Sind wir ein Volk? Siamo un popolo?
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Sind wir ein Volk? Siamo un popolo?
Sind wir ein Volk? Siamo un popolo? di Vittorio Emanuele Parsi Docente di Relazioni internazionali, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Quando, nell’estate del 1989 iniziarono le prime proteste di massa nei confronti del regime comunista della Repubblica Democratica Tedesca (DDR), i contestatori intonavano lo slogan “Wir sind der Volk!”, noi siamo il popolo, a ricordare ai dirigenti del partito come essi stessero tradendo quel popolo che pretendevano di rappresentare. In poche settimane quel grido, già di per sé una sfida frontale lanciata alla leadership comunista, venne sostituito dal più radicale “Wir sind ein Volk!”, noi siamo un popolo: era un vero e proprio requiem nei confronti dell’esistenza stessa della DDR, la rivendicazione che a un solo popolo dovesse corrispondere un solo Stato, che in pochi mesi avrebbe portato alla riunificazione tedesca sotto la guida di Helmut Kohl. Un popolo, uno Stato: contro questa logica semplice e intuitiva, che era stata alla base dei movimenti di risveglio nazionale del XIX e della prima parte del XX secolo, le istituzioni comuniste avevano condotto una lotta che oggi ci appare fosse irrimediabilmente destinata alla sconfitta, ma che per decenni era sembrata quasi la logica conseguenza del superamento dei nazionalismi in nome di ideali implicitamente cosmopoliti (il liberalismo e il comunismo), sostenuti dalla divisione del sistema internazionale in due blocchi contrapposti. In fondo, la divisione tedesca trovava altri corrispettivi in Corea e Vietnam (almeno fino al 1975) e persino in Cina, sia pur sproporzionatamente, in quella tra la Repubblica Popolare la Repubblica di Cina. L’identità dell’Italia oggi A quasi 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, possiamo noi italiani affermare con la stessa efficace sicurezza e semplicità dei nostri amici tedeschi “Wir sind ein Volk!” (“Noi siamo un popolo!”)? La domanda ha evidentemente un suo contenuto consapevolmente provocatorio, ed è opportuno chiarire subito che non prelude a nessuna nostalgia o utopia separatista. Ma vuole semplicemente consentire una riflessione, disincantata ma “non apolide”, sul sentimento dell’italianità oggi, in questo Paese. È fin troppo chiaro che una identità italiana fatta di cultura “alta”, costumi e consumi, di cucina e tv, di finali di Miss Italia e Campionati del Mondo di calcio esiste. Esiste ancor più evidente, a pensarci bene, una italianità degli “italiani fuori di Italia”, che spesso sembra una sorta di amalgama, in cui si mescolano nostalgia e spezzoni di identità regionali, di dialetti, di tradizioni, che, a contatto con un am- 103 Sind wir ein Volk? Siamo un popolo? 104 biente diverso – in cui siciliani, lombardi, toscani o napoletani sono comunque Italians, Italiennes, o Italianos – “diventa” italianità. Esiste persino una “italianità d’adozione o elettiva”, di chi del bel Paese apprezza l’antica cultura, l’arte, il saper vivere di coloro, sempre meno, che ancora possono permettersi di sapere come vivere, in una specie di “slow food” dell’anima nazionale. Ma quanto gli italiani di Italia si sentono ancora italiani? E soprattutto che valore ascrivono a questa identità in termini politici? Simili domande riguardano il senso eminentemente politico dell’italianità, il sentirsi partecipi di un medesimo destino nazionale, ancor più che di una comune origine, il sentirsi “specialmente affratellati” da una medesima e condivisa identità (politico-nazionale). Alcuni anni orsono in un breve ma importante saggio dedicato alla “Morte della patria”, Ernesto Galli della Loggia rifletteva su quanto la cesura della guerra civile – e soprattutto il modo in cui, l’8 settembre 1943, si erano liquefatte le istituzioni pubbliche costruite attraverso il Risorgimento – avesse decretato la fine di un modello di patria, elitario ma non incoerente almeno fino all’avvento del fascismo, senza riuscire a sostituirlo con un altro completamente condiviso. Nell’epoca della transizione infinita, inaugurata per via giudiziaria nel 1993, ma in realtà messa in moto proprio dal 1989 e dalla fine della Guerra fredda, il ricorrere del 150° dell’unità nazionale ripropone il dibattito sull’italianità. Il rischio maggiore è quello che esso assuma immediatamente le sembianze di un discorso risaputo, con la riproposizione di polemiche tanto antiche