perciò d'accordo con Craxi, l'avversario di un tempo, insieme alla
componente "ingraiana" del Pds, in dissenso con le indicazioni di
Occhetto. A sua volta lo schieramento guidato da Segni, pur di non
indebolirsi, si lascerà invece aperte tutte le vie di uscita. Turno
unico oppure doppio turno, poco importa, purché sia maggioritario.
Oltre ai partiti minori, la Lega il Pds e la Dc, sia pure con toni e
151
intensità diverse, daranno perciò una indicazione unitaria per il "sì",
pur pensando a soluzioni tra loro ben diverse.
Tanto l'esistenza della domanda di cambiamento quanto quella di
alcuni suoi limiti significativi, troveranno del resto una loro
conferma allorché diverrà possibile una analisi meno emotiva dei
risultati del referendum. Non sono infatti solo i vari Orlando, Fini e
Garavini ad essere stati in quella occasione traditi dai rispettivi
elettorati, che non hanno rispettato l'indicazione del no. Anche la
Dc, il Pds e forse la stessa Lega hanno avuto i loro problemi13, come
peraltro risulterà dagli exit polls , i quali ormai permettono di
valutare in maniera abbastanza attendibile la fedeltà dell'elettore alle
indicazioni dei partiti. La scelta del Pds di votare "no" al
referendum abrogativo sulle partecipazioni statali, non verrà ad
esempio tenuta in nessun conto dal suo elettorato. Ancora più
sonora risulta poi la sconfitta che la Dc subirà nel caso del
referendum sulla droga: sia pur di misura infatti, anche questa
norma verrà abrogata nonostante le indicazioni di voto contrarie
date dalla Dc, dal Msi e dal Psdi.
Ciò che dunque si manifesta in quella occasione, non è soltanto
una improvvisa e generalizzata riconversione a favore del
maggioritario da parte di tutti gli italiani. C'é anche una ennesima
conferma dell'esistenza di una protesta contro i partiti, che negli
ultimi venti anni si è di volta in volta riversata dalla scheda bianca
all'appoggio del Pci di Berlinguer; dai radicali ai verdi ed, infine,
alle leghe. Inizialmente uniti nel sollecitare il "sì", i partiti del
cambiamento si divideranno dunque non appena si dovrà passare
alla attuazione delle indicazioni emerse dal referendum più importante, quello sulla riforma elettorale. E' una tendenza, questa, che
si manifesta con chiarezza già nel momento in cui il governo
avanzerà una interpretazione di quanto accaduto.
"Mai in passato - ha detto infatti Amato in parlamento - il voto
popolare era stato sollecitato e si era conseguentemente espresso su
un numero così significativo di quesiti di così profondo e incisivo
impatto istituzionale. L'indicazione è stata chiara. Si vuole cambiare
e si indica la strada del cambiamento che è certamente politico, ma
è innanzitutto istituzionale. E' un autentico cambiamento di regime,
che fa morire dopo settant'anni quel modello di partito-stato che fu
152
introdotto in Italia dal fascismo e che la repubblica aveva finito per
ereditare limitandosi a trasformare un singolare al plurale". Fine del
"partito-stato"? Con la significativa eccezione della Lega che per
una volta si troverà d'accordo, la reazione delle principali forze
politiche sarà violenta e nel transatlantico ci sarà anche qualche
"compagno di partito" che inveirà contro il Presidente del consiglio,
minacciando di "cacciarlo via a calci". L'ipotesi più benevola sarà
quella di chi sosterrà che, in tal modo, il Presidente del Consiglio
abbia voluto proporre la propria candidatura alla guida del "nuovo
corso", succedendo in tal modo a se stesso. Esce Amato ed entra
Amato, osserveranno perciò autorevoli commentatori.
Al di là dell'occasione da cui nasce la polemica, in realtà questi
primi dissensi indicano comunque l'esistenza di una profonda
divisione tra le forze del cambiamento. Il 18 aprile è infatti visto
come una rivoluzione "dolce" o "costituzionale", la quale si muove
per sua inarrestabile dinamica interna, in una direzione che ogni
forza politica non rinuncia però ad interpretare a suo modo. Grazie a
questo equivoco, Bossi potrà perciò restare insieme ad Occhetto e
Martinazzoli esser d'accordo con Segni, prima del referendum. Tutti
si dovranno però dividere subito dopo, non appena si incomincerà a
parlare di quale riforma e di quale governo per realizzarla.
Inutilmente il presidente della Corte Costituzionale aveva ad
esempio cercato di ridimensionare i vincoli imposti dai risultati
referendari:" il maggioritario secco - dirà Casavola - non è una
scelta obbligata neppure per il Senato. Il legislatore ha un solo
limite: il parlamento non può ripristinare la legge che è stata
abrogata... Tutto il resto è questione di interpretazione"14. Ma
appunto per queste ragioni chi vuole il maggioritario ad un turno,
non è poi d'accordo con chi invece sarà favorevole al doppio turno.
Così come chi vuole le elezioni al più presto, si opporrà all'idea di
un governo che non sia referendario e cioè impegnato a fare soltanto
la riforma, per poi portare il paese a votare con il nuovo sistema.
Tutto, o quasi, diventa insomma una questione di opinioni o,
meglio, di interessi.
Se ne accorgerà ben presto il Capo dello Stato allorché dovrà
prendere atto che, al di là delle sollenni dichiarazioni sulla
indipendenza delle istituzioni dai partiti ribadite in mille occasioni,
153
in realtà questi ultimi pretendono come sempre di scegliersi ognuno
il proprio candidato. Una dopo l'altra cadranno perciò diverse
designazioni che, a volte, faranno appena in tempo ad affacciarsi
prima di essere ritirate o dagli stessi interessati o da chi le ha
proposte: sarà così per Spadolini, Andreatta, Elia ed, infine, anche
per Prodi che si sentirà dire un "no" sia da Occhetto, sia da Segni a
conferma del fatto che nessuna forza politica è davvero disposta a
farsi indietro. Prendendone implicitamente atto, a quel punto il
Capo dello Stato deciderà perciò tutto da solo, affidando l'incarico a
Ciampi con una sola condizione: quella di procedere "nella lettera e
nello spirito dell'art. 92 della costituzione" e, dunque, senza
consultazioni formali con i partiti. Potenza della politica!
Imponendo regole e procedure della prima, sino ad allora peraltro
mai - ma proprio mai - rispettate, Scalfaro riuscirà in tal modo ad
assicurare la possibilità che anche la seconda repubblica abbia il suo
inizio.
Non è dato di ritrovare infatti un precedente, alle scelte effettuate
dal Capo dello Stato. Lo stesso governo Amato, che pure aveva
goduto di una autonomia sino a quel momento mai realizzata, aveva
dovuto negoziare la designazione dei ministri con i partiti della
maggioranza. Dall'inizio delle consultazioni al Quirinale sino alla
designazione di Ciampi, passeranno inoltre soltanto cinque giorni,
laddove nell'89 la designazione di De Mita ne richiederà - giusto per
avere un idea - ben centocinquantatre. Per le modalità con le quali
avviene e per gli stessi tempi in cui matura, la designazione di
Ciampi - che peraltro sarà anche il primo capo di governo non
parlamentare - è dunque, e questa volta per davvero, una scelta
istituzionale che Scalfaro anticiperà soltanto ai segretari della Dc e
del Psi e comunicherà invece ad Occhetto a cose ormai decise.
Il nuovo esecutivo nascerà perciò tra i sospetti della sinistra e
anche con l'opposizione aperta della Lega. Bossi teme infatti sia che
prenda corpo un accordo Dc-Pds, sia che il Pds tratti il proprio
appoggio in cambio di un esplicito sostegno a favore di un
maggioritario a doppio turno. Sia, infine, che la si tiri troppo per le
lunghe. Contrariato dal fatto che le sue indicazioni sul possibile
Presidente del Consiglio non siano state ascoltate dal Capo dello
Stato, il Pds sceglierà invece di non sbilanciarsi e rinvierà la propria
154
decisione all'ultimo momento, motivandola con la necessità di
dover prima ascoltare le dichiarazioni programmatiche. La
giustificazione addotta è risibile. La prudenza che la "quercia"
dimostra resta però comprensibile, perché il problema da risolvere
va oltre la designazione dei ministri e investe una questione più
generale: che convenienza avrebbe il Pds ad andare al governo
prima delle elezioni politiche, rischiando così di trovarsi a sua volta
sottoposto ad un tiro incrociato simile a quello messo in campo solo
pochi mesi prima - e anche con il suo sostegno - nei confronti del
governo Amato? Il problema, in altri termini, si rivelerà lo stesso:
perché riconoscere a Ciampi ciò che invece si è negato ad Amato?
In questo clima di sfiducia generalizzata, mentre il governo
costituito da Ciampi con una maggioranza allargata al Pds, ai Verdi
e ai Repubblicani viene convocato al Quirinale per il rituale
giuramento, prenderà corpo un ultimo e significativo ostacolo da
superare. La Dc ha chiesto e ottenuto che il ministero delle riforme
istituzionali venga assegnato ad Elia, mentre a Barbera è stato
affidata la delega per i rapporti con il parlamento. Una volta
informato e mentre Occhetto aspetta sempre di "vedere il
programma", il costituzionalista del Pds solleva però un problema
politico! Ma come: nasce il governo del "18 aprile" e le "riforme"
dovrebbero far capo ad un democristiano, sia pure dello spessore
culturale di Elia? Naturalmente la questione viene impostata nei
suoi termini generali e Barbera giustamente farà perciò presente che
la sua storia personale e il suo impegno referendario, giustificherebbero semmai un diverso incarico.
Il dissenso si ricomporrà comunque solo nella stessa mattina del
giuramento, attraverso una mediazione che manterrà Barbera ai
rapporti con il parlamento, pur assegnandogli il "concerto" con Elia
sulle riforme istituzionali. E' un compromesso faticoso che arriverà
all'ultimo momento, nel corso di un incontro tra gli interessati
davanti al Capo dello Stato, mentre gli altri ministri attendono
inutilmente per due ore di giurare o, quantomeno, di essere a loro
volta informati su ciò che sta accadendo. Ma il tentativo di costruire
una maggioranza parlamentare che in realtà non c'é, è comunque
destinato a cadere. Da giorni si avvertiva del resto un malcontento
che non prometteva niente di buono. Le difficoltà nate prima del
155
giuramento non sono, in fondo, che l'ultimo segnale di un disagio
più generale: dalla Lega al Pds, lo schieramento di chi cerca solo un
pretesto per passare la mano si allarga rapidamente, perché ogni
forza politica ha i suoi propri motivi per non sentirsi sicura. La crisi
era insomma nell'aria e, per una coincidenza che si rivela decisiva,
la stessa arriverà addirittura nel giro di poche ore.
Formalmente, il governo Ciampi si costituirà alle ore 11 del 29
aprile, con il giuramento davanti al Capo dello Stato. Nel pomeriggio dello stesso giorno il parlamento, dimostrando una
insensibilità e un autolesionismo quasi incomprensibili, negherà
però alla magistratura l'autorizzazione a procedere contro Craxi.
Naturalmente il governo non è direttamente responsabile di quanto
accaduto, ma ciò non servirà a salvarlo dalla bufera politica che il
voto della Camera solleva. E' la crisi. La sera stessa, i tre ministri
del Pds e il verde Rutelli presenteranno le proprie dimissioni,
mentre i repubblicani chiederanno elezioni immediate. Il primo
governo di tipo "nuovo", che era nato così velocemente, morirà
perciò - se possibile - anche più rapidamente perché il Pds coglierà
al volo l'occasione, per riacquistare quella autonomia politica alla
quale aveva tanto faticosamente rinunciato.
L'opposizione interna al Pds non manca infatti di farsi viva e
questa volta gli argomenti ai quali può ricorrere non sono ipotesi,
ma fatti. Si dirà che la maggioranza è assolutamente inaffidabile
non solo perché la composizione del governo vede i ministri del Pds
in posizioni tutto sommate secondarie ma anche perché - alla prova
del voto - la stessa non ha perso l'occasione di difendere quelli che
la magistratura considera i principali indiziati di Tangentopoli.
Occhetto non avrà dunque bisogno di molto tempo per tirare le
conclusioni. Purtroppo la mattina le agenzie avevano già anticipato i
contenuti dell'editoriale con il quale il segretario spiegava le ragioni
dell'ingresso del Pds nel governo. Ma in fondo anche questo non è
un vero problema. La sera stessa Occhetto lo sostituirà con un altro,
in cui si spiega perché "non esistano le condizioni" per dare il
sostegno a Ciampi. L'Unità lo pubblicherà con una titolazione che
rientra tra i classici della tradizione: "per fermare il nuovo spingono
all'avventura".
156
A guardar bene le cose, in realtà non è chiaro cosa sia successo
in parlamento e come si sia formata quella strana maggioranza che
ha salvato Craxi. Subito dopo il voto e a conferma della totale
mancanza di fiducia tra le forze politiche, si scateneranno infatti le
accuse e i maggiori sospetti ricadranno sulla Lega, sul Msi,
Rifondazione e la Rete. Le opposizioni avrebbero cioè
strumentalizzato il voto per tendere una imboscata all'esecutivo e
per accelerarne in tal modo la crisi. Le accuse partiranno comunque
da tutti contro tutti, così come le smentite. Naturalmente non è
facile appurare la verità perché il voto è stato segreto. L'ipotesi più
plausibile è che al "dubbio di coscienza" di alcuni deputati della
maggioranza, si sia aggiunto il voto delle opposizioni interessate a
far nascere un nuovo caso. Le conclusioni che Pds, Verdi e Pri
tireranno, comunque non cambiano. Dc e Psi sono i responsabili di
ciò che accaduto. Verrà confermata inoltre anche la preoccupazione
di fondo che aveva animato gran parte delle opposizioni sin dal
momento del voto: il parlamento è inaffidabile e la sola strada
possibile per garantire i risultati del referendum sarà quella di
andare al più presto alle elezioni generali. Le opposizioni le
chiederanno a gran voce e questa volta saranno tutte d'accordo.
