1. I PACCHETTI DI STIMOLO ALL`ECONOMIA ” NELL
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1. I PACCHETTI DI STIMOLO ALL`ECONOMIA ” NELL
1. I PACCHETTI DI STIMOLO ALL’ECONOMIA UNA “RIVOLUZIONE” NELL’EUROZONA In una prima fase della crisi il crollo dei mercati finanziari aveva costretto i Governi a intervenire con piani di salvataggio delle loro principali Istituzioni finanziarie per un ammontare complessivo pari a 10,8 mila miliardi di dollari (si veda Fig. 1). Successivamente la crisi finanziaria ha colpito duramente l’economia reale, rendendo necessari dei pacchetti di stimolo dell’economia. Nel novembre 2008, la Cina ha stanziato un piano di stimolo del valore di 585 miliardi di dollari, mentre nel febbraio 2009 il Senato americano ha approvato un pacchetto di stimolo da 787 miliardi di dollari. Ben più contenute sono state invece le misure approvate in Europa. Figura 1 - Cifre spese dai Governi per bail-out e soNel novembre 2008 il Presidente della Commissione stegno al sistema finanziario (fonte: BBC, settembre 2009) europea ha annunciato un Recovery Plan per l’Ue di 200 miliardi di euro (1,5% del Pil europeo) per sostenere l’economia reale, affermando che «exceptional times call for exceptional measures». Non si è trattato tuttavia di un vero piano di recupero attuato a livello Ue, ma di un semplice coordinamento dei piani nazionali di 170 miliardi di euro (si veda Fig. 2), a cui si sono aggiunti “solo” 30 miliardi provenienti dal bilancio comunitario e da quello della Banca Europea per gli Investimenti. In mancanza di adeguate risorse finanziarie in capo all’Unione e di autonomia delle Istituzioni comunitarie in tema di politica economica, l’intervento è stato necessariamente limitato e guidato dalle intenzioni/disponibilità degli Stati membri sotto la guida della Presidenza francese (in netto contrasto con le decisioni in campo monetario prontamente e autonomamente prese dalla Banca Centrale Europea). Il carattere quasi “rivoluzionario” di questi interventi è dato dal fatto che prima della crisi era opinione diffusa nell’Eurozona Importo Periodo che la politica fiscale discrezionale non dovesse essere usata 81 2008–09 GERMANIA come uno strumento per stabilizzare l’economia. La stabilizzazione doveva infatti essere raggiunta solo attraverso la politica 26 2009 FRANCIