Guida docente secondaria
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Guida docente secondaria
LA SCUOLA L E D I T N A N G E S IN GUIDA PER GLI RIMO GRADO SECONDARIA DI P Guida_med_ese._corrindd.indd 1 03/11/11 12.54 La buona notizia: nel 2010, secondo le rilevazioni dell’Inail, si sono verificati 15 mila incidenti sul lavoro in meno rispetto al 2009 (senza che la situazione occupazionale si sia modificata in maniera determinante, a differenza di quanto avvenuto nei due anni precedenti). Eppure, si tratta sempre di 775 mila infortuni, con 980 morti, a cui si aggiungono le malattie professionali, che invece registrano un aumento del 22% delle denunce, soprattutto quelle legate allo stress. Il progetto “Vivi la sicurezza”, finanziato dalla Regione Toscana, coinvolge le scuole di ogni ordine e grado con un percorso formativo dedicato al benessere sul lavoro e rivolto a insegnanti e studenti. Tra gli obiettivi del progetto, sensibilizzare i docenti sull’importanza della sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro (scuola compresa) ed educare i ragazzi a una cultura della sicurezza attraverso attività didattiche coinvolgenti. Tutto questo con un approccio innovativo, di tipo psico-sociale, che punta non soltanto all’acquisizione di procedure e alla conoscenza della normativa, ma soprattutto alla creazione di un ambiente umano e relazionale che sia fonte di benessere. Nelle pagine che seguono, tale approccio teorico viene illustrato nelle sue linee generali, prima di passare alla parte operativa, dedicata alle attività didattiche da proporre agli alunni. Guida_med_ese._corrindd.indd 2 03/11/11 12.54 l’azienda, costretta a farsi carico dei costi della prevenzione, i dipendenti, obbligati a seguire procedure vissute come “scomode” (basti pensare alla classica mascherina antipolvere che, nei mesi estivi, non viene mai indossata perché “fa caldo” e “tanto non serve a niente”). È possibile cambiare questa situazione? Noi crediamo di sì. Attraverso un approccio psico-sociale. Parlare di sicurezza parlando d’altro Nel decennio 1996-2005 l’Italia è stato il paese dell’Unione europea con più incidenti sul lavoro. Eppure non mancano le norme e le tutele “sulla carta”. Le prime leggi risalgono agli anni Cinquanta. Il Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (TUSL), del 2008, ha dato forma organica a tutta la normativa in materia, aggiornandola e introducendo alcune novità. Per esempio, l’obbligo della valutazione del rischio e l’introduzione di un servizio di prevenzione e protezione di cui il datore di lavoro è responsabile. I due processi sono legati: si tratta di individuare, prima, i potenziali pericoli, dopodiché le misure per ridurre al minimo le probabilità di infortuni e malattie professionali. La legge prevede anche l’elezione obbligatoria di un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, che deve essere consultato preventivamente in tutti i processi di valutazione dei rischi. Le sanzioni per chi non rispetta le norme sono pesanti (anche se poi i costi sociali degli infortuni non ricadono sui datori di lavoro inadempienti, ma sull’intera collettività). Malgrado tutto, però, spesso la sicurezza non funziona. E non solo per palesi violazioni alle leggi. Come spiegare tale situazione? È pensabile che esistano persone “naturalmente” predisposte agli incidenti, perché disattente, maldestre e incapaci per indole? Il ragionamento va spostato su un piano diverso. Per occuparsi di sicurezza in modo serio ed efficace è necessario abbandonare un approccio ingegneristico e procedurale, per parlare di altro. Ovvero, del clima organizzativo. Perché la sicurezza, appunto, non è soltanto indossare un casco o una mascherina, ma è consapevolezza delle proprie responsabilità e conoscenza di tutto il processo lavorativo, anche di quegli aspetti che non riguardano nello specifico il TUSL o le proprie mansioni. Mentre nelle aziende (e anche a scuola) avviene il contrario: la sicurezza è relegata a una funzione secondaria, a volte è un fastidio, un’interferenza; nella migliore delle ipotesi un male necessario. Qualcosa, insomma, che tutti subiscono: Un fenomeno planetario Una giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro è stata istituita da Oms e Ilo, per la necessità di creare una cultura della prevenzione a livello globale, e si celebra il 28 aprile. Andrebbe ricordata anche a scuola, magari con una delle attività proposte nella seconda parte del volume. Nel mondo, il numero di vittime causate da incidenti e malattie professionali supera i 2 milioni di casi all’anno (con un rapporto di 1 a 4) ed è in crescita, soprattutto in Cina, a causa dell’accelerato sviluppo industriale del paese, in assenza di tutele sindacali. A questi numeri, si aggiungono 268 milioni di incidenti non mortali, nei quali le vittime perdono almeno tre giorni di lavoro, così come 160 milioni di nuovi casi di malattie legate al lavoro. L’Ilo ha calcolato che incidenti e malattie professionali sono responsabili di una perdita di oltre il 4% del prodotto interno lordo mondiale. Oggettivo-soggettivo, una rivoluzione copernicana Quando si pensa alla sicurezza e alla valutazione del rischio, gli stessi addetti ai lavori tendono a limitarsi a considerare gli aspetti oggettivi, mentre vanno valutati anche quelli soggettivi, che più interessano nel nostro approccio psico-sociale, perché hanno a che vedere con la cultura, i comportamenti, la comunicazione, lo stile di leadership. In pratica, con le persone e la loro individualità. La sicurezza oggettiva si occupa di limitare il rischio; quella soggettiva accresce la capacità di gestirlo e al tempo stesso migliora la qualità della vita in un determinato ambiente. Soprattutto, la sicurezza soggettiva tiene conto dell’individualità delle persone e considera •3• Guida_med_ese._corrindd.indd 3 03/11/11 12.54 una variabile rilevante il loro sistema di valori, convinzioni e comportamenti. Ancora, la sicurezza oggettiva ha molto a che fare con la valutazione del rischio e la prevenzione (così come prescrive il TUSL), mentre la sicurezza soggettiva parte dalle potenzialità degli individui e mette in atto azioni positive per svilupparle e valorizzarle. Ma attenzione: responsabilizzare le persone non significa deresponsabilizzare l’azienda dal punto di vista legale. Non significa trasmettere il messaggio