La Torre - WebTrekItalia

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La Torre
di Paola Preziati Scaglione
L’aria cominciava a essere libera dal fumo acre della battaglia. Lampi di fucili e di cannoni
laser squarciavano la notte, illuminando un paesaggio sconvolto: macerie là dove prima c’erano state
delle case, persone terrorizzate e incolonnate sotto la minaccia delle armi, cataste di cadaveri pronte
per essere bruciate.
Solo lei sembrava immune da tutto quel dolore. Stingendo tra le braccia la figlia ferita, si
staccò dalla fila e si diresse verso di lui.
– Salvala – chiese, inginocchiandosi davanti a quell’essere che sembrava un mostro
leggendario.
L’alieno la guardò stupito, fermando con un gesto imperioso della mano i fucili che erano
pronti a ucciderla.
– Ti prego – mormorò la donna, spingendogli senza apparente paura la bimba tra le braccia.
Qualcuno disse qualcosa in una lingua sconosciuta, ma il Generale fece finta di non aver
sentito. Fissò la donna, parlandole con voce roca e profonda.
– Se salvo il tuo cucciolo, tu cosa mi dai in cambio?
Aveva gli occhi simili a quelli dei gatti, con la pupilla verticale e l’iride gialla come l’oro.
– Ho solo me stessa – gli rispose lei, abbassando per la prima volta lo sguardo.
Il Generale non parlò, si voltò stringendosi nell’ampio mantello e sparì dalla sua vista con la
bimba tra le braccia.
Lia si svegliò di soprassalto, sudata e stravolta nel Reparto Femminile della Fabbrica
degli alieni.
– Ho fatto ancora quel sogno. – mormorò, trattenendo a stento le lacrime. La sua
bambina, Iris, le mancava da morire.
La donna che dormiva sotto di lei diede un colpo alla branda, lamentandosi.
Si legò i capelli e saltò giù.
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La divisa era impilata con quelle delle sue compagne di stanza, stirata. Non aveva
mai visto come gli alieni facessero ma era vero che, ogni volta che si svegliava, la divisa che
si era tolta non c’era più e al suo posto ne trovava una nuova di zecca. Portenti della
tecnologia, di sicuro, ma di una tecnologia che pareva non poter fare a meno della
manodopera umana, anche se su scala molto ridotta.
Giravano voci secondo cui, a lavorare per gli alieni fosse meno del due percento della
popolazione sopravvissuta all’invasione. Il resto era in una qualche forma di stasi chissà
dove, pronto a essere riportato in vita per sostituire chi moriva.
– Che turno hai oggi? – la donna che dormiva sotto di lei si era alzata e vestita.
– Vado adesso – le rispose Lia, sorridendole.
– Di a Luca, se lo vedi che...
– Tranquilla, farò in modo che ti aspetti e che non vada con nessun’altra!
Anche la donna le sorrise, ma non c’era né gentilezza né sentimento in quel gesto,
solo rassegnazione.
Con passo leggero arrivò fino al Bar numero Uno, dove lavorava da un po’ di tempo.
– Buongiorno! – le disse Mino, l’addetto alla macchina da caffé con l’anzianità di
servizio maggiore: viveva in simbiosi con la Gaggia dal giorno in cui era stata inaugurata la
Fabbrica. Era un omino piccolo, gentile, un piccolo sole in quell’inferno simile ai lager
nazisti.
– Buongiorno! – rispose Lia, con dolcezza, mentre veloce si infilava il grembiule e
iniziava a macinare il caffé.
– Novità? – domandò l’uomo, avvicinandosi.
– Le solite cose...
Stava per raccontargli della raccomandazione della propria compagna di stanza
quando, in tutto il bar, si fece di colpo silenzio. L’unico rumore percepibile era quello dei
passi di qualcuno che si stava dirigendo verso il bancone.
– Cappuccio e brioche.
Se salvo il tuo cucciolo, tu cosa mi dai in cambio? Lo stesso tono, la stessa voce roca e
profonda. Il cuore di Lia accelerò. Lenta, cercando di controllare l’emozione, alzò lo sguardo
e incrociò quello metallico dell’alieno a cui aveva affidato la vita di sua figlia.
– Ho detto cappuccio e brioche – scandì quest’ultimo.
Lia prese la tazza e la mise sotto l’ugello, spingendo il bottone che faceva scorrere
l’acqua calda dentro il filtro, tutto senza riuscire a distogliere lo sguardo da quegli occhi. Il
liquido scuro e bollente iniziò a uscire dal bordo della tazza.
