Tribunale Penale di Terni-Ufficio del Giudice monocratico
Transcript
Tribunale Penale di Terni-Ufficio del Giudice monocratico
TRIBUNALE PENALE DI TERNI – UFFICIO DEL GIUDICE MONOCRATICO Sent. 4.12.02 – Est. Santoloci – Imp. (…) Le acque dei frantoi oleari, di regola insediamenti industriali, sono soggetti alla ordinaria disciplina del combinato disposto del decreto legislativo n. 152/99 sugli scarichi e del decreto legislativo n. 22/97 sui rifiuti, rispettivamente in caso di scarico dei reflui con immissione diretta su corpo ricettore autorizzato o in caso di riversamento in vasca aziendale e successiva gestione del liquame nel contesto del sistema dei rifiuti liquidi costituiti da acque reflue. Lo scarico è soggetto ad autorizzazione mentre il riversamento in vasca è disciplinato dalle norme sul deposito temporaneo e lo stoccaggio; il trasporto dei liquami necessita del formulario e degli altri adempimenti formali del decreto n. 22/97. La legge 11 novembre 1996, n. 574 che reca “Norme in materia di utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione e di scarichi dei frantoi oleari”, disciplina soltanto la successiva ed eventuale fase di spandimento dei liquami sul suolo, in deroga all’avvio dei rifiuti liquidi di acque reflue verso lo smaltimento o il recupero. I “laghetti” aziendali sono disciplinati, secondo i casi e le ipotesi di illegalità, dal sistema normativo inerente il deposito temporaneo, lo stoccaggio e la discarica entro il contesto del decreto n. 22/97 sui rifiuti. MOTIVAZIONE (…) veniva citato per comparire in data odierna davanti a questo Giudice per rispondere della imputazione in epigrafe trascritta. Incardinato il presente giudizio, l’ imputato non si presentava. Il P.M. effettuava la sua relazione. Svolta l’istruttoria dibattimentale di rito, rappresentante del P.M. e difesa concludevano formulando le rispettive richieste come in verbale di udienza riportato. Osserva il Giudice che sussistono pieni elementi di prova a carico dl prevenuto desunti dalle risultanze dibattimentali. I riscontri dibattimentali Il teste (…) dichiarava: “ Pubblico Ministero: lei il 27 luglio del 2001 effettuò un sopralluogo presso la ditta oleificio La Corte. Teste (…) : sì. Pubblico Ministero: se può riferirci chi era il titolare della ditta e che cosa avete accertato sul posto. Teste (…): il titolare della ditta era il signor (…), che con noi era presente sia in parte al sopralluogo che in parte alla redazione del verbale di sopralluogo. Noi abbiamo accertato, insieme al Tenente (…), che esisteva presso il mulino una buca, uno scavo effettuato, pieno di fanghi, liquami provenienti dall’attività di molitura delle olive. A detta dello stesso (…) questi liquami erano giacenti da parecchio tempo nel luogo e soprattutto che gli stessi erano stati additivati. Pubblico Ministero: erano stati? Teste (…): additivati, nel senso che erano stati messi degli enzimi su questi liquami. Dopo di che constatammo che intorno all’area, a questa buca, c’era della vegetazione e non c’era… era come in stato di abbandono, nel senso che non c’era nessuna né protezione, anche l’accesso era non molto facile, in quanto c’era molta vegetazione intorno. Questo qui. Pubblico Ministero: quindi intorno a questo deposito? Teste (…): sì, dopo di che… Pubblico Ministero: quindi, senta, i rifiuti liquidi provenivano dall’oleificio? Teste (…) : sì, il (…) lui li stoccava lì, ossia le acque di vegetazione derivanti dalla molitura delle olive. Pubblico Ministero: avete riscontrato altre violazioni? Teste (…): ci siamo recati presso la sede della ditta per verificare la corretta gestione di questi rifiuti, riscontrando che non erano presenti né i registri di carico e scarico di rifiuti, né tanto meno i registri previsti a suo tempo in relazione ad una delibera regionale per la… cioè, per la gestione delle acque di vegetazione. In merito a questo abbiamo elevato sanzione amministrativa che però a tuttora non è stata pagata, non so se lo abbiamo iscritto ai ruoli ultimamente.” Il fatto storico-oggettivo: la prova fotografica A livello storico-oggettivo, osserva il Giudice che le foto in atti documentano in modo inequivocabile la realizzazione di un vasto riversamento su terreno di liquami da parte dell’azienda della quale il prevenuto è titolare fino al punto di formare sostanzialmente un invaso con giacenza permanente e rilevante dei liquami medesimi. Nel gergo di uso comune di settore tale invaso viene indicato come “laghetto”. La composizione, naturalmente, è specifica e costituita dai liquami provenienti dalle attività di lavorazione di frantoio. Sugli aspetti oggettivi e documentali non sussistono dunque agli atti ipotesi di dubbio, e le immagini fotografiche confermano in modo inequivocabile lo stato dei luoghi. Per inciso, tali foto – realizzate dagli organi investigativi - devono essere consdiderate atti irripetibili a tutti gli effetti formali e procedurali e dichiarate utilizzabili ai fini del deciderel. Vediamo, a titolo di esempio, la seguente massima: «La contravvenzione di distruzione o deturpamento di bellezze naturali è reato di danno che può essere integrato da qualunque sostanziale alterazione di bellezze naturali, pure se non di consistente gravità. La prova del reato può essere desunta anche da materiale fotografico» (Cass. pen., sez. unite, 8 maggio 1989, n. 6883 - Liberati) e sancisce perfino che i fotogrammi estratti dalle riprese filmate effettuate dalla polizia giudiziaria possono essere acquisiti al dibattimento come documenti (Cass. pen., sez. VI, 6 febbraio 1996, Petrangeli). Ancora sulla validità delle foto come atti irripetibili in dibattimento: «È atto irripetibile quello mediante il quale la polizia giudiziaria prende cognizione diretta dello stato dei luoghi ovvero di fatti, situazioni, comportamenti umani, dotati di rilevanza penale, e suscettibili, per la loro natura, di subire modificazioni o addirittura di scomparire, sì da essere in seguito soltanto riferiti. Ne deriva che le fotografie, nelle quali sia stato riprodotto lo stato di una località ove siano eseguiti lavori di escavazione vanno annoverate tra gli atti irripetibili, poiché la situazione di fatto è soggetta a trasformazioni continue e anche a un possibile ripristino.» (Cass. pen. sez. III, sentenza 2 aprile-9 maggio 1996, n. 4673). Le Sezioni Unite hanno poi confermato definitivamente tale principio: “I verbali di sopralluogo e di osservazione, con le riprese fotografiche connesse, in quanto riproducenti fatti e persone individuati in situazioni soggette a mutamento costituiscono atti irripetibili ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 431, lett. b), c.p.p. (Nell'occasione la Corte ha precisato che l'irripetibilità deriva dall'impossibilità di riprodurre al dibattimento la situazione percepita e rappresentata in un determinato contesto temporale, spaziale e modale non rinnovabile, la quale verrebbe altrimenti dispersa ai fini probatori)”. (Cass. pen., sezioni unite, sentenza 11 marzo 1999 n. 4 - La Torre). Ancora la Corte ha stabilito che "i verbali di sopralluogo e di osservazione, con le connesse riprese fotografiche, redatti dalla polizia giudiziaria costituiscono atti irripetibili, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 431, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale" (Cassazione Penale - Sezione IV - Sentenza dell'11 gennaio 2000 n. 145 - Pres. Fattori). Va sottolineata questa evoluzione giurisprudenziale della Cassazione che, citando prima le fotografie in se stesse, giunge poi a considerare praticamente il fascicolo fotografico come un vero e proprio "verbale illustrato". I rilievi fotografici non devono essere realizzati con macchine particolari e non sono necessari data ed orario prestampati sulle foto: trattasi di atto realizzato dalla P.G. secondo schemi generali di rito e dunque la firma dell’operatore che ha realizzato le foto e che ha trascritto a parte date, luoghi ed altre notizie legittima tutto l’atto secondo gli ordinari schemi dei verbali e fa fede fino all’eventuale accertamento della falsità. Devono essere considerate perfettamente valide e legittime anche le foto digitali e quelle realizzate con macchine istantanee senza negativo. Le questione in punto di diritto: la normativa di settore applicabile • • 1. 2. 3. 4. Accertata in modo oggettivo e documentale la situazione di fatto, si deve inquadrare a livello giuridico la fattispecie specifica per cui è processo, alla luce dei capi di imputazione contestati. in materia di acque di scarico dei frantoi oleari, sussuste spesso un dubbio applicativo tra la legge 574/96, il dlgs 22/97 ed il dlgs 152/99. I risvolti a livelloo sanzionatorio sono rilevanti. La legge 11 novembre 1996, n. 574 reca “Norme in materia di utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione e di scarichi dei frantoi oleari”. Il Dlgs 5 febbraio 1997, n. 22 reca l’attuazione delle direttive comunitarie in materia di rifiuti, rifiuti pericolosi, imballaggi e rifiuti di imballaggio e rappresenta la “normativa-quadro” in materia di tutela dell’inquinamento da rifiuti. Il Dlgs 11 maggio 1999, n. 152 reca l’attuazione delle direttive comunitarie in materia di acque e rappresenta la “normativa-quadro” in materia di tutela delle acque dall’inquinamento. A ben guardare, quando si parla di acque di scarico dei frantoi oleari, viene da porre mente a tutti e tre i provvedimenti come più sopra menzionati; infatti: la legge 574/1996 è interamente dedicata ad esse; il Dlgs 22/1997, al suo articolo 8, comma 1, lett. e) esclude dal suo campo di applicazione le acque di scarico. Non a caso, però, al medesimo articolo, comma e lettera, ricomprende in tale campo di applicazione i rifiuti allo stato liquido; infatti, nel Dm 5 febbraio 1998 (uno dei principali momenti applicativi del Dlgs 22/1997), allegato 1, suballegato 1, punto 18.6, tra i rifiuti non pericolosi che possono essere recuperati usando la procedura agevolata prevista dagli articoli 31 e 33 del Dlgs 22/1997 medesimo, il Legislatore individua le “acque di vegetazione delle olive” e le identifica con il CER 020399 (successivamente transcodificato con il nuovo CER). In tale sede, il legislatore ne individua: provenienza: industria olearia; caratteristiche del rifiuto: rifiuto liquido risultante dalla sprmitura e lavorazione delle olive; attività di recupero: produzione di fertilizzante allo stato liquido conforme alla legge 19 ottobre 1984, n. 748 (R3); caratteristiche delle materie prime e/o dei prodotti ottenuti: fertilizzante conforme alla legge 19 ottobre 1984, n, 748, che prevedano l’utilizzo delle acque di vegetazione delle olive. - il Dlgs 152/199 al suo articolo 38 (sul punto innovato completamente dal Dlgs 18 agosto 2000, n. 258) stabilisce che: “1. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 19 per le zone vulnerabili e dal decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 372, per gli impianti di allevamento intensivo di cui al punto 6.6 dell'allegato 1 al predetto decreto, l'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari, sulla base di quanto previsto dalla legge 11 novembre 1996, n. 574, nonché delle acque reflue provenienti dalle aziende di cui all'articolo 28, comma 7, lettere a), b) e c) e da altre piccole aziende agroalimentari a esse assimilate….è soggetta a comunicazione all'autorità competente di cui all'articolo 3, commi 1 e 2 del presente decreto, fatti salvi i casi di esonero di cui al comma 3, lettera b). 2. Le regioni disciplinano le attività di utilizzazione agronomica di cui al comma 1 sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali adottati con decreto del ministro delle politiche agricole e forestali di concerto con i ministri dell'ambiente, dell'industria, del commercio e dell'artigianato, della sanità e dei lavori pubblici, di intesa con la conferenza permanente per i rapporti tra lo stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore del predetto dm, garantendo nel contempo la tutela dei corpi idrici potenzialmente interessati e in particolare il raggiungimento o il mantenimento degli obiettivi di qualità di cui al presente decreto. 