che la sicurezza è un “affare privato”, dove “chi è bravo e attento non si fa male”. Si tratta invece di responsabilizzare e coinvolgere i dipendenti attraverso un miglioramento del clima organizzativo. La sicurezza diventa così una questione collettiva e solidale, non un problema da affrontare a livello individuale. Un’operazione che ha più a che fare con la psicologia e le scienze sociali, che con l’ingegneria e l’ergonomia. Stare bene al lavoro La sicurezza sul lavoro non è soltanto assenza di incidenti o malattie, ma rientra in un concetto più ampio: quello di benessere e crescita delle persone. Fatto salvo il rispetto delle norme e degli standard di legge (relativi per esempio all’esposizione a sostanze tossiche o rumore, alle pause e alle attrezzature protettive), la sicurezza aumenta nel momento in cui si prendono provvedimenti rivolti ad aumentare il benessere sul lavoro. Il motivo è facilmente intuibile, perché fa parte dell’esperienza quotidiana di ognuno di noi. In un clima sereno, dove la circolazione dell’informazione (sia orizzontale, tra pari, sia gerarchica) non viene ostacolata, dove l’iniziativa e l’assertività sono incoraggiate, dove i rapporti tra colleghi sono basati sulla fiducia e la solidarietà, gli infortuni sono meno frequenti. Perché minore è lo stress che, oltre a essere in sé malattia professionale (come vedremo più avanti), è causa di distrazioni e tensioni che possono provocare incidenti. Ma anche perché in un ambiente dove i lavoratori sono motivati a esprimersi senza timore, i problemi emergono e si risolvono prima che diventino insormontabili. Un orizzonte di significato È la ricerca (e l’attribuzione) di significato che accomuna il tema della sicurezza a quello del clima organizzativo. Se, per esempio, ai dipendenti viene imposta una procedura senza spiegarne l’importanza, potrebbero essere portati a trascurarla “per non perdere tempo”. Una dinamica molto simile a quella che avviene in classe: perché gli studenti siano in grado di portare a termine un compito devono aver capito e fatte proprie le istruzioni impartite. È inoltre importante che tutti i soggetti coinvolti, anche in un’ottica di distribuzione dei compiti, non perdano di vista il significato di tutto il processo. Altrimenti ogni mansione risulterà più faticosa o addirittura vessatoria, con un carico di stress non tollerato. Infine, è necessario che pure compiti esecutivi e ripetitivi possano essere percepiti dal lavoratore come positivi per la propria crescita personale e professionale. Un po’ come quando uno studente non capisce perché “deve” studiare l’analisi grammaticale, noiosa e apparentemente inutile. Ma troverà una maggiore motivazione se qualcuno gli spiega che essa si rivelerà molto utile, per esempio, nell’apprendimento di una lingua straniera. Buone pratiche La cultura organizzativa sta cambiando e non mancano esempi di buone pratiche. Alcune aziende hanno iniziato a chiedere ai dipendenti – che utilizzano le protezioni e ne hanno esperienza quotidiana – come migliorarle e renderle più funzionali. Qualcuno ha proposto, per esempio, la produzione di caschetti con stampati, in vista, i numeri di telefono dei soccorsi, che tutti conoscono, ma che nessuno ricorda nel panico e nella confusione che segue a un incidente. In un approccio psico-sociale interventi di questo tipo, al di là dell’effettiva efficacia delle singole proposte, contribuiscono a migliorare il clima organizzativo, la comunicazione, il senso di appartenenza al gruppo, la percezione del lavoro come rilevante per la propria vita e per il proprio sviluppo. •04• Guida_med_ese._corrindd.indd 4 03/11/11 12.54 Dall’infortunio al rischio psico-sociale Il problema della sicurezza sul lavoro non riguarda solo settori come l’industria, l’edilizia e l’agricoltura. Se nei cantieri o in fabbrica è più probabile che si verifichino incidenti, il rischio psico-sociale è in agguato anche nel mondo del terziario: scuola, centri commerciali, uffici. Con questo termine si intende qualsiasi rischio per la salute e il benessere, derivato dal solo fatto di essere immersi in una rete di relazioni. Detto in altri termini, questo tipo di rischio esiste quando un gruppo di persone interagiscono: condividono una norma di comportamento non scritta, si coalizzano contro un collega, boicottano un nuovo superiore, ecc. Le conseguenze di tali situazioni sono di due tipi: a breve termine, si creano cortocircuiti comunicativi che possono comportare una ridotta capacità a prevenire gli incidenti; a lungo termine, il rischio psicosociale è causa di sindromi legate a stress, burnout e mobbing. Lo stress: il buono, il brutto e il cattivo Di stress sul luogo di lavoro si parla spesso, ma in modo molto generico. Se interrogati, tutti affermiamo che fa male e che, alla lunga, non aumenta il rendimento. In Europa lo stress sul lavoro comporta costi sociali (giorni di malattia, richiesta di cure mediche, ecc.) pari a 200 miliardi di euro all’anno. Da un punto di vista biologico, lo stress è una reazione adattiva dell’organismo, stimolato da fattori esterni: per esempio, la percezione di un pericolo, reale o presunto, l’avvicinarsi di una prova o un esame. Tanto che si parla di eustress, cioè “stress buono”: quello che, nelle situazioni che richiedono energia e concentrazione, attiva tutte le nostre risorse fisiche e mentali. Immaginiamo però un ambiente di lavoro dove tutto sia sempre “urgente” o dove i capi non diano indicazioni chiare (salvo poi denigrare il sottoposto che non ha capito): con questa iperstimolazione continua, a lungo andare lo stress sollecita un’iperattività di alcuni ormoni (adrenalina, noradrenalina, cortisolo), condizione che a sua volta favorisce l’ipertensione, indebolisce il sistema immunitario e addirittura rende più fragili le ossa. Danni che si aggiungono alle più note conseguenze psicosomatiche (cefalee muscolotensive, disturbi all’apparato digerente, ecc.) e comportamentali (irritabilità, abuso di alcol, dipendenza da farmaci ansiolitici, disturbi alimentari, ecc.). Non è così scontato il fatto che situazioni di questo tipo siano controproducenti anche per l’azienda. Studi scientifici hanno dimostrato che se un moderato livello di sollecitazione può migliorare la prestazione, elevatie dosi di stress incidono negativamente sui risultati. I fattori che provocano stress possono