0. Progetto Rooms

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0. Progetto Rooms
Rooms
Il progetto Rooms prevede i seguenti spettacoli, performance ed installazioni:
Vacancy Room
Twin Rooms
Splendid’s
Il tempo sembra passare... il mondo accade (performance)
White Noise (installazione)
Splendid’s - il film
Room (installazione)
Il progetto
Un nuovo percorso di lavoro, complesso e multiforme, si apre a molteplici ambiti
disciplinari, volti a mettere in luce la natura polimorfica di Motus. Rooms nasce come
progetto aperto, basato su un’ottica di spostamento e continua trasformazione, su una
formula produttiva “nomade”, volta a superare le consuete modalità della produzione
teatrale, mirando a fare dello stesso processo di ricerca e composizione scenica un
momento espositivo e di confronto. Si tratta di un progetto che si costruisce sul tema della
stanza d’albergo come metafora del vuoto. La stanza intesa come luogo chiuso è l’idea
che sta alla base del lavoro: spazio estremamente connotato e caratterizzato. La scelta di
un luogo definito e preciso era anche il fulcro dei precedenti allestimenti della Compagnia:
in Catrame come in Orlando furioso era proprio la relazione corpo/spazio a fungere da
motore per l’azione.
Un viaggio negli Stati Uniti compiuto nell’agosto del 2000, conduce i Motus a Los Angeles,
nei deserti dell’Arizona e del Nevada, a Las Vegas, alla ricerca di immagini e suoni,
vagabondando per motel e alberghi fatiscenti, alla scoperta della downtown.
Particolarmente colpiti dalle incredibili somiglianze con il panorama alberghiero della
riviera romagnola, incontrando spesso curiose analogie e bizzarri déjà-vus, i Motus
decidono di dar vita al nuovo progetto Rooms.
Il tema della stanza d’albergo è il motivo conduttore e contenitore al tempo stesso, di una
serie di molteplici interventi sia teatrali sia performativi, ambientati in stanze d’albergo
costruite o reali.
L’elaborazione del progetto Rooms inizia tramite una serie di laboratori,
WORKSHOPFORROOMS, tenuti da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò al Teatro Studio
di Scandicci, al CSS di Udine (Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia), alla
Corte Ospitale di Rubiera e all’Arboreto di Mondaino.
Nella prima fase del lavoro è stata costruita, grazie al progetto dell’architetto Fabio Ferrini,
una piccola stanza facilmente assemblabile e trasportabile, delle dimensioni di sei metri
per quattro e di due metri e mezzo di altezza. Un lato rimane aperto, come una parete
squarciata, come uno schermo per permettere la visione dello spettatore. Questo primo
prototipo è stato utilizzato per essere abitato da diversi attori/ospiti come una palestra
dove verificare la propria presenza scenica, la potenza di testi e dialoghi, l’intreccio tra le
differenti storie/scene.
I compagni di viaggio scelti per questa esperienza sono Le ore di Michael Cunningham; Le
regole dell’attrazione e Glamorama di Bret Easton Ellis; The Body Artist, White noise,
Underworld, Great John Street di Don DeLillo; Splendid’s di Jean Genet; Camere separate
di Pier Vittorio Tondelli; Leviatan di Paul Auster e vari frammenti delle ultime opere di
Harold Pinter e Sarah Kane.
Rooms come microcosmo, come spazio asettico dove si combatte l’intimo delirio
dell’uomo. Come brevi pièces costituite da ritratti di un’umanità varia, sfaccettata e
violenta, come contorti e differenti sono i brevi dialoghi, i monologhi telefonici con
un’assente reception o davanti allo specchio.
Dichiarazione di poetica
Ici? Bien sûr! Nulle part!
A proposito di Rooms, il nuovo progetto di Motus
scrittura: Daniela Nicolò
suggestioni: Enrico Casagrande
(“Lo Straniero”, Inverno 2001)
- Venendo qui ci si adegua ad un determinato comportamento, - disse Mink.
- Quale?
- Quello della camera. Il tratto distintivo di una camera è quello di trovarsi all’interno.
Nessuno dovrebbe entrarci se non lo ha capito… entrare in una stanza significa adeguarsi
a un certo tipo di comportamento. Ne segue che deve essere il comportamento che ha
luogo nelle camere. È lo standard in opposizione a parcheggi e spiagge… Tra la persona
che penetra la camera e quella la cui camera viene penetrata esiste un accordo non
scritto, opposto ai teatri all’aperto, alle piscine scoperte. La finalità di una camera deriva
dalla sua natura particolare. È su questo che le persone che si trovano in una camera
devono concordare, a differenza di quando si trovano in praterie, campi, orti.
Concordavo in pieno. Tutto ciò aveva perfettamente senso. Perché mi trovavo lì, se non
per definire, fissare nella vista, prendere la mira? Sentii un rumore, debole, monotono,
bianco.