3. Nell'ambito della normativa di cui al comma 2, sono disciplinati in particolare: a) le modalità di attuazione degli articoli 3, 5, 6 e 9 della legge 11 novembre 1996, n. 574; b) i tempi e le modalità di effettuazione della comunicazione, prevedendo procedure semplificate, nonché specifici casi di esonero dall'obbligo di comunicazione per le attività di minor impatto ambientale; c) le norme tecniche di effettuazione delle operazioni di utilizzo agronomico; d) i criteri e le procedure di controllo, ivi compresi quelle inerenti l'imposizione di prescrizioni da parte dell'autorità competente, il divieto di esercizio ovvero la sospensione a tempo determinato dell'attività di cui al comma 1 nel caso di mancata comunicazione o mancato rispetto delle norme tecniche e delle prescrizioni impartite; e) le sanzioni amministrative pecuniarie, fermo restando quanto disposto dall'articolo 59, comma 11-ter.”. • • • • Gli articoli 3, 5, 6 e 9 della legge 574/1996 che devono trovare concreta attuazione nel Dm appena citato sono relativi rispettivamente a: comunicazione preventiva; esclusione di talune categorie di terreni; stoccaggi; controlli. Sul punto si osserva che il citato Dm attuativo è a tutt’oggi in stato di elaborazione. Il concetto di “scarico” • • • Da quanto precede appare evidente che quando ci si trova dinanzi alle acque di vegetazione delle olive, un minimo di dubbio sorge inevitabilmente per capire quale disciplina debba essere applicabile, quella esclusiva (Legge 574/1996), quella sui rifiuti (Dlgs 22/1997 e Dm 5 febbraio 1998) o, ancora, quella sulle acque di scarico (Dlgs 152/1999). Quindi, ci si chiede, se lo scarico non debba essere autorizzato oppure se esso vada autorizzato ai sensi del Dlgs 22/1997 (con quel che ne consegue in termini di scritture come formulari, registri e Mud) o ancora se debba essere autorizzato ai sensi del Dlgs 152/1999. A questo punto, in aggiunta a quanto sopra riportato in ordine al Dgs 152/1997, va necessariamente ricordato, a fini dirimenti della questione, che la definizione di “scarico” è fornita dall’articolo 2, comma 1, lett. bb) di tale Dlgs nei seguenti termini: “ qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione….”. Come è evidente, dalla definizione legislativa si evince con enorme chiarezza quali siano i tratti distintivi dello scarico: esistenza di una condotta che consente l’immissione diretta di acque reflue consentendone una qualsivoglia convogliabilità in un corpo ricettore; ininfluenza di un previo processo di depurazione (quindi, lo scarico non contiene necessariamente acqua sporca); nessuna soluzione di continuità tra il momento produttivo del refluo e la condotta di convogliabilità. La chiarezza di tale definzione legislativa è assoluta ed ha posto fine al concetto di scarico indiretto di cui alla legge 319/1976 (“legge Merli”) che vedeva confluirvi i reflui non convogliati tramite condotta. Il confine tra decreto n. 22/97 e decreto n. 152/99 tra rifiuti liquidi ed acque di scarico Non si può inquadrare specificamente il liquame per cui è processo se non si traccia preliminarmente il rinnovato confine giuridico delineato dalla sinergia del decreto n. 22/97 e del decreto n. 152/99 tra rifiuti liquidi ed acque di scarico. Il D.Lgs. 22/1997 rappresenta la nuova normativa quadro di settore in materia di inquinamento in via generale. Va però osservato che tale decreto, dopo essersi presentato come norma quadro (inquinamento da rifiuti solidi, liquidi ed aeriformi), prevede – espressamente – alcune deroghe specifiche e rinvia ad altra normativa due importantissimi settori: l’inquinamento aeriforme e l’inquinamento idrico. Per quanto riguarda il settore degli inquinamenti idrici, va evidenziato che l’articolo 8 del “decreto Ronchi”, al comma 1, lett. e), crea una deroga parziale per il vastissimo campo dei rifiuti liquidi, i quali – come categoria generale – restano disciplinati dal medesimo decreto. La deroga al D.Lgs. 22/1997, dunque, riguarda soltanto un aspetto parziale del campo dei rifiuti liquidi: le "acque di scarico" dirette. Il D.Lgs. 152/1999 costituisce, pertanto, norma derogatoria rispetto al D.Lgs. 22/1997 solo nel caso in cui i rifiuti liquidi, disciplinati dallo stesso decreto, siano considerati "scarichi". Il D.Lgs. 22/1997 rappresenta la legge-quadro in materia di inquinamento e disciplina tutti i rifiuti solidi e liquidi, mentre sono estranee dal suo campo di applicazione le "acque di scarico" (cfr. articolo 8, comma 1, lett. e). Poiché lo scarico delle acque reflue è disciplinato dal D.Lgs. 152/1999 (e prima dalla “legge Merli”), il “decreto Ronchi” troverà applicazione solo per la parte che il sistema del D.Lgs. 152/1999 in materia di scarichi e tutela acque non regolamenta. Quindi, avremo il seguente campo di applicazione: * D.Lgs 22/97: tutti i tipi di "rifiuti" sia solidi che liquidi in senso stretto * D.Lgs 152/99: le acque reflue di "scarico" * D.Lgs 22/97: anche i "rifiuti liquidi costituiti da acque reflue" (ex scarichi indiretti). Di conseguenza oggi le parole chiave sono di tre tipi all'interno della normativa sugli inquinamenti, incrociata nel rapporto stretto tra i due decreti n. 22/97 e 152/99, e ad ogni terminologia corrisponde un preciso quadro disciplinatorio formale. Abbiamo dunque una tripartizione di sostanze liquide che in se stesse possono apparire sostanzialmente identiche ma che in realtà vengono differenziate dal ciclo di origine e trattamento nonché dai sistemi adottati per gestirle. Si tratta di: • "rifiuti" liquidi di tipo ordinario: sono soggetti integralmente al D.Lgs 22/97 dalla fase di produzione (che può essere aziendale ma anche privata) al deposito temporaneo in sito di produzione, al trasporto mediante veicolo ed alla fase finale di smaltimento all'interno di un impianto di trattamento appropriato; • "acque reflue" (e cioè acque di processo o di scarico diretto): sono soggette integralmente, se la P.A. autorizza preventivamente il sistema connesso, alla disciplina di deroga del D.Lgs 152/99 dalla fase di produzione (che anche in questo caso può essere aziendale o privata), alla fase di depurazione preventiva fino al riversamento mediante canalizzazione diretta verso un "corpo ricettore"; • "rifiuti liquidi costituiti da acque reflue": si tratta in pratica degli ex "scarichi indiretti" (oggi aboliti) che, ad esempio, vengono riversati in vasche o fusti; sono disciplinati integralmente dal D.Lgs 22/97 dalla fase della produzione (aziendale o privata), alla fase del deposito temporaneo nel sito di produzione, al prelievo e trasporto mediante un vettore ed allo smaltimento finale presso un impianto di trattamento appropriato che gestisce rifiuti liquidi. Va sottolineato che i "rifiuti liquidi costituiti da acque reflue" restano totalmente disciplinati dal decreto n. 22/97 sia nella fase di raccolta presso l'azienda (ad esempio una vasca di contenimento costituisce un "deposito temporaneo" del decreto Ronchi), sia nella fase del trasporto (che dovrà essere effettuato rispettando le norme sul formulario di identificazione dei rifiuti) sia nella fase finale del riversamento entro un impianto di "trattamento" (non “depurazione”) finale che, ricevendo rifiuti, sarà soggetto in entrata anch'esso al decreto n. 22/97 (mentre poi per il suo "scarico" finale in uscita diretto verso un corpo ricettore sarà soggetto al decreto n. 152/99). Quindi anche la terminologia è importante, perché un errore sui termini precisi può determinare nullità degli atti e comunque confusioni operative non professionali . Pertanto: • sulla linea "diretta" dello "scarico" di "acque reflue" verso un "corpo ricettore" (es. fonte aziendale o privata - fognatura o fiume) avremo un impianto di "depurazione" e tale sistema rientra totalmente entro il decreto n. 152/99 sia a livello autorizzatorio che sanzionatorio; • sulla linea di un riversamento di liquami in un contenitore (aziendale o privato) avremo un "rifiuto liquido costituito da acque reflue" che rientra totalmente entro il decreto n. 22/97; il tipo contenitore (tipo vasca, cisterna, fusti etc…) rappresenta un "deposito temporaneo"; il veicolo che preleva tali liquami per trasferirli altrove è un "trasportatore" che trasporta "rifiuti" e deve dunque essere iscritto all'Albo del decreto Ronchi e compilare il formulario di identificazione dei rifiuti; l'impianto che riceve tali "rifiuti liquidi costituiti da acque reflue" è un impianto di "trattamento rifiuti" che deve essere autorizzato entro la disciplina del decreto n. 22/97; fin qui tale sistema rientra totalmente entro il decreto n. 22/97 sia a livello autorizzatorio che sanzionatorio; • • • • • a sua volta l'impianto di "trattamento" di rifiuti finale dovrà operare uno "scarico" (diretto) verso un corpo ricettore; per tali "acque reflue" in uscita sarà soggetto alla disciplina autorizzatoria e sanzionatoria del decreto n. 152/99. Tali concettualità formali sono state confermate e ribadite dalla Corte di Cassazione, la quale precisa (sentenza III sez. penale - 5/1/2000 n. 3628 - Pres. Zumbo) che "un impianto di depurazione destinato esclusivamente al trattamento delle acque reflue del ciclo produttivo dell'insediamento" deve considerarsi "sottratto alla sfera di applicabilità della normativa sui rifiuti ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. e), del D.Lgs 22/97" e va ricollegato alla disciplina del D.Lgs 152/99. Ma la Corte precisa che tale impianto "deve trattare solo le acque di scarico" e che per la relativa "definizione" occorre ora far riferimento alla nozione di "scarico" contenuta nell'art. 2, lett. bb), del D.Lgs 152/99. Pertanto, ciò che rileva ai fini dell’individuazione della disciplina da applicare non è lo stato fisico (liquidità), bensì l’immissione diretta o meno in un corpo ricettore e, in questo secondo caso, se trattasi di “rifiuto liquido” o di “acqua reflua”. In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione (sentenza III sezione penale del 3/8/99 n. 2358 - Pres. Tonini) la quale ha precisato che "prendendo atto della coincidenza parziale tra acque di scarico e rifiuti liquidi" si deve assumere "come unico criterio di discrimine tra le due discipline non già la differenza della sostanza, bensì la diversa fase del processo di trattamento della sostanza, riservando alla disciplina della tutela delle acque solo la fase dello "scarico", cioè quella dell'immissione diretta nel corpo ricettore". Tale passaggio è estremamente importante per l'organo di vigilanza giacché è prassi frequente concentrare l'accertamento sulla sostanza considerata autonoma in senso stretto, magari limitandosi ad enfatizzare i reperti di analisi di laboratorio. Ma va invece precisato che, fermi restando tali aspetti, un esame generico della natura e componenti di tale sostanza liquida non può essere indicativa in modo totale ed esaustivo né della disciplina giuridica formalmente connessa alla medesima sostanza né degli eventuali illeciti collegati al suo sistema di gestione impropria. Pertanto, ciò che rileva ai fini dell'individuazione della disciplina da applicare non è lo stato fisico (liquidità) o la natura di composizione del liquido, bensì l'immissione diretta o meno in un corpo ricettore in modo legale e regolamentare. Infatti, sussiste, proprio grazie al confine stretto tra le due normative, una frequente possibilità che la medesima sostanza liquida (in senso compositivo chimico e biologico), sia ora disciplinata dal decreto sui rifiuti ed ora disciplinata dal decreto acque sulla base del meccanismo strutturale ed operativo corrispondente alla produzione/utilizzo/deposito/riversamento o smaltimento. In alcuni casi addirittura presso l'azienda il travaso formale dall'una all'altra disciplina, ferma restando l'identità compositiva del liquame, è possibile in modo legale. In altre occasioni si tenta di effettuare tale traslazione in modo fraudolento. Ma solo l'esame della sostanza è elemento