essere legati al ruolo del dipendente all’interno dell’azienda (aree di ambiguità che rendono incerte le gerarchie, eccessive pressioni o responsabilità, ecc.), alle relazioni con i colleghi, all’incertezza sul futuro (precariato, ristrutturazioni, ma anche una promozione promessa in modo vago), all’ambiente stesso (rumore, orari, ecc.), al clima organizzativo (comunicazione scadente, mancato coinvolgimenti nei processi decisionali, scarso senso di appartenenza e condivisione). Paradossalmente, possono anche essere i dipendenti a sottoporsi consapevolmente – se non volontariamente – a elevati dosi di stress, soprattutto in quegli ambienti dove passa il messaggio non scritto che “chi soffre farà carriera” e in base a questo vengono giustificate, per esempio, le richieste continue di straordinari o di lavoro festivo. •05• Guida_med_ese._corrindd.indd 5 03/11/11 12.54 Strategie di difesa Come può il singolo lavoratore difendersi dallo stress anche quando il clima psico-sociale è alterato? Prima di tutto deve conoscere i propri limiti e imparare a dire no. È vero che è difficile, che il senso di colpa è sempre in agguato, che i superiori non amano sentire una risposta negativa a una loro richiesta. Ma è pur sempre meglio un no, chiaro e motivato, di un sì accompagnato da basso rendimento. E poi, rispettare i tempi e le pause: saltare il pranzo, per esempio, fa innalzare immediatamente i livelli di adrenalina e cortisolo. È fondamentale anche curare la vita extralavorativa, avere una “rete di appartenenza” amicale e familiare. La nostra salute psicofisica e sociale dipende anche dalle nostre relazioni ed è tanto più alta quando più queste sono gratificanti e significative. Paradossalmente, chi è stressato tende a tagliare questi rapporti, senza rendersi conto che, così, diventa ancora più vulnerabile. Infine curare il sonno (la sensazione di essere depressi dipende anche da come si ha dormito la notte precedente) e fare attività fisica. Dallo stress al burnout La sindrome del burnout è l’esaurimento emozionale e psicofisico della persona e colpisce prevalentemente – ma non solo – chi si occupa di professioni d’aiuto (insegnanti, operatori sanitari, psicologi, assistenti sociali…). Il termine deriva dal mondo dello sport e si riferisce ad atleti che, dopo un periodo di successi, si esauriscono (“bruciano” tutte le risorse, dall’inglese to burn) e non riescono più a gareggiare. In quanto sindrome, il burnout è costituito da una costellazione di sintomi psichici e psicosomatici: senso di affaticamento, frustrazione, ansia, irritabilità, attacchi di panico, cefalea, insonnia. Tali sintomi, tuttavia, sono comuni anche alle situazioni di stress. Il burnout è caratterizzato anche da aspetti più specifici: senso di svuotamento emotivo, atteggiamento di rifiuto nei confronti dei destinatari delle cure previste dalle proprie mansioni (gli allievi nel caso degli insegnanti, oppure i pazienti di un medico, i tossicodipendenti seguiti da un educatore, ecc.), percezione di insuccesso e inutilità rispetto al proprio lavoro. Il burnout è una condizione patologica che va seguita da uno specialista. Questioni di genere Un’indagine italiana ha misurato lo stress da lavoro nel mondo femminile. È stata condotta da Assidai (fondo sanitario volontario integrativo per dirigenti e quadri), in collaborazione con Sda Bocconi e affidata alla psicologa Beatrice Bauer, docente di Organizzazione e Personale alla stessa Sda Bocconi. La scelta “di genere” non è casuale, perché è sulle donne che pesa gran parte della conciliazione tra lavoro e famiglia. E i dati, anche se limitati a quadri e dirigenti, sono comunque rivelatori: il 95,6% delle 400 donne intervistate ha dichiarato di vivere una condizione di stress e il 93% è consapevole dell’impatto sulla salute. Circa un terzo è rassegnato a conviverci. Se è vero che per le lavoratrici intervistate le cause dello stress sono riconducibili alla difficoltà di conciliare vita privata e professionale, a essa si aggiungono i problemi legati al clima organizzativo. Il mobbing Trascurato, fino a circa 15 anni fa, dalla stessa medicina del lavoro (almeno in Italia), oggi di mobbing si parla molto di più, anche in seguito a varie sentenze a favore dei lavoratori che avevano intentato causa all’azienda. Il termine (dall’inglese to mob) deriva dall’etologia e si riferisce all’aggressione ai danni di un animale da parte del branco dei suoi simili. Nel mondo del lavoro, il mobbing è un’aggressione psicologica e morale, prolungata nel tempo e che mette la vittima in una condizione di isolamento ed estrema vulnerabilità, tanto da spingerla alle dimissioni. Se il mobbing è esercitato dal superiore sui collaboratori si chiama bossing e può rispondere a una precisa strategia aziendale, per spingere il dipendente ad andarsene, senza che sia l’azienda a licenziarlo (accade per esempio alle donne che rientrano dopo la maternità). Ma può esprimersi anche in orizzontale, tra colleghi di pari livello. Spesso i due aspetti vanno insieme: chi viene mobbizzato dal capo, diventa anche vittima dei colleghi che lo isolano e lo utilizzano come capro espiatorio (a volte anche in modo inconsapevole). Il fenomeno si presenta sempre come un processo che si evolve gradualmente. I primi episodi sono sottovalu- •06• Guida_med_ese._corrindd.indd 6 03/11/11 12.54 tati dalle stesse vittime, fino all’accentuarsi dei comportamenti negativi, che diventano sempre più aggressivi, denigratori o addirittura minacciosi. Il mobbizzato si ritrova stigmatizzato, si fa la fama di “fannullone di turno” e diventerà sempre più difficile per lui ottenere la solidarietà dei colleghi. Il suo senso di frustrazione e accerchiamento lo farà apparire scontroso, asociale, poco comunicativo, fornendo una giustificazione ulteriore all’isolamento subito. Tanto che anche la direzione delle risorse umane e persino i rappresentanti sindacali tendono a dare credito ai pregiudizi contro di lui, in una spirale sempre più drammatica. E a scuola? Il mobbing è un fenomeno che si riscontra tra adulti, ma può essere paragonato al bullismo, con il quale ha in comune alcuni aspetti (la vittima viene esclusa da inviti e occasioni sociali, viene attaccata con pettegolezzi o ridicolizzata in pubblico per il suo abbigliamento, l’aspetto fisico, la religione, ecc.). E come accade per il mobbing, anche gli