La pensa invece diversamente il Capo dello Stato, che non
intende cambiare programma. La strada del cambiamento a questo
punto però si restringe e diventa quasi un sentiero che un solo
uomo, una sola istituzione, si ostina a voler lasciare aperta. Alla
fine, Scalfaro riuscirà a far accettare le sue ragioni. "Il governo scriverà il Capo dello stato rivolgendosi al Presidente del Consiglio
- è invitato a mettere al centro della sua iniziativa la riforma
elettorale e quella dell'immunità parlamentare, oltre che difendere la
lira e tutelare il risparmio". Il "no" alle elezioni anticipate si legherà
dunque in modo indissolubile con un programma dell'esecutivo che
- a questo punto - assumerà però un carattere eminentemente
referendario.
La prima parte del ragionamento - il "no" allo scioglimento immediato delle Camere - non era nuova; la seconda - il "governo del
referendum" - invece lo sarà. Bossi lo capirà a volo e perciò si
riavvicinerà altrettanto rapidamente all'esecutivo. "Sai come
abbiamo deciso Maroni e io l'astensione al governo Ciampi, dirà
157
Bossi con grande franchezza durante una intervista? Mentre
scendevamo in ascensore dallo studio dove ci aveva ricevuti. In
quale altro partito sarebbe possibile una rapidità simile?"15 Le
ragioni di tanta fretta però si comprendono.
Allorché si presenta in parlamento, Ciampi dovrà infatti dichiarare apertamente: "voglio una fiducia che prescinda dalla
contabilità numerica di voti dati o di voti negati. Intendo una fiducia
morale". E' naturale. Prima la maggioranza era infatti riuscita ad
ottenere, o quasi, l'appoggio del Pds. Ora invece il governo dovrà
far affidamento soprattutto sui partiti dell'astensione. Occhetto
offrirà una "fiducia morale"; la Lega una "astensione meritoria"; i
Verdi una "astensione costruttiva" e così via sino ai Repubblicani.
In tal modo, Lega e Pds potranno sia controllarsi a vicenda, sia
tenere il governo sotto pressione. Non essendo politicamente
autosufficiente, il quadripartito accetterà a sua volta il sostegno
delle forze referendarie e tutti riusciranno in tal modo a salvare
almeno la faccia, realizzando grazie al governo Ciampi una vera e
propria quadratura del cerchio.
La Lega guarderà infatti a vista il Capo dello Stato, per impedire
che tra la "cavagna di lumache" democristiana e alcuni "travestiti"
come Segni od Occhetto, si ricrei un asse in nome del doppio turno.
Scalfaro a sua volta inviterà Ciampi a difendere innanzitutto
l'indicazione referendaria. Ed il governo, per finire, darà al
parlamento tempo sino all'estate per approvare quella legge
elettorale che -dirà Ciampi - "rappresenta la finalità preminiente e
prioritaria del suo esistere". Per trovare le istituzioni che assicurino
il cambiamento, è stato costruito un bell'incastro! Iniziata con il
referendum popolare, alla fine la "rivoluzione" si svilupperà nel
modo più impensato e cioè attraverso la creazione di una doppia
maggioranza: una per la approvazione della riforma elettorale e
l'altra per tenere in piedi il governo in attesa che il nodo della
riforma elettorale comunque si sciolga, in un modo o nell'altro. E'
solo in tal modo che il 'movimento' riuscirà ad imporsi nei confronti
dell'intero sistema politico. Perché meravigliarsi allora se il vero
benificiario di tutti questi equivoci risulterà alla fine il nuovo "polo
delle libertà" intorno al quale si raccoglieranno la Lega, Forza Italia
e Alleanza Nazionale e non i principali protagonisti dellle
158
consultazioni referendarie e cioè la sinistra oppure il centro guidato
da Segni ?
Il maggioritario avrebbe infatti assicurato il massimo di
antagonismo solo se il sistema dei partiti si fosse rivelato capace di
esprimere al suo interno non più di due o tre varianti sulle principali
questioni in discussione. E' per questa ragione, del resto, che il
passaggio delle consegne a Downing Street o anche alla Casa
Bianca avviene poi in poche ore e senza particolari drammi. Chi ha
perso sa infatti che il nuovo vincitore potrà magari modificare gli
arredi della casa comune, ma non penserà neanche lontanamente a
distruggerne le fondamenta. Durante il governo Ciampi l'unico
punto di consenso che unirà tutto lo schieramento referendario, sarà
invece quello di porre termine alla legislatura. Così come durante la
campagna elettorale che precederà le elezioni del marzo 1994,
risulterà sin troppo chiaro che le distanze interne ai nuovi poli, non
saranno inferiori a quelle esistenti tra i poli stessi.
La bipolarizzazione del sistema dei partiti avrebbe presupposto
insomma la depolarizzazione delle sue componenti, ma la politica
del risentimento ha operato invece in senso contrario. Dove non
arriverà il Pds, ci sarà Rifondazione pronta a raccogliere la bandiera
dello scontento; e dove non arriverà la Lega, ci saranno a loro volta
Forza Italia o Alleanza Nazionale che raccoglieranno in termini di
'mutamento' i semi del 'movimento' avviati a partire dal '91, con la
abrogazione della preferenza unica.
Equivoci della democrazia referendaria. Avrebbe dovuto favorire
una evoluzione del sistema politico verso la creazione di due
aggregazioni internamente omogenee
e invece è accaduto
esattamente il contrario. Si pensava che sarebbe come di incanto
scomparso il centro e invece questo è alla fine rinato con alcune
caratteristiche nuove, ma anche secondo logiche vecchie. Dopo
tanto parlare di restituzione del potere di scelta agli elettori, ancora
una volta il governo sarà inoltre costituito solo grazie ad alleanze
che si consolideranno soprattutto dopo e non prima del voto. Ed è
chiaro, infine, che la nuova legislatura dovrà riaffrontare gli stessi
problemi i quali hanno accompagnato la chiusura della precedente.
Bisognerà modificare la legge elettorale e, soprattutto, bisognerà
ricostruire delle istituzioni in grado di assumere quelle stesse
159
decisioni, la cui difficoltà di attuazione si è rivelata come uno dei
principali limiti della prima repubblica.
4. problemi di rendimento
Il cambiamento nato nell'XI legislatura ha avuto origini diverse,
ma di certo almeno un obiettivo era comune alle diverse forze che
lo hanno proposto. Tutti pensavano infatti di "eleggere un
governo"16 o, quantomeno, di poter andare finalmente al governo,
sulla spinta di un forte successo elettorale. Che a beneficiare di
questa prospettiva siano poi state forze in parte diverse da quelle
che lo hanno promosso, in questa sede poco importa. Importante è
invece prendere atto del fatto che i problemi del rendimento
istituzionale17 non dipendono soltanto dalle modalità in cui una
maggioranza si forma, così come le buone leggi non nascono solo
perché alcuni "attori" si dimostrano più lungimiranti degli altri. Per
la realizzazione di queste finalità, non meno significative si rivelano
infatti l'esistenza o meno di regole o procedure accettate nei diversi
iter decisionali; la prevedibilità dei poteri ai quali l'esecutivo può
ricorrere per ottenere che le sue decisioni siano approvate e non
soltanto annunciate; o, anche, lo stesso adeguamento del potere
legislativo agli obiettivi generali del processo decisionale di volta in
volta messo in discussione.
Parodassalmente, tutto ciò è diventato peraltro evidente proprio
nel corso della XI legislatura perché, mentre tutte le forze politiche
si laceravano in nome della alternanza o della governabilità, le
vicende dei governi Amato e Ciampi dimostravano invece le
difficoltà reali nelle quali ancora oggi si impigliano i problemi del
rendimento istituzionale, allorché divengono non più rinviabili
decisioni economiche o sociali con un impatto politico più o meno
profondo. E sono difficoltà, queste che adesso esamineremo, le
quali non si risolvono intervenendo tanto sulla logica della
rappresentanza, quanto sulla istituzionalizzazione dei diversi poteri
che concorrono alla formazione della decisione.
Il ricorso allo strumento del decreto-legge si è ad esempio
trasformato da manifestazione di una prepotenza dell'esecutivo,
160
come in passato è stato generalmente considerato, in un indicatore
della sua impotenza18. Se infatti è possibile che un governo emani
mediamente un decreto-legge a settimana, nessun parlamento è
però in grado di assicurarne la conversione con un corrispondente
andamento temporale. Tutto ciò naturalmente non sta ad indicare
che i governi abbiano complessivamente preso meno decisioni o che
queste siano state -in ogni caso- meno significative. Al contrario.
Grazie all'azione dei due governi, è stata infatti avviata una
riorganizzazione nelle politiche dello stato sociale e nella sua
organizzazione amministrativa che non ha avuto precedenti nelle
scelte promosse dai passati esecutivi negli ultimi decenni.
E tuttavia il ricorso alla decretazione di urgenza ha rivelato dei
limiti crescenti, perché il suo esito prescinde ormai dalla ampiezza
delle possibili maggioranze e anche dal carattere "istituzionale" o
meno dei governi. Lo si vede bene, del resto, mettendo a confronto
con i precedenti esecutivi il governo Ciampi, che pure - tra
maggioranza ed astensioni - ha avuto un consenso parlamentare
inferiore solo a quello registrato dai governi di unità nazionale 19
(Graf.1).
Grafico 1: Composizione percentuale delle iniziative legislative del Governo,
per tipo di iniziativa e per governi
80
70
70,7
68,1
59,7
Governi Andreotti
VI e VII
60
40,3
50
40
31,9
29,3
Governo Ciampi
30
20
10
0
disegni di legge
161
Governo Amato
decreti-legge
Si è accentuato dunque uno slittamento nella composizione della
iniziativa governativa a favore della decretazione di urgenza anche
perché, per ragioni politiche, nei fatti le opposizioni hanno concesso
a Ciampi ciò che invece avevano nei mesi precedenti negato ad
Amato. Ma la maggior tolleranza dimostrata del parlamento nei
confronti di Ciampi si rivelerà ugualmente inutile, perché alla fine
la percentuale di conversione della abnorme decretazione di urgenza
avviata, risulterà addirittura inferiore a quella del governo Amato
(Graf.2).
162
Grafico 2: Media mensile della decretazione d'urgenza, per esito e per
governi e incidenza percentuale della conversione sui decreti-legge emanati
20,7
25
20
15,3
15
6,9
10
4,5
4,5
2,3
5
0
Governi Andreotti VI e VII Governo Amato
% di conversione
26,9%
29,4%
33,3%
decreti-legge presentati
Governo Ciampi
decreti-legge convertiti
E' ovvio che, in questa situazione, la reiterazione dei decreti
legge decaduti divenga una scelta che non presenta altre alternative.
Il vortice avviato ha assunto però un carattere sempre più infernale
perché, tra una legislatura e l'altra, la reiterazione si è quasi
triplicata: in passato questa era già di circa 3,5 decreti mensili, ma
nella XI legislatura ha toccato addirittura la punta di 9,8 decreti
reiterati ogni mese, per compensare la difficoltà incontrate nel
procedimento di conversione da parte del parlamento (graf. 3).
Grafico 3: Media mensile della reiterazione di decreti-legge, per
legislatura
9,8
XI
3,5
X
0
163
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Eppure, è in questo scenario a rendimento istituzionale
decrescente che hanno preso forma e sono giunte a conclusione
politiche di riforma dello stato sociale, le quali hanno rappresentato
una inversione di tendenza rispetto al passato. Come ha potuto
affermarsi dunque una decisionalità su i singoli provvedimenti di
grande significato, pur risultando la stessa smentita dalle tendenze
generali che emergono in questa sia pur sommaria analisi del
rendimento istituzionale? Per capirne le ragioni, bisognerà guardare
ad un altro tipo di processo decisionale, che in realtà matura
soltanto in determinato periodo della attività parlamentare: quello
dedicato alla sessione di bilancio.
A differenza di quanto accadeva in passato, nel corso della XI
legislatura la traversata parlamentare delle manovre avviate dai
governi non è stata infatti l'occasione di sostanziali snaturamenti
delle misure in discussione e, soprattutto, dei loro effetti
economico-finanziari. Nella sessione di bilancio per il 1993 l'esame
parlamentare ha ridotto ad esempio dell'1,4% il saldo netto da
finanziare 20 derivante dalle misure governative, migliorando così il
risultato decrementale già ottenuto nell'anno precedente. Nell'anno
successivo, inoltre, l'esame parlamentare non ha determinato
sostanziali modifiche del saldo netto.
Si è consolidato in tal modo un cambiamento di ciclo, che ha
riguardato uno degli aspetti fondamentali del rendimento
istituzionale. In virtù della combinazione di fattori diversi
riconducibili alle modifiche dei regolamenti parlamentari approvati
nel 1988, alla ridotta capacità di influenza dei partiti e al contesto
economico italiano ed internazionale, i governi sono stati in grado
di controllare l'impatto esercitato dall'arena parlamentare sul
processo decisionale di bilancio. E tutto ciò ha favorito l'emergenza
di una razionalità di tipo lineare. La priorità assegnata al problema
del disavanzo e l'esistenza di attori istituzionali interessati ad
affrontarlo, ha messo capo infatti alla formulazione di soluzioni che
sono state comunque approvate, nonostante il forte carattere
redistributivo che le ha caratterizzate. Soluzioni innovative disponibili anche in precedenza, ma che non avevano potuto imboccare la
via dell'agenda istituzionale o si erano perse nei suoi labirinti sono,
in tal modo, diventate per la prima volta oggetto di decisioni.