non sufficiente, giacché è necessario che l'organo di vigilanza accerti e descriva con puntualità l'origine del liquame, il modo di primo trattamento, la fisiologia del sistema di produzione e le destinazioni impresse alla medesima. Soltanto con tali elementi, a parità di liquame sarà possibile distinguere tra un "rifiuto liquido costituito da acque reflue" (D.Lgs 22/97) o uno "scarico" di "acque reflue" (D.Lgs 152/99). Pertanto, il confine formale e sostanziale tra l’una e l’altra disciplina si può così riassumere in modo schematico: il decreto 22/97 (rifiuti) disciplina tutte le fasi di gestione (oltre che dei rifiuti solidi) dei "rifiuti liquidi" ordinari dalla loro produzione fino allo smaltimento presso l'impianto di trattamento; disciplina altresì (e qui si intreccia indirettamente con il decreto acque) le fasi di gestione dei "rifiuti liquidi costituiti da acque reflue" dalla loro produzione fino al trasporto presso un impianto di trattamento in difetto di una canalizzazione o convogliamento diretto verso il corpo ricettore; il decreto 152/99 (acque) disciplina, in deroga, le operazioni connesse allo "scarico" di acque reflue canalizzate o convogliate (immissione diretta) verso un corpo ricettore poste in essere dallo stesso titolare dello "scarico", ivi incluso il trattamento preventivo delle stesse acque reflue in un'impiantistica denominata "depurazione". Ulteriore e conseguente schematismo di confine tra le due disciplina ci rivela che: il decreto 22/97 disciplina gli impianti di "trattamento" di "rifiuti liquidi" sia ordinari che "costituiti da acque reflue", sia improprio che conto terzi, sia privati che pubblici, sia ordinari che consorziali; • il decreto 152/99 disciplina gli impianti di "depurazione" di acque reflue, sia in proprio che consorziale che conto terzi, sia privati che pubblici. La Corte di Cassazione, Sezione III penale, con la sentenza dep. 3 agosto 1999, n. 2358 – Pres. Tonini è intervenuta su questo tema ed ha delineato con esattezza i principi di confine tra “decreto Ronchi” sui rifiuti e “decreto acque” in relazione agli scarichi/rifiuti liquidi. Stabilisce la Corte che «(…) il D.Lgs. n. 22/97 sostituisce il concetto di scarico con quello di acque di scarico, laddove, all’art. 8 lett. E), esclude dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti “le acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido”. In tal modo il legislatore ha opportunamente reso omogenei i due termini di confronto, nel senso che se prima si confrontava un fenomeno dinamico quale lo scarico idrico definito dall’art. 1 della legge n. 319/76 (spesso, ma non sempre, prodotto da un’attività umana) con un elemento statico quale il rifiuto, per sé stesso considerato come oggetto, ora si confrontano due elementi omogenei, staticamente considerati come oggetti (acque di scarico e rifiuti) (…)». Dunque secondo la Cassazione il confine è ormai oggettivo perché viene precisato che «(…) la regolazione più razionale di questi confini è quella tracciata dalle succitate sentenze delle sezioni unite (Cass. Sez. Un. n. 12310 del 13 dicembre 1995, ud. 27 settembre 1995, Forina) e della Corte Costituzionale (n. 173 del 20 maggio 1998). Questa impostazione, in sostanza, prendendo atto della coincidenza parziale tra acque di scarico e rifiuti liquidi, assume come unico criterio di discrimine tra le due discipline, non già la differenza della sostanza, bensì la diversa fase del processo di trattamento della sostanza, riservando alla disciplina della tutela delle acque solo la fase dello “scarico”, cioè quella della immissione diretta nel corpo ricettore (...) una chiara conferma di questo diritto vivente viene ora dal legislatore nazionale, col recentissimo D.Lgs. n. 152/99, che reca disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepisce la direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane. (…) ad avviso di questo collegio, quindi, non sembra dubitabile la scomparsa di quello che la giurisprudenza qualificava come scarico indiretto, ovvero la sua trasformazione in rifiuto liquido. Più esattamente, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 152/99, se per scarico si intende il riversamento diretto nei corpi recettori, quando il collegamento tra fonte di riversamento e corpo ricettore è interrotto, viene meno lo scarico (indiretto) per far posto alla fase di smaltimento del rifiuto liquido». Con questa importante e significativa sentenza la Corte di Cassazione chiarisce in modo inequivocabile il campo del delicatissimo rapporto tra D.Lgs. n. 22/97 in materia di rifiuti e nuova disciplina in materia di acque (D.Lgs. n. 152/99). Non è casuale che la prima sentenza importante della Corte di Cassazione inerente il nuovo decreto sull’inquinamento idrico investa proprio tale delicatissimo tema. Il che conferma che il confine tra le due normative rappresenta sicuramente argomento primario in ordine all’applicazione coordinata dei due decreti legislativi. Va dunque sottolineato che secondo la Corte lo scarico indiretto previsto dalla giurisprudenza della normativa precedente è ormai definitivamente scomparso. Attenzione, un punto va rilevato. Non è scomparsa soltanto la definizione formale, è scomparso il concetto sostanziale. Il senso è che lo scarico indiretto non è più scrivibile né come terminologia formale né come concetto sostanziale perché puramente e semplicemente non esiste più. L’ex scarico indiretto si è trasformato ed evoluto in un normale rifiuto liquido previsto dal decreto Ronchi sui rifiuti. Va ancora una volta ricordato e sottolineato il concetto in base al quale la categoria dei rifiuti liquidi in generale resta disciplinata dal decreto Ronchi, mentre in base all’art. 8 dello stesso decreto laddove si tratti di uno “scarico” subentra la delega del decreto n. 152/99 e quindi si esce dal decreto Ronchi e si entra nella disciplina specifica della normativa di settore sugli scarichi. Ma va sottolineato e ribadito che “scarico” in senso formale non è quello che noi intendiamo come scarico nel nostro gergo comune. Infatti, lo scarico in senso giuridico è soltanto quello che è previsto e titolato ufficialmente dentro la nuova normativa del decreto n. 152/99. Tutti gli altri concetti che nel nostro gergo comune di pensare e di esprimere sono indicati come “scarico” non sono “scarico” in senso giuridico e quindi non possono rientrare nella concettualità in questione. Pertanto, tutta la categoria dei rifiuti liquidi è disciplinata a livello trasversale dal D.Lgs. n. 22/97 sui rifiuti; soltanto laddove, in via di eccezione, in tale contesto si individui quello che rappresenta giuridicamente e formalmente uno “scarico” (così come definito, individuato e limitato dal D.Lgs. n. 152/99) avremmo la deroga prevista dallo stesso decreto Ronchi e dunque usciamo dalla disciplina generale dei rifiuti liquidi del decreto n. 22/97 ed entriamo in modo specifico nella disciplina del D.Lgs. n. 152/99 inerente lo “scarico”. Ma deve trattarsi soltanto di scarico diretto, e cioè di una immissione che dal produttore arrivi direttamente nel corpo ricettore. Se tale immissione diretta viene spezzata in qualche modo da un riversamento intermedio e quindi da un trasporto altrove di questo liquame attraverso mezzo o altro sistema, cessa la nozione di scarico e quello che la giurisprudenza vigente la legge n. 319/76 classificava come “scarico indiretto” oggi non esiste più, pertanto l’articolo 8 del decreto Ronchi va interfacciato in via diretta con l’art. 36 del nuovo D.Lgs. n. 152/99 in materia di inquinamento idirico, così che l’ex scarico indiretto cessa proprio di essere “scarico” in senso stretto e torna nella disciplina generale dei rifiuti liquidi. Dunque, questi due articoli portanti rappresentano l’interfaccia reciproco, giacché attraverso l’articolo 8 del decreto Ronchi usciamo dallo stesso decreto laddove il rifiuto liquido diventa “scarico” in senso tecnico (così come disciplinato dalla nuova normativa di settore specifica), mentre laddove questo scarico non sia più tale ma venga spezzato il riversamento diretto verso il corpo ricettore si azzera la deroga e in base all’art. 36 del decreto n. 152/99 rientriamo nel decreto Ronchi, in quanto la sostanza che ci troviamo a gestire è puramente e semplicemente un “rifiuto liquido costituito da acque reflue”. Tale nuova definizione e tipologia di rifiuto liquido va gestita integralmente e puramente dentro il D.Lgs. n. 22/97 sia a livello autorizzatorio, sia a livello gestionale, sia naturalmente anche a livello sanzionatorio. La differenza tra uno “scarico” illecito non autorizzato ed uno smaltimento di rifiuti liquidi illecito mascherato A livello giuridico e sanzionatorio deve essere nettamente diversificata l’ipotesi di smaltimento illegale di rifiuti liquidi mediante riversamento verso l’esterno da un’azienda rispetto all’ipotesi apparentemente similare ma in realtà del tutto antitetica dello scarico di liquami di acque reflue non autorizzato e quindi illegale. Infatti se ci troviamo di fronte ad un rifiuto liquido in senso stretto, abbiamo sopra rilevato che tale tipologia specifica di liquame non potrà mai essere autorizzato da una pubblica amministrazione come acqua reflua di scarico, e dunque non potrà mai verificarsi l’ipotesi che tale rifiuto liquido in senso stretto venga autorizzato come acqua reflua di scarico mediante canalizzazione diretta verso un corpo ricettore entro il contesto del decreto 152/99. In tal caso, questo rifiuto liquido (vedi l’esempio dei paragrafi precedenti del latte avariato) dovrà comunque sempre restare obbligatoriamente gestito entro il contesto del decreto 22/97 da parte dell’azienda. Se, invece, si provvede a riversare verso l’esterno tale liquame attraverso un qualsiasi sistema (ivi incluso ad esempio il mezzo fraudolento di utilizzare la tecnologia legale di uno scarico ordinario per riversarvi dentro - in questo caso in modo totalmente illegale - il rifiuto liquido) si avrà un’ipotesi di smaltimento illecito punito ai sensi del decreto 22/97 come gestione illecita di rifiuti. Possiamo invece avere un’altra ipotesi del tutto antitetica. Infatti nel contesto aziendale il liquame proveniente da una fase di ciclo produttivo (cosiddetta acqua di processo) per essere ufficializzata come acqua reflua di scarico ai fini del decreto 152/99 necessita del preventivo regime autorizzatorio entro i parametri sanciti dal medesimo decreto acque. Se l’azienda rispetta la disciplina autorizzatoria e attiva il sistema di scarico in modo ordinario, tale liquame, che inizialmente è un rifiuto liquido in senso stretto, verrà poi ufficialmente trasformato in un’acqua reflua di scarico in modo legale ai sensi del decreto 152/99. Tuttavia, ove l’azienda effettui direttamente il riversamento di tali liquami verso un corpo ricettore, e sostanzialmente adotti tutte le tecnologie pertinenti per realizzare uno scarico in senso stretto, ma non ricorra preventivamente all’assenso della pubblica amministrazione, avremmo così uno scarico illegale. In questo caso, si badi bene, il liquame era potenzialmente idoneo, per composizione, natura e destinazione virtuale, per essere trasformato giuridicamente da rifiuto liquido in acqua reflua di scarico. Se l’azienda avesse seguito la filiera ordinaria prevista dal decreto 152/99, tale trasformazione sarebbe stata regolarizzata e quindi l’azienda avrebbe potuto effettuare regolarmente lo scarico, rispettando poi i parametri tabellari del decreto acque. L’azienda ha, invece, omesso l’aspetto formale, cioè attivando lo scarico senza alcuna autorizzazione preventiva della pubblica amministrazione. Nel caso specifico in cui tutti i parametri che sarebbero stati potenzialmente autorizzabili dalla P.A. fossero rispettati, e dunque venga impiantata la tecnologia necessaria, il liquame per natura e composizione sia idoneo per essere trasformata in acqua reflua di scarico e il corpo ricettore sia altrettanto idoneo, avremmo non un riversamento di rifiuti liquidi verso l’esterno aziendale, ma