lehman brothers: vita e morte dei fratelli terribili

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lehman brothers: vita e morte dei fratelli terribili
LEHMAN BROTHERS: VITA E MORTE DEI FRATELLI TERRIBILI
Martedì 23 Settembre 2008 01:06
di Mario Braconi
La ditta Lehman Brothers nasce a Montgomery, Alabama, nel 1847: allora era solo un piccolo
emporio gestito da una famiglia di immigrati tedeschi di origine ebraica con il pallino del
commercio del cotone. Il vero salto di qualità arriva quanto i fratelli Emanuel e Mayer Lehman si
trasferiscono a New York, dove abbandonano le materie prime ed iniziano a trattare carta, nel
senso di titoli finanziari: sono diventati banchieri. L’incredibile parabola di Lehman Brothers, che
si estende per 150 anni di storia americana, può forse aiutare a comprendere i miti che
alimentano la psicologia del Paese: il duro lavoro che conduce immancabilmente al successo,
la smisurata, incrollabile fiducia in se stessi, la spregiudicatezza e l’arroganza nel mondo degli
affari. Tutti valori in cui Lehman ha sempre dichiarato di credere fortissimamente. Lehman è
tra le aziende che subirono in prima persona la tragedia dell’11 settembre 2001: eppure
l’attacco alle Torri Gemelle, che devastò i suoi uffici di New York (uccidendo un dipendente e
lasciandone all’aperto altri 6.500), sancì l’inizio di un’epoca di grande sviluppo per la banca: i
livello dei tassi, mantenuti bassi dalla Federal Reserve per favorire la ripresa, costituì per
Lehman (ma anche per altre banche) un incentivo a spingere l’acceleratore su operazioni a uso
intenso del credito (come alternativa del capitale proprio) e sulle cartolarizzazioni
(securitization); su operazioni, insomma, che hanno finito per rendere il sistema sempre più
instabile.
Ken Auletta, penna di The New Yorker ed autore (negli anni 80) di un best seller dedicato
proprio al “crollo di Casa Lehman”, ricorda che la “filosofia aziendale” della banca ha sempre
posto al centro del suo sistema di riferimenti la fede nel primato assoluto ed incondizionato
dell’iniziativa personale: è curioso che proprio competitività ed individualismo, le forze che negli
anni hanno assicurato a Lehman immensi successi e valanghe di profitti, siano gli elementi che
hanno finito per metterla in crisi e poi perderla. Infatti, negli anni 80, un clima aziendale talmente
competitivo da risultare patologico la indebolì a tal punto che divenne preda di American
Express: nel 1984 la società nota per l’omonima carta di credito la comprò e nel 1988 la
trasformò in una sua divisione.
Né vi sono dubbi sul fatto che la storia degli ultimi decenni di Lehman coincida con quella del
suo Presidente ed Amministratore Delegato, Richard Fuld, detto “il gorilla”, 62 anni, di cui quasi
40 passati in Lehman: quando American Express scorporò la divisione banca d’affari e la mise
sul mercato con il nome di Lehman Brothers Holdings, Inc., fu Fuld, con la sua incomparabile
abilità a mettere a profitto i tradizionalmente risicati mezzi propri di Lehman, a farne una delle
banche più importanti di Wall Street, in grado di trattare da pari a pari con Morgan Stanley,
Merrill Lynch, Goldman Sachs e Bear Stearns. E’ altrettanto vero che è stata la catena di errori
drammatici inanellati da un sempre più solitario, indisturbato, dispotico ed autocratico Fuld a
spacciare Lehman.
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L’inizio della fine di Lehman può essere datato nell’ottobre del 2007, quando la banca, in
associazione con Tishman Speyer Properties, uno dei principali operatori del mercato
immobiliare al mondo, acquistò Archstone-Smith Trust, una società che possedeva al momento
della conclusione dell’affare circa 88.000 unità immobiliari. Apparentemente incurante delle
indicazioni inequivocabili di un rallentamento del mercato immobiliare, Lehman e il suo partner
montarono un’operazione strutturata da oltre 22 miliardi di dollari (inclusa l’assunzione del
debito preesistente), cui parteciparono, tra gli altri, Freddie Mac e Fannie Mae (le due istituzioni
recentemente nazionalizzate dal Governo degli Stati Uniti), oltre a Bank of America e Barclays,
la banca britannica con cui Lehman aveva una delle esposizioni più importanti e che ora ne
acquisirà le attività negli USA.