episodi di bullismo vengono inizialmente minimizzati, a volte persino dagli stessi insegnanti che ne sono testimoni. Sia per la convinzione che alle “ragazzate” sia meglio “non dare troppo peso”. Sia per una forma di autodifesa, come per convincersi che anche la vittima “ha le sue colpe” (non lega con i compagni, vuole mettersi in mostra con voti alti, si attira le antipatie) e non essere quindi obbligati a intervenire. Dalla teoria alla pratica La descrizione del rischio psico-sociale rende chiaro come il concetto di sicurezza vada ben oltre la prevenzione, in ogni caso doverosa, del singolo infortunio e non possa prescindere dal fattore umano e dalla creazione di relazioni solidali, significative e soddisfacenti sul luogo di lavoro. Che a questo punto si trasformerebbe in un ambiente piacevole, che il dipendente frequenta volentieri e dove cerca di esprimere il meglio di sé. Con un aumento della produttività e una diminuzione delle assenze per malattia o incidente. Nelle prossime pagine vedremo come trasformare questi assunti teorici in buone pratiche da acquisire e interiorizzare fin da bambini, sui banchi di scuola. Per far crescere cittadini attenti ai diritti, solidali e in grado di prevenire comportamenti a rischio. Bibliografia BISIO CARLO, “Psicologia per la sicurezza sul lavoro” (Giunti O.S., Firenze, 2009) GIORGI GABRIELE, MAJER VINCENZO, “Mobbing: virus organizzativo. Prevenire e contrastare il mobbing e i comportamenti” (Giunti O.S., Firenze, 2009) ROVELLI MARCO, “Lavorare uccide” (Bur, Milano, 2008) BAUER BEATRICE, BAGNATO GABRIELLA, VENTURA MARIAROSA, “Puoi anche dire no” (Dalai, Milano, 2009) Filmografia Francesca Comencini “Mi piace lavorare”, con Nicoletta Braschi (Italia, 2003). È il primo film italiano ad affrontare il tema del mobbing ed è basato sui racconti di alcuni lavoratori che si erano rivolti alla Cgil per avere assistenza psicologica e legale. A parte Nicoletta Braschi, il film è interamente recitato da attori non professionisti. •07• Guida_med_ese._corrindd.indd 7 03/11/11 12.54 SEZIONE OPERATIVA Introduzione Lavorare al montaggio di un testo drammatico richiede concentrazione e coesione fra gli attori. Il teatro deve essere, anche in fase di preparazione, uno scambio continuo di energie fra gli attori che mirano unicamente a uno scopo comune: la buona riuscita della messa in scena. Il suo intento primario è dire qualcosa agli spettatori. È sociale perché riunisce più persone (gli attori e il pubblico); è educativo per lo spettatore perché gli lancia un messaggio e per l’attore perché gli fornisce una vera e propria formazione, fisica e interiore. Qualsiasi testo lascia dentro l’attore un seme che si deve sviluppare durante il lavoro. L’attore si deve innamorare del testo drammatico, lo deve incamerare e curare: solo in questo modo l’esposizione alla platea risulterà efficace e sentita. Il consiglio agli insegnanti che proporranno il testo in questione agli alunni, è di fare qualche lettura preventiva con loro, rispetto al lavoro laboratoriale-propedeutico e di montaggio delle scene. È importante fare precedere una lettura collettiva anche alla fase laboratoriale dei giochi, in modo che l’alunno concepisca questi come rimando continuo al testo e abbia più coscienza di ciò che sta facendo e nel contempo abbia una sua visione personale di quel che sarà il lavoro finito. La natura collettiva di questo testo (e del teatro in generale) fa pensare alla forza di un ritmo e di una fatica comune che deve essere chiara ai ragazzi sin dal principio. Il processo creativo dovrà concentrarsi, quindi, sul gruppo ma anche sull’individualità di ognuno come attore all’interno del gruppo. Per questo, lo svolgimento del testo “Il canto delle Sirene” prevede sempre una partecipazione attiva di tutti i personaggi-attori. La coralità è protagonista e tutti devono contribuire alla compattezza dell’intento spettacolare. Ci sono dei personaggi principali, è vero, ma bisogna fare capire ai ragazzi che anche la Ciurma e le Sirene sono personaggi compatti al pari degli altri. I marinai-attori, ognuno con la propria individualità e le proprie caratteristiche, vanno a creare il personaggio Ciurma; lo stesso vale per le Sirene. È un aspetto da non sottovalutare quando si affronta un copione teatrale corale, visto che nell’immaginario comune, purtroppo, “coro” è spesso sinonimo di “comparsa” o “personaggio marginale”. È consigliabile effettuare la scelta degli attori-personaggi “protagonisti” (i due ragazzi, Elpenòre, Ulisse) solo dopo un sufficiente rodaggio laboratoriale. Meglio non cadere nell’errore di affidare le parti ai più estrosi della classe e renderli “primi attori” a scatola chiusa. I giochi teatrali che verranno proposti, infatti, mirano a una ferrea disciplina individuale e di gruppo ma allo stesso tempo a una libertà creativa che può, in certi casi, essere rivelatrice (chissà che il più timido della classe non possa scoprirsi un temerario Ulisse e stupire tutti!). I giochi Di seguito verranno descritti alcuni giochi per arrivare allo spettacolo. Preferiamo usare il termine “gioco” (non è un caso che in francese "recitazione" diventi "jouer" e in inglese "play") al posto di “esercizio”, per fare avvicinare i ragazzi alla disciplina teatrale senza usare termini troppo legati alla scuola. Spetterà quindi agli insegnanti fare capire ai ragazzi che il teatro è anche un gioco sì, ma molto serio dove ci si può divertire tanto, ma solamente possedendo una buona disciplina verso gli altri attori e verso se stessi. Lavorare insieme su di un palcoscenico è come collaborare alla vita di una mini-società, dove ogni individuo agisce individualmente ma ha bisogno della collaborazione degli altri per sopravvivere e crescere. È importante che i giochi siano mirati sin da subito all’ottenimento degli scopi specifici per costruire coscientemente la messa in scena. Soprattutto, ci si concentrerà su giochi di training, giochi di equilibrio scenico, di plasticità del corpo, di uso consapevole della voce, di prossemica, di ascolto e di fiducia, giochi di relazione. Si dovrà giocare con abbigliamento comodo e senza scarpe e in uno spazio sufficientemente ampio. •08• Guida_med_ese._corrindd.indd 8 03/11/11 12.54 Per cominciare Qualunque attore, come qualunque atleta, ha bisogno di riscaldare un poco la muscolatura prima di cominciare l’allenamento. Il