quanto sterili: a cominciare da quella della “freddezza” cattolica verso il processo risorgimentale e la costruzione della nuova Italia. Si tratta di una notazione non totalmente infondata (per quanto spiegabile), ma altrettanto superata proprio grazie agli eventi novecenteschi. E soprattutto si tratta di una polemica che non porta alcun contributo allo sforzo, necessario, di riconsiderare che cosa significhi oggi essere italiani, dove radici profonde coesistono con innesti potenzialmente assai fertili ma non per questo non problematici, al netto di una territorialità che continua a essere un elemento strategico di qualunque statualità, anche in questa fase storica. Popolo e dimensione politica L’altra secca concettuale da cui dovremmo assolutamente guardarci è quella che ripropone un’essenza di popolo a prescindere dal ruolo delle istituzioni pubbliche e politiche e dalla loro dignitosa performance. Nella sua dimensione politica, infatti, un popolo esiste perché è “convocato”, è chiamato dalle istituzioni ad acquisire consapevolezza di sé. C’è, tra popolo e istituzioni politiche, un rapporto simbiotico, per cui ne l’uno né le altre possono davvero “stare” in maniera solitaria. È il Senato che “convoca” e fa esistere il “Popolo di Roma”, come l’acronimo SPQR non si stanca di ricordarci da oltre duemila anni. È la République che si fa levatrice della Nation, nel 1789, consentendo alle comunità economiche e sociali e ai milioni di singoli individui che sono in Francia – e già “fanno” la Francia – di rinascere “francesi in quanto cittadini”. Sono state le istituzioni politiche sabaude, fasciste e poi repubblicane a tentare di forgiare il popolo italiano. E anche da questa storia, ci piaccia o meno, non possiamo prescindere. Senza questa consapevolezza è totalmente velleitario immaginare di poter realizzare un ideale di nazione che, invece di mortificarle, valorizzi le identità plurali che, tutte insieme, concorrono a formare l’identità politica di un popolo e a consentire un più agevole perseguimento del bene comune. Nella sua dimensione politica, un popolo esiste perché è “convocato”, è chiamato dalle istituzioni ad acquisire consapevolezza di sé. Abituati come siamo a contemplare, con senso tanto profondamente critico quanto altrettanto impotente, le non proprio brillanti prestazioni dell’apparato pubblico e la litigiosità talvolta furibonda delle sue istituzioni, molto spesso è prevalsa in Italia la convinzione che nella penisola esistesse un popolo, o una società, definibile in maniera nazionale, che si ergeva di fronte alla malferma costruzione istituzionale dello Stato, magari fino a prenderne il posto, fino a sostituire questo con quella, quasi a voler ribaltare la celebre sentenza di Massimo D’Azeglio: “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”. In realtà, il mantra del fallimento istituzionale non serve a molto, oltre a essere storicamente infondato. Possiamo tranquillamente criticare la qualità del tessuto istituzionale e delle sue prestazioni; anzi, in quanto cittadini, dobbiamo farlo. Ma a condizione di sapere fin dall’inizio che una riedizione in chiave “aggregata” del mito rousseviano del buon selvaggio non ci porterà davvero molto lontano. La difficoltà di dirsi “italiani” è sempre stata politica, e quindi legata alle incerte istituzioni (politiche) nazionali. D’altronde, se guardiamo alle cose per quello che sono, negli ultimi vent’anni poche istituzioni squisitamente nazionali e dal connotato di politicità evidentemente ineludibile come le Forze Armate hanno dimostrato una così ragguardevole capacità di autoriforma e miglioramento. A prima vista paradossalmente, la professionalizzazione delle Forze Armate, la fine del servizio di leva (che pure ha avuto conseguenze non solo positive nel campo delle “esternalità sociali”) ha prodotto non solo un miglioramento dell’efficienza dello strumento militare (come era auspicabile eppure non così scontato), ma anche un rinnovato sentimento di confidenza, rispetto e attaccamento verso le istituzioni militari e i valori di patriottismo democratico che esse incarnano. Sarà che la figura del cittadino-soldato da tempo era andata appannandosi, ma proprio la sua sostituzione con il cittadino che esercita il “mestiere delle armi” ha rinvigorito il rapporto tra società e Forze Armate. 