uno scarico di acque reflue totalmente illegale ai sensi del decreto 152/99 e sanzionato in via penale (trattandosi di azienda) entro il contesto del medesimo decreto. Sostanzialmente si concretizza, in questa seconda ipotesi, un caso del tutto dissimile dal primo caso, perché il liquame avrebbe potuto essere ritualmente trasformato in acqua reflua di scarico previo il rituale assenso della pubblica amministrazione tradotto nella autorizzazione allo scarico. L’azienda ha formalmente omesso di adempiere alla richiesta di autorizzazione e ha attivato di fatto quello che è comunque uno scarico in senso stretto. Verrà, dunque, sanzionata penalmente in tale contesto, ma successivamente, essendo stati rispettati i parametri sostanziali e gestionali rispetto al sistema di scarico, tra cui la canalizzazione diretta verso un corpo ricettore di un’acqua reflua potenzialmente idonea per essere tale, successivamente la pubblica amministrazione potrà prendere atto della situazione e quindi autorizzare (non certamente “a sanatoria” rispetto al precedente), quella tecnologia che soltanto successivamente all’assenso della P.A. assumerà giuridicamente la qualifica ufficiale di” scarico”. Da qui consegue che, a livello sanzionatorio, nel primo caso avremo lo smaltimento illegale di rifiuti liquidi a carico del titolare dell’azienda, mentre nel secondo caso l’attivazione di uno scarico illegale punita ai sensi del decreto 152/99. È sottinteso che nel secondo caso ove, poi, l’azienda non rispetti neppure i parametri tabellari, scatteranno gli illeciti concorrenti in ordine alle eventualmente accertate violazioni tabellari nel senso di illecito amministrativo o di illecito penale. La disciplina applicabile • • • Stante quanto sopra riportato, è oltremodo semplice giungere a delle conclusioni circa la disciplina applicabile alle acque di vegetazione dei frantoi olerari. Sul punto, è utile ripetere le domande che dottrina ed operatori dl diritto sono soliti porsi dinanzi alla convivenza di norme solo apparentemente contrastati; nello specifico le domande a fronte di acque di scarico dei frantoi oleari sono solo tre: Si applica la legge 574/1996 (in via esclusiva o congiuntamente al Dlgs 22/1997 e/o 152/1999)?: Si applica solo il Dlgs 22/1997 sui rifiuti? Si applica solo il Dlgs 152/1999 sulla tutela delle acque? Il che ha particolare rilevanza in termini di autorizzazione allo scarico, di autorizzazione alla gestione e di tenuta delle scritture ambientali (registri, formulario e Mud) e delle conseguenti sanzioni. Per completare l’orizzonte cognitivo è appena il caso di ricordare che l’articolo 1, comma 1, Dlgs 22/1997 sui rifiuti (relativo al campo di applicazione della normativa ivi dettata) fa salve le disposizioni specifiche, particolari o complementari che disciplinano la gestione di particolari categorie di rifiuti, purché conformi al Dlgs 22/1997 medesimo ed attuativi di direttive comunitarie (si pensi ad esempi agli oli minerali usati); quindi, in tali casi, le disposizioni specifiche derogano dal Dlgs 22/1997 laddove esso disponga diversamente rispetto al testo “speciale” il quale Dlgs 22/1997, comunque, deve essere applicato quando il testo “speciale” nulla disponga su un punto specifico. Nel caso di specie, però, la legge 574/1996 non è stata adottata in attuazione di direttive comunitarie e non reca disposizioni conformi al Dlgs 22/1997. Il che è anche plausibile, solo laddove si pensi al campo di applicazione di tale legge: utilizzo agronomico delle acque di scarico dei frantoi (e non gestione dei rifiuti derivanti dalla lavorazione delle olive). La chiave di volta è tutta nella citata locuzione “utilizzo agronomico” cioè spandimento sul suolo a beneficio dell’agricoltura. Ciò posto è agevole concludere che si sia in presenza di rifiuti allo stato liquido (e come tali soggetti alla disciplina dei rifiuti di cui al Dlgs 22/1997) e non di acque di scarico poiché (a fronte della definizione legislativa di “scarico” come più sopra individuata) le acque di vegetazione dei frantoi oleari non sono convogliate direttamente tramite condotta sui terreni che vanno ad irrorare (in pratica manca una condotta che metta in comunicazione diretta il frantoio e il terreno). Quando la legge 574/1996, al suo articolo 6, si esprime in ordine allo stoccaggio detta norme tecniche per la sua effettuazione, ma le sue disposizioni (i 30 giorni sono ovviamente previsti perché non in tutte le stagioni dell’anno si può procedere a spandimento sul suolo) non vanificano la disciplina sui rifiuti almeno nel caso in cui tali acque di vegetazione entrino nel ciclo produttivo dei fertilizzanti (cioè siano inviate ad impianti che utilizzano tali acque per produrre fertilizzanti). Inoltre, le acque di vegetazione sono espressamente indicate nel Dm 5 febbraio 1998 sul recupero agevolato dei rifiuti pericolosi, allegato 1, suballegato 1, punto 18.6 nei termini dianzi descritti. Si veda, a conferma, che la Cassazione ha stabilito: "L`autorizzazione allo scarico per i frantoi oleari, insediamenti produttivi, è sempre necessaria, dovendosi parificare i reflui ad acque reflue industriali, mentre la utilizzazione agronomica è sottoposta a disciplina e sanzioni distinte. Una cosa è, infatti, lo scarico, altra cosa è la utilizzazione eventualmente successiva a scopo agronomico di tutto o parte del contenuto dello scarico." (Cass. pen., sez. III, 17 gennaio 2000, n. 425 - Pres. Avitabile - Est. Postiglione - Imp. Gobetti). Ed ancora nella medesima sentenza: "La disciplina dettata dalla legge 11 novembre 1996 n. 574 in materia di utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione e di scarichi dei frantoi oleari non implica che lo scarico dei reflui provenienti da detti ultimi impianti non debba essere comunque autorizzato ai sensi della normativa generale in materia di tutela delle acque dall'inquinamento, ora contenuta nel D.L.vo n. 152/99. La mancanza di tale autorizzazione rende quindi configurabile il relativo illecito penale". E la Cassazione ha chiarito anche equivoci su forme alternative di riutilizzo: "L’incenerimento di sansa esausta nella caldaia di un oleificio senza preventiva autorizzazione regionale costituisce condotta punibile ex art. 51, lett. A), del D.L.vo n. 22/97. "(Cass. Pen. - Sez. III, 5 aprile 2000, n. 4257 (ud. 29 febbraio 2000). Pres. Papaia – Est. Postiglione) Facendo riferimento ai principi sopra riportati della Cassazione, si sottolinea che del tutto diversa ed autonoma da tale costruzione giuridica è quella seconda e successiva fase della "utilizzazione agronomica" degli effluenti di allevamento che è disciplinata in modo specifico dal D.L.vo n. 152/99 (anche a livello sanzionatorio). In altre parole, le norme che disciplinano l'utilizzazione agronomica si riferiscono alla fase finale dello smaltimento dei liquami e della loro destinazione alternativa. I due concetti non vanno confusi come spesso accade nella realtà delle cose concrete. E va ribadito che la disciplina della tipologia dell'insediamento non è inevitabilmente interconnessa con la disciplina dell'utilizzazione agronomica (comunemente indicata come "fertirrigazione"). Si veda ancora una sentenza della Corte di Cassazione che ha ribadito tale concetto stabilendo che "la distinta autorizzazione alla fertirrigazione si riferisce alla successiva eventuale utilizzazione, totale o parziale, a scopo agronomico dei liquami e non incide sul fenomeno antecedente dello scarico dall'insediamento produttivo"; ed ancora che "l'autorizzazione allo scarico non va confusa con l'autorizzazione alla pratica della fertirrigazione (…) che ubbidisce ad una logica diversa" (Cass. Pen., Sez. III, sentenza 26/10/1999 n. 12174 – Avitabile). • Ciò posto possiamo distingue i seguenti scenari operativi: caso A - il frantoio produce acque di vegetazione delle olive e acque derivanti dalla lavorazione delle sanse umide che non hanno ricevuto alcun trattamento, né additivo ad eccezione delle acque per la diluizione o il lavaggio degli impianti: poiché tali acque non vengono convogliate direttamente, tramite condotta, in un corpo ricettore, se stoccate per la utilizzazione agronomica diretta (cioè senza loro impiego nella produzione di fertilizzanti) esse sono rifiuti liquidi di lavorazione (e non acque di scarico) che vanno stoccati secondo le regole dell’articolo 6, Legge 574/1996 (e del futuro Dm nonché delle relative regole che le regioni sulla sua base emaneranno) che in ordine alla tempistica e alla logistica, deroga al deposito temporaneo di cui all’articolo 6, Dlgs 22/1997. E’ necessario tenere il registro di carico e scarico, annotando che il deposito avviene in omaggio al citato disposto della legge 547/1996. E’ altresì necessario inviare il Mud entro il 30 aprile di ogni anno; servirsi di un trasportatore autorizzato per il trasporto di rifiuti (iscritto all’Albo nazionale gestori rifiuti); conservare la prima e la quarta copia del formulario di trasporto. Non è necessario ottenere l’autorizzazione per lo stoccaggio. L’applicazione delle regole amministrative e gestionali del Dlgs 152/1999 sulle acque è dunque esclusa. Il legale rappresentante del frantoio dovrà anche inviare la comunicazione preventiva di cui all’articolo 3, legge 574/1996 al Sindaco del luogo in cui sono ubicati i siti oggetto di spandimento delle acque. • caso B – le acque di vegetazione delle olive e le acque derivanti dalla lavorazione delle sanse umide che non hanno ricevuto alcun trattamento, né additivo ad eccezione delle acque per la diluizione o il lavaggio degli impianti vengono avviate ad un impianto che produce fertilizzanti ai sensi della legge 748/1984. Anche in questo caso, poiché tali acque non vengono convogliate direttamente, tramite condotta, in un corpo ricettore, ma stoccate per l’invio ad un impianto di produzione di fertilizzanti esse sono rifiuti liquidi di lavorazione (e non acque di scarico). Qui si riproduce lo schema classico del recupero industriale. Quindi, nessuna deroga al deposito temporaneo (poiché non vi è necessità di rispettare la ciclicità stagionale) che va rispettato nei dati testuali dell’articolo 6, Dlgs 22/1997. In difetto del rispetto di tali regole, l’impianto di molitura dovrà munirsi dell’ autorizzazione regionale per lo stoccaggio (rectius: messa in riserva, poiché i suoi rifiuti vanno a recupero). Il trasportatore dovrà essere in regola con le autorizzazioni per il trasporto di rifiuti. Produttore e trasportatore dovranno tenere i registri, inviare il Mud, compilare e conservare il formulario di trasporto. Tali obblighi incomberanno anche sull’impianto ricevente, che comunque dovrà aver inoltrato la comunicazione alla Provincia in osservanza del disposoto degli articolo 31 e 33, Dlgs 22/1997 e rispettare le regole dettate dall’allegato 1, suballegato 1, punto 18.6, Dm 5 febbraio 1998. Diversamente dovrà munirsi di autorizzazione regionale. • caso C – l’utilizzatore delle acque (industria agroalimentare o coltivatore diretto) il quale le utilizza per lo spandimento diretto sui terreni (utilizzazione agronomica), acque che come abbiamo visto sono rifiuti liquidi e acque di scarico, dovrà ottenere autorizzazione regionale all’utilizzo di tali rifiuti (egli si sostanzia in un impianto di recupero di rifiuti), dovrà altresì tenere i registri, firmare la quarta copia del formulario, conservarne una per sé. Dovrà inviare il Mud entro il 30 aprile di ogni anno (ad eccezione degli imprenditori agricoli, in quanto rifiuti non pericolosi). In ogni caso tale costruzione giuridica giuridica smentisce una comune e diffusa opinione in base alla quale tali liquami residuali, al pari di altre tipologie similari come ad esempio gli effluenti di allevamento, sulla base di tali norme “satelliti”, sarebbero totalmente liberalizzati ed esenti dal regime della normativa (europea) sugli inquinamenti e sostanzialmente svincolati da regole e prassi di gestione fin dal momento della loro produzione. I "laghetti aziendali" I "laghetti aziendali" - come quello del caso per cui è