164
Per ottenere risultati di tale portata, si è ricorsi però a strumenti
regolamentari che tutte le forze politiche hanno accettato,
assicurando al processo decisionale una valenza che ha potuto
prescindere dalla logica dei diversi interessi coinvolti. In
particolare, in sede di Giunta per il regolamento della Camera, si
stabilirà di estendere "in via di interpretazione e in attesa di una più
organica regolamentazione", le garanzie procedimentali poste a
difesa della decisione di bilancio, applicandole anche ai provvedimenti che il governo dichiarerà "collegati" alla manovra21. Amato
collegherà perciò alla decisione di bilancio sia "i meccanismi
ordinamentali e finanziari" di quattro comparti fondamentali dello
stato sociale (sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza locale),
sia il "decretone" di settembre (n.342/92) e non diversamente farà
Ciampi. La ammissibilità degli emendamenti presentati in sede di
discussione, verrà così subordinata alla specifica finalità di questo
processo decisionale, diretto a garantire una riduzione del disavanzo
pubblico.
L'assunzione di nuovi accorgimenti procedimentali, non è però
bastata a ridurre la fragilità delle decisioni assunte, perché gli
interessi sociali colpiti si sono comunque riorganizzati, oppure
perché è cambiato l'orientamento dell'esecutivo. E' quanto è
successo ad esempio nel caso della minimum tax, perché ciò che
Amato aveva imposto ai lavoratori autonomi sull'onda della crsi
finanziaria, è stato poi modificato da Ciampi, questa volta sull'onda
delle proteste avanzate dai lavoratori autonomi. Ma è anche ciò che
- più in generale - si può prefigurare succeda, ogni volta che la
decisione di bilancio venga utilizzata per avviare riforme dello stato
sociale, le quali dovrebbero essere invece assunte in altre sede e con
altre modalità di discussione.
Ad essere evidenziata anche nel corso dell'ultima legislatura, è
dunque una esigenza che appare ormai più di fondo: la sessione di
bilancio non potrà restare a lungo il principale "mezzo" attraverso il
quale si introducono delle riforme, solo perché queste ancora non
trovano altre opportunità decisionali che ne assicurino sia l'avvio,
sia una loro prevedibile conclusione. I deficit presenti nella attuale
regolazione della iniziativa legislativa ordinaria e della stessa
decretazione di urgenza22, indicano infatti una carenza che
165
l'introduzione del sistema maggioritario non potrà di per sé
compensare. E' andata del resto in questo modo anche in passato,
ogni volta che è maturato un reale processo di cambiamento
politico. Non sono stati proprio i regolamenti parlamentari del '71
ad anticipare la stagione dei governi di unità nazionale, cosi come
non è stato il superamento di questi ultimi ad accompagnare quella
"svolta" sul piano dei rapporti istituzionali, che poi è maturata negli
anni '80?
Ancora una volta ci ritroviamo dunque di fronte a due diverse
logiche della decisione, il cui impatto risulta inevitabilmente
differenziato in termini di rendimento istituzionale. Vi è infatti una
logica che, prescindendo dalla sua concreta qualificazione
giuridico-parlamentare, potrebbe esser definita ordinaria in senso
tecnico e che investe sia i poteri di iniziativa legislativa del
parlamento, sia quelli del governo. E' una logica la quale "tiene"
solo allorché si manifesta una coincidenza casuale, perché
puramente temporale, tra problemi che sono in discussione da anni,
soluzioni che sono note da tempo e decisori che hanno l'interesse, il
tempo e a volte anche il coraggio di cogliere una opportunità
offerta dai procedimenti parlamentari, nel momento in cui questa si
presenta. Naturalmente se salta l'occasione, viene meno anche la
possibilità della decisione e restano invece sul tappeto i problemi in
attesa di una soluzione.
Vi sono poi altri tipi di iniziative legislative i quali risultano in
parte "motorizzati", perché il loro iter è sottoposto a vincoli
temporali e procedurali più rigidi. Si configura in questo caso una
altra logica decisionale, basata sulla "appropriatezza" di alcune
regole le quali stabiliscono una relazione causale tra il "mezzo" e il
"fine", ossia tra la discussione sul repertorio di soluzioni possibili e
la decisione in cui queste ultime debbono comunque tradursi,
peraltro in tempi assolutamente certi.
Che le istituzioni ricorrano a procedimenti operativi diversi, non
rappresenta naturalmente un "pericolo" per il loro possibile
rendimento. Il problema nasce piuttosto allorché la fragilità di un
iter favorisce la sistematica opzione a favore dell'altro, perché
quest'ultimo assicura degli esiti che il primo non sarebbe invece in
grado di garantire. In questi casi il divario nel rendimento dei
166
diversi percorsi decisionali inevitabilmente si accresce. Inoltre,
anche la moneta buona si inflaziona, perché alla stessa vengono
ricondotte delle aspettative che non sempre possono venire
confermate. Ed è stato proprio questo il costo inevitabile che, in termini di rendimento, le istituzioni hanno dovuto comunque pagare,
pur di avviare nella XI legislatura delle politiche di rientro dal
deficit pubblico.
Diventata da tempo una policy di tutte le policies, la manovra
annuale è stata infatti decrementale anziché incrementale come
invece era accaduto in passato. La sua latitudine è rimasta però
praticamente infinita, oltre che sovraordinata rispetto ai possibili
criteri di riorganizzazione dello stato sociale, con almeno una
conseguenza che merita di essere segnalata. L'efficacia o meno delle
diverse politiche, non è mai riconducibile in maniera lineare ad
indicatori che sono prevalentemente di ordine finanziario. Né basta
assumere questi ultimi come un vincolo da rispettare, per uscire in
ogni caso dal tunnel del deficit di bilancio. Avviate in questo modo,
le riforme possono infatti dar vita anche ad effetti controintuitivi ora
perché prive di una loro organicità interna, ora perché la
tempestività con cui vengono assunte le decisioni non si
accompagna con una loro stabilità nel tempo. E' ciò che del resto è
accaduto in settori a largo impatto come quello fiscale o quello della
sanità, la cui regolazione ormai da anni procede secondo logiche
che non riescono ancora a stabilizzarsi.
Naturalmente, anche prescindendo dai profondi limiti che ne
hanno accompagnato la nascita, il nuovo sistema maggioritario non
potrà risolvere da solo questo tipo di problemi. Per come si è
sviluppato, il cambiamento ha imposto del resto la tematica del
rendimento istituzionale su un piano ben diverso, quello
determinato dai criteri di formazione della rappresentanza politica.
Identiche resteranno perciò, almeno inizialmente, le modalità con
cui il sistema politico riuscirà a garantire l'effettività dei diversi
processi decisionali. Allorché si configurerà per la prima volta la
possibilità di un esecutivo forte, diverrà chiaro inoltre che le vecchie
regole non potranno più essere utilizzate per governare, anche se le
nuove dovranno invece ancora essere stabilite. Il cambiamento,
insomma, dovrà per forza di cose continuare.
167
1
N. Bobbio, La rivoluzione tra movimento e mutamento, in Teoria Politica, nn. 23, 1989, p. 9
2
E' interessante sottolineare come appaia ormai diffusa l'esigenza di ridefinire il
significato di espressioni che sempre più frequentemente vengono utilizzate nel
linguaggio quotidiano, perché nel frattempo le stesse sono diventate lo specchio
metaforico di turbamenti collettivi i quali non trovano altre modalità per
esprimersi. Per questa via A. Placanica ha recentemente proposto una originale
Storia dell'inquietudine, Donzelli, Roma, 1993, che ricostruisce il senso
moderno di espressioni millenarie come quelle di "odissea", "catastrofe" ed
"apocalisse". Con un taglio più generale è invece il lavoro di F. Rigotti, Il potere
e le sue metafore, Feltrinelli, Milano 1992, soprattutto il cap. 7
3
G.Baget Bozzo, Amato il giurista e Craxi il Re La Repubblica, 10 marzo 1993
4
N. Luhmann, Sociologia del dirirtto, cit., p. 85-90
5
I principali discorsi ufficiali pronunciati dal Presidente del consiglio sono oggi
raccolti in Vita Italiana, n. 1-2-3/1993
6
per una analisi più dettagliata della esperienza di governo, rinviamo a M.
Fedele, Il governo Amato, Il Ponte, n. 1993
7
La dinamica del risky shift è ricostruita da S. Moscovici - W. Doise, Dissensi e
consensi. Una teoria generale delle decisioni collettive, ? Il Mulino, Bologna
1992, p. 147
8
Una analisi del ruolo del ruolo svolto dalla paura sul piano sociale e non
soltanto individuale è in J. Delumeau, La paura in Occidente ( Paris, 1978), SEI
Torino 1987, pp. 23-36
9
La metafora del "guscio" e la relativa analisi sono state sviluppate da G. Sani P. Segatti, Mutamento culturale e politica di massa, in La cultura dell'Italia
contemporanea, a cura di V. Cesareo, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino
1991, p. 150; sulla fase di passaggio dal sistema proporzionale al maggioritario,
R. Mannheimer - G. Sani ( a cura di), La rivoluzione elettorale, Anabasi, Milano
1994
10
Dichiarazione resa a La Stampa, 20 aprile 1993
11
A. Lepre, Storia della prima Republica, cit., p. 71
12
P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 176
13
Le prime interpretazioni in questa chiave sono in P. Corbetta - A. Parisi, Il
referendum del 18 aprile: le sfumature di un voto, Il Mulino, n. 3, 1993
14
F. P. Casavola, Intervista al Corriere della Sera (5 febbraio 1993)
15
G. Bocca, Metropolis. Milano nella tempesta italiana, cit., pp. 235-236
16
G. Pasquino, Come elleggere il governo, Anabasi, Milano 1992; sullo stesso
problema, in una prospettiva diversa, si veda anche A. Barbera, Una repubblica
da riformare, Editori Riuniti, Roma 1991, parte terza; ed il saggio su
Un'alternativa neoparlamentare al presdienzialismo, in Democrazia e Diritto,
n.2 1992
17
tra le analisi più recenti del problema, si vedano E. Ostrom, Governing the
Commons: the evolution of institution for collective action, Cambridge
168
University Press, Cambridge 1990; T. M. Moe, Political institutions: the
neglected side of the story, in Journal of law, Economics and organization, n.6
1990; una applicazione di questa problematica al caso italiano è in R. Putnam,
La tradizione civica , cit.
18
sulla insufficienza delle letture tradizionali della decretazione di urgenza, M.
Morisi, Parlamento e politiche pubbliche, Edizioni Lavoro, Roma 1988, pp.
257-264
19
I dati presentati sono stati raccolti da Polity, Osservatorio socioistituzionale del
Dipartimento di Sociologia, al cui rapporto (Bilancio della XI legislatura,
ciclostilato, Roma 1994) si rinvia, per una analisi più dettagliata.
20
Il saldo netto da finanziare è il risultato differenziale espresso dalla
contrapposizione delle entrate finali con le spese finali. Nel corso dell'esame
parlamentare viene approvato preventivamente. Tutti gli emendamenti vengono
in seguito considerati ammissibili solo a condizione che non determinino un
peggioramento del saldo. Le entrate finali rappresentano la sommatoria dei primi
tre titoli delle entrate di bilancio (entrate tributarie, extratributarie e per
alienazione di beni patrimoniali, ammortamenti e riscossione di crediti).
Rappresentano quindi le risorse acquisite (o da acquisire) al bilancio per il
raggiungimento dei fini istituzionali. Dal conto delle entrate finali sono escluse
le entrate derivanti dall'accensione di prestiti. Le spese finali, invece,
rappresentano la sommatoria delle spese correnti ed in conto capitale.
Costituiscono le somme necessarie all'amministrazione per perseguire i propri
scopi istituzionali. Comprendono i trasferimenti agli enti pubblici e gli
accantonamenti iscritti nei «fondi speciali» per la copertura di nuove
autorizzazioni legislative di spesa. Sono escluse dal conto delle spese finali le
operazioni di spesa per il rimborso di prestiti.
21
Senato della Repubblica, Servizio del Bilancio, La decisione di bilancio per il
triennio1993-1995, DB. n. 12, 1993, ciclostilato
22
A. Manzella, Il Parlamento, cit. pp. 272-273
169
cap. 6 da una repubblica all'altra
170
1.il cambio di guardia
Dopo essersi a lungo nascosto sotto le macerie di Tangentopoli,
il sistema politico italiano è tornato finalmente sulla scena, anche se
pochi potrebbero ormai riconoscerlo. Il cattolicesimo popolare e il
socialismo riformatore, due grandi tradizioni politiche che ne
avevano in passato influenzato la storia, sono ad esempio scomparsi
e nessuno, almeno per ora, sembrerebbe rimpiangerli. Pur avendo
un insediamento territoriale ben circoscritto la prima al Nord e la
seconda nel Sud del paese1, la Lega di Bossi e l'Alleanza di Fini
sono diventate due forze politiche di prima grandezza, con dei
poteri che raramente i partiti a base nazionale della prima
repubblica hanno potuto in passato esercitare. Il governo, infine, è
guidato dal leader di un movimento di opinione nato appena pochi
mesi prima delle elezioni politiche (1994) e che oggi cerca
faticosamente di acquistare anche la stabilità organizzativa di un
partito.
Superata la tempesta, la vita politica nazionale si presenta
dunque in una veste alleggerita e talmente semplificata, da sembrare
addirittura primitiva. Divisioni che per quasi cinquantanni erano
state alimentate in nome di radicate ideologie, oggi possono essere
infatti riassunte semplicemente, perché la novità è ormai questa: c'é
una destra e c'é una sinistra e dunque, almeno in teoria, ci sono
ormai le premesse per il passaggio del sistema politico italiano alla
tanto invocata democrazia maggioritaria.