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– Fai attenzione! – esclamò Mino, correndole in soccorso. – Glielo preparo subito io –
disse, rivolgendosi all’alieno in tono ossequioso.
– Non tu, lei – gli rispose questi, con calma. – Donna, avvicinati.
Lia lo fece muovendosi come al rallentatore, con lo sguardo basso, mentre tutti −
alieni di guardia, uomini e donne − trattenevano il fiato.
Lui le prese il mento, rialzandole il viso e costringendola a fissarlo.
– Sei ancora viva?
Nella voce del Generale c’era una nota di sorpresa più che evidente.
– Si. – mormorò Lia.
Era proprio come se lo ricordava: enorme, con il fisico scolpito in muscoli invidiabili,
la testa grande con quattro sporgenze ossee sulla fronte, gli occhi da tigre metallica e la coda
lunga e possente. A differenza degli altri alieni, portava la criniera sciolta, con qualche pietra
colorata annodata tra le ciocche e aveva un tatuaggio rosso poco nascosto dalla peluria sulla
guancia sinistra.
– Mia figlia? – gli domandò, d’istinto. L’alieno sorrise.
– Tu cosa pensi le sia successo? – disse, avvicinando il proprio viso felino a quello
della donna. Lia sentì un intenso odore di mare salire dal suo pelo.
– Spero che...
– Non ti ho chiesto cosa speri, ma cosa pensi.
– Penso che sia morta.
– Perché?
– Perché non c’era ragione al mondo per cui Lei avrebbe dovuto salvarla.
– Giusto. Nessuna ragione. – il tono era drammaticamente onesto.
Piano, come se tutto stesse avvenendo ancora al rallentatore, Lia si lasciò andare,
svuotata, appoggiando la schiena alla macchina del caffé e premendo per sbaglio il pulsante
del vapore. Il getto bollente le colpì una spalla, ma quasi non se ne accorse. Sognare Iris ogni
notte le aveva permesso di restare legata alla realtà, adesso non c’era più nulla per cui
valesse la pena di continuare a vivere.
Prendendola per entrambi e polsi e tirandola verso di sé, il Generale la spostò dal
vapore.
– L’ho salvata lo stesso – le mormorò all’orecchio, mentre Lia gli posava per caso la
testa contro una spalla. – Il tuo cucciolo è vivo.
Per qualche secondo la donna restò stordita sia dalle parole che dal profumo
dell’alieno, continuando a tenergli la testa contro e respirando forte il suo odore di mare.
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– Cosa? – mormorò dopo quella che, a tutti i presenti al Bar, sembrò un’eternità.
– E’ viva – rispose l’alieno, senza spostarsi.
Da qualche parte, forse su una rivista di quelle che si trovano nelle sale d’aspetto, Lia
aveva letto delle conseguenze cardiache dei gesti inconsulti, ma decise di non pensarci. In un
lampo abbracciò il mostro, stringendolo con forza e baciandolo sulle labbra sottili.
Tlac!
Cinque fucili laser vennero armati. Lo spostamento d’aria provocato dalla corsa degli
alieni che li imbracciavano e il freddo delle loro canne contro la testa, gelarono il sangue
della donna. Solo in quel momento Lia si rese conto di cosa stesse facendo: la Regola Uno del
Protocollo di Comportamento stabiliva che né uomo né donna avrebbero potuto toccare di
proposito un alieno, figurarsi abbracciarlo o addirittura baciarlo. Forse avrebbe fatto meglio
a dar retta al ricordo dell’articolo. Incominciò a tremare.
Con un ringhio deciso, come aveva fatto la notte dell’invasione, l’alieno comandò ai
propri sottoposti di non fare fuoco e i fucili vennero abbassati.
– E’ questo il motivo per cui tua figlia è viva – le disse, spostandosi un poco in modo
da poterla guardare di nuovo negli occhi. – Sei l’essere più coraggioso che io abbia mai
incontrato.
Ma la donna non rispose. Iris era viva, questa era l’unica cosa a cui riusciva a pensare.
– Sapresti tenere pulita una casa? – domandò l’alieno, senza preavviso.
– Si – gli rispose con semplicità, anche se continuava a tremare.
– Bene. Adesso sei al mio servizio. Ti farò venire a prendere.
A Lia sembrò di sgonfiarsi.
Sarebbe andata alla Torre.
L’impatto con la luce vera fu sconvolgente. Era piena estate e l’aria scottava. Venne
fatta salire su di un mezzo meccanico senza autista né comandi di manovra visibili. I vetri
erano trasparenti e, durante il viaggio, la donna ammirò distese di campi coltivati, zone
boscose e laghi artificiali che non ricordava. Era sicura di non aver mai visto querce e
castagni di quelle dimensioni. Sembravano vecchi saggi piantati nel terreno, gli unici esseri
della Terra capaci di resistere all’invasione.
La macchina frenò dopo l’ennesimo boschetto e la vista strappò ad Lia un gemito di
stupore. La Torre sorgeva sopra un’antica cattedrale gotica. Il granito rosa della chiesa faceva
da enorme porta alla costruzione aliena.
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– E’ bellissima – mormorò, incantata dal contrasto tra l’ultra modernità aliena e
l’antico stile architettonico umano.
La porta della macchina si aprì. Una guardia le fece cenno di scendere e la scortò fino
alla base della Torre.
– Benvenuta.
Lui era lì, oltre il vano della porta di bronzo con figure in bassorilievo, imponente e
terrificante come sempre. A Lia tremarono le ginocchia e non riuscì a fare altro che restare
con un piede dentro e uno fuori dalla Torre. Per la prima volta quell’essere le faceva davvero
paura, così si era aggrappata al polpaccio dorato di uno dei bassorilievi, come se fosse l’unico
appiglio sicuro di tutto il mondo.
– Ti do dieci secondi per ambientarti, poi ti porto nei miei alloggi. – disse il Generale
con la solita calma, ma la donna non si mosse.
– Che cosa c’è? Non è di tuo gusto? – domandò l’alieno, con sarcasmo.
Una vocina dentro la testa di Lia iniziò a gridarle di darsi una mossa, ma per quanto
il suo cervello ordinasse alle gambe di camminare, queste non volevano farlo.
– Mia... figlia? – balbettò. Riusciva a pensare solo a Iris, voleva sapere come stava, chi
aveva badato a lei per tutto quel tempo, se le fosse o no mancata la mamma, ma le domande
le si affollavano caotiche in testa, senza riuscire a trovare la strada per essere formulate.
– Hai cinque secondi. – disse il Generale, senza rispondere.
– Potrò vederla? – bofonchiò la donna, cercando di controllare la paura.
– Due secondi.
Le gambe reagirono subito e anche la testa.
– Scusi. Vorrei che mi spiegasse quali saranno i miei compiti. – disse, schietta. E da
dove le veniva tutto questo coraggio? Lia si stupì di sé.
L’alieno la guardò e sorrise, lei arrossì.
– Se mi dice dove devo andare – mormorò, abbassando ancora una volta lo sguardo.
– Spostati da quella porta e seguimi.
Camminavano con calma, il Generale un passo avanti e Lia dietro, preoccupata di
non calpestargli la coda. Non c’era in giro altra anima viva.
– Ma non le da fastidio? – domandò, senza pensare.
– Cosa? – rispose lui, continuando a camminare.
– La coda...
– A te dà fastidio il movimento dei tuoi seni quando ti muovi?
Lia restò stordita per un attimo. – N..no... – balbettò in risposta.
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– Come a me non da fastidio la mia coda. Ci sono nato quindi non può darmi noia.
Lia si sentì stupida e chiuse la bocca. E sì che di cose da chiedere ne aveva a migliaia,
una valanga di domande le stava franando senza controllo nella mente, impedendole di
ammirare l’assoluta perfezione geometrica della struttura aliena in cui era entrata.
I pavimenti e le pareti dei piani bassi erano di materiali traslucidi e i grandi e lenti
ascensori smettevano di funzionare al centesimo piano. A quel punto della Torre, le pareti e i
pavimenti diventavano di marmo nero mentre gli ascensori che collegavano i diversi piani
erano piccoli e veloci.
– Appoggia la mano qui.
Il Generale le indicò una sporgenza sotto una pulsantiera. Lia eseguì l’ordine e sentì
la puntura di un numero imprecisato di aghi.
– Ahi! – gemette, ritirando la mano. – Cos’era?
– Un sistema di riconoscimento. Ho abilitato il tuo passaggio ai piani alti. Adesso il
tuo DNA fa parte della banca dati, quindi l’ascensore non ti vaporizzerà.
– Cosa? – Lia sbiancò.
– Sicurezza, tutto qui. – rispose il Generale, con la solita flemma, come se fosse la cosa
più ovvia del mondo. – Il piano è il quattrocentoventitre. Te lo ricordi?
La donna fece cenno di sì con il capo.
Quando vide l’alloggio, rimase senza parole. Soggiorno ben arredato, una cucina
attrezzata, una stanza con un letto e un bagno, tutto di dimensioni enormi, tutto di un bianco
puro di pulizia assoluta.