docente diventa l’allenatore e gli allievi diventano gli atleti. Alcuni giochi: Attivare il respiro e la voce •Sdraiati a terra, a pancia in su e in ordine sparso, i ragazzi, a occhi chiusi, dovranno ascoltare il loro corpo e il loro respiro. Il docente, parlando loro con voce calda, fornirà le istruzioni per il rilassamento: fare aderire il corpo al pavimento, sentire il contatto e aderire il più possibile a esso lasciando andare le tensioni muscolari, rilasciare il viso. Fare mettere loro una mano sulla pancia e spiegare (senza essere troppo tecnici) che gonfiando la pancia nell’inspirazione e sgonfiandola nell’espirazione, attivano il diaframma, che è una parte del corpo molto utile quando si deve “portare” la voce a un pubblico. •Occhi chiusi. •L’inspirazione è sempre dal naso, l’espirazione dalla bocca. Rimarcare che l’inspirazione fa gonfiare la pancia, l’espirazione la fa sgonfiare e verificare che ogni singolo allievo esegua correttamente. •Ogni volta che si gonfia “il serbatoio d’aria”, dev’essere gonfiato al massimo della sua capienza e così deve essere svuotato. Rialzarsi Non è da sottovalutare la fase in cui l’allievo si alza dal “gioco della respirazione”. È ovvio che, alzandosi fulmineamente, soprattutto dopo aver attivato il diaframma, potrebbe girare la testa: bisogna quindi dire ai ragazzi di girarsi lentamente su un fianco, senza alzare troppo la testa. •Facendo leva sulle braccia ci si porta sui talloni, sempre tenendo la fronte appoggiata a terra. •Piano piano si comincia ad alzarsi, prima sulle gambe, senza mai essere in posizione eretta ma •L’inspirazione e l’espirazione verranno ripetute per almeno 10 volte, molto piano per non rischiare l’iperventilazione. •A questo punto, all’espirazione si applica la voce. Si comincia con le vocali, sempre molto piano. Il docente dovrà preoccuparsi di passare in mezzo agli allievi e verificare la correttezza individuale del gioco. Ripetere per qualche volta. •Ora, nell’espirazione ognuno dovrà preoccuparsi di pronunciare il proprio nome cercando di fare arrivare questo nome a sbattere contro il soffitto e a farlo appiccicare contro di esso. Per farlo, è necessario che i ragazzi aprano gli occhi e visualizzino la parete sopra di loro. Ripetere per qualche volta. Il gioco si conclude con una parola che accomuna tutti (esempio il nome della classe “seconda A” o qualsiasi altra parola), detto col “gioco della respirazione” all’unisono per 5 volte, sempre insistendo sulla visualizzazione della voce che si appiccica al soffitto. con le braccia, la schiena e la testa a “penzoloni”. •Quindi si comincia a “srotolare” la colonna vertebrale, facendo ben presente che la testa arriva sempre per ultima. •In posizione eretta, i ragazzi si potrebbero sentire un po’ smarriti e con un lievissimo giramento di testa. Il gioco si conclude con il docente che dice loro di guardarsi intorno, cercare lo sguardo dei compagni e salutarsi come fosse un risveglio. •09• Guida_med_ese._corrindd.indd 9 03/11/11 12.54 SEZIONE OPERATIVA Muoversi Sempre sotto la guida del docente, con una musica in sottofondo, l’attore comincia a fare ballare le singole parti del corpo: prima solo i piedi per un po’, sulle punte, singolarmente, piegandoli di lato, muovendoli assieme. I piedi si fermano e cominciano a La corsa dei cavalli Si corre in cerchio; mentre corrono, gli attori dovranno, ogni tanto, saltare verso l’alto, protendendosi il più possibile con le braccia e lanciare grida senza fermarsi dal correre, proprio come cavalli al galoppo. Allo stop del docente non ci si dovrà ballare le ginocchia; poi si fermano anche le ginocchia e comincia a muoversi il bacino; poi tocca alle braccia e alle mani… fino alla testa. Quando questo riscaldamento delle singole parti del corpo è completato, si balla con tutto il corpo nello spazio. fermare di colpo ma semplicemente rallentare fino ad arrivare a eseguire una camminata in cerchio. In questa fase la respirazione è molto importante. Continuando a camminare in cerchio, si prende aria alzando le braccia e si butta fuori abbassandole. Nota: questi giochi possono essere preceduti da esercizi di stretching e di riscaldamento muscolare. Equilibrio dello spazio Quando la presenza degli attori sul palcoscenico è consistente, una delle cose fondamentali di cui preoccuparsi è che tutti siano ben distribuiti in scena. La zattera È il gioco più semplice per far capire ai ragazzi che i loro corpi sono la salvezza per un buon equilibrio scenico. Immaginiamo che lo spazio in cui si recita sia una piattaforma (una zattera) che poggia, nella sua parte centrale, su di un fulcro che la tiene in equilibrio. Gli attori, camminando, devono cercare di riempire sempre tutti gli spazi, altrimenti la piattaforma, avendo il peso mal distribuito, avrà uno squilibrio e, cadendo dal suo fulcro, farà finire tutti in mare. •Si comincia facendo camminare lentamente i ragazzi sulla piattaforma, immaginandone il fulcro e non lasciando zone vuote per non rischiare di far precipitare tutti in mare. •Si provano varie velocità, fino alla corsa. Il docente darà degli “stop” e i ragazzi, fermandosi esattamente nel punto dove sono al momento dello stop, valuteranno se lo spazio è ben equilibrato. All’ordine di ripartenza del docente, gli studenti riprenderanno dalla velocità alla quale si sono interrotti. •10• Guida_med_ese._corrindd.indd 10 03/11/11 12.54 La plasticità del corpo Troppo spesso, specialmente nel teatro che coinvolge i ragazzi, vediamo sul palcoscenico dei corpi “molli” che non hanno, o che non sono interessati ad avere, l’adeguata tensione plastica che dovrebbe caratterizzare una messinscena. Capire che il palcoscenico non è la vita che viviamo tutti i giorni, dove il nostro corpo può permettersi di avere movimenti inconsulti, sgraziati o comunque quotidiani e non ragionati, è una delle regole principali per un giovanissimo attore. Specialmente in questo tipo di testo-spettacolo, dove tutto è all’insegna del grottesco e della stilizzazione, per ottenere effetti comici coinvolgenti il corpo non deve porsi necessariamente in modo naturale, ma sfruttare le sue capacità plastiche e “burattinesche”. Gli impulsi all’uomo burattino A coppie, uno di fronte all’altro, i ragazzi decidono chi fra i due condurrà il gioco. Il conduttore comincia a dare delle piccolissime spinte alle parti del corpo del