Le modalità grazie alle quali si è giunti a questo risultato hanno
comunque sollevato molto riserve anche perché, subito dopo aver
approvato la nuova legge elettorale, più o meno tutti i diversi
gruppi politici prenderanno le distanze, non appena se ne presenterà
l'occasione. A vincere le elezioni non è stata inoltre la sinistra,
come le precedenti consultazioni amministrative avevano fatto
sperare, bensì la destra, organizzata da Forza Italia in due distinte
coalizioni. Al Nord e in Toscana questa si infatti è presentata con la
lega di Bossi, nel centro e nel resto del paese ha stretto invece un
accordo elettorale con Alleanza Nazionale, la nuova formazione
politica guidata da Fini e emersa sulle ceneri del Msi. Forza Italia
ha in tal modo reso maggioritario uno schieramento politico che
prima non esisteva.
171
Si capisce perché risultati del genere lascino perplessi. Per un
sistema che è stato così a lungo proporzionalista e per giunta
dominato da rappresentanze politiche organizzate nella forma
partito, il successo ottenuto da Forza Italia e dal suo leader non
riesce ad essere facilmente inquadrato, ricorrendo a tradizionali
moduli interpretativi. E infatti già si cercano dei significativi
precedenti, riproponendo un parallelismo tra la sfida di Berlusconi e
quella lanciata da Perot in qualità di outsider, nelle ultime
presidenziali americane2.
Più in generale, però, la spiegazione principale della sconfitta
che il party cartel ha registrato nelle politiche del 1994, ruota tutta
intorno al ruolo svolto in quest'occasione dai massmedia.
Rappresentando l'anello mancante tra il diffuso sentimento
antipartitico presente nell'opinione pubblica e le nuove elités
politiche, i massmedia si sarebbero
resi indipendenti dalla
tradizionale subordinazione ai partiti, costituendo per la prima volta
altri modelli di comunicazione, sui quali sarebbe poi nato il nuovo
media party di Forza Italia.
Naturalmente c'è del vero in questa interpretazione, perché mai
come in queste consultazioni l'opinone pubblica è stata sollecitata
attraverso dibattiti, sondaggi e tavole rotonde che, in un modo o
nell'altro, chiedevano comunque un cambiamento. Berlusconi è
inoltre ricorso ad una potente simbologia collettiva, mescolando in
maniera decisa lo sport con la politica3. E' così è nata Forza Italia, i
cui gruppi parlamentari sono stati dal suo leader chiamati "azzurri",
in un significativo omaggio ai colori della nazionale di calcio.
Cambiamenti di tale portata non possono essere però spiegati
riducendo l'intero processo ad un media event, perché nei caratteri
con cui si presenta la nuova maggioranza, in realtà è possibile
riconoscere anche gli esiti di tendenze da tempo operanti nel
sistema politico, che i massmedia non hanno di certo determinato
ma soltanto assecondato, offrendo loro una nuova e sia pur
provvisoria configurazione. Per quali ragioni si è infatti affermato
un governo di centro-destra in un paese che da decenni andava
invocando l'alternanza, cercandola però prevalentemente a sinistra?
E qui nasce il problema che un'analisi più approfondita dovrebbe
cercare di chiarire, rinunciando a consolanti spiegazioni sul media
172
power e interrogandosi invece sui limiti con cui la sinistra ha
assecondato il processo di cambiamento in corso, trasformando le
originarie aspettative di successo in una severa sconfitta politica.
Il "polo progressista" è arrivato in realtà all'appuntamento
elettorale, con una cultura e una organizzazione che erano ancora
quelle della prima repubblica, pur avendo nel frattempo messo in
campo tutto il possibile per favorire l'affermazione della nuova.
Convinto di poter essere il principale beneficiario del processo di
desertificazione istituzionale promosso con Tangentopoli, il Pds ha
ad esempio accentuato quell'elemento populista da sempre presente
al suo interno, sostenendo quasi di istinto le richieste del movimento
referendario sinché queste si sono rivelate utili ad accelerare la crisi
dei partiti di governo e allontanandosi invece da Segni, allorché
diverrà evidente la necessità di costruire un più stringente patto
politico4.
In nome di una svolta che era e resta ancora largamente
nominalistica, questo polo è diventato inoltre, e ben presto, il punto
di riferimento di tutte le principali ideologie che avevano alimentato
per lungo tempo la vita politica della prima repubblica. Vi
aderiranno i cristiano-sociali insieme ad alcuni socialdemocratici; i
socialisti e gli ecologisti; i postcomunisti e i veri comunisti ed,
infine, anche Alleanza democratica, la sola forza politica che a
sinistra cercherà di avviare un nuovo discorso politico, ben presto
indebolito dalla intempestiva uscita di Segni.
Comprensibilmente, l'esistenza di divisioni profonde si è rivelata
perciò chiara già nel momento in cui è iniziata la discussione per la
formazione delle candidature, perché il tavolo progressista ha
cominciato a barcollare sotto il peso e le richieste delle sue diverse
componenti, naturalmente avanzate tutte in nome della visibilità
politica. Convinto di poter in tal modo acquisire anche il
corrispondente consenso elettorale, dopo aver contribuito a
delegittimare l'intero ceto politico in nome del nuovo, il Pds
deciderà inoltre di traghettarne una parte verso le sponde della
seconda repubblica. Sul piano interno, infine, le liste faranno il
pieno di più o meno sconosciuti funzionari di partito5 laddove la
destra, sapientemente riunificata da Berlusconi, incomincerà a
sfornare candidature in apparenza nuove, selezionate con criteri
173
manageriali all'interno dei vari ceti professionali. Prenderà corpo in
tal modo il primo e decisivo limite, nella costruzione del polo
progressista.
Per tradizione e formazione il Pds è sempre stato profondamente
legato all'idea che i partiti continuino a rappresentare il principale
snodo organizzativo della vita politica democratica. Al fondo di
questa convinzione vi sono naturalmente fondate ragioni storiche e
anche ideali. I partiti sono nati infatti prima della "democrazia
repubblicana"6 e soprattutto ne sono stati per lungo tempo il
principale motore, garantendone un progressivo consolidamento
attraverso il riconoscimento di diritti sociali sempre più diffusi.
Sapere che un elettore oppure un uomo politico era favorevole o
meno alla democrazia dei partiti, a lungo ha significato dunque
poter prevedere anche le sue sue valutazioni su un ampio spettro di
problemi sociali, perché chi criticava i partiti inevitabilmente
trovava ascolto soprattutto nelle ali estreme dello schieramento
politico, mentre chi li sosteneva si trovava quasi invariabilmente all'
interno di esso.
L'idea che i partiti esprimessero non tanto una delle modalità di
organizzazione della vita politica nazionale, quantola vera garanzia
della sua democraticità, comincerà comunque a impallidire già
durante gli anni settanta. Nel decennio successivo, questa idea
perderà poi gran parte della sua capacità interpretativa, perché lo
spartiacque che aveva per tanto tempo diviso le diverse forze
politiche, non verrà più a coincidere con un orientamento generale a
favore o contro la democrazia dei partiti.
Il referendum del 1974 sul divorzio ha rappresentato il primo
segnale di questa radicale inversione di tendenza. Il disagio emerso
in seguito sia durante, sia a conclusione della primo governo di
"solidarietà nazionale", ne indicherà l'irreversibile logoramento.
Cominceranno a diffondersi perciò movimenti politici monotematici
che si affermeranno non grazie ai partiti, ma piuttosto in nome di
una iniziale opposizione ad essi. Sarà così per i diritti civili negli
anni settanta; per l'ambiente nel successivo decennio; oppure per i
temi del fisco e del federalismo, che oggi riassumono il nucleo
centrale della proposta politica avanzata dalla Lega. Infine, le cose
174
andranno in questo modo anche per Forza Italia, che all'ombra del
"buon governo" diverrà in pochi mesi il primo partito del paese.
Strutturatosi sin dalla sua nascita come un campo di battaglia in
cui si fronteggiavano armate divise e anche contrapposte ma pur
sempre compatte al loro interno, il sistema politico italiano si era
andato dunque trasformando già da tempo in qualcosa di ben
diverso, con una rappresentanza non solo sempre più frantumata ma
anche più instabile, perché alla continua ricerca di nuovi temi in
grado di rafforzare il processo di identificazione ormai incrinato tra
elettori e partiti. Da ciò il diffuso bisogno di un nuovo tipo di
leadership, così come la richiesta di un loro nuovo modello di
formazione: dopo Tangentopoli la democrazia dei partiti, che in
passato era stata sinonimo di impegno civile, verrà del resto indicata
nello stesso linguaggio scientifico con lo spregiativo termine di
"cleptocrazia"7, non diversamente dal professionismo politico, che a
sua volta sarà progressivamente assimilato al clientelismo e
all'opportunismo.
Di tutto ciò il polo progressista non potrà e comunque non vorrà
tenerne conto, anche perché costituito da un gruppo dirigente la cui
principale base di potere è sempre stata il controllo
dell'organizzazione. Berlusconi avrà perciò buon gioco nell'infilare
più volte il coltello nella piaga, parlando di se stesso e dei propri
collaboratori come di un gruppo con alle spalle esperienze di lavoro
e capacità operative, che si mette a "disposizione del paese". Il
paese a sua volta gli darà credito e il Pds risulterà alla fine vincitore
nel confronto con la Dc, l'avversario di un tempo, mentre dovrà
soccombere di fronte a Forza Italia, divenuta agli occhi della
opinione pubblica la principale espressione del nuovo.
Si potrà obiettare che neanche una scelta diversa sarebbe forse
bastata ad allontanare dai progressisti la sconfitta elettorale. E'
possibile. Ma in un processo di cambiamento giocato tutto
all'insegna della videopolitica anche i volti contano8 e la destra ha
dimostrato del resto di averlo ben capito. In nome di quale ragione
l'elettorato , dopo essere stato in tutti i modi sollecitato a
delegittimare il vecchio sistema politico, avrebbe peraltro dovuto
dare il proprio sostegno all'ultima organizzazione rimasta in piedi
tra le macerie della prima repubblica? Perché premiare inoltre una
175
alleanza che ha continuato ad avere il sapore antico della vecchia
unità tra le sinistre, al cui interno resteranno acquattate le nostalgie
per il comunismo, la dichiarata opposizione al maggioritario emersa
solo pochi mesi prima in occasione del referendum elettorale,
oppure un orgoglioso ceto di partito il cui principale problema sarà
quello di assicurarsi un posto in parlamento?
L'esito finale dell'intero processo di cambiamento, si è dunque
comprensibilmente rivelato coerente con le sue premesse iniziali.
Ridotta a una manciata di parlamentari la presenza dei Verdi, della
Rete, del Psi o del movimento di Alleanza democratica, ciò che
dopo le elezioni di marzo è rimasto del polo progressista è poco più
di ciò con cui lo stesso era partito nel 1948, allorché si chiamava
comunista, mentre oggi si divide tra il Pds e Rifondazione. Ci sarà
anche una coincidenza occasionale, ma tutto ciò rientra nella logica
del nuovo sistema elettorale o, quantomeno, in quella delle
aspettative nel cui nome tale sistema è stato introdotto. Si era andato
infatti ripetendo che il maggioritario avrebbe favorito la
valorizzazione dei candidati. Nel momento in cui gli apparati sono
tornati ad essere i veri padroni del polo progressista, l'elettorato si è
spostato perciò a destra, confermando in tal modo un orientamento
critico contro i partiti, peraltro noto da tempo.
Le difficoltà incontrate dalla sinistra nell'attrezzarsi a un
confronto di tipo maggioritario, si sono a loro volta saldate con
limiti di analisi che vengono da molto lontano, perché investono un
tema antico anche se pur sempre attuale e cioè: i caratteri della Dc e
le ragioni del suo decennale consenso. Indebolito dai precedenti
risultati elettorali, nella passata legislatura il Pds non ha avuto infatti
dubbi nel presentarsi come il partito della protesta, anche se questa
si è spesso intrecciata con quella ancora più violenta, avanzata da
Bossi nei confronti dell'intero sistema politico. Lo si è visto bene
nel caso del governo Amato, nei cui confronti le opposizioni si sono
rivelate durissime. Lo ha confermato poi la scelta maturata in tutta
fretta dal Pds, allorché quest'ultimo ha ostacolato l'iniziale tentativo
avviato da Ciampi, di allargare la maggioranza del nuovo esecutivo.
Moltiplicando l'impatto dell'azione avviata dalla magistratura, la
sinistra ha favorito in tal modo una completa delegittimazione del
vecchio "centro" e per due anni il paese è vissuto in attesa di una
176
metaforica "quinta armata" in viaggio da tempo e che da un
momento all'altro sarebbe entrata per liberare il paese. Forse perché
timoroso di esporsi nuovamente al rischio del consociativismo;
forse perché convinto di esserne comunque l'erede naturale, il Pds
ha delegittimato in tal modo il ruolo della Democrazia cristiana,
senza peraltro offrire alcuna prospettiva politica al suo elettorato.
Indebolito da queste premesse, Martinazzoli ha poi contribuito al
resto, sbagliando radicalmente la scelta sul tipo di sistema elettorale.
E il risultato si è visto. Persa la propria rappresentanza di sempre, il
voto democristiano si è spostato a destra con delle conseguenze in
termini parlamentari che il sistema maggioritario ha a sua volta
contribuito ad amplificare, in nome di una logica che era largamente
prevedibile.
Nel passaggio dal proporzionale al maggioritario, il "centro" può
essere infatti "smembrato"9 quando una delle sue metà vota a destra
e l'altra a sinistra, come peraltro successe ai liberali inglesi negli
anni trenta, allorché questi si divisero tra conservatori e laburisti.
Può essere "sbilanciato" allorché vota in blocco talora a destra e
talora sinistra, come sappiamo essersi verificato nel passaggio della
presidenza francese da una coalizione di centro destra ad una di
centrosinistra. E può essere infine "annientato" quando - per le più
varie ragioni - perde ogni capacità di proposta politica, esperienza
questa che si è verificata in Italia una prima volta in occasione delle
amministrative del giugno 1993 e si e ripetuta a maggior ragione
nelle elezioni politiche, organizzate sulla base del turno unico. Le
ragioni? Alcune sono già state indicate ed erano in larga misura
indipendenti dalla scelte della leadership democristiana. Altre sono
invece state determinate proprio da quest'ultima, in nome di una
valutazione che si è rivelata ben presto sbagliata.