– Cosa dovrei fare? – chiese, incerta. Non c’era né un granello di polvere né una
macchia, chiunque sbrigasse le faccende era davvero bravo e, fosse stato per lei, non avrebbe
cercato nessun altro per sostituirlo.
– Tenere in ordine.
– Ma è tutto a posto! – esclamò.
Il Generale la guardò, poi, all’improvviso, cominciò a buttare per terra di tutto, a
spostare mobili, a rovesciare i cassetti. In un attimo c’era una caos assurdo.
– Tenere in ordine – scandì. – E non contraddirmi più. – aggiunse, passandole accanto
prima di sparire dietro una porta chiusa, sulla sinistra del soggiorno.
Ci mise quasi due giorni a sistemare. Guardò tutto e si sedette sul divano, soddisfatta.
Lui non era mai uscito dalla stanza, le aveva parlato, ringhiato, urlato, ma non si era fatto più
vedere.
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– Lia!
La sua voce la fece trasalire. Respirò per bene, si sistemò il grembiule togliendo le
pieghe, si guardò un attimo allo specchio dietro il divano ed entrò.
– Si – disse, controllando il tremore della voce.
Tutto si spense, dai monitor alle pareti ai computer sulle scrivanie.
– Portami da bere – ordinò il Generale, senza alzare lo sguardo da ciò a cui stava
lavorando.
– Delle preferenze? – chiese ancora Lia, senza muoversi.
– Quello che vuoi, basta che sia freddo.
– Aspro o dolce?
L’alieno alzò lo sguardo. – Stai scherzando? – ringhiò, con tono bassissimo.
– Volevo solo sapere – mormorò Lia, accennando un passo verso il mostro. Aveva
paura ma non riusciva a non essere puntigliosa, come quando lavorava al Bar. – Vuole
qualcosa di aspro come una limonata fredda o di dolce come un frappè? – concluse, un poco
più vicina a lui.
– Una limonata va bene. – rispose il Generale. Lia, però, non si mosse.
– Hai deciso di morire? – le chiese ancora, stringendo i pugni.
– Vorrei... – Lia sentì le gambe diventare molli. – Iris... – mormorò, mentre le
cedevano.
Il Generale la prese al volo, evitandole di sbattere contro il pavimento, poi la
appoggiò piano a terra. La donna aveva gli occhi chiusi e stava trattenendo il fiato.
– Lia – le disse, dandole un paio di buffetti sulle guance.
Si era messo in ginocchio e lei lo fissò. La paura le fece riempire gli occhi di lacrime.
– Cosa hai? – domandò l’alieno. Sembrava davvero preoccupato.
– Ho paura. – rispose Lia e anche quella era la verità.
– Di cosa? Se non ti ho uccisa fino ad adesso, non lo farà di certo ora, per quanto lo
minacci. – sussurrò lui, accarezzandola.
Lia lo abbracciò di slancio e lui ricambiò con forza. Era caldo e sapeva di mare. Gli
affondò il viso tra collo e criniera, sfregando piano la guancia sulla sua pelliccia morbida.
– Cosa fai? – balbettò il mostro, ma Lia non rispose. Spostò il viso, arrivandogli vicino
alle labbra e respirandogli contro. Pochi millimetri e le avrebbe toccate. Pochi millimetri e
avrebbe saputo quale fosse il suo sapore.
Ma il Generale si spostò, mettendo molti centimetri tra sé e la donna.
– No. – disse, serio.
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– Perché? – mormorò Lia, cercando di riavvicinarsi.
Il Generale non rispose, si alzò e tornò al tavolo, come se non fosse successo nulla,
mentre la donna restava a terra, imbambolata.
– Perché volevi baciarmi? – le domandò, dopo qualche minuto di silenzio assoluto,
senza guardarla in viso.
– Perché avevo voglia.
– Di cosa? – ringhiò, senza permetterle di terminare la frase. – Di qualcosa da
raccontare alle amiche della Fabbrica? Di un ciuffo di peli della mia criniera come ricordo?
Lia arrossì. – No – mormorò.
– E allora vai a prepararmi quella dannata limonata fredda! – le ordinò, troncando
qualsiasi possibilità di discussione.
Lia uscì mesta dalla stanza e il Generale piombò di schianto sulla sedia. Il suo cuore
batteva forte e veloce, le mani gli tremavano, la vista era annebbiata. Il profumo di quella
femmina era così diverso dal solito. Cosa gli stava succedendo?
Sospirò. Di solito faceva sesso solo quando gli ormoni glielo imponevano, un paio di
volte all’anno. Non gli era mai capitato di provare qualcosa del genere, un desiderio così
profondo, più cerebrale che fisico. D'altronde, non aveva mai fatto mistero di quanto Lia lo
avesse sorpreso, con quel carattere sfrontato.