processo - sono una realtà piuttosto diffusa specialmente nelle tipologie di aziende di tipo allevamento. Va rilevato che il "laghetto aziendale" si inserisce in modo coerente nella costruzione normativa che abbiamo fin qui esposto. Quindi, sostanzialmente possiamo dividere l'argomento in due parti. Ove il laghetto aziendale sia costituito da una fossa perfettamente impermeabilizzata che non permette, neppure potenzialmente, l'infiltrazione di liquame a contatto con il suolo, in tal caso abbiamo sostanzialmente una vera e propria vasca che va equiparata alla disciplina giuridica sopra esposta. Infatti, la impermeabilizzazione assoluta, che impedisce il contatto tra il liquame e il terreno (potenziale corpo ricettore), rappresenta certamente una figura anomala ma certamente sostanzialmente equiparabile a quella di una ordinaria vasca aziendale. Questo naturalmente fino a quando il liquame non fuoriesce per finire, attraverso i primi rivoli, a contatto con il terreno circostante e quindi a permeare realmente e potenzialmente nel medesimo. In tal caso il liquame verrebbe trasformato sostanzialmente in un riversamento sul suolo. Laddove invece il laghetto sia costituito da un semplice scavo nel terreno affatto impermeabilizzato o comunque non impermeabilizzato in modo assoluto e totale, ci troviamo di fronte sostanzialmente a quello che è un riversamento di rifiuti liquidi di acque reflue sul suolo. Consegue in via logica che in tal caso lo scavo nel terreno per ricevere liquidi è del tutto equiparabile ad uno scavo nel terreno destinato, in ipotesi, a ricevere rifiuti solidi. Dunque le due costruzioni giuridiche sono del tutto identiche. Ed è logico che si tratta di una ipotesi di gestione illecita di rifiuti aziendali, che andrà ad integrare tutta la filiera degli illeciti conseguenti secondo quantità e qualità dei rifiuti, tempi e modalità di attuazione del fenomeno illecito. La tendenza è certamente in via potenziale verso l’ipotesi di discarica abusiva di rifiuti liquidi nei casi più rilevanti e sistematici. Per la differenza, in tema di liquami aziendali, tra gestione illecita di rifiuti liquidi e scarico illegale di acque reflue, rinviamo al paragrafo specifico dedicato al tema nel precedente capitolo. Nel caso in cui il “laghetto” sia un entità strutturalmente separata rispetto alla fonte produttiva e al riversamento del liquame in prima battuta, la costruzione appare sostanzialmente identica. Si verifica infatti spesso che da una vasca,il liquame venga prelevato (spesso ad esempio tramite pompe) e trasferito in seconda battuta in "laghetti" fisicamente distaccati rispetto al vascone o alla cisterna principale di raccolta. In questo secondo caso restiamo ancora confinati entro la normativa del decreto n. 22/97 sui rifiuti. Infatti, il liquame nella vasca di raccolta principale non è uno "scarico" e trattasi, come sopra già ampliamente delineato, di un "deposito temporaneo" di rifiuti liquidi disciplinato entro la normativa rifiuti. A questo punto non può certo configurarsi l'ipotesi che, da questa vasca che contiene un "deposito temporaneo" dei rifiuti liquidi costituiti da acque reflue, soltanto per l'effetto del prelievo da parte di una pompa o comunque mediante altra tecnologia, il liquame allorché venga trasportato in un "laghetto" di natura secondaria diventa nuovamente "scarico" sotto la disciplina del decreto n. 152/99. Si tratta ormai di un rifiuto liquido a tutti gli effetti che viene disciplinato sostanzialmente e formalmente dal decreto n. 22/97 anche nei passaggi successivi. Pertanto l'azienda che preleva il liquame nel deposito temporaneo della vasca principale e lo sposta, eventualmente tramite pompa e altri sistemi, in laghetti fisicamente distaccati opera semplicemente un trasferimento di un liquame da un deposito temporaneo ad altra deposito temporaneo. Se poi la seconda entità, e cioè il laghetto aziendale, è perfettamente impermeabilizzato e impedisce lo scambio anche potenziale del liquame con il suolo, avremo che sostanzialmente il deposito temporaneo continua in un'area secondaria dell'azienda. Tuttavia ogni attività successiva dovrà essere affrontata come trasporto e smaltimento in impianto terzo in base a quanto sopra affermato. Laddove invece il laghetto, al contrario della vasca di primo inserimento, non sia perfettamente impermeabilizzato e quindi sia possibile l'infiltrazione reale o potenziale del liquame verso il suolo, non avremmo più un deposito temporaneo bensì un riversamento sostanziale dei rifiuti liquidi costituiti da acque reflue su un terreno. Quindi, lo smaltimento illegale dei rifiuti, che verrà perseguito e sanzionato sulla base delle norme del decreto n. 22/97 sui rifiuti. La Corte di Cassazione, a conferma di quanto sopra esposto, osserva che "i regimi giuridici nella delicata materia non dipendono dalla opinione o iniziativa unilaterale degli interessati, ma dalla legge, sicché lo scarico senza autorizzazione di liquami zootecnici da insediamento produttivo (è tale normalmente l'azienda agricola di allevamento, quando manchi il nesso funzionale con l'attività agricola ex art. 28, punto 7, 6) continua a costituire reato, anche nell'ipotesi di utilizzo di vasche, "lagoni" o invasi (e relative condotte), benché impermeabilizzati" (Cassazione Penale - Sezione III - Sentenza del 26 ottobre 1999 n. 12174 Pres. Avitabile - Est. Postiglione). Da quanto esposto risulta chiaramente che il contenimento di "rifiuti liquidi costituiti da acque reflue" in vasche a tenuta non è soggetto ad autorizzazione allo scarico. Va tuttavia precisato e sottolineato che tale operazione è soggetta alla regole del decreto sui rifiuti n. 22/97 la cui violazione è penalmente sanzionata. Di conseguenza, ove non sussista una autorizzazione per il deposito preliminare (o messa in riserva, nel caso in cui i rifiuti vadano a recupero e non a smaltimento) rilasciata ai sensi degli articoli 27 e 28 del D. Lgs. n. 22/1997, lo stoccaggio dei reflui liquidi in vasche a tenuta va effettuato nel rispetto di tutte le specifiche prescrizioni previste dall’ art. 6, comma 1, lettera m, del D. Lgs. n. 22/1997, ed in particolare delle prescrizioni riguardanti il rispetto dei volumi massimi consentiti, ovvero, in alternativa, delle frequenze massime di asporto consentite; la violazione di questo obbligo comporta l’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 51, comma 1, del D. Lgs. n. 22/1997. L’azienda è tenuta inoltre a verificare che il trasportatore e il sito di destinazione finale siano in possesso delle autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni necessarie per trasportare e smaltire (o recuperare) lo specifico rifiuto di cui si tratta; la violazione di questo obbligo comporta l’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 51, comma 1, del D. Lgs. n. 22/1997. Ogni operazione di conferimento dei rifiuti liquidi al trasportatore deve essere accompagnata dal formulario di identificazione e registrata (entro sette giorni) nel registro di carico e scarico dei rifiuti; la violazione di questi obblighi comporta l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dall’art. 52, comma 2, del D. Lgs. n. 22/1997. L’azienda produttrice del rifiuto è tenuta a verificare che ogni formulario venga restituito controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore, segnalando in caso contrario alla provincia la mancata ricezione del formulario; la violazione di questo obbligo rende il produttore responsabile di qualsiasi danno od illecito provocato dalla successiva gestione dei rifiuti (art. 10, comma 3, lettera b del D. Lgs. n. 22/1997). Il caso per cui è processo: la disciplina giuridica specifica Sulla scorta del (necessario) inquadramento sistematico generale sopra illustrato, appare logico e conseguente inquadrare a questo punto la disciplina giuridica specifica applicabile al caso di specie per cui è oggi processo. Il dato oggettivo, confermato dalle foto e dalla deposizione dell’organo accertatore, è che presso il frantoio in questione è stata realizzata una buca nel terreno piena di fanghi e liquami provenienti dall’attività di molitura delle olive. Questi liquami erano giacenti da parecchio tempo nel luogo e soprattutto gli stessi erano stati additivati. In sede di controllo è stato rilevato che “ intorno all’area, a questa buca, c’era della vegetazione e non c’era… era come in stato di abbandono, nel senso che non c’era nessuna né protezione, anche l’accesso era non molto facile, in quanto c’era molta vegetazione intorno”. Alla domanda del PM se “i rifiuti liquidi provenivano dall’oleificio?” il teste Ambrosini Stefano rispondeva in senso positivo ed aggiungeva che il prevenuto “li stoccava lì, ossia le acque di vegetazione derivanti dalla molitura delle olive.” Riscontrarono inoltre che “ non erano presenti né i registri di carico e scarico di rifiuti, né tanto meno i registri previsti a suo tempo in relazione ad una delibera regionale per la gestione delle acque di vegetazione.” Quindi, una prima conseguenza a livello giuridico deve essere individuata nella certezza che non si tratta di un caso di irregolare gestione di utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione ma di originaria gestione totalmente illegale di rifiuti liquidi rappresentati da acque reflue. Da tale fonte radicalmente illecita non poteva comunque derivare alcuna ipotesi legale di utilizzazione agronomica la quale presuppone, come sopra delineato, una fonte regolare e legale del liquame (“scarico” o, più verosimilmente e comunemente, un deposito regolare di “rifiuti liquidi di acque reflue”) dalla quale far derivare poi, in deroga alla filiera ordinaria del relativo sistema di gestione, l’utilizzazione agronomica (come eccezione rispetto al viaggio dei “rifiuti liquidi di acque reflue” verso un impianto di trattamento autorizzato). E questo punto, e solo questo punto, sarebbe regolato dalla diaciplina specifica e soggetto alle (modeste) sanzioni per lo spandimento eventualmente in parziale violazione del regime legale. Ove tutta questa filiera sia invece ignorata, non si può certo pretendere di ricollegare alle minime sanzioni per le irregolarità della utilizzazione agronomica (reale e legale) la gestione totalmente illegale di rifiuti liquidi. In tal senso, si potrebbe sovramodulare il reato di gestione di discarica abusiva su terreno costituita da rifiuti liquidi con la irrisoria sanzione per lo spandimento irregolare dei liquami su un terreno (la differenza sarebbe solo dovuta alla autoqualificazione giuridica del soggetto responsabile che in presenza di una diffusa “discarica liquida“ su terreno potrebbe limitarsi a sostenere che sta operando una utilizzazione agronomica irregolare…). Dunque, i liquami per cui è processo derivanti dal frantoio del prevenuto devono essere considerati “rifiuti liquidi costituiti da acque reflue” soggetti alla disciplina integrale del decreto n. 22/97 e del tutto estranea appare in questo contesto la regola sulla utilizzazione agronomica. Di conseguenza, va letta e valutata, a questo punto, la situazione di gestioni di tali rifiuti liquidi all’esito degli accertamenti svolti ed esattamente come deve essere considerato il “laghetto” realizzato sul terreno per cui è processo. Un’azienda che produce rifiuti (solidi, liquidi ordinari o liquidi di acque reflue) per conservare tali rifiuti in attesa della spedizione degli stessi verso la destinazione finale (sito dedicato per smaltimento o sito dedicato per recupero) deve osservare le regole per il “deposito temporaneo”. Ma anche su tale concetto è necessario tracciare alcune riflessioni di inquadramento sistematico, per chiarire diversi equivoci interpretativi con immediato riflesso sul sistema sanzionatorio contestato in questa sede processuale. Il “deposito temporaneo” di rifiuti (in relazione al caso di specie: di rifiuti liquidi costituiti da acque reflue) Per impostare il quadro della materia, si rileva che molte volte sussistono confusioni interpretative in ordine al concetto di "deposito