Le tendenze centriste ci sono infatti sempre state all'interno
dell'elettorato e, probabilmente, sempre ci saranno. Il confronto con
la vicenda francese dimostra del resto come non basti l'introduzione
del maggioritario per determinarne una subitanea scomparsa. Per
arrivare alla attuale formato del sistema politico francese, è stato
infatti necessario un lungo processo di disgregazione prima e poi di
riaggregazione, che ha coinvolto tutte quelle forze politiche le quali
nella quarta repubblica occupavano il centro e nella quinta si sono
177
poi ricollocate ora in un'area di centro-destra, ora in quella di
centro-sinistra10. Superata definitivamente la proporzionale, niente
di meglio e niente di più del maggioritario a doppio turno avrebbe
potuto perciò garantire alla vecchio centro democristiano di
continuare a competere, naturalmente del tutto rinnovato, con i due
poli rappresentati dalla Lega e dal Pds. Non è così che sono però
andate le cose e le ragioni sono anche molto chiare.
Minacciata inizialmente alla sua destra soltanto dalla Lega, la
Dc ha infatti optato per il turno unico, convinta di poter fare in tal
modo il pieno elettorale, perlomeno nel Sud del paese. Per poter
sopravvivere il centro avrebbe dovuto però dimostrare di avere una
sua proposta politica in grado di esprimere almeno due valori: un
senso di adesione alle istituzioni superiore a quello degli altri due
poli;
e un potere di coalizione basato su nuove idee e nuovi
programmi. Ed invece il nuovo Partito popolare non si è rivelato in
grado di esprimere né l'uno né l'altro sia perché gran parte degli
alleati e alcune sue stesse componenti si sono trasferite armi e
bagagli nei due "poli", sia perché l'impatto esercitato da
Tangentopoli11 sulla opinone pubblica è riuscito ad azzerare
completamente la credibilità di quel rinnovamento timidamente
avviato da Martinazzoli. Unite nella orgogliosa rivendicazione delle
rispettive tradizioni, tanto il centro quanto la sinistra risulteranno
perciò alla fine vittime del cambiamento avviato. Il primo per averlo
subito, il secondo per averlo invece favorito ed entrambe per non
averlo governato.
La rappresentazione simbolicamente più significativa di
quest'ultima dinamica è riassunta del resto dalla parabola di Mario
Segni, l'uomo politico che in questi anni più era riuscito a
riunificare la destra e la sinistra, in nome del rinnovamento
istituzionale. Dopo aver vinto il referendum per l'introduzione del
maggioritario anche grazie all'appoggio di Occhetto e di Bossi,
Segni si è visto subito dopo chiudere da entrambi ogni possibilità di
alleanza ed è stato perciò paradossalmente costretto a ritornare allo
stesso punto da dove era partito, ossia al centro. Ormai convinti
dell''importanza di maggioranze chiare e alternative, gli elettori non
lo seguiranno però su questa strada e, paradossalmente, lo stesso
178
Segni riuscirà ad essere rieletto solo grazie al meccanismo previsto
dal tanto odiato recupero proporzionale del 25 per cento.
Capendo a volo che nel nuovo sistema elettorale le carte della
legittimità stavano ormai passando in mano alla destra oppure alla
sinistra, Berlusconi non perderà invece tempo. In nome del
"nuovo" tante volte invocato, chiamerà a raccolta l'elettorato di
centro sventolando quelle bandiere della libertà che il partito di
Martinazzoli non riesce più a rendere visibili, perché giudicato parte
costitutiva del vecchio sistema politico; rafforzerà la destra, nel
frattempo riunitasi in Alleanza nazionale; ed, infine, occuperà tutta
la scena politica, facendo propri gli argomenti che Fini non potrà
più utilizzare, per non mettere in discussione il processo di
rilegitttimazione ormai avviato.
Sia pure ricorrendo a un anticomunismo di maniera e perciò
sicuramente datato, Forza Italia in tal modo ha svolto una funzione
di cerniera tra il vecchio e il nuovo, chiudendo la diaspora aperta da
Tangentopoli all'interno di quello che un tempo era stato il centro
del sistema politico. Sul piano organizzativo, inoltre, i club si
riveleranno uno strumento sufficiente per rinnovare gran parte della
rappresentanza di destra perché, nel passaggio dalla Democrazia
cristiana al Partito popolare, da "camera di compensazione" come
era stata la prima in passato, quest'ultima si sarà nel frattempo
trasformata in una "camera di scoppio"12.
Si capisce a questo punto perché tra un leader di "plastica", come
Occhetto ha definito spregiativamente Berlusconi e il segretario del
Pds, l'elettorato abbia dimostrato di non avere dubbi e abbia scelto
il primo, premiando il nuovo rappresentato da un movimento e
punendo invece il vecchio raccolto intorno ad un partito. Forza
Italia è riuscita infatti ad esprimere un leader che, rischiando del
suo, si è messo a girare per il paese, naturalmente in ciò fortemente
agevolato dall'avere alla spalle una potente organizzazione
produttiva e un articolato impero multimediale. Ma concludere da
ciò che l'intero schieramento sia stato il risultato di un invenzione
dei media, vuol dire solo continuare a non voler prendere atto del
fatto che i processi di organizzazione del consenso politico sono
ormai profondamente cambiati. Nel sistema maggitario una alleanza
senza un leader o, peggio, con un leader di partito che rinvia a dopo
179
l'indicazione di chi dovrà guidare il governo, è infatti come una
macchina senza il motore. E naturalmente è vero anche il contrario.
La sinistra sarà vittima del primo equivoco. La destra, invece, si
accorgerà ben presto dei problemi che nascono, nel momento in cui
il suo leader non potrà fare affidamento sul sostegno e sui voti di
coloro nel cui nome e per conto ha chiesto di andare al governo.
2. coalizioni sulla sabbia
Dopo le elezioni politiche del 1994, puntualmente si è riaperta la
polemica sulla necessità di trasformare l'attuale sistema
maggioritario in un turno unico secco, abolendo i residui di
proporzionalismo previsti dalla legge elettorale; oppure,
favorendone una sua evoluzione in senso francese, con un doppio
turno non diverso da quello già previsto a livello amministrativo.
Considerate le caratteristiche del sistema politico italiano, delle due
alternative la seconda sarebbe sicuramente più adeguata e le ragioni
sono state ripetute ormai innumerevoli volte13. Attraverso il doppio
turno, i partiti potrebbero infatti in un primo momento valutare i
rispettivi consensi elettorali e in seguito dare invece vita alle
alleanze necessarie, per acquistare la maggioranza nei seggi in
ballottaggio.
Anche una scelta del genere probabilmente non si rivelerebbe
però risolutiva, se non fosse accompagnata da meccanismi
istituzionali capaci di vincolare i comportamenti parlamentari dei
diversi attori politici, tanto prima che dopo le elezioni. I patti hanno
infatti un senso, se chi li stringe è anche obbligato ad onorarli. Se
questo vincolo però non esiste, qualunque soluzione si rivelerà
necessariamente inadeguata a superare il problema nel cui nome è
stata individuata. E infatti la promessa di "eleggere un governo" non
è stata mantenuta, anche se la nuova legge elettorale era stata
approvata proprio a questo scopo14.
Le modalità attraverso le quali si sono costituite le diverse
alleanze prima del voto e le discussioni che poi sono seguite al
momento della formazione dei gruppi parlamentari, ci permettono
comunque di capire che cosa non abbia funzionato15. Sul piano
tecnico le coalizioni sono ovviamente presenti in ogni tipo di
formazione politica perché i partiti, i gruppi di interessi o gli stessi
180
movimenti sociali presuppongono pur sempre un accordo tra i
rispettivi componenti, in nome di un obiettivo comune la cui
importanza appare superiore a quella delle singole finalità
individuali.
Perché le coalizioni avessero potuto però operare in armonia con
la nuova logica maggioritaria prevista dalla legge elettorale, sarebbe
stato necessario avviare non soltanto degli accordi preelettorali i più
ampi possibili, ma anche una sorta di riorganizzazione interna, in
grado di assicurarne la tenuta16. Una coalizione di tipo
maggioritario presuppone infatti solidi blocchi politici, in grado di
contrastare le tendenze alla frammentazione dei processi
decisionali, che invece caratterizzano i sistemi proporzionali. E tutto
ciò a sua volta rimanda all'esistenza o meno di una leadership o, in
subordine, di una qualche modalità di integrazione politicoorganizzativa tra i diversi partner della coalizione.
Se il sistema semina però apertamente la concorrenza elettorale
all'interno delle coalizioni, prevedendo ad esempio la possibilità di
recuperare nella quota proporzionale ciò che eventualmente si è
perso nei colleggi uninominali, è impensabile ipotizzare una
collaborazione parlamentare e governativa seconda la logica tipica
dei sistemi maggioritari17. Non a caso dunque tutte le alleanze sono
inizialmente nate soltanto su un accordo puramente elettorale. Non
prevedendo inoltre la legge delle condizioni politiche qualificanti
per la loro formazione, queste non sono state obbligate a scegliere
né un leader, né un programma e nemmeno a presentarsi all'interno
di una sola coalizione.
Forza Italia ha potuto dunque indicare nel Sud un alleato diverso
da quello scelto nel Nord e, in tal modo, non ha messo in piedi
nemmeno un tavolo elettorale comune. Il "polo progressista" invece
ci è riuscito, ma solo al prezzo di tenerlo ben distinto da quello
programmatico, che sarebbe semmai venuto a elezioni concluse.
Divise sul piano strategico, le singole componenti presenti nei
diversi poli sono risultate perciò unite soltanto sul piano tattico,
perché tutti hanno scelto in ogni caso di massimizzare prima i
rispettivi consensi e di rinviare invece a un secondo momento la
definizione dei patti di governo18.
181
Come conseguenza di questa impostazione, il conflitto politico si
è perciò espresso durante la campagna elettorale con una violenza
imprevedibile tra le due principali coalizioni in competizione, che si
sono reciprocamente negate anche la più elementare forma di
legittimazione. Subito dopo le elezioni, le divisioni sono però
esplose anche all'interno dei poli, sia pure per ragioni diverse: a
destra si è aperta infatti una dura polemica sulla legittimità della
leadership di Berlusconi, mentre nella sinistra e nel centro è iniziata
invece la caccia al capro espiatorio, così da poter scaricare sul
partner di turno le responsabilità della sconfitta. Prive di una loro
struttura interna che ne assicurasse la coesione, tutte le alleanze si
sono perciò immediatamente incominciate a sciogliere, già il giorno
dopo che era stato comunicato il risultato elettorale.
Chi pure aveva un leader indiscusso come nel caso del centro
rappresentato da Segni, avendo perso, ha dovuto comunque
fronteggiare defezioni e tradimenti. La Malfa e Amato si sono
allontanati senza polemiche, mentre alcuni neoeletti come Michelini
e Tremonti, apertamente hanno contestato la linea politica seguita
da Segni, nei confronti del nuovo governo. Chi invece non aveva
scelto un leader appunto per evitare di dividersi, come nel caso della
sinistra, ha dovuto ugualmente accettare la formazione di una
pluralità di gruppi parlamentari, la cui esistenza oggi conferma
ulteriormente la strumentalità della ormai superata alleanza
elettorale.
E si è diviso infine anche chi,
pur avendo
potenzialmente sia un leader sia una maggioranza parlamentare,
avrebbe meglio degli altri potuto confermare la bontà della nuova
legge elettorale.
All'interno del polo delle libertà, Bossi ha infatti
immediatamente contestato la legittimità di Berlusconi come capo
del governo, cosi come Fini non ha perso un occasione per mettere
in discussione la affidabilità politica della Lega. Ed anche gli stessi
Cristiano-democratici di Mastella, Casini e D'Onofrio, dopo essere
stati eletti nelle liste di Forza Italia, non ci hanno pensato due volte
nel costituire un gruppo parlamentare autonomo, non diversamente
da ciò che del resto è successo anche nel polo progressista.
Cacciati a parole dal vento del cambiamento, partiti e partitini si
sono dunque puntualmente ripresentati, con una articolazione
182
politica non meno frammentata del passato, perché il processo di
formazione delle alleanze e delle coalizioni ha ben presto mostrato
la consistenza di un castello di sabbia. Anche nella nuova legislatura
i gruppi parlamentari sono del resto undici al Senato e otto alla
Camera e in entrambi i rami del parlamento c'è inoltre un gruppo
misto di rispettabili dimensioni, che al suo interno presenta ulteriori
divisioni politiche. Perché meravigliarsi allora se le chiavi della
governabilità non sono ancora nelle mani dell'elettorato, bensì in
quelle di chi potrà invece esercitare i più forti poteri di veto, in
nome di una logica di coalizione che si sperava invece di aver
superato una volta per tutte?
Forse paradossalmente, ma certo comprensibilmente, il
terremoto provocato dal maggioritario non si è esaurito infatti con le
elezioni politiche del 1994 perché queste, anziché rivelarsi come il
punto conclusivo di un processo, hanno segnato invece l'avvio di
uno nuovo. Il rispetto del principio maggioritario naturalmente
avrebbe voluto che la coalizione vincente fosse stata messa in
condizioni di poter governare. Ma intanto perlomeno al Senato
dove, tecnicamente, una maggioranza in effetti non era stata eletta,
non esistevano i numeri in senso stretto perché ciò avvenisse .
Inoltre, sin dal momento della elezione dei Presidenti dei due rami
del parlamento, ha preso corpo una discussione sulla opportunità o
meno di un compromesso di tipo istituzionale. Sventolando lo
spauracchio del consociativismo, la maggioranza respingerà questa
impostazione ed eleggerà alla presidenza di Camera e Senato due
propri candidati. Unito per ragioni elettorali, una volta giunto al
governo il "polo della libertà" si è accorto però della difficoltà di
concordare anche un programma di azione comune.