compagno, soprattutto nella parte superiore (spalle, braccia, testa). Basta un breve tocco. Il compagno reagisce a questo impulso muovendo la parte toccata nella direzione stessa dell’impulso. I movimenti devono essere molto morbidi e non bruschi. Le posizioni vengono tenute. Esempio: se il mio compagno decide di dare l’impulso spingendo il mio gomito verso l’alto, il mio gomito si alzerà e rimar- Plasmare l’uomo d’argilla Sempre a coppie, sempre con un conduttore e un guidato. In questo gioco, il corpo del guidato assume un’altra “consistenza” diventando, rispetto al gioco precedente, molto meno morbido. L’attore plasmato deve pensarsi fatto d’argilla: i suoi muscoli, la sua attitudine corporea, adesso, a differenza del burattino, sono rigidi e difficili da modificare. Il conduttore diventa un vero e proprio scultore che accompagna, anche con una certa fatica, le pose plastiche del compagno-Golem. Le regole sono le stesse, ma questa volta la fatica fisica di entrambi è maggiore. La coppia si inverte: il conduttore diventa il Golem d’argilla pronto a farsi plasmare. Anche qui, dopo lo stop del docente, si ragiona insieme. Si capisce che il nostro corpo può essere rà sospeso in aria finché colui che conduce il gioco non deciderà, con un impulso inverso a quello dato prima, di riabbassarlo e farlo tornare al suo posto (oppure modificarne ulteriormente la posizione). •La coppia si inverte. Il conduttore diventa cioè il burattino. •Il gioco finisce allo stop del docente e si ragiona poi su come il nostro corpo sappia essere duttile e morbido e su come sia importante sapere utilizzare movimenti così “puliti” e aggraziati sul palcoscenico. davvero plastico, che può diventare qualsiasi materiale noi desideriamo. Per esempio, può essere molto rigido e statuario: questo è utile per affrontare scene particolarmente tragiche che vogliano dare al pubblico un’immagine “forte” dell’attore. I giochi del burattino e dell’uomo d’argilla saranno utili non solo per le scene di uno spettacolo in generale, ma anche per affrontare scene complesse come quella dell’inizio (il naufragio), in cui i due protagonisti nuotano, e quella della tempesta (l’apertura dell’otre dei venti). Vedremo più avanti come fare. I due giochi possono essere completati dal classico gioco dello specchio e dal gioco dei tableaux vivants (come vedremo più avanti) che mirano a far comprendere ai ragazzi la pulizia e la disciplina del gesto in palcoscenico. •11• Guida_med_ese._corrindd.indd 11 03/11/11 12.54 SEZIONE OPERATIVA Gioco dello specchio A coppie, ancora uno di fronte all’altro, ci si fissa negli occhi senza mai distogliersi dal punto di attenzione: lo sguardo dell’altro. Anche qui comanda uno solo. A una distanza abbastanza ravvicinata (due palmi di mano), il conduttore comincia, molto lentamente, ad alzare un braccio, a muovere le spalle, ecc. Il guidato, guardando sempre e solo negli occhi il conduttore, ripeterà i suoi gesti. Durante il gioco, il conduttore potrà assumere espressioni del viso (che possiamo chiamare maschere ), che dovranno essere ripetute dal guidato. Gioco dei tableaux vivants Quest’ultimo gioco è forse il più utile per far capire appieno ai ragazzi il valore del corpo teatrale in tensione, nonché della composizione scenica. Da qui, inoltre, si possono trovare, improvvisando tramite la creazione immediata, vere e proprie scene da inserire nello spettacolo. •Dopo un’attenta lettura del copione con relativa discussione e spiegazione del docente a seguire, ogni allievo propone un tema, un aggettivo, una sensazione ispirata dal testo. Senza pensarci troppo, deve dire qualcosa di molto concreto (Tempesta, Lavoro, Catena di montaggio, Itaca, Sfruttamento, ecc.) oppure di astratto (Rabbia, Paura, Perdizione, Follia, Riscatto, ecc.), purché sia una parola che solo il testo drammatico, e i temi che ruotano intorno a esso, gli hanno ispirato. Il docente scriverà queste parole. •Le parole che sono venute fuori, saranno i titoli dei tableaux vivants, i quadri viventi che si comporranno con i corpi degli alunni-attori. •Tutti stanno in platea o sul proscenio, guardando il palcoscenico che deve restare sgombero. •Il docente dice una delle parole, per esempio “Lavoro”, e chi vuole fra gli attori partirà veloce e si posizionerà al centro del palcoscenico, in una posizione plastica che secondo lui renderà al meglio l’immagine del Lavoro per uno spettatore. La creazione deve essere immediata e non troppo •La coppia si inverte. •Allo stop, si riflette sul fatto che attraverso questo gioco infantile viene attivata la visione laterale, principio fondamentale in teatro. Il gioco dello specchio infatti, costringe a concentrare il proprio sguardo e la propria attenzione su un punto fisso (gli occhi dell’altro) ma allo stesso tempo a percepirne i movimenti ripetendoli. Così è l’attore sul palco: concentrato sulla sua parte, con lo sguardo in direzione del pubblico ma allo stesso tempo attento e attivo rispetto a tutto ciò che lo circonda (gli altri attori, le scenografie). Attivare queste antenne laterali per essere quindi padroni della scena. ragionata: l’attore deve arrivare al centro e, senza perdere tempo, creare istantaneamente il suo personale quadro. La posizione va tenuta come se l’attore si fosse pietrificato o congelato. •A questo punto, parte un secondo attore che, sempre tenendo presente il quadro che si sta componendo, dovrà dare una sua personale immagine del tema trattato, utilizzando il proprio corpo e unendosi all’altro attore, a creare una composizione compatta. Per esempio esempio, se il compagno partito per primo è con le gambe divaricate e con il braccio destro alzato che impugna un martello, il secondo può decidere di esserne l’incudine o qualunque altra cosa che sia legata al tema trattato. •A uno a uno, anche gli altri attori devono inserirsi nel tableau, tenendo sempre ben presente il tema, la composizione che si sta creando, il congelamento delle posizioni e il fatto che la creazione di esse deve essere immediata e non troppo ragionata. •Alla fine avremo un quadro vivente composto dai corpi dei nostri attori. Per spiegare agli alunni il gioco e il senso della composizione scenica, si possono mostrare foto dei grandi quadri della storia dell’arte dell’Ottocento: per esempio “La zattera della Medusa”, di Gericault o “La Libertà che guida il popolo”, di