La strategia era quella di vendere appartamenti ed uffici per ripagare il debito: i potenziali
acquirenti, però, non si fecero avanti, proprio perché attendevano il crollo dei prezzi che si
sarebbe verificato effettivamente di lì a poco. Poiché quella di Archstone non è stata l’unica
operazione immobiliare consistente in cui Lehman si è lanciata; alla fine la banca si è trovata
con 30 miliardi di immobili che non riusciva a vendere e con una capitalizzazione di Borsa
passata dai 60 miliardi dell’era pre-Archstone ai 2 miliardi di dollari. Anche di fronte alla débacle
ormai evidente, Fuld rimase arroccato sulle sue posizioni mancando di imprimere quella svolta
radicale che forse avrebbe salvato la banca e 26.000 posti di lavoro.
Il primo problema di Fuld, infatti, è il carattere: il Financial Times lo definisce un “egocentrico
patologico” e un “narciso”, sottolineando acidamente che altre banche più affidabili, come
Goldman Sachs, non potrebbero mai essere gestite da persone così lontane dalla realtà. E’
impossibile perfino immaginare che un operatore finanziario tanto navigato (e conosciuto fino
ad allora per l’abilità nell’assunzione di rischi calcolati) potesse ignorare gli effetti che una crisi
come quella dei sub-prime avrebbe prodotto sulla Lehman, molto esposta verso il settore
immobiliare. Eppure a giugno, pur di non esporsi ad un pubblico confronto in cui una persona
equilibrata avrebbe sentito il dovere morale di ammettere gli errori commessi, Fuld si mise a
giocare a nascondino, inventandosi un impegno di lavoro in India e delegando la sua CFO
(Direttore Amministrazione Finanza e Controllo) Erin Callan a rappresentare Lehman in una
teleconferenza con gli investitori. Poiché Callan anche in quell’occasione manifestò una
condotta pericolosa per il mantenimento dell’immagine proiettata dall’ego di Fuld, quali
“sollecitare i colleghi a fornire più informazioni di quanto normalmente faccia un CFO” e
“mettere in guardia gli investitori spiegando loro che le coperture messe in atto da Lehman per
ridurre i rischi dell’esposizione sul mercato immobiliare erano saltate”, Fuld la rimosse
dall’incarico, spingendosi ad inviare una e-mail ai dipendenti Lehman in cui la accusava di aver
minato (lei!) la credibilità dell’azienda.
Del resto, nel vangelo secondo Richard era scritto che il crollo delle quotazioni di Lehman era
opera del demonio, ovvero di altri operatori bancari, decisi a vendere allo scoperto le azioni
della banca: benché la speculazione sia innegabile, la picchiata dei titoli della banca di New
York era invece dovuta principalmente al fatto che gli investitori e gli analisti ritenevano che
Lehman non avesse provveduto a svalutare il proprio attivo in modo tale da riflettere
adeguatamente le perdite. Quando poi la crisi ha raggiunto il punto di non-ritorno - vendere o
morire - Fuld si è dimostrato così “patologicamente incapace” di privarsi della sua creatura da
rendere il disastro inevitabile: sono sfumate infatti, a causa della sua ostinata opposizione, tanto
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le trattative con la Korea Development Bank, interessata all’acquisto della intera banca, quanto
quella con il gruppo finanziario Carlyle, desideroso di metter le mani sulla controllata Neuberger
Berman.
Anche se ha perso la faccia davanti al mondo finanziario, anche se ci sono migliaia di
dipendenti della Lehman che lo strozzerebbero con piacere e anche se le sue stock option
valgono meno di un biglietto della metro, Fuld non dovrà preoccuparsi del suo futuro: i suoi
stipendi dal 1993 al 2007, cumulati, ammontano a 466 milioni di dollari. Una discreta pensione
anticipata.
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