(da Rumore bianco di Don DeLillo)
Penso a un iperrealismo sfrenato. Non posso altrimenti.
Scelgo di entrare, affondare nelle dinamiche dello spazio e del tempo scenico, con uno
sguardo diverso, nutrito delle esperienze passate, di dieci anni di incursioni e tradimenti, di
abbagli e rivelazioni… real, real, qui e ora, guardandoci negli occhi, una volta per tutte.
Cerco una forma di intimità promiscua, di confusione conturbante fra corpo e spazio, fra
interno ed esterno.
Cerco il sobbalzo del tempo attuale, lo shock del penetrare lo schermo, il deserto che sta
dietro lo specchio… e nulla di questo ha a che fare con il cosiddetto “rispecchiamento
realistico” della realtà, se per rispecchiamento si intende la costruzione di narrazioni
basate sul principio della verosimiglianza.
Lavorare sul presente, sul carattere cataclismatico del presente.
Un presente onnivoro che ha inglobato il passato ed il futuro, che appare continuamente
attraversato dalle trasformazioni, in cui il sentire si sviluppa secondo una trama di infinite
implosioni.
Un presente ballardiano ove può trovare istantanea soddisfazione ogni domanda, ogni
possibilità, si tratti di stili di vita, viaggi, ruoli, identità sessuali… allo scrittore è sempre
meno necessario inventare il contenuto fantastico del proprio romanzo: il suo compito è
l’invenzione della realtà (da Crash di James G. Ballard).
Realtà come superficie dell’esserci quotidiano. Dello stare con il proprio peso di fronte
all’altro. Nella solitudine. Nella confusione.
Voglio la desolazione dello spazio interiore che echeggia. Voglio il rumore bianco degli
interni, quel “White Noise” insistente degli elettrodomestici rassicuranti ed estranei.
Ora il palco diventa stanza d’albergo, contenitore asettico di esistenze sradicate, che vi
permangono temporaneamente e si danno, si lasciano cogliere nella loro intimità
disarmante.
Io (attore?), voglio veramente essere davanti a te, messo a nudo, nell’infimo del mio
quotidiano, nella prigione del mio quotidiano… La quotidianità, del resto, anche
terminologicamente, è una invenzione recente, quantomeno nel suo attuale significato
semantico, di solito caricata di forti ambivalenze: dal riferimento alla monotonia, sicurezza,
banalità del “quieto vivere”, all’esterno dell’ “orrore del quotidiano”, della maniacalità
ossessiva e celata che esplode in forme patologiche di delitto sotto la coltre della
rispettabilità, da cui traggono alimento le pagine di cronaca nera… o alle forme di
assassinio come unica possibilità di affermazione.
- Io credo che al momento ci siano due tipi di persone. Chi assassina e chi muore. Nella
stragrande maggioranza apparteniamo al secondo dei due. Non abbiamo la disposizione,
la furia, o quel che sia, per essere assassini. Lasciamo che la morte arrivi… Ma pensa a
cosa si prova ad essere un assassino… se muore l’altro, non puoi morire tu. Ucciderlo
significa guadagnare credito vitale… è la spiegazione di qualsiasi massacro, guerra,
esecuzione…
- Stai dicendo che l’uomo nella storia ha sempre cercato di guarire dalla morte uccidendo?
- È evidente!
- E la definisci una cosa eccitante?
- Sto parlando in teoria. In teoria la violenza è una forma di rinascita… Più una banda di
predoni ammassa cadaveri, più ammassa forza.
- E questo cosa c’entra con me?
- È teoria. Siamo un paio di accademici che stanno facendo una passeggiata. Ma
immagina lo shock viscerale di vedere l’avversario insanguinato nella polvere…
- Aumenterebbe la mia riserva di credito come una transazione bancaria?
- Il nulla ti sta fissando in faccia. Oblio totale ed eterno. Cesserai di essere Jack. Chi
muore lo accetta e muore. L’assassino, in teoria, tenta di sconfiggere la propria morte
ammazzando gli altri. Compera tempo. Compera vita…
- (…)
- Tu sei un assassino o uno che muore, Jack?
- La risposta la sai già. È tutta la vita che muoio.
(da Rumore bianco di Don DeLillo)
Ora motus sposta paradossalmente questa ambivalenza sul proprio stesso fare teatro,
oggi più che mai spaccato fra le dinamiche mortifere delle istituzioni teatrali e dei circuiti e
l’originario fondamento libertario e, perché no?, anche un po’ assassino…, intendiamo
fondare il prossimo nuovo percorso di lavoro su questa tensione metaforica…
“Percorso di lavoro”, “ricerca”: sono anni che riempiamo pagine di questi termini, che
parliamo della nostra “sperimentazione”, della nostra “poetica”, sono oltremodo stanca
della inadeguatezza di questo linguaggio rispetto a ciò che realmente avviene in seno a un
gruppo ogni qualvolta decide di iniziare una nuova produzione… rispetto alla necessità
vitale che ci pervade e ci spinge ad addentrarci sempre più pericolosamente fra i meandri
del sentire e del vedere.