105 Sind wir ein Volk? Siamo un popolo? Fare gli italiani 106 Quando Tomaso Padoa Schioppa, in un articolo comparso sul Corriere della Sera, invitava a concentrare le nostre riflessioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia in maniera esclusiva o prevalente sull’aspetto istituzionale, tralasciando il popolo dal nostro campo di osservazione, probabilmente sbagliava per eccesso. Ma di sicuro non avrebbe molto senso rinnovare, declinata in chiave postrisorgimentale, l’ennesima favola di una società migliore della sua classe politica, di un popolo tradito dalle sue istituzioni, o di élite fannullone sempre pronte a defezionare. Ci sono almeno due temi che invece meriterebbero di essere affrontati seriamente, sempre che si voglia davvero cogliere l’opportunità del 2011 per un festeggiamento che implichi anche la volontà di portare a compimento un percorso, complicato eppure ancora entusiasmante, come quello di “fare gli italiani”. Il primo è quello della riforma delle leggi per l’ottenimento della cittadinanza, che vede nel presidente della Camera uno dei massimi mentori, e che è sostenuta soprattutto dalle opposizioni. Il secondo è quello dell’attuazione effettiva della timida riforma federalista dell’assetto repubblicano, cara alla Lega Nord e a parte del Popolo della Libertà. A dar retta al vociare delle fazioni politiche che ne sostengono le ragioni, sembrerebbe trattarsi di due temi fieramente opposti, rappresentati da due Italie diverse, sostenitrici di valori quasi incompatibili. Invece, non può sfuggire come essi siano strettamente collegati e coerenti l’uno all’altro. Rendere più agevole l’acquisizione della cittadinanza, disegnare un percorso più chiaro, veloce e rigoroso per tutti coloro che desiderano diventare cittadini italiani, cioè parte del popolo italiano, significa liberare questo nobile concetto – il cittadino come nucleo atomico, mattone della costruzione della libertà – da qualunque possibile residuo xenofobo o particolaristico. Se il popolo è fatto di cittadini, se l’italianità politica si declina nella cittadinanza democratica, allora la via alla cittadinanza deve diventare un’ascesa alla pienezza di essere parte di una comunità politica. Liberismo e cristianesimo Recitava un articolo della Costituzione dell’anno I (1793): “È cittadino francese chiunque abbia ben meritato per la Repubblica”. I giacobini, che pure adottarono questo testo, com’è noto, lo tradirono, trasformando i nemici della “loro” idea di Repubblica in non-cittadini. Ma in quella frase è contenuta un’aspirazione in cui, per davvero, il liberalismo politico e il cristianesimo si sfiorano, in barba alle facili contrapposizioni tra mondo laico e mondo cattolico che fa comodo a tanti alimentare. Se la Repubblica era una nuova costruzione politica fondata sull’idea di uguaglianza e libertà, allora non aveva alcun senso che l’acquisizione della cittadinanza repubblicana potesse essere preclusa a chiunque credesse in quei valori e li facesse propri, al di là delle sue origini etniche. Si diventa cristiani, ma si nasce gentili. Si “diventa” cittadini anche perché si scelgono una patria e un popolo a cui appartenere. Oggi, di fronte alla pressione dei tanti che provengono da terre inospitali, che non potrà che crescere, offrire la via della cittadinanza come sentiero supremo di integrazione significa rendere un servigio alla comune nozione di umanità, a chi ha messo in gioco tutto per una speranza di vita migliore per sé e per i propri figli, e a noi stessi, ridando lustro antico e moderna attualità a quella semplice locuzione “civis romanus sum”, ancora oggi fondamento per qualunque concezione inclusiva di cittadinanza. Ma, affinché la nuova valorizzazione di questo vero e proprio elemento essenziale della democrazia, non corra il rischio di divenire uno strumento di neostatalismo, di ennesima dominazione dell’apparato pubblico-statale sulla società civile, occorre spostare davvero le attività di Governo il più vicino possibile ai governati. Senza federalismo, senza sussidiarietà orizzontale e verticale, persino una riforma così importante come quella che presiede i meccanismi di acquisizione della cittadinanza potrebbe trasformarsi nell’opposto di quella conquista di libertà, di quel servizio a un’idea alta di bene comune che invece essa può ben rappresentare. È solo perché le istituzioni presiedono alla creazione del popolo, nell’accezione squisitamente politica del termine, che il dibattito sulla loro riforma, e sull’attuazione delle riforme già formalmente approvate, merita la nostra passione e il nostro impegno civile. 107