incontrollato" che viene pericolosamente confuso con gli omonimi "deposito temporaneo" e "deposito preliminare". Si tratta in realtà di tre istituti completamente diversi sul quale vale la pena svolgere qualche riga di precisazione. Il "deposito incontrollato" è una previsione prevalentemente sanzionatoria. E' previsto nell'art. 14 (precetto) e negli artt. 50 e 51 (sanzioni); riguarda l'azione di chi si disfa di un modesto cumulo di rifiuti mediante appunto "deposito" in un'area integrando una fattispecie quantitativamente e qualitativamente superiore al semplice atto unico dell'"abbandono" previsto dallo stesso combinato normativo. Il "deposito preliminare" è una forma di "stoccaggio"; è previsto dall'art. 6/1° comma punto l e riguarda le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell`allegato B. Quindi è una fase della gestione dei rifiuti destinati allo smaltimento. Il "deposito temporaneo" è una attività preventiva e distinta rispetto alla gestione; è previsto dall'art. 6/1° comma punto m) come il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti nel rispetto di alcune specifiche condizioni. È un’ipotesi derogatoria eccezionale che precede la fase di gestione e riguarda solo ed esclusivamente il produttore dei rifiuti. Dunque va sottolineato che, a parte il "deposito incontrollato" che è puramente sanzionatorio, il "deposito preliminare" è un'attività di "gestione" a pieno titolo (come specificazione del concetto si stoccaggio, insieme alla “messa in riserva" e non è mai al di fuori degli obblighi autorizzatori); il "deposito temporaneo” assume una funzione derogatoria che si pone eccezionalmente all’esterno sistema autorizzatorio. Una intersezione tra "temporaneo" e "incontrollato" si può avere laddove un falso "deposito temporaneo" presentato come tale ma che in realtà tale non è, può integrare la fattispecie sanzionatoria prevista per il "deposito incontrollato" se in realtà si tratta di un modesto quantitativo di rifiuti accatastato all'interno dell'azienda (se i quantitativi sono invece superiori, verrà integrato lo stoccaggio o la discarica abusiva). Il deposito temporaneo è concetto innovativo stabilito dalla norma al punto m) dell’articolo 6 primo comma del decreto n. 22/97, che costituisce deroga eccezionale rispetto al sistema ordinario di gestione dei rifiuti. La definizione è stabilita come "raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti" a una serie di condizioni tecniche specifiche che sono indicate in seguito nello stesso punto della stessa norma. Non vi è dubbio che il deposito temporaneo va collocato come eccezione particolare e specifica rispetto alle operazioni di "gestione" in senso stretto (raccolta + trasporto + smaltimento o recupero), nel senso che trattasi di una figura derogatoria che viene di volta in volta estrapolata dal legislatore rispetto a tutto il regime autorizzatorio previsto per la "gestione" dagli articoli 27 e 28 esonerando l'azienda dagli obblighi autorizzatori. L’art. 28 (che disciplina l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento e recupero), dopo aver previsto il regime della prassi amministrativa a carico degli interessati, stabilisce nel comma 5 che le disposizioni dello stesso articolo non si applicano al deposito temporaneo (ecco dunque il carattere di eccezione del relativo concetto) effettuato nel rispetto delle condizioni di cui all’art. 6 comma 1 lettera m), che é soggetto unicamente agli adempimenti dettati con riferimento al registro di carico e scarico di cui all’art. 12 (e quindi, all’invio del Mud di cui all’articolo 11) ed al divieto di miscelazione di cui all’art. 9. Va sottolineato che deve trattarsi di un’attività strettamente chiusa, sottinteso anche a livello strutturale/topografico, all’interno del perimetro aziendale ed esattamente del luogo d produzione in senso stretto. Conferma questo principio il concetto di luogo di produzione perché solo presso «il luogo dove sono prodotti» i rifiuti è consentito effettuare il deposito temporaneo. L’art. 6, comma 1, lett. i), definisce luogo di produzione «uno o più stabilimenti o siti infrastrutturali collegati tra loro all’interno di un’area delimitata in cui si svolgono le attività di produzione dalle quali originano i rifiuti». Il deposito temporaneo presuppone, perciò, che il rifiuto non sia mai uscito dall’«area delimitata» entro la quale è svolta l’attività produttiva. È, inoltre, ovvio che il deposito temporaneo può essere effettuato solo dal soggetto che ha prodotto i rifiuti. Il deposito temporaneo continua ad essere oggetto di primario interesse da parte della giurisprudenza non solo nazionale ma anche, come testimonia una sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee (Sezione IV - Sentenza del 5 ottobre 1999 - Cause riunite C-175/98 e C-177/98). Tale ripetuto approfondimento del tema conferma che in realtà le questioni inerenti il deposito temporaneo, lecite e fraudolente, rappresentano punto-cardine della normativa in materia di rifiuti giacché il concetto teorico e la pratica applicazione di tale prassi costituiscono da un lato interesse economico ed operativo primario per le aziende e dall'altro fonte di gravi potenziali illeciti. Va sottolineato che la sentenza della Corte Europea pone dei punti fermi di risoluzione interpretativa in ordine ad alcuni aspetti fondamentali della nozione di deposito temporaneo. Chiarisce infatti la sentenza in modo inequivocabile (e con ciò ogni dubbio dovrebbe essere sul punto definitivamente risolto) che il deposito temporaneo va collocato in via sistematica in una fase della strutturazione del decreto n. 22/97 che è precedente a livello formale e sostanziale rispetto alle operazioni di "gestione" in senso stretto (e cioè prima di quella interconnessione operativa caratterizzata da raccolta + trasporto + smaltimento o recupero). Dunque, trattasi di una prassi che viene specificamente ed espressamente estrapolata dal legislatore rispetto a tutto il regime autorizzatorio varato per la successiva gestione e da questa tenuto distinto. La Corte europea, dopo aver ribadito che il deposito temporaneo deve essere eseguito nel luogo in cui i rifiuti sono prodotti (con la conseguenza che un trasporto di fatto è già piena “gestione” e dunque ben lontano dal concetto stretto di deposito temporaneo), sottolinea che collateralmente alla ideazione e santificazione normativa del principio in esame il legislatore europeo deve adottare tutte le attività e misure di vigilanza e prevenzione (aggiungeremmo: anche repressive) per far sì che tale prassi (che la Corte ribadisce essere una modesta deroga eccezionale rispetto alla ordinaria gestione) non si trasformi da fatto squisitamente restrittivo e limitato alle finalità specifiche connesse in un pericoloso mezzo di illegalità utilizzato per celare forme di altre attività di stampo illegale come stoccaggi e discariche abusive. Il deposito temporaneo è un'attività che, ribadisce la Corte europea, “deve interpretarsi in modo restrittivo” e dunque non può essere esteso più di tanto rispetto agli stretti confini genetici che lo caratterizzano nelle sue finalità di fondo. E dunque le prime restrizioni che vanno ribadite e sottolineate sono il fatto che soltanto il produttore può effettuare tale deposito in ordine ai propri rifiuti (e dunque un terzo che operasse tale attività sarebbe illecito e non si tratterebbe certamente più di deposito temporaneo ma saremmo già entrati in piena gestione illegale); ancora il luogo di ubicazione topografica deve essere lo stretto perimetro aziendale non in senso lato ma limitato formalmente e sostanzialmente a luogo di produzione inteso in senso appunto restrittivo (e dunque un trasporto che varchi tali stretti confini, seppur da un'area aziendale ad altra area, magari con l'artifizio della sede legale distaccata e/o altro similare) sarebbe antitetico con il principio in questione. Deve trattarsi di un’attività strettamente chiusa, sottinteso anche a livello strutturale/topografico, all’interno del ciclo aziendale. Stabilisce ancora la Corte, e questo è ulteriore punto rilevante, che seppur il deposito temporaneo è fisiologicamente esente dall'obbligo di registrazione o di autorizzazione, è naturalmente soggetto al rispetto dei principi della precauzione e dell'azione preventiva e le autorità nazionali sono esortate a garantire il rispetto di questi obblighi. Il che significa che viene di fatto sollecitata una razionale ed efficace azione di controllo non solo per verificare in senso formale/sostanziale la sussistenza dei requisiti sopra esposti in relazione al deposito in esame, ma anche per evitare che nel rispetto di tale parametri comunque i rifiuti temporaneamente depositati possano provocare danni rilevanti all'ambiente. Anche la Corte di Cassazione è intervenuta su questo specifico e delicato tema. Si veda Cassazione Penale - sentenza del 5/4/01 - ud. Cc. 20/2/01 - n. 13808 - 41854/2000 RG Pres. Toriello - Rel. Grillo: "Il deposito temporaneo previsto dall'art. 6 del D.L.vo N. 22/97 rappresenta una ipotesi a carattere eccezionale e derogatorio rispetto alle ordinarie attività di "gestione" dei rifiuti previste dalla medesima norma e soggette al regime autorizzatorio delineato dall'art. 28, penalmente sanzionato in caso di violazioni. Per ritenere sussistenti i presupposti in fatto ed in diritto che legittimano tale figura in relazione ad un consideravole quantitativo di rifiuti propri depositati da un'azienda nella propria area, deve sussistere il rigoroso e puntuale di tutte le condizioni tecbiche, quantitative e temporali previste dal citato art. 6 decreto-rifiuti con conseguente doverosa verifica sia nei documenti aziendali che nelle condizioni che danno luogo alla formazione dei rifiuti presso quel suito; in difetto, trattasi di ordinaria attività di gestione di rifiuti svolta in modo illecito e soggette alle sanzioni penali conseguenti (nel caso di specie: discarica abusiva ex art. 51/3° comma decreto 322/97)." E la sentenza della Cassazione va ad incidere proprio sul delicatissimo momento operativo e di principio della dimostrazione dei presupposti giuridici del deposito temporaneo. Infatti, nel caso esaminato dalla Corte si è verificato un caso praticamente collaudato e standardizzato: di fronte al cumulo di rifiuti aziendali, ormai è prassi che si ritengano gli stessi automaticamente come "deposito temporaneo" in linea generale , quasi come diritto acquisito, considerando tale figura la regola e la normalità. Ma così non è, ed anzi vige il concetto esattamente opposto. E questo è stato puntualizzato dalla Cassazione. Il deposito temporaneo non è la regola, è l'eccezione. Che va dimostrata. Altrimenti è reato di discarica abusiva. E la dimostrazione deve essere attinente a tutti i punti specifici e particolari che l'art. 6 del decreto 22/97 prevede. In alternativa, ove tali parametri temporali/quantitativi non dovessero essere rispettati, automaticamente si azzera la eccezione di deroga di favore che caratterizza il deposito temporaneo e gli accumuli devono essere letti (legalmente o illecitamente) entro il sistema di gestione in senso stretto. Vediamo a questo punto un quadro del sistema normativo specifico e relativi reati L'art. 6 del decreto 22/97 definisisce (punto m) il deposito temporaneo come "il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti" alla condizione che "i rifiuti depositati non devono contenere policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani, policlorodibenzofenoli in quantità superiore a 2,5 ppm né policlorobifenile, policlorotrifenili in quantità superiore a 25 ppm"; ulteriore, e centrale, condizione prevede che "i rifiuti pericolosi devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento con cadenza almeno bimestrale indipendentemente dalle quantità in deposito, ovvero, in alternativa, quando il quantitativo di rifiuti pericolosi in deposito raggiunge i 10 metri cubi; il termine di durata del deposito temporaneo è di un anno se il quantitativo di rifiuti in deposito