Ci guardiamo disperatamente e/o ironicamente attorno per cercare di prendere a morsi il
contemporaneo e non farne del volgare reality show televisivo o della compiacente
autocelebrazione: lo mettiamo in scena sotto una falsa cornice patinata che estremizza i
contrasti e le contraddizioni operando attraverso filtri “vetrificanti” tanto che
… Tutto avviene attraverso un violento effetto di distanziamento, di raffreddamento quasi –
i filtri in plexiglas funzionano a mio parere in questa direzione… - restituendo allo sguardo
dello spettatore una immagine-frammento patinata, dalla catastrofica-abbagliante verità.
Come scrive Deleuze, tanto spesso citato dai Motus, “il realismo della deformazione
distrugge l’idealismo della trasfigurazione”. Cose, temi e forme si de-cosificano e si deformalizzano in un movimento di linee e azioni continuamente spezzate che fondano una
teatralità ambigua, molteplice e pluriforme, direi tentacolare. È un teatro cinico e barocco
al tempo stesso, che unisce in sé il freddo distacco della perversione, che estremizza gli
elementi scenici mediante segni e feticci (parti al posto del tutto) e il bruciante eccesso
della passione, della dedizione totale alla scena, allo stare in scena: parlerei di un “freddo
ardore”, o di un “gelo bruciante”…
(Roland Van Wassenhove)
Rooms si pone in continuità con tutta la strada percorsa, è conseguenza ultima di Orfeo,
per quel che riguarda la riflessione sugli spazi interni e borghesi, il sonoro e il taglio
cinematografico, ma abbandona ogni riferimento al nucleo tematico unificante.
Con Orfeo il mito viene ridisegnato come “interior design” e “rimasterizzato digitalmente”
per un possibile equilibrio dinamico con una allucinata narrazione consequenziale: è
comunque il centro attorno a cui ruota la struttura caleidoscopica dello spettacolo
inseguendo anche una possibile strada di conciliazione con il Teatro che per lungo tempo
ci ha discriminato e aborrito.
Ancora oggi c’è chi sostiene che Motus non fa teatro ma mera provocazione: ancora oggi
sentiamo più che mai necessario provocare con il teatro, cercare lo stupore o il rifiuto dello
spettatore, il sommovimento o lo spaesamento, standocene dentro però, agendo
dall’interno del Sistema teatrale stesso, della Struttura.
O – Ma tu da che parte stai?
H – Nessuna. Non affronto né contesto. Non dialogo. Osservo. Sono allontanato dalle
cose umane con tacito decreto d’insignificanza: non faccio parte di nessun repertorio,
assisto, o forse meglio abito la struttura.
O – Quale struttura?
H – Qualsiasi, la tua casa, questa scenografia, tu stesso,… ogni struttura è tale in quanto
è abitabile ed io posso benissimo abitare – come fan tutti – ciò che non mi rende felice,
posso lamentarmi e continuare a restare dove sono, posso rifiutare il senso della struttura
che subisco ed accettare senza troppo soffrire i suoi cascami di tutti i giorni, abitudini,
piccole sicurezze… e di questa continuità delle cose, delle abitudini, della struttura… ne
ho fatto un gusto perverso e divertito… L’eterno è ridicolo!
(Dialogo tra Orfeo e l’angelo Heurtebise in Orpheus Glance)
Abbiamo prodotto uno spettacolo teatrale come Orpheus Glance, che riflette e ironizza
sulle dinamiche del teatro stesso confrontandoci con l’apparato e il palcoscenico
tradizionale; ora è necessario un nuovo periodo di esperimenti per scardinare i parametri
consueti della fruizione e della stessa esibizione da parte degli attori.
Ci affidiamo ai nostri vecchi, cattivi, compagni di viaggio, come Ballard e Bret Easton Ellis,
un “catastrofista” e un “minimalista dell’orrore”, per citarne solo alcuni proprio perché
volendo concentrarci sul nostro quieto qui e ora, non possiamo limitarci a una mera
“filosofia del sorvolo” sulla realtà, ma intraprendere un rapporto carnale, di presa diretta sul
presente, attingendo anche ai clichés della letteratura seriale in quanto fattori significativi
di un’epoca che, nella sua “compiuta peccaminosità”, è riuscita ad estetizzare anche i
propri incubi peggiori.
Tanto più paiono distanti e irreali le tragiche vicende quotidiane di guerre e massacri di
massa del terzo mondo (e non solo), tanto più si accende l’attenzione perversa per gli
eventi criminali dell’uomo qualunque, del serial killer di provincia, che condivide la stessa
anonimia di tutti.