Si sfiorò il tatuaggio rosso che aveva sulla guancia. Il condizionamento militare di cui
era il simbolo stava cedendo, lasciando spazio a sentimenti che non avrebbero mai dovuto
presentarsi?
– La limonata.
La voce di Lia lo fece voltare di scatto. La donna gli porse il bicchiere freddo e lui lo
prese, senza riuscire a stringerlo. Era incantato a fissare quei grandi occhi scuri ancora pieni
di lacrime, a cercare una risposta alla domanda che si era posto un attimo prima.
Ancora una volta tutto rallentò. La donna si avvicinò, gli prese il viso tra le mani e
appoggiò piano le proprie labbra alle sue.
– Lia – mormorò l’alieno, baciandola e stringendola ancora a sé. Il resto accadde, per
entrambi, come in un sogno.
La donna rimase sdraiata nel grande letto fino a che non fu sicura che l’alieno si fosse
addormentato. La luce che filtrava dalle tende tirate era sufficiente per vedere, sulla pelle di
lui, le grandi cicatrici sulla schiena e sulle cosce, che rovinano il disegno geometrico della sua
pelliccia. Con un dito prese a seguirne qualcuna. .
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Il respiro del Generale era lento e rilassato. Per un attimo le era sembrato che si fosse
messo a fare le fusa, ma non ne era sicura. Ed era stato intenso ma non cattivo, appassionato
ma non brutale ed era certa che non avesse cercato solo la propria soddisfazione, ma che
avesse fatto di tutto per far sentire in paradiso anche lei.
– Cosa stai facendo? – le chiese, risvegliandosi e sfiorandole il dito con cui lo stava
toccando.
– Come te le sei fatte queste? – domandò Lia, fissandolo.
– Ferite di battaglie.
– Tutte?
– No, quelle sulle cosce sono rituali.
– In che senso?
– E’ il Rito della Forza. Quando un maschio arriva all’età fertile deve dimostrare di
essere degno di avere della discendenza. Così...
– Lascia stare – lo interruppe lei – non lo voglio sapere. Sicuramente ti avrà fatto male
– disse, spaventata, spostando il dito con cui lo stava toccando come se le cicatrici fossero
diventate bollenti.
– Molto. Più della metà di quelli che l’hanno fatto con me sono morti e anche io ho
rischiato la mia vita quasi più in quella occasione che in molte battaglie che ho affrontato in
seguito.
– E’ una cosa da barbari...
Il Generale sorrise.
– Chiedimelo. – le disse, ma questa volta non era un ordine, ma un sussurro
dolcissimo.
– Mi porti a vedere Iris? – domandò Lia.
– Se vuoi, anche adesso.
La donna si sentì esplodere dalla felicità, saltò giù dal letto e corse in bagno a
sistemarsi. Voleva essere perfetta quando avrebbe riabbracciato sua figlia.
– Fai in fret... – la voce del Generale venne soffocata dall’esplosione che scosse tutto il
piano della Torre. Lia sbatté con forza contro il lavandino, svenendo.
Quando riprese conoscenza, era tra le braccia di un soldato dagli occhi scuri, che le
sorrideva mentre le medicava la ferita alla testa.
– E’ finita, piccola. Li abbiamo sconfitti, la Terra è di nuovo nostra. – le disse, felice.
– Lui... – mormorò la donna, cercando di rialzarsi.
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– Il Generale è morto, ucciso dalla prima delle esplosioni che la Resistenza ha
programmato, in contemporanea, in tutto il mondo. Te l’ho detto, è finita.
Lia sgranò gli occhi e una paura tremenda la assalì. – Sapete dove sono le persone in
stasi? – domandò. Iris, doveva assolutamente ritrovare Iris.
Il soldato abbassò lo sguardo. – Non ci sono persone in stasi, piccola. Sono tutti morti.
– Morti? – Lia cominciò a ridere e singhiozzare insieme, sguaiatamente. – Iris è viva!
Me l’ha detto! Mi avrebbe portato da lei! – gridò, con tutto il fiato che aveva in corpo,
iniziando a picchiare il soldato che la teneva stretta. – Iris, Iris, Iris! – urlò disperata,
afflosciandosi quasi la vita la stesse abbandonando.
– Portala via – ordinò un ufficiale al soldato. – E’ sotto shock. Di sicuro quel bastardo
l’ha violentata ed è impazzita dal dolore.
L’uomo eseguì l’ordine, prendendola in braccio e portandola verso un camion.
– Povera donna. – mormorò l’ufficiale.
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