L'inesistenza di un'altra maggioranza ha reso infatti possibile
una alta conflittualità all'interno dell'esecutivo, che si è a sua volta
intrecciata con il ruolo svolto dalle forze di opposizione. Il Pds ha
guardato perciò con disponibilità al federalismo della Lega, a patto
che questa si dissociasse da Forza Italia. Ed anche il Partito
popolare, sia pure ridimensionato, ha lanciato segnali positivi al
governo, purché questo si rivelasse disponibile ad emarginare
Alleanza nazionale.
183
Naturalmente era stato largamente previsto che, non
diversamente da quanto era sempre accaduto in passato, il governo
sarebbe comunque nato in nome di una logica di coalizione, la quale
difficilmente sarebbe stata abbandonata. Ci si augurava però che,
dopo la stagione dei "governi istituzionali", il maggioritario avrebbe
almeno permesso il ritorno ad una normalizzazione dei poteri. E
invece sia la composizione della coalizione di maggioranza emersa
dal voto, sia le sue divisioni interne, non sono bastate ad impedire
che si avviasse una catena inesauribile, anche se comprensibile, di
garanzie aggiuntive.
Se infatti manca un accordo tra le forze politiche su come il
sistema dovrebbe funzionare, inevitabilmente il Presidente della
Repubblica diventa un "musicista a cui si chiede di suonare una
nuova musica senza spartito19". Le richieste non sono state perciò
avanzate soltanto dall'opposizione nei confronti del governo, ma
anche dagli alleati di maggioranza nei confronti di Berlusconi e
dallo stesso Capo dello stato nei confronti del Presidente del
consiglio, prima che gli venisse affidato l'incarico di formare il
nuovo esecutivo. Si è rafforzato in tal modo quel meccanismo
infernale, nel cui nome ogni attore politico ha chiesto - e a sua volta
ha offerto - impegni nei confronti di qualcun altro. E si è rafforzato
anche quel ruolo presidenziale, che il maggioritario avrebbe invece
dovuto depotenziare perché ancora una volta è stato il Capo dello
Stato ad assecondare - con le sue perentorie indicazioni, ma anche
con dei significativi silenzi - la nascita di un nuovo governo.
Anche Berlusconi infine, dopo aver messo in piedi un
discutibile sistema di controlli sul suo stesso operato, ha dovuto a
sua volta garantire sia la avvenuta conversione alla democrazia
dell'alleato più fidato e cioè di Fini, sia l'inesistenza di un pericolo
secessionista riconducibile all' alleato più inquieto e cioè a Bossi.
Ma non doveva essere l'elettorato a stabilire una volta per tutte
con il voto, chi avrebbe avuto o meno la legittimità di governare? E
non si era ripetuto sino alla noia durante Tangentopoli che la sola
garanzia legittima sarebbe stata sempre la legge? Parole al vento!
Nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, chi ha voluto
governare ha dovuto comunque cercare di rassicurare. Chi cerca
invece di controllare, continua a sua volta a chiedere oppure ad
184
offrire garanzie di tipo politico perché le leggi o le istituzioni, si sà,
da sole non potranno mai bastare.
3. un nuovo sistema politico?
Condannata per tanti anni ad interpretare ogni piccolo segnale
che maturava nei corridoi di Palazzo Chigi, l'attenzione
dell'opinione pubblica nella passata legislatura si è rivitalizzata.
Promettendo la democrazia dell'alternanza, la domanda di
cambiamento ha annullato infatti ogni ideale distanza tra Roma e
Londra e il modello Wenstiminster è sembrato a tutti più vicino.
Identificando gli ostacoli soltanto con gli uomini che gli
esprimevano, ci si è illusi che sarebbe bastato quasi allungare una
mano e le ultime resistenze sarebbero d'incanto cadute. E' stato un
lungo sogno collettivo al quale è però seguito un brusco risveglio.
Già all'indomani delle elezioni politiche, infatti, chi ha vinto si è
reso conto di non disporre delle nuove regole per governare. Chi ha
perso ha invece dovuto rinunciare a regole non scritte ma pur
sempre effettive, ormai superate. Si è rotto dunque l'incatesimo
legato al cambiamento inteso come processo globale, che un
referendum era riuscito a promuovere e il cui impatto partiti e
massmedia hanno contribuito pericolosamente ad amplificare.
Nessuno potrebbe naturalmente negare che molte cose siano nel
frattempo cambiate e, forse, anche con delle modalità che si
annunciano ormai irreversibili. Ma può tutto ciò bastare per parlare
di un nuovo sistema politico? A guardare ciò che è successo con
l'occhio fisso sul breve periodo, in realtà non c'é niente che appaia
realmente nuovo e tutto sembrerebbe indicare invece la ripetizione
di esperienze e routinés note da tempo. Non ci sono stati ad esempio
i tanto attesi duelli di tipo maggioritario, perché si è votato per le
alleanze e non per i candidati. Né si è ridotta la presa degli apparati,
perché il potere di presentazione delle liste è rimasto saldamente
nelle mani dei partiti. Di più: abolito il voto di preferenza, si è perlomeno in questa occasione- chiusa ogni strada per i potenziali
outsider.
Avviato nella precedente legislatura, il rinnovamento della classe
politica è naturalmente continuato. A entrare in parlamento non è
stata però la società sivile, quanto un personale di seconda fila, che
185
già orbitava nell'area della politica professionale a livello locale20. E
tutte le leadership, vecchie e nuove, si sono senza eccezione messe
al riparo da possibili sorprese, utilizzando la ruota di scorta offerta
dalla quota proporzionale. Già si prevedeva che la riforma elettorale
non avrebbe garantito una maggior stabilità delle coalizioni. Oggi si
può però anche dire che non si è ridotto il potere degli apparati,
perché sono stati comunque questi ultimi a guidare il processo di
ricambio della classe politica.
E' naturale dunque che almeno una parte del sistema cerchi
ancora, e in ogni occasione, di rientrare nel vecchio alveo del
proporzionale. La logica che infatti lo anima resta pur sempre quella
di "rappresentare" e non di "governare"21. E tuttavia il cuore
maggioritario che è stato introdotto al suo interno ha determinato
delle innovazioni che il tempo renderà ben presto irreversibili,
perché la filosofia avviata con il cambiamento ha reso superflue le
premesse sulle quali era nata in passato la prima repubblica. Ancora
non abbiamo dunque un nuovo sistema politico, ma di certo ci sono
tutte le premesse per questo possa ormai rapidamente maturare.
La prima repubblica presupponeva infatti un "compromesso" che
legava tutte le forze politiche antifasciste, ma gli eredi del Msi oggi
sono al governo. Era garantita nel suo sviluppo dalle due "chiese",
quella democristiana e quella comunista, ma il paese si è invece
felicemente diviso in una destra e una sinistra, dimostrando
l'esistenza di differenze sociali che non richiedono più di essere
espresse all'ombra dei veli virtuosi dei partiti. Aveva infine
istituzionalizzato tutti i diritti promessi sia pur ricorrendo al debito
pubblico e oggi la democrazia del deficit si è trasformata però in un
deficit della democrazia, che nessuna maggioranza politica potrà
permettersi di sottovalutare.
E' finita dunque l'eccezionalità del caso italiano, che lo rendeva
incomparabile con le altre democrazie occidentali. Le diversità sono
infatti diventate sfumature. Abbiamo una destra liberale che cerca di
controllare la destra populista, non diversamente da ciò che accade
in Francia e in Germania; così come c'é una sinistra la quale
vorrebbe andare ben "oltre"22 i recinti nei quali è stata sinora
rinchiusa, in ciò ostacolata da chi vorrebbe che restasse invece
sempre uguale a se stessa.
Bloccato dall'esistenza di un
186
"compromesso", due "chiese" e tanti "diritti"23, oggi l'intero sistema
politico può dunque muoversi più liberamente di quanto accadesse
in passato, ma non sappiamo ancora dove questa nuova opportunità
ci potrà portare perché, distrutto il vecchio, il vero cambiamento
deve ancora arrivare.
L'elettorato ha infatti dimostrato di non temere che Berlusconi
possa utilizzare il proprio potere economico per minacciare la
democrazia. Forza Italia è perciò la prima organizzazione politica
del paese. Il Nord non sembra credere che la Lega voglia
effettivamente dividere l'Italia e perciò ha confermato la propria
fiducia in Bossi. Né molti hanno veramente creduto che Fini potesse
far occupare il parlamento da un manipolo di neofascisti. Chi li ha
votati, insomma, di certo non li teme perché la tensione ideologica
che governava il comportamento dell'elettorato si è ormai
definitivamente allentata. E tuttavia il nuovo governo è nato con un
problema di legittimazione, che in passato era stato sollevato
soltanto nei confronti delle forze di opposizione24.
Per lungo tempo la sinistra è stata infatti fortemente
rappresentata sul piano elettorale, senza esser per questo legittimata
agli occhi della opinione pubblica nazionale e internazionale. Oggi
invece accade il contrario e tutto ciò sta però maturando in un
quadro istituzionale che non ha né regole per cambiare, né certezze
sulla direzione in cui il cambiamento dovrà maturare. Mutato il
vento, chi inizialmente ha acceso il fuoco teme infatti di potere a
sua volta bruciare, perché all'attuale bipolarismo manca quella
cultura politica che ne avrebbe dovuto rappresentare una premessa
essenziale: l'esistenza di un patrimonio di regole comuni, che in un
maggioritario maturo vincitori e vinti non potrebbero neanche
lontanamente sognarsi di contestare.
Caduta ogni legittimazione basata sulla rappresentatività, è
riemerso dunque l'incubo di una nuova e peggiore occupazione del
potere. Sentendosi minacciati nei rispettivi diritti, tutti negano agli
avversari quelle garanzie che invece invocano furiosamente per se
stessi.
Dall'autonomia della magistratura, alla libertà di
informazione; dalla unità del paese al ruolo dell'impresa; dalla
scuola alla sicurezza, non c'é insomma più un campo della vita
associativa che venga considerato esente dai pericoli dello
187
statalismo o da quelli del liberismo, a seconda della prospettiva
degli osservatori, dei casi e, qualche volta, anche del caso.
La solenne dichiarazione di morte che il maggioritario avrebbe
dovuto stendere su tutte le ideologie si sta perciò accompagnando
alla insolita capacità che esse dimostrano nel continuare ad
affascinare i vivi. Ma le paure, come pure le idee, non nascono dal
nulla. Chi ritiene che questo genere di esagerazioni sia solo
l'espressione di un pedaggio occasionale da pagare al cambiamento,
in realtà sottavaluta un dato: si può esagerare soltanto qualcosa che
comunque esiste, perlomeno in uno stato embrionale.E infatti la fine
del proporzionalismo ha realmente cancellato ogni traccia delle
vecchie regole, catapultando l'intera vita politica nazionale in una
dimensione di cui nessuno conosce ancora i confini, le opportunità
e anche i pericoli e che tuttavia bisognerà continuare ad esplorare.
La destra non ha del resto motivi per rivitalizzare un passato al
quale non ha partecipato e perciò vive il problema del cambiamento
come se lo stato fosse nato solo l'altro ieri. Non avendo più alcun
controllo sul presente, la sinistra gira invece intorno alla logica di
sempre, quella della rappresentanza, che prima o poi dovrà essere
comunque abbandonata. Nel frattempo entrambe le alleanze
reinterpretano ciò che ancora non è stato abrogato da qualche
referendum, alla luce di un processo che non risultava affatto
previsto. Chi preme per riformare la costituzione, si appiglia ad
esempio alla lettera dell'articolo 138, che ne prevede la possibilità
anche attraverso una maggioranza semplice, purché poi la decisione
venga sottoposta a un referendum popolare. Chi ne teme
l'eventualità, giustamente sottolinea invece come ciò non possa
avvenire, all'interno di un quadro istituzionale che ha assicurato la
maggioranza parlamentare a quella che resta invece ancora una
minoranza elettorale.
Nel momento in cui emerge un possibile governo forte, diviene
dunque chiaro che non esistono quelle regole che oggi sarebbero
invece più che mai necessarie, per limitarne il potere. Si sperava di
poter superare l' occupazione dello stato in cui il paese era vissuto in
passato e invece ci si accorge del rischio che questa possa
continuare e per giunta aggravata. C'era un sistema che garantiva
l'indipendenza della magistratura e oggi la maggioranza potrebbe
188
modificarlo, senza che si siano precedentemente stabiliti i confini
del suo intervento. Soprattutto, c'era e resta un problema
istituzionale che si riteneva di aver impostato attraverso la riforma
elettorale e che si ripresenta invece in tutta la sua ambiguità, perché
non è ancora chiaro come sarà sviluppato. E sono le modalità
attraverso le quali si arriverà a questa scelta, che defineranno i
caratteri effettivi del nuovo sistema politico.
Comunque lo si voglia valutare, il risultato emerso dalle elezioni
politiche del 1994 non ha premiato infatti i partiti che si
richiamavano alla continuità del governo parlamentare. E'
impensabile che i vincitori non si propongano perciò di modificare
l'assetto istituzionale, in sintonia con quel cambiamento al quale
anche esse si richiamano. Nel nome di un maggior decentramento o
di una riduzione del controllo dei partiti sullo stato, si sono del resto
rafforzate all'interno della opinione pubblica
aspettative di
governabilità non diverse da quelle che negli anni ottanta imposero
una prima svolta al sistema politico.
La Lega ha avuto perciò buon gioco nell'affermare il tema del
federalismo, che è diventato una delle questioni politiche centrali. A
sua volta Alleanza nazionale da tempo sostiene l'esigenza di un
rafforzamento dell'esecutivo in una prospettiva presidenziale ed
entrambe le tematiche si innestano tranquillamente in quelle
"retoriche"25 che l'introduzione del maggioritario ha negli ultimi
anni, sia pur confusamente, introdotto nel dibattito politico. Divisa
nelle sue varie componenti, la nuova maggioranza potrà perciò
restare unità non solo sui criteri con i quali si dovrà arrivare alle
decisioni finali in materia istituzionale, ma anche su alcuni
contenuti non secondari della decisione stessa.