Ellis costruisce personaggi essenziali in cui fonde il nichilismo supremo di alcune
manifestazioni esistenziali e la ripetizione ossessiva del quotidiano pervertito. E la
“banalità del male” per dirla con Hannah Arendt, che da Auschwitz trapassa nell’america
Yuppie degli anni ’80… e dilaga.
Non metteremo in scena miti né eroi allora, ma l’imprevedibile delirio dell’uomo qualunque
che risiede in ogni attore, nello spazio asettico e claustrofobico di una stanza d’albergo,
pulita e piena di comfort. Iperrealismo sfrenato, che supera ogni imbarazzo masturbatorio
e l’opacità della noia.
Quando ci sarà occasione alcune pièces verranno ambientate anche all’interno di veri
alberghi per un pubblico limitato di spettatori.
Stanza come micro-mondo, dunque, dove la tensione tra fuori e dentro sarà acutizzata
anche da un dettagliato lavoro sonoro sulle pareti, che esaspereranno ancor più la loro
stessa funzione di schermo tra la realtà interna e quella esterna… pareti che in
quest’epoca stanno sempre più svolgendo una funzione omeostatica.
Rooms di puttane quindi, rooms di vecchi solitari e musicisti falliti, di commessi viaggiatori
e turisti sprovveduti, rooms di assassini e maniaci sessuali, e amanti e filosofi e
adolescenti in fuga…
Micropièces.
Ritratti di varia umanità e violenta real life, senza riserve per squallori e bassezze, senza
riserve nemmeno per attimi di piccola, infinitesima, poesia.
Microcosmi. Momenti per monologhi allo specchio o dialoghi random con il compagno di
stanza, con l’altro essere con cui si condivide forzatamente lo spazio… al telefono o con la
reception… o con chi sta per arrivare…
Possibili variazioni infinite, probabilistiche.
C’è un’amplissima produzione letteraria e teatrale contemporanea a cui andremo ad
attingere, mescolando con libertà e lucida follia situazioni da noi ideate a momenti cult del
cinema, del teatro e della letteratura che più amiamo.
Queste fonti, come certa arte visiva, sono sempre entrate nel nostro teatro, ma hanno
preso vita al di là di un filtro, il vitreo schermo dalla luce troppo cruda della “morte degli
affetti”, l’ultimo male della psiche constatato da Ballard che “dal lampo della bomba di
Hiroshima allo scintillare degli schermi televisivi”, delinea il mondo nuovo, “più freddo e più
astratto!: ora questo filtro si squarcia.
In un paesaggio urbano sventrato come su un tavolo operatorio, poseremo la nostra
room/microcellula, stanza seriale che ospiterà sempre attori diversi (e non), come barlumi
di quell’existenz cronemberghiana che continua ad inquietarci.
Stanza chiusa, inner space, che delimita, contiene, ma possiede un taglio, uno squarcio
appunto, da cui è possibile vedere l’interno.
Un taglio, una sezione di stanza: tutto il nostro teatro sta lì, su quella soglia fra
interno/scena/vita? Ed esterno/occhio/pubblico che vede…
In Orfeo la soglia era lo specchio fra mondo e oltremodo, in Rooms sarà passaggio fra
reale e iperreale, perché quando isoli e delimiti il campo scenico ogni accadimento si
carica di una forza rivelatoria nuova che supera il reale o la banalità dello “stare facendo
finta che”…
In Rooms questa soglia non è delimitata o rafforzata da uno schermo, è una semplice
apertura, senza veli: la Room potrà essere collocata ovunque, anche e soprattutto in
luoghi non teatrali, quindi posta a una vicinanza imbarazzante, di contiguità sospetta con
gli spettatori.
Inoltre: Room come Set, come luogo della finzione cinematografica, che vive, proprio per
la doppia connotazione, una forma di realtà nuova, violenta, dove esistenza e oggettività
fuoriescono dalle categorie “vero-falso” e tutti i componenti si scambiano, così come le
coordinate spazio/temporali, in un gioco di incastri e destabilizzanti relazioni.
Penso a una struttura compositiva policentrica, dove i singoli eventi sono numerati in base
alle stanze e alle sezioni della sceneggiatura complessiva che andrà a complicare la
struttura di tutta l’operazione ponendosi sempre come ulteriore livello di lettura.
Ci sarà dunque un doppio genere di accadere scenico in quanto, come in Glamorama di
Bret Easton Ellis, la presenza di una misteriosa troupe che filma e scruta dall’esterno,
come terzo occhio tra scena e spettatore, acutizzerà il dubbio sul nostro fare teatro.
We’ll slide down the surface of things.
(da Glamorama di Bret Easton Ellis)