Delacroix). •12• Guida_med_ese._corrindd.indd 12 03/11/11 12.54 Diventare acqua, diventare tempesta Partendo dai giochi precedenti dell’equilibrio scenico e della plasticità del corpo (importanti per capire il lavoro che andremo ad eseguire) dobbiamo affrontare ora due momenti del testo in cui l’immedesimazione corporea rispetto alla materia è fondamentale. Nella Scena 1, i due protagonisti nuotano, nella Scena 6 tutti i marinai sono in balìa della tempesta. Non disponendo di effetti speciali hollywoodiani, né di scenografie colossali che potrebbero rendere questi effetti, l’attore in teatro deve “arrangiarsi” con il suo unico strumento: il corpo. I ragazzi dovranno simulare, con i loro strumenti fisici, di essere immersi nel mare e di essere sopraffatti dalla tempesta. Ancora è opportuno ribadire che l’attore può diventare qualsiasi cosa, qualsiasi materiale, che può giocare con questo materiale (anche se fisicamente non esiste in quel momento) e, come per magia, far credere a chi guarda che si sta adoperando la materia come se questa ci fosse realmente. Il mare Il principio base di questo gioco rimane la zattera (equilibrio scenico). I ragazzi, a una velocità mediolenta, cominciano a riempire tutto lo spazio facendo attenzione a non fare cadere la piattaforma e continuando a camminare per tutta la durata del gioco. •Dopo un tempo sufficiente a fare recuperare ai ragazzi la concentrazione e la disciplina per mettere in atto un buon equilibrio scenico, il docente dice loro che per una perdita dei tubi, l’acqua sta cominciando a entrare nella stanza, di non allarmarsi e di continuare a camminare tenendo in equilibrio la piattaforma. Gli attori dovranno camminare come se l’acqua avesse invaso il pavimento e stesse bagnando loro i piedi, andando avanti così per un po’ di tempo. •L’acqua ha sommerso i piedi, ma ancora si cammina; poi arriva alle caviglie, alle ginocchia, ai fianchi: è sempre più difficile camminare, come quando si entra in mare per fare il bagno. Il corpo comincia a sentire la resistenza dell'acqua, ma ciò non spa- Il vento della tempesta Il procedimento è lo stesso del mare. Si parte sulla zattera, ma questa volta l’elemento che entra nella stanza non è acqua ma aria. Un bidello sbadato ha lasciato aperta una finestra e fuori sta cominciando a soffiare un venticello che pian piano entra nella stanza e che aumenterà di intensità durante il corso del gioco. È importante specificare che a differenza dell’acqua, il venta. • L’acqua arriva al petto e il corpo diventa più leggero. Il docente deve ribadire di non allarmarsi ma di sottolineare il fatto che tutto è molto piacevole, che l’acqua è tiepida e che non farà loro alcun male. •Si arriva a sommergere il collo e poi, per incanto, a ogni attore spuntano branchie che gli permettono di respirare anche sott’acqua. A questo punto anche la testa viene sommersa e tutti sono sott’acqua. La sensazione è bella, quasi come essere nella pancia della mamma. •I ragazzi ora nuoteranno per alcuni minuti, ad acquisire la nuova attitudine di uomini-pesce. Bisogna assicurarsi che, nelle varie situazioni in cui il livello dell’acqua sale a toccare le diverse parti del corpo, l’allievo abbia il tempo di abituarsi e concentrarsi su come la materia agisce, in contrasto al suo corpo. Durante tutto il gioco non si deve mai smettere di camminare “in zattera”. vento investe sin da subito tutto il corpo dell’attore e non le singole parti gradualmente. Come nel gioco precedente, fra un passaggio e l’altro deve intercorrere qualche minuto, in modo che i ragazzi possano abituarsi alle varie attitudini del corpo rispetto alla materia (il vento). •Si comincia con un’aria leggera, carezzevole, che l’attore riesce a contrastare liberamente. •13• Guida_med_ese._corrindd.indd 13 03/11/11 12.54 SEZIONE OPERATIVA •L’intensità del venticello aumenta a scompigliare capelli e vestiti. •Il vento comincia a essere fastidioso, ma il nostro corpo riesce ancora a porgli resistenza senza faticare nel cammino. •A questo punto, il livello di intensità aumenta ulteriormente e camminare non è più così facile. •Camminare nello spazio ormai diventa molto difficile: la potenza del vento è poderosa e la resistenza che esso oppone al nostro corpo, che vuol muoversi liberamente, è molto forte. •Il corpo si abbandona alla resistenza del vento che ci porta via, trascinandoci a suo piacimento. Tenendo sempre ben presente la nostra “zattera”, dobbiamo farci portare da questo vento immaginario cercando di capire dove soffia, dove ci spinge, come ci fa muovere, se ci fa sbattere contro i nostri compagni, ci fa cadere, ci permette di rialzarci oppure ci fa rotolare via. La “danza” improvvisata assieme al vento (come del resto quella sott’acqua) è dunque molto libera, ma bisogna eseguirla tenendo presente il lavoro sulla materia rispetto al corpo. Fine dei due giochi: in conclusione, dobbiamo capire come l’acqua e il vento abbiano agito in modo così diverso sul nostro corpo, quando abbiamo faticato di più, qual è stata la materia in cui ci siamo riconosciuti maggiormente e quale ci ha messo più in difficoltà. Intavolando una piccola discussione, si rimarcherà tutto quello che è già stato detto sulla plasticità del corpo, parlando del parallelismo tra i giochi precedenti (“il burattino” e “l’uomo d’argilla”), dove l’attore è stato “manovrato” da un altro attore, e i giochi appena eseguiti, dove l’attore si “auto-manovra” immaginando che sia una forza esterna a dettare i movimenti del suo corpo. Usare la voce e la parola Il gioco seguente serve per “portare” la voce ed è molto utile in questo tipo di rappresentazione, che potremo definire “corale”, in cui molte voci si intersecano, urlano e parlano all’unisono. Per esempio nelle Scene 3 e 4, rispettivamente scena della voga e scena delle frasi deliranti dei marinai, ci troviamo di fronte a due situazioni in cui tutti gli attori sul palcoscenico parlano contemporaneamente e, insieme a loro, i due protagonisti sostengono differenti dialoghi che devono arrivare al pubblico. Nella prima, le loro battute si inseriscono fra i “…Vo-o-ga!...” dei marinai e nella seconda dovranno sovrastarne le frasi che, da un certo punto in poi (indicato nella didascalia dell'autore), devono essere pronunciate tutte insieme e “… a voce molto alta...”