Naturalmente le riforme che verranno dipendono anche da molti
altri fattori. Bisognerà vedere se la Lega accetterà di ridurre la
propria complessità politica, omologandosi nella logica di una
destra parlamentare. Alleanza nazionale dovrà far convivere lo
statalismo assistenzialista che ancora è presente nel suo elettorato
meridionale, con il secessionismo implicito nella versione
federalista avanzata da Miglio. Ed il Presidente del consiglio dovrà
a sua volta sciogliere l'alternativa tra moderatismo e radicalismo, al
cui interno è stata sin dall'inizio ingabbiata l'azione del governo.
189
Anche nel sistema maggioritario, perciò, prima o poi si dovrà
tornare a mediare.
Incompatibili nelle loro versioni più ideologiche, il federalismo
della Lega, il presidenzialismo di Alleanza nazionale e il "buon
governo" di Forza Italia manterranno comunque un significativo
punto di confluenza, nella prospettiva di un esecutivo forte e a
diretta legittimazione popolare, che vada oltre la mediazione
partitica e parlamentare. Resta solo da capire in che modo, ma la
risposta in questo caso è semplice, perché è già nella logica di ciò
che è successo in questi ultimi anni.
Le modalità non saranno infatti molto diverse da quelle sinora
adottate per avviare la "rivoluzione" italiana. Si ricorrerà
nuovamente alla democrazia referendaria, perché l'elettorato verrà
prima o poi chiamato a legittimare, con il suo giudizio finale,
decisioni politiche che già adesso si annunciano come controverse.
E il mutamento che alla fine risulterà realizzato, andrà in tal modo
ben oltre il movimento avviato da quelle forze politiche che così
incautamente lo hanno in inizialmente assecondato.
4. istituzioni al bivio
Per convinzione e forse anche per una sorta di autodifesa
"razionale", siamo portati a pensare che il cambiamento politico
abbia sempre una origine intenzionale. Le intenzioni però sono il
più delle volte "molteplici, non necessariamente congruenti e anche
ambigue"26. Se in alcuni casi queste provocano effettivamente un
cambiamento, in altri le stesse vengono a loro volta modellate e
assorbite dal processo che hanno avviato. Le istituzioni insomma
mutano, ma l'idea che queste possano esser trasformate secondo una
logica intenzionale, è ormai difficile da accettare. E lo è ancora di
più se si guarda al caso italiano, perché niente lasciava in passato
prevedere degli sviluppi così paradossali.
Le dimensioni assunte dalla crisi politica a partire dall'ormai
lontano 1992 confermano infatti che un cambiamento è ormai
maturato, sopratutto grazie alla "crescente" disaffezione dimostrata
dai cittadini. Ma perché "crescente", si chiederà giustamente
190
Salvati, alla ricerca di nessi "causali" in grado di spiegare quanto è
sinora accaduto? "Forse che i politici italiani non erano da lungo
tempo consociativi, ladri e arroganti e i servizi pubblici da lungo
tempo scadenti?" C'é stato forse negli anni ottanta un inasprimento
oggettivo, oppure soggettivo, oppure entrambe le cose, che possa
giustificare la avvenuta mobilitazione?27
In realtà la crisi dei poteri dello stato e la diffusione di una
insofferenza destinata a prendere il posto della rassegnazione, sono
due processi di carattere profondamento diverso. La prima ha infatti
un impatto sul sistema istituzionale, mentre la seconda si sviluppa in
un ambito che è specificamente culturale. Sinché le due dinamiche
però non si incrociano, rafforzandosi e autoalimentandosi a
vicenda, la domanda di cambiamento non prende forma o,
quantomeno, non assume una forma tale da determinare l'avvio di
un diverso processo.
Lo spettacolo a cui si è in alcuni casi assistito nella passata
legislatura, ogni volta che sono state negate le richieste di
autorizzazione a procedere nei confronti di un parlamentare
inquisito, era ad esempio la replica di un canovaccio in cartellone
perlomeno da quelche decennio. Rodotà ne ha giustamente ricordato
un precedente, che vale per tutti: la discussione che ebbe luogo alla
Camera il 10 luglio del 1981, allorché i segretari dei tre partiti di
maggioranza attaccarono frontalmente la magistratura perché aveva
arrestato - dirà Craxi in quella occasione - finanzieri come Roberto
Calvi, i quali rappresentavano in modo diretto o indiretto "gruppi
che contano quasi la metà del listino di borsa"28. Ma né questa né le
altre vicende che hanno anticipato lo scoppio di Tangentopoli, sono
da sole servite ad avviare il cambiamento.
Chi oggi guarda alla storia con un occhio rivolto alla attualità, ci
ricorda del resto come anche nella Francia dell' 89 tutti sapessero
"che la crisi fra i poteri gonfiata dal deficit dello stato era giunta ad
un punto di rottura". Nessuno si era però accorto della profondità
della ribellione della società civile e così è sempre successo.
Soltanto quando la "crisi istituzionale" si è intrecciata con la
"certezza che le cose stessero davvero per cambiare", tutto ciò che
sino a quel momento era stato accettato, si è rivelato
improvvisamente insopportabile29.
191
Prima ancora di esser giudicata, la "rivoluzione italiana" ha
dunque bisogno di essere meglio inquadrata, perché i processi che la
possono illuminare non hanno avuto un carattere intenzionale.
Nessuna forza politica porta inoltre interamente e da sola la
responsabilità del modo in cui la stessa è stata avviata, anche se in
molti si sono già pentiti di averla incoraggiata. Il cambiamento è
nato infatti allorché alcune cause potenziali come il dissesto fiscale,
la caduta del Muro di Berlino o la stessa crescita della Lega si sono
temporalmente, e dunque casualmente, intrecciate con delle
opportunità decisionali che il sistema rappresentativo ha offerto alla
volontà popolare. Pensiamo alla democrazia referendaria30, che
almeno dagli anni settanta ha rappresentato la modalità istituzionale,
grazie alla quale il sistema dei partiti per un verso è riuscito a
rallentare la propria crisi di legittimazione e per l'altro ne ha subito
però sempre più le conseguenze imprevedibili. Offrendo
all'opinione pubblica crescenti opportunità decisionali, ciò che alla
fine è risultato stravolto è stata infatti la stessa logica della
rappresentanza politica, perché il moltiplicarsi di iniziative
referendarie ha dato vita ad un "ennesimo centro decisionale
disarmonicamente distinto dagli altri e -più degli altri - incapace di
generare governo31" .
Il passaggio dai referendum di "stimolo" che erano stati tipici
degli anni settanta e quelli di "rottura" comparsi invece negli anni
'80, riassume bene le modalità attraverso le quali è maturata questa
trasformazione32. Se i primi si proponevano l'obiettivo di modificare
la disciplina legislativa di volta in volta in vigore, i secondi
punteranno invece ad esercitare una pressione sull'intero sistema
parlamentare, intrecciandosi con la stessa stabilità dei governi. Tra
una fase e all'altra, cambierà inoltre anche il significato che il
sistema dei partiti assegnerà alle richieste referendarie.
Lo scioglimento anticipato della legislatura maturò ad esempio
una prima volta perché la Dc, pur di rinviare la prova referendaria
sul divorzio (1972), ne accetterà una sua prematura conclusione. E
la stessa situazione si è ripetuta poi nel 1976, allorché si è cercato di
evitare lo scoglio che in quella occasione verrà rappresentato dal
referendum sull'aborto. Ma sarà soprattutto a partire dagli anni
ottanta che le iniziative referendarie determineranno tra i partiti un
192
conflitto che andrà ben oltre i temi in discussione, perché investirà
l'intero sistema politico. Dopo aver sottoscritto il famoso "patto
della staffetta" che prevedeva una alternanza al governo tra
socialisti e democristiani, nell'86 Craxi si rifiuterà infatti di
assumere qualunque impegno in ordine all'approvazione di nuove
leggi che avrebbero potuto evitare i referendum su giustizia e
nucleare. Temendone il possibile impatto,
la segreteria
democristiana si sentirà tradita dall'alleato di governo e preferirà
perciò affidare le proprie possibilità di rivincita alle elezioni
anticipate.
Le conseguenze di questo braccio di ferro si riveleranno
paradossali. Quando Fanfani si presenta in parlamento per farsi
bocciare e consentire in tal modo al capo dello stato di sciogliere le
camere, i partiti referendari, Psi in testa, gli voteranno la fiducia pur
di costringere il governo ad andare avanti. Si dovranno invece
astenere quelle forze politiche contrarie a un prolungamento di
legislatura. Per la prima volta infine, in quella occasione, il Pci
avvierà un suo giro informale di consultazioni per valutare
l'esistenza o meno di una maggioranza referendaria, diretta ad
assicurare soltanto la celebrazione del voto su giustizia e nucleare.
Non se ne farà niente, ma sarà comunque un significativo
segnale. Per le controspinte determinate dal sistema politico,
l'istituto referendario incomincerà da quel momento a configurarsi
sempre più come un elemento interno alla "forma di governo"33,
andando dunque ben oltre l'iniziale orizzonte abrogativo in cui era
nato. Giocare la democrazia referendaria contro quella della
rappresentanza, non è però qualcosa che non lasci un segno sul
tessuto istituzionale. Implicitamente si ammetterà infatti sia
l'esistenza di una crisi profonda dell'istituto parlamentare, sia la
possibilità di delegittimare quest'ultimo ulteriormente, attraverso
pronuciamenti di tipo popolare.
Ed e ciò che puntualmente si è verificato negli anni novanta, in
occasione del referendum sul sistema elettorale. Respinto una prima
volta perché privo dei necessari requisiti di chiarezza, univocità e
omogeneità, dopo essere stato riformulato il quesito referendario
supererà il giudizio della Corte Costituzionale anche perché nel
1993 il governo, a differenza di quanto era accaduto due anni
193
prima, non si farà rappresentare dall'Avvocatura di stato per
contestarne la ammissibilità34. Sovraccaricato con ulteriori e pesanti
significati simbolici, a quel punto il referendum si intrecerrà però
non solo con le strategie dei partiti dirette a modificare i rispettivi
rapporti di forza, ma anche con quello che sarebbe dovuto diventare
il futuro assetto dell'intero sistema politico. La rottura di leggittimità
di quest'ultimo, che non era riuscita negli anni settanta con le
iniziative "a raffica" dei radicali, si rivelerà dunque una realtà negli
anni novanta, grazie al successo del movimento di Segni.
Impadronitasi del cuore del sistema attraverso una pronuncia
sulle sue regole, la democrazia referendaria ne ha in questo modo
determinato la crisi perché il "potere costituente, il più importante e
il più sacro dei poteri di ogni democrazia", è stato trasformato in un
rito plebiscitario"35. Protagoniste di un ordine politico che "un
monosillabo" ha contribuito a spazzare via, prese singolamente le
diverse forze politiche non sono inoltre più in grado di prescindere
da pronunciamenti popolari, che ne rilancino la capacità di
iniziativa. E lo stesso può dirsi anche per le nuove coalizioni.
Presentandosi come capolista alle elezioni europee in tutte le
circoscrizioni, Berlusconi ha cercato ad esempio di rafforzare la
propria premiership, per compensare in tal modo il potere di veto
esercitato dagli alleati di governo nei confronti di Forza Italia. Ma
anche le opposizioni si sono avviate sulla stessa strada, perché solo
un pronuciamento popolare potrebbe oggi delegittimare un governo
maggioritario, che l'elettorato ha liberamente scelto. E infatti le
consultazioni per la formazione del governo erano appena iniziate
allorché, puntualmente, nelle piazze sono ricomparsi i tavoli di
raccolta delle firme per un referendum sulla abrogazione della
legge Mammì, che i promotori naturalmente hanno battezzato come
un referendum anti-Berlusconi.
Infine, è lo stesso dibattito sulle riforme istituzionali ancora da
fare, che verrà probabilmente indirizzato verso forme di
legittimazione popolare. Ne sono una prova le proposte del governo
che si propongono di rafforzare il premier attraverso una sua
elezione diretta. Lo confermano i ripetuti richiami alla necessità di
un referendum confermativo, per le eventuali modifiche di carattere
194
costituzionale. E, soprattutto, lo si capisce dagli orientamenti
prevalenti all'interno delle diverse forze politiche.
In nome di una "rivoluzione liberale e liberista", sono già
depositate ad esempio presso la Corte di cassazione le firme
raccolte in alcuni casi da Pannella e in altri da Bossi per tredici
nuovi referendum che, presumibilmente, dovrebbero tenersi nella
primavera del 1995. Si va dalla modifica delle attuali leggi
elettorali, alla abrogazione dei sostituti di imposta; dalla richesta di
privatizzare la Rai, alla abolizione delle misure che prevedono il
soggiorno cautelare; e così via, sino alla abrogazione della cassa
integrazione e di quelle stesse disposizioni che consentono ai datori
di lavoro, su delega firmata del dipendente, di trattenere dalla busta
paga le quote di iscrizione al sindacato. Trovato il grimaldello
politico, ci sono dunque pochi dubbi sul fatto che le ulteriori
modifiche istituzionali risulteranno in futuro possibili, "solo grazie
ad altre iniziative referendarie"36. Lo sostengono coloro che a
questo tipo di iniziativa si sono sempre affidati e lo accettano ormai
anche quelle forze politiche che, generalmente, la stessa iniziativa
hanno il più delle volte subito.
Sino a ieri proporzionali, oggi maggioritarie nel loro principio
costitutivo (il regime elettorale), le istituzioni politiche italiane si
inseriscono però nel solco di una democrazia rappresentativa che,
per rafforzarsi, avrà comunque bisogno di essere completata. Se il
governo risponde infatti solo alla sua maggioranza, lo stato
appartiene invece a tutti i cittadini. C'è dunque un problema di
articolazione dei rapporti tra i diversi poteri che non investe solo il
sistema della rappresentanza, ma le stesse modalità di formazione
delle decisioni politiche.