non supera i 10 metri cubi nell`anno o se, indipendentemente dalle quantità, il deposito temporaneo è effettuato in stabilimenti localizzati nelle isole minori; i rifiuti non pericolosi devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento con cadenza almeno trimestrale indipendentemente dalle quantità in deposito, ovvero, in alternativa, quando il quantitativo di rifiuti non pericolosi in deposito raggiunge i 20 metri cubi; il termine di durata del deposito temporaneo è di un anno se il quantitativo di rifiuti in deposito non supera i 20 metri cubi nell`anno o se, indipendentemente dalle quantità, il deposito temporaneo è effettuato in stabilimenti localizzati nelle isole minori" Viene inoltre previsto che "il deposito temporaneo deve essere effettuato per tipi omogenei e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute; devono essere rispettate le norme che disciplinano l`imballaggio e l`etichettatura dei rifiuti pericolosi". Il punto centrale del criterio quantitativo/temporale rappresenta l'aspetto di più difficile lettura ed interpretazione per stabilire con esattezza le varie ipotesi del deposito temporaneo. La pratica traduzione dei concetti previsti dalla norma porta a queste conclusioni schematiche: Prima ipotesi: un’azienda può scegliere di conservare in deposito temporaneo all’interno della propria area un quantitativo praticamente illimitato di rifiuti pericolosi provvedendo alla raccolta e all’avvio alle operazioni di recupero o di smaltimento entro il termine massimo di due mesi oppure se trattasi di rifiuti non pericolosi entro il termine massimo di tre mesi. Seconda ipotesi: un’azienda può scegliere di conservare in deposito temporaneo all’interno della propria area un quantitativo massimo di rifiuti pericolosi corrispondente a 10 metri cubi o 20 metri cubi di rifiuti non pericolosi esonerandosi così tuttavia dal termine massimo dei due mesi; in tal caso provvederà alla raccolta e all’avvio alle operazioni di recupero o di smaltimento quando avrà raggiunto detto quantitativo massimo (anche superando il limite dei due mesi); comunque il termine anche se non raggiunto il quantitativo massimo di 10 o 20 metri cubi non può superare mai un anno. Qualora non vengano rispettate tutte le modalità previste dall’art. 6 D.L.vo n. 22/97, il deposito temporaneo è illegale. Il decreto non prevede sanzioni dirette connesse perché in realtà il deposito temporaneo è una deroga eccezionale rispetto all'ordinario sistema di gestione delineato dall'art. 28; e dunque ove i criteri che regolano la deroga non vengano rispettati, si torna automaticamente al regime-base ed alle sanzioni ordinarie previste per tutti gli illeciti connessi alla violazione del sistema di gestione. Dunque, in linea di massima, si può ritenere che in caso di piccolo quantitativo di rifiuti (quantità molto inferiore ai 10/20 metri cubi tipizzanti il deposito temporaneo reale originario) il cumulo di rifiuti possa essere qualificato come deposito incontrollato ai sensi della previsione stabilita dall' art. 14 sanzione (penale perché riferito a titolare di azienda) e della connessa sanzione penale prevista dall'art. 51/2° comma (per titolari imprese). In caso di medio quantitativo di rifiuti (quantità massima intorno ai 10/20 metri cubi) si può ipotizzare uno stoccaggio abusivo e cioè un «deposito preliminare» per lo smaltimento (punto D15 dell’allegato B) oppure una « messa in riserva» per il recupero (punto R13 dell’allegato C); la sanzione (penale) è prevista dall' art. 51/2° comma. Infine, un grande quantitativo di rifiuti (quantità molto superiore ai 10/20 metri cubi) determina certamente una discarica abusiva con sanzione (penale) prevista dall' art. 51/3° comma. Il deposito temporaneo è una alternativa di esclusione rispetto alle ipotesi di stoccaggio costituite dal “deposito preliminare” o “messa in riserva” (come appare evidente anche dalla formulazione della citata voce D 15 dell’allegato B e voce R 13 dell’allegato C al decreto legislativo 5 febbraio 1997, nonché dalla struttura delineata nell’art. 6. Ove un’azienda decida di ricorrere, invece, a tali due ipotesi di stoccaggio nell’area interna anche di produzione dei rifiuti, può accedere ai connessi e regolari regimi autorizzatori ed attuare regolarmente la prassi conseguente, realizzando così, secondo i casi, un “deposito preliminare” prima dello smaltimento o “messa in riserva” prima del recupero. Chiaramente le due ipotesi, deposito preliminare o stoccaggi (nelle due possibilità) sono alternative. Sulla base di tali presupposti giuridici di ordine sistematico, il “laghetto” di rifiuti liquidi di acque reflue per cui è processo non solo integra totalmente l’ipotesi di reato di base contestata in questa sede processuale, ma, a rigor di logica aderente ai principi generali sopra esposti, potrebbe essere considerato una discarica abusiva a tutti gli effetti sostanziali e formali. E questo grazie anche alla quantità e qualità dei rifiuti, alle modalità di riversamento e gestione illecita, alla permanenza nel tempo ed alla sistematicità della fonte. Dunque la prima ipotesi illecita è chiaramente integrata. Resta adesso da esaminare l’ulteriore reato di omessa bonifica. E su tale secondo punto ci si deve preliminarmente chiedere se la fattispecie per cui è processo era da inquadrare nel contesto del sistema di bonifica delineato dall’art. 17 del decreto n. 22/97 (come contestato dal PM) o se doveva invece essere ristretto nel sistema di rimozione rifiuti del sito e rimessione in pristino dello stato dei luoghi previsto dall’art. 14 medesimo decreto. Le “bonifiche” e le “rimozioni rifiuti” previste nel decreto n. 22/97 La bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati (art. 17) rappresentano uno degli elementi cardine e portanti di tutto l'impianto del decreto Ronchi n. 22/97 sui rifiuti. Detta procedura è collegata al D.M. n. 471/99 che costituisce il regolamento esecutivo. Va in primo luogo delineata la differenza tra le bonifiche e l'ordinanza sindacale per la rimozione dei rifiuti e ripristino dello stato dei luoghi. L’ordinanza sindacale per la rimozione dei rifiuti abbandonati viene emessa solo dopo il fatto (minimale) dell’abbandono e/o deposito incontrollato (doloso o colposo) di rifiuti così come disciplinato dall’art. 14 e sanzionato dagli artt. 50/1° comma e 51/2° comma in relazione solo a tali ipotesi specifiche. Riguarda dunque attività modesta per fatto proporzionalmente circoscritto a livello di evento e di danno, sostanzialmente trattasi di una "ripulitura" dell'area con asportazione del cumulo di rifiuti gettato/depositato seguita, ove necessario, da un riassetto della situazione ambientale pregressa. Invece, la procedura per la bonifica dei siti ex art. 17 consegue soltanto al fatto (grave) di un inquinamento dei siti (accidentale, doloso o colposo); l’evento deve aver cagionato il superamento dei limiti di accettabilità di contaminazione di suoli/acque previsti dal D.M. 471/99 o causato il pericolo del superamento. Dunque non ogni caso di inquinamento da rifiuti in generale fa scattare la procedura specifica per la bonifica dei siti ex art. 17 ma soltanto quei fatti (gravi) che determinato il superamento (o pericolo di superamento) di tali limiti selettivi e particolari. La differenza tra l’ordinanza sindacale per la rimozione dei rifiuti abbandonati e la procedura per la bonifica dei siti risiede anche nel fatto che quest'ultima non prevede sanzione per l’evento originario in se stesso: il fatto può essere privo di sanzione (accidentale) o sanzionato da altre ipotesi previsionali (es. discarica abusiva, stoccaggi illegali, gravi riversamenti illeciti etc..); riguarda sia una prima fase di adempimenti autogestiti dal soggetto responsabile sia una seconda fase con progetto ed autorizzazione comunale specifica per tali ipotesi, le relative inosservanze sono di volta in volta sanzionate dall’art. 51/bis in via diretta. Lo stesso D.M. n. 471/99 evidentemente percepisce nel proprio dettato il problema di equivoco interpretativo in esame e precisa (opportunamente) nell'art. 1/comma 2 che “le disposizioni del presente decreto non si applicano all’abbandono di rifiuti disciplinato dall’articolo 14, del D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni ed integrazioni”. La medesima norma, tuttavia, precisa poi ( evidentemente a scopo cautelativo e per evitare distorte applicazioni) che “in ogni caso si dovrà procedere alla classificazione, quantificazione ed indicazione della localizzazione nel sito dei rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato, ai fini degli eventuali interventi di bonifica e ripristino ambientale da effettuare ai sensi del presente decreto nel caso in cui, a seguito della rimozione, avvio a recupero e smaltimento dei suddetti rifiuti, si accerti il superamento o il pericolo concreto ed attuale di superamento dei valori di concentrazione limite accettabili di cui all’articolo 3, comma 1”. Il che significa in altre parole che seppur la norma logicamente (ed opportunamente) distingue in modo chiaro le violazioni inerenti l'abbandono dei rifiuti (e di conseguenza connessa le eventuali ordinanze sindacali di rimozione emesse per detti fatti), in via cautelativa si prevede l'ipotesi che laddove esaurita l'attività di “ripulitura” superficiale dell'area oggetto del riversamento la realtà delle cose appaia ben più grave di quanto si presentava a prima vista, naturalmente la procedura per la bonifica dovrà poi essere attuata. Dunque, essendo di fatto impossibile o comunque molto difficile preclassificare a livello qualitativo e quantitativo, a livello giuridico ma prima ancora sostanziale, un confine netto tra un episodio di abbandono rifiuti ex articolo 14 D.L.vo n. 22/97 (che dovrebbe essere un fatto fisiologicamente minimale) rispetto agli episodi ben più gravi che danno luogo poi fisiologicamente alla necessità di bonifica in senso tecnico, la norma rimette alla valutazione caso per caso e tenendo conto della situazione concreta per una verifica della necessità o meno in via sostanziale della attuazione della procedura ex articolo 17. E tale finalità viene raggiunta prevedendo la classificazione obbligatoria in ogni caso dei siti teatro dei rifiuti abbandonati compresa la connessa quantificazione e localizzazione. L’art. 17 del decreto legislativo n. 22/97 prevede una procedura obbligatoria per chiunque cagioni, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee (stabiliti con decreto del Ministero dell’Ambiente con d.m. n. 471/99 in sinergia con altri ministeri) in relazione alla specifica destinazione d’uso dei siti; ovvero determini un concreto ed attuale pericolo di superamento dei minimi stessi. In questo caso, detto soggetto è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree. Trattasi di una norma di pericolo in senso stretto, e non soltanto di accertamento di fatto oggettivo, perché detto obbligo scatta sia in caso di inquinamento reale ed accertato ma anche in caso di "pericolo concreto ed attuale" e dunque viene alla luce uno scopo estremamente preventivo. Appare evidente che non è necessaria una prassi strettamente analitica-formale per determinare l'insorgenza dell'obbligo di bonifica. In altre parole laddove fosse stato previsto in via esclusiva il superamento oggettivo e comprovato dei limiti di accettabilità, sarebbe stato logico che la procedura di bonifica fosse ancorata alla verifica oggettiva (e quindi sostanzialmente analitica da laboratorio) del superamento dei limiti in questione. Avendo invece la norma previsto in modo contestuale e solidale anche l'ipotesi del pericolo del superamento consegue che è sufficiente dedurre in via logico induttiva il presunto superamento dei limiti a livello potenziale da elementi esteriorizzanti specifici tenuto conto del caso concreto, esimendo così la procedura dal ricorso alle vie strettamente analitiche. Di fatto, dunque, laddove l'episodio (illecito - come nel caso di specie - o accidentale) presenti una gravità tale da evidenziare