. Per far questo, chi ha le battute principali dovrà necessariamente stare in primo piano rispetto alla massa degli altri attori. È importantissimo fare capire ai ragazzi la necessità di fare arrivare la voce anche allo spettatore seduto in ultimissima fila e contemporaneamente essere chiarissimi nel far capire le battute del copione. L’autostrada Il gioco è semplice e serve a superare il timore che molti hanno di alzare la voce in pubblico. Due ragazzi si mettono l’uno di fronte all’altro in piedi, lasciando una grande distanza fra loro: fra i due attori devono intercorrere almeno un paio di metri. Nello spazio che separa i due, si posizionano gli altri attori seduti a terra. •Immaginiamo che i due che si fronteggiano siano separati da un’autostrada trafficatissima e che quelli seduti a terra diventino le macchine immerse in questo traffico caotico. •I due attori, posizionati ai capi opposti dell’autostrada, non dovranno mai perdersi di vista e non dovranno mai spostarsi dalle loro posizioni per mettere tutta l’energia nella voce e lì concentrarla. Il primo avrà il compito di ascoltare, il secondo di comunicare solo a livello verbale. •Al “via!” del docente, gli attori-autostrada dovranno •14• Guida_med_ese._corrindd.indd 14 03/11/11 12.54 scatenare un pandemonio di grida, battiti di mani, calci e pugni sul palco, fischi, uso di oggetti per fare più rumore possibile… insomma, creare una situazione molto caotica a livello uditivo. •A questo punto, colui che ha il compito di comunicare a livello verbale dovrà dire qualche cosa all’altro oppure cercare di fargli delle domande. L’“ascoltatore”, invece, ha il compito di capire quel che gli viene detto. È bene ripetere ai due “comunicanti” che non ci si può spostare e nemmeno si possono fare gesti, ma l’unico strumento che deve agire nella comunicazione è la voce assieme alla parola. •Dopo qualche frase del comunicatore, il docente in- Il canto delle Sirene C’è un’altra voce in questo testo, oltre a quella strillata e rude di coloro che stanno sulla barca: la voce delle Sirene. Il testo ci dice che le Sirene sono un coro femminile all’unisono. Le “coreute” che lo compongono dovrebbero stare rialzate (su moduli praticabili, banchi, ecc. ) per essere maggiormente visibili e mantenere un distacco più “inumano” dagli altri personaggi. È preferibile, inoltre, una relativa immobilità delle Sirene nella loro zona dello spazio scenico, perché si possano maggiormente concentrare sull’ascolto. Sarebbe interessante creare dei II coro L’elemento da privilegiare quando si lavora su un coro all’unisono è sicuramente l’ascolto fra i componenti. Il volume di ogni voce recitante deve essere al pari delle altre: nessuno dei coreuti deve sovrastare gli altri. Le orecchie devono essere tese verso gli attori che ci affiancano. Le battute delle Sirene hanno un loro ritmo interno ma non è un ritmo regolare perché molto spesso le battute sono spezzate. Starà al docente decidere se rispettare l’unità ritmica che l’autore offre oppure legare i versi per creare un altro ritmo. Ad esempio nel “prologo”: “… non ha nient’altro che fare porto e andar per mare: …” terrompe il gioco e fa cessare il caos autostradale. Quindi chiede all’ascoltatore se ha capito, con tutto quel rumore, ciò che gli è stato comunicato. L’ascoltatore dice ciò che è riuscito a sentire, l’altro confermerà o smentirà la corrispondenza a ciò che è stato effettivamente da lui urlato. L’attore è costretto, col “gioco dell’autostrada”, ad attivare due importanti meccanismi per farsi capire: alzare il volume della voce e scandire le parole articolandole. Per un corretto svolgimento, è inoltre necessario ricordare ai ragazzi le “tecniche” per un corretto uso della voce, eseguite nel training iniziale. tableaux vivants sempre diversi per ogni intervento delle Sirene, ma comunque mantenendo l'idea di generale fissità e plasticità statuaria, in modo che possano contrastare ancor più con la ciurma. Lavorare su battute lunghe dette all’unisono non è semplice: sarebbe utile, dopo la fase laboratoriale comune, creare due gruppi di lavoro: la ciurma e le Sirene. L’autore, per semplificare, ha creato i “monologhi” delle Sirene in rima: in questo modo sono più semplici sia l’apprendimento a memoria sia l’esposizione e la dizione, e il ritmo (anche se vario) è dato dalla battuta stessa. potrebbe diventare: “… non ha nient’altro che fare porto e andar per mare:…” Nelle parti delle Sirene non è presente un ritmo unico ma più ritmi che variano: per questo essere all’unisono comporterà più difficoltà ma eviterà il rischio della cosiddetta “cantilena”. Quindi, che si attuino o meno le fratture di sintassi adoperate dall'autore a fine verso, l’importante è provare molto i cori. Per farlo, occorre un piccolo studio in classe col docente, che farà capire loro che solo seguendo un ritmo comune e più perfetto possibile si potranno contenere le sporcature e creare davvero un’unica voce. •15• Guida_med_ese._corrindd.indd 15 03/11/11 12.54 Il kit si compone di • 1 guida insegnanti • 1 copione teatrale • 1 breve guida con i suggerimenti per la messa in scena del copione • 1 brochure per l’alunno e la sua famiglia Il portale (http://www.vivilasicurezza.it) è l’ambiente in cui si trovano tutte le informazioni, i materiali e gli spazi interattivi riguardanti il progetto. È qui che la classe potrà pubblicare foto e filmati relativi alla rappresentazione che avrete realizzato basandovi sul copione teatrale IL CANTO DELLE SIRENE. Nella sezione Studenti / Scuola secondaria di primo grado si trovano tutte le informazioni utili. Il progetto VIVI LA SICUREZZA è stato ideato da Alessandra Bianchi, Alessandro Campi, Giacomo Gensini, Caterina Ingelido, Alessia Paparella, Roberto Curtolo e Fabrizio Rosi Responsabile editoriale: Iacopo del Gamba Progettazione editoriale: Giunti O.S. Organizzazioni Speciali Coordinamento editoriale: Anna Chiara Bottoni Testi di: Francesca Capelli e Enrico Casale Illustrazioni: Piero Corva Progetto grafico e impaginazione: Carlo Boschi Redazione: Emanuela Busà Portale VIVI LA SICUREZZA: Progettazione editoriale: Giunti O.S. Organizzazioni Speciali Coordinamento: Paolo Lippi Grafica: Vincenzo Santalucia www.vivilasicurezza.it L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti. © 2011 Regione Toscana Prima edizione: ottobre 2011 Ristampa Anno 76543210 2015 2014 2013 2012 2011 Guida_med_ese._corrindd.indd 16 03/11/11 12.54