Nel crepuscolo della democrazia dei partiti, la necessità di ridare
vitalità alle istituzioni pubbliche si è del resto manifestata in diversi
modi. La scelta di affidare ai presidenti della camere il potere di
designazione del Garante per l'editoria, del'autorità Antitrust o dei
componenti del consiglio di amministrazione di un organismo come
la Rai, ha indicato ad esempio una esigenza che andava ben oltre i
casi per i quali questa ha sinora trovato le sue prime applicazioni.
Sottraendo al governo la responsabilità di queste nomine, si è inteso
infatti sottolinearne il carattere di garanzia, perché in una
195
democrazia moderna vi sono ruoli, compiti e funzioni la cui stabilità
deve necessariamente prescindere dalla mutevolezza delle
maggioranze del momento.
E' impensabile che la seconda repubblica iniziata all'insegna del
maggioritario, possa registrare un capovolgimento di tendenze che
si sono in passato affermate, anche all'interno di un sistema
proporzionale. Così come sarebbe impensabile un'opposizione che
pretendesse di partecipare al processo decisionale, secondo regole
non scritte ma comunque puntualmente seguite in un passato ancora
non troppo lontano. Come già era accaduto nel dopoguerra, le
istituzioni oggi sono dunque di fronte ad un bivio. Tra il 1945 e il
1948 le destre e le sinistre di allora si rivelarono capaci di unirsi, per
dar vita ad una democrazia mediata attraverso i partiti. Oggi un
patto del genere dovrebbe nascere nuovamente intorno ai principi di
una democrazia che, pur essendo diventata maggioritaria, resta
comunque rappresentativa. Le seconda repubblica potrà infatti
consolidarsi per davvero, solo allorché governo e parlamento si
assumeranno l'onere di garantire la piena legittimità del processo di
transizione sinora avviato.
Naturalmente non esiste alcuna possibilità di "rappresentare" la
volontà popolare all'interno delle istituzioni, se non ricorrendo ai
partiti e ai valori raccolti nelle ideologie. Il logoramento a cui da
tempo entrambi sono sottoposti, è però ben riassunto nella scelta
maturata nel corso degli ultimi anni. La sovranità popolare oggi
può stabilire direttamente le regole sulle quali si fonda l'assetto dei
poteri istituzionali oppure modificare le leggi dello stato. Il segnale
è chiaro e indica un forte ridimensionamento del ruolo dei partiti.
Padossalmente, l'avvio di una transizione solleciterebbe però come
non mai la domanda di soggetti politici in grado di assicurare
l'indipendenza dei rappresentanti rispetto ai rappresentati, perché
solo in tal modo il processo istituzionale potrebbe essere in futuro
sottratto alla immediatezza della democrazia referendaria.
Vi sono tuttavia molte ragioni che inducono a ritenere poco
plausibile un rafforzamento delle istituzioni rappresentative. Non c'é
infatti fiducia tra le diverse forze politiche e tanto meno vi è un
accordo sulla forma di governo che si dovrà realizzare. E' probabile
che allorché matureranno i tempi per sciogliere questo nodo, le
196
istituzioni prenderanno perciò, di nuovo, la strada della democrazia
referendaria. Lo ha già anticipato del resto lo stesso Berlusconi nel
suo primo discorso al Senato (16 maggio 1994), indicando tra gli
obiettivi dell'esecutivo "il rafforzamento del potere di decisione
diretta dei cittadini sul governo, pur nei limiti di una democrazia
che è e resta rappresentativa".
Non è detto che tutto ciò debba necessariamente risolversi in un
governo contro il popolo, anche perché ci troviamo di fronte ad una
tendenza da tempo presente nelle democrazie contemporanee. Il
ricorso ormai costante ai sondaggi oppure ai referendum, ha
spogliato del resto di ogni drammaticità l'orizzonte politico apertosi
in seguito alla crisi istituzionale e le nuove leadership popolari si
presentano con il volto accattivante del capo-fratello, la cui autorità
non viene vissuta in maniera minacciosa37.
La democrazia della rappresentanza, invece, non sempre riesce
ad essere amata solo perché assicura - quando assicura - delle buone
dentiere agli anziani o l'assistenza alle partorienti. Per significative
che siano queste conquiste, la gente resta comunque infelice ed è un
bene che lo scontento emerga, perché quei sistemi sociali dove era
previsto quasi per legge di esser fiduciosi nel futuro, sono crollati
tanto rapidamente, quanto improvvisamente.
Importante sarebbe però scegliere risolutamente o l'una o l'altra
delle due strade che ancora possiamo percorrere. E' una alternativa,
questa, che preoccupa non poco e che naturalmente potrà suscitare
giudizi diversi. Ma almeno bisognerebbe riconoscerla come tale,
perché il cambiamento difficilmente si potrà arrestare al bivio
istituzionale in cui è per ora arrivato.
1
sulla Lega di Bossi si veda I. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia
di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma 1993; G. De Luna, Figli di un
benessere minore. La lega 1979-1993, Laterza, Bari 1994; sul Msi, dal cui ceppo
nasce Alleanza Nazionale, si veda P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del
Moviemento Socialre Italiano, Il Mulino, Bologna, 1988 e, più recentemente, P.
Ignazi, Nuovi e vecchi partiti di estrema destra in Europa, in Rassegna Italiana
di Scienza Politica, n. 2 1992; una interpretazione della dinamica elettorale più
recente è in R. Manneimer ( a cura di), La lega lombarda, Feltrinelli, Milano
1991 e P. Corbetta, La Lega e lo sfaldamento del sistema, Polis, n. 2 1992;
197
2
una analisi aggirnata del "perotismo" è in J. Daniel - D. Owen, Anti-partism and
support for Perot, ECPR, Madrid 1994; per una analisi generale delle tematiche
anti-party, si veda H. Daalder, A crisis of Party, Scandinavian political Studies,
n. 15 1992
3
A. Dal Lago, Il voto e il circo, MicroMega, n.1 1994
4
Una prima ricostruzione di questa vicenda la si ritrova in A. Barbera - S.
Ceccanti, L'alleanza che non c'é stata, Reset, n.6 1994
5
Pasquino giustamente segnala come la possibilità di una "lista bloccata"
prevista dalla nuova legge elettorale, di fatto ha contribuito a ridurre "il ricambio
del personale politico", oltre ad avere naturalmente violato il principio
maggiritario secondo il quale ciascun elettore avrebbe dovuto eleggere il proprio
candidato. Si veda G. Pasquino, La riforma elettorale in Italia. Fatte le leggi si
cerca il rimedio, in O.Massari - G. Pasquino ( a cura di), Rappresentare e
governare, Il Mulino, Bologna 1994, pag. 226
6
L. Ornaghi - V. E. Parsi, La virtù dei migliori, Il Mulino, Bologna 1994, p.146
7
Sapelli ricostruisce in tal modo il "meccanismo unico" che ha legato i processi
di disgregazione istituzionali al diffondersi della illegalità economico-politica.
G. Sapelli, Cleptocrazia, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 148-151
8
è da questa consapevolezza che ha preso del resto le mosse la proposta, alla
quale non c'é poi stato seguito, di una "convenzione dei sindaci" avanzata in più
occasioni da P. Flores d'Arcais; si veda, da ultimo, P. Flores d'Arcais,
Ricominciare dalle libertà, in MicroMega, n.2 1994
9
l'impatto del sistema maggioritario sul centro è delineato da M.Duverger, I
partiti politici, cit., p. 276
10
una ricostruzione di questa dinamica la si ritrova in V. Wright, The government
and politcs of France, Routledge, London 1993, pp. 161-180
11
Ricolfi ha calcolato che nella passata legislatura i parlamentari "a rischio" di
essere inquisiti per reati gravi fossero uno su due, con punte del 70-80% per gli
eletti nelle file del quadripartito. L. Ricolfi, L'ultimo parlamento. Sulla fine della
prima repubblica, Nis La Nuova Italia, Roma 1994
12
E. Berselli, L' Arca della alleanza democratica, in Il Mulino, n.4 1993, p.770;
sullo spazio che sia apre a destra del sistema politico italiano a seguito della fine
del "partito cattolico", si vedano le conclusioni di G. Baget Bozzo, Cattolici e
democristiani. Un'esperienza politica italiana, Rizzoli, Milano 1994
13
si vedano, per tutti gli argomenti avanzati da G. Sartori, Seconda repubblica?
Si ma bene, Rizzoli, Milano 1992, pp. 11-15
14
una rassegna delle diverse proposte avanzate al riguardo è in S. Messina, La
grande riforma. uomini e progetti per una nuova repubblica, Laterza, Bari 1992;
ed in C. Fusaro, Guida alle riforme istituzionali, Rubettino, Cosenza, 1991
15
Non sembrano di grande utilità, al riguardo, quelle analisi che applicano alle
coalizioni la teoria dei giochi; si veda, da ultimo, M. Laver - N. Schofield,
Multiparty Government. The politcs of coalition in Europe, Oxford University
Press, London 1992
198
16
non a caso questo è sempre stato il problema principale del sistema politico
americano; A. King, The american polity in the late 1970s, in A. King ( a cura
di), The new american political system, cit., p.390; per i suoi sviluppi dopo la
riforma delle primarie, si veda S. Fabbrini, Il presidenzialismo negli Stati Uniti,
Laterza, Bari 1993
17
Sugli incentivi legati al nuovo sistema elettorale, si veda R. D'Alimonte - A.
Chiaramonte, Il nuovo sistema elettorale: quali opportunità?, in Rivista Italiana
di Scienza Politica, n.3 &994
18
per una analisi delle differenze tra coalizioni pre-elettorali e post-elettorali, si
veda S. Lipset, Coalition politics. causes and consequences, in AA. VV.
Emerging coalitions in american politcs, Institute for Contemporary Studies,
San Francisco 1978, p. 439
19
Questo problema era già evidente ai tempi della presidenza Cossiga ma,
naturalmente, oggi ha un impatto molto più forte. A. Baldassarre, Il capo dello
stato, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato - A. Barbera , Il
Mulino, Bologna 1991, p.494
20
Censis, Vecchi politici o nuovi notabili? Radiografia dei candidati, ciclostilato,
Roma 1994
21
le diverse logiche del sistema maggioritario rispetto a quello proporzionale,
sono ben documentate da O. Massari, Gran Bretagna: un sistema funzionale al
governo di partito responsabile, ora in O.Massari - G. Pasquino ( a cura di),
Rappresentare e governare, cit, pp. 26-34
22
F. Adornato, Oltre la sinistra. Come liberarsi dal complesso della sconfitta,
Rizzoli, Milano 1991
23
La ricostruzione del "compromesso costituzionale" è riproposta oggi da P.
Scoppola, La repubblica dei partiti, cit, cap. 4; il modello del "partito- chiesa" è
delineato in una delle prime ricerche sul sistema politico italiano da F. Alberoni,
Partecipazione politica e dinamiche collettive, ora in AA. VV., L'attivista di
partito , Il Mulino, Bologna 1967; la problematica dei diritti è, nei suoi termini
generali, significativamente riassunta nel titolo di una recente raccolta di saggi
pubblicata da N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino 1992
24
G. Sabatucci, La soluzione trasformista. Appunti sulla vicenda del sistema
politico italiano, cit.
25
S. Warren - D. Gambetta, Le retoriche della riforma. Fine del sistema
proporzionale in Italia, Einaudi, Torino 1994
26
J. March e J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della
politica), cit., pp. 95-101
27
M. Salvati, L'imprevista ma prevedibile caduta di un regime, Il Mulino, n.2
1994, p.245
28
S. Rodotà, Le radici istituzionali della corruzione, in Micromega, n.3 1993, p.
195
29
P. Viola, E' legale perché lo voglio io. Attualità della rivoluzione francese,
Laterza, Bari 1994, p.140
199
30
una critica radicale verso il modello di "democrazia referendaria" è quella di
G. Sartori, Democrazia. Cosa è, cit, pp.82-87. Sartori in realtà pensa non tanto
ad un istituto "inserito nella democrazia rappresentativa", quanto ad "uno
strumento che la soppianta", grazie allo sviluppo delle comunicazioni di massa.
Che, appunto, è la dinamica alla quale ci riferiamo, sia pur con un attenzione
prevalentemente rivolta ai profili istituzionali. Per una periodizzazione della
influenza esercitata dal referendum a seconda del momento politico, si veda M.
Volpi, Una storia infinita: l'influenza dei referendum abrogativi sul sistema
politico-istituzionale, Politica del diritto, n.2 1992
31
S. Lupo, Il crepuscolo della repubblica, in AA. VV., Lezioni sull'Italia
repubblicana, cit., pp. 96-97
32
la distinzione è avanzata da A. Pizzorusso, Minoranze e maggiranze, Einaudi,
Torino 1993, pp.4-5
33
Questa analisi è stata sviluppata da M. Luciani, Il referendum impossibile, in
Quaderni Costituzionali, n.3 1991, p.517; sui progetti di riforma elettorale si
veda inoltre M. Luciani, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme
elttorali in Italia, Editori Riuniti, Roma 1991
34
una ricostruzione della "straordinaria fortuna" legata al sovrapporsi di una
molteplicità di coincidenze che hanno portato al referendum elettorale, la si
ritrova in C. Amadei, Segni dei tempi. La resistibile ascesa di un referendum, in
Politca del diritto, n.2 1993
35
M. Calise, Dopo la partitocrazia, cit., p. 158
36
la previsione è formulata da A. Panebianco, Prefazione, in M. Teodori, Una
nuova repubblica? Sperling Kupfer, Milano 1994, p.IX; anche Teodori sviluppa
un'analisi non diversa nel cap. 4
37
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