già a livello visivo ed estetico e/o ad un esame sostanziale tecnico di ordine generale caratteristiche di rilevanza tale da lasciar supporre in via ragionevole e logico - induttiva il presunto superamento dei limiti, la procedura scatta obbligatoriamente. Consegue tuttavia che in tali casi assume comunque un ruolo importante e prioritario la presenza interlocutoria della pubblica amministrazione che in qualche modo deve avallare tale presunzione di pericolo e mettere in mora il titolare ove costui sottovaluti o non consideri affatto la sussistenza degli estremi di imposizione coattiva della necessità di attuare la procedura. Va sottolineato, a livello di procedura concreta, che sul soggetto che cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei valori di concentrazione limite accettabili (o un pericolo concreto e attuale di superamento degli stessi) grava l'obbligo di dare comunicazione dell'evento al Comune, alla Provincia e alla Regione nonché agli organi di controllo ambientale e sanitario entro le quarantotto ore successive all’evento stesso specificando il soggetto responsabile dell’inquinamento (o del pericolo di inquinamento) e il proprietario del sito, l’ubicazione e le dimensioni stimate dell’area contaminata o a rischio di inquinamento ed i fattori che hanno determinato l’inquinamento ed altre informazioni utili. L' iter in evoluzione prevede poi che entro le quarantotto ore successive (e quindi entro 96 massime dall'eventi) il responsabile della situazione di inquinamento o di pericolo di inquinamento deve comunicare al Comune, alla Provincia e alla Regione territorialmente competenti gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza adottati e in fase di esecuzione. La comunicazione deve essere accompagnata da idonea documentazione tecnica dalla quale devono risultare le caratteristiche dei suddetti interventi. La terza fase evolutiva prevede che entro trenta giorni dal ricevimento della seconda comunicazione di cui sopra, il Comune o, se l’inquinamento interessa il territorio di più comuni, la Regione verifica l’efficacia degli interventi di messa in sicurezza d’emergenza adottati e può fissare prescrizioni ed interventi integrativi, con particolare riferimento alle misure di monitoraggio da attuare per accertare le condizioni di inquinamento ed ai controlli da effettuare per verificare l’efficacia degli interventi attuati a protezione della salute pubblica e dell’ambiente circostante. La regola di base impone gli interventi (compresi quelli di messa in sicurezza permanente) devono essere effettuati previa apposita progettazione, da redigere sulla base dei criteri generali e linee guida previsti nell’Allegato 4 del citato decreto ministeriale. Il testo si articola in tre livelli di approfondimenti tecnici progressivi: Piano di caratterizzazione, Progetto preliminare e Progetto definitivo. I criteri generali stabiliti nell’Allegato 4 si applicano fino alla determinazione delle linee guida e dei criteri da parte della regione. La procedura prevede dunque che entro trenta giorni dall’evento che ha determinato il superamento dei valori di concentrazione limite accettabili (o dalla individuazione della situazione di pericolo concreto e attuale di superamento dei valori di concentrazione limite accettabili) oppure dalla notifica dell’ordinanza di diffida del Comune (cfr articolo 8), deve essere presentato al Comune e alla Regione il Piano della caratterizzazione predisposto secondo i criteri definiti nell’Allegato 4 citato. Il decreto stabilisce, inoltre, che il progetto definitivo deve essere presentato al Comune e alla Regione entro e non oltre un anno dalla scadenza del termine sopra citato. Il Comune o, se l’intervento riguarda un’area compresa nel territorio di più comuni, la Regione, approva il progetto definitivo entro novanta giorni dalla presentazione. L'approvazione tuttavia è subordinata all'acquisizione del parere di una Conferenza di servizi, alla quale sono chiamati a partecipare gli enti locali interessati, l’ARPA competente per territorio e tutte le altre amministrazioni competenti per le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla osta, i pareri e gli altri atti di assenso di rito. La competenza per l'approvazione del piano di caratterizzazione e la prassi per autorizzarne l'esecuzione (che può comportare anche richieste di integrazioni e/o imporre specifiche prescrizioni) appartiene di regola istituzionalmente al Comune; tuttavia, nel caso in cui l’intervento riguarda un’area compresa nel territorio di più comuni, la competenza viene naturalmente riversata sulla Regione. Sulla base dei risultati dell’esecuzione del Piano della caratterizzazione deve essere predisposto e trasmesso al Comune e alla Regione il progetto preliminare redatto secondo le modalità definite nell’Allegato 4 del decreto ministeriale. Il Comune o, se l’intervento riguarda un’area compresa nel territorio di più comuni, la Regione, sentita la Conferenza di servizi, approva il progetto preliminare, con la perimetrazione definitiva dell’area influenzata dalla fonte inquinante eventualmente richiedendo integrazioni e imponendo specifiche prescrizioni. Il progetto definitivo di bonifica e ripristino ambientale o di bonifica e ripristino ambientale con misure di sicurezza o di messa in sicurezza permanente, che stabilisce le eventuali prescrizioni e limitazioni per l’uso del sito, è predisposto sulla base del progetto preliminare. Con detto provvedimento di approvazione del progetto definitivo sono autorizzati gli interventi necessari per l’attuazione del progetto stesso e sono stabiliti i relativi tempi d’esecuzione, sono indicate le eventuali prescrizioni per l’esecuzione dei lavori ed è fissata l’entità delle garanzie finanziarie in misura non inferiore al 20% del costo stimato dell’intervento che devono essere prestate a favore della Regione per la corretta esecuzione e il completamento degli interventi medesimi. Il provvedimento è comunque comunicato alla Regione, alla Provincia ed al Comune interessati. L’omessa bonifica nel caso per cui è processo Appare evidente dalla impostazione generale sopra tracciata, che nel caso per cui è processo sul prevenuto gravava l’obbligo di bonifica ex art. 17 del decreto n. 22/97 stante la natura dell’evento illecito posto in essere e delle conseguenze ambientali provocate. Non poteva certo trattarsi di ordinaria (e modesta) attività di rimozione rifiuti e rimessione in pristino sulla base dell’art. 14 medesima norma. E l’obbligo di bonifica derivava (e deriva tutto’oggi) dalla rilevante situazione di impatto ambientale determinata dal comportamento illecito sopra descritto; e la palese e grave situazione di inquinamento determinato rende inutili gli esami analitici perché il superamento tabellare previsto dal D.M. applicativo n. 471/99 (che determina l’insorgenza dell’obbligo di bonifica con relativo e conseguente sistema sanzionatorio penale) può essere dedotto in via logico-induttiva per comune scienza ed esperienza (le foto in atti confermano in modo inequivocabile una situazione di palese ed evidente degrado che senza dubbio consente di attivare l’ipotesi di potenziale pericolo sopra esaminata nell’inquadramento generale dei principi sul sistema delle bonifiche). E’ dato oggettivo che il prevenuto, gravato di tale obbligo in via diretta, non ha attuato assolutamente nessuno degli adempimenti formali e sostanziali previsti dal meccanismo procedurale del sistema bonifiche. E dunque ha conseguentemente e chiaramente integrato a tutti gli effetti il reato conseguente contestato dal P.M. Va rilevato che, peraltro, tale obbligo non può dirsi esaurito con questa fase processuale giacchè la situazione di inquinamento è ancora in atto e di conseguenza il dovere di intervento ex art. 17 decreto n. 22/97 resta in modo permanente in capo al prevenuto. Ma sulla pubblica amministrazione, in realtà, incombe obbligo sinergico e speculare. L'intervento di ufficio della pubblica amministrazione La norma prevede il caso integrativo in cui, come nel caso per cui è processo, il soggetto responsabile non ha attivato la procedura di bonifica e nel contempo i soggetti e gli organi pubblici accertino nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali una situazione di pericolo di inquinamento o la presenza di siti nei quali i livelli di inquinamento sono superiori ai valori di concentrazione limite accettabili (come, appunto, esattamente nel caso di specie oggetto di questo esame processuale). In tali casi detti soggetti ed organi sono tenuti a darne immediata comunicazione alla Regione, alla Provincia ed al Comune. Il Comune, infatti, una volta ricevuta la comunicazione da parte di tali organi esterni di vigilanza deve provvedere con propria ordinanza (comunque notificata anche al proprietario del sito) a diffidare il responsabile dell’inquinamento ad adottare i necessari interventi di messa in sicurezza d’emergenza, di bonifica e ripristino ambientale ai sensi della procedura stabilita dal D.M. 471/99. La norma prevede anche il caso in cui le procedure sono adottate autonomamente e direttamente dalla Regione o dal Comune (cfr art. 17, commi 9, 10 e 11 del D.L.vo n. 22/97). Gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, di messa in sicurezza permanente e le misure di sicurezza sono realizzati dal Comune territorialmente competente e, ove questo non provveda o si tratti di siti che interessano il territorio di più comuni, dalla Regione, nel caso in cui il responsabile dell’inquinamento non sia individuabile e il proprietario del sito non provveda; ancora ove il responsabile dell’inquinamento sia individuabile ma non provveda, né provveda il proprietario del sito da bonificare o altro soggetto interessato; ed infine quando il sito da bonificare sia di proprietà pubblica e il responsabile dell’inquinamento non sia individuabile o non provveda (cfr art. 14 D.M.). ______________ (1) si tratta delle seguenti: a) imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del fondo o alla silvicoltura; b) imprese dedite ad allevamento di bestiame che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di allevamento e di coltivazione del fondo per ogni 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti di allevamento prodotti per un anno da computare secondo le modalità di calcolo stabilite alla tabella 6 dell'allegato 5. Per gli allevamenti esistenti il nuovo criterio di assimilabilità si applica a partire dal 13 giugno 2002; c) imprese dedite alle attività di cui ai punti a) e b) che esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con carattere di normalità e complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente per almeno due terzi esclusivamente dall'attività di coltivazione dei fondi di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità. Ai fini dell’autorizzazione allo scarico, la norma stabilisce l’assimilazione dei loro scarichi alle acque reflue domestiche L'imputazione contestata é dunque provata in ogni componente oggettiva e soggettiva. Il prevenuto non presentandosi in giudizio non apporta peraltro alcun elemento di contraria valutazione in antitesi alla prospettata tesi accusatoria. Si ritiene dunque di poter dichiarare l’ imputato responsabile della imputazione in epigrafe trascritta e stimasi equo irrogare la pena seguente: p.b. sub b) = sei mesi di arresto ed ¤ 3.000,00 di ammenda - 1/3 per attenuanti generiche = 4 mesi ed ¤ 2.000,00 + continuazione = 4 mesi e giorni 15 di arresto ed ¤ 2.500,00 di ammenda. Consegue ulteriore condanna al pagamento delle spese processuali. Lo stato dei precedenti consente di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena. visto ed applicato l’art. 533 C.P.P. P.Q.M. dichiara (…) responsabile dei reati ascritti e riuniti gli stessi con la continuazione, concesse attenuanti generiche, lo condanna alla pena di 4 mesi e giorni 15 di arresto ed ¤ 2.500,00 di ammenda., oltre al pagamento delle spese processuali. Pena sospesa. Terni, li 4.12.02 Il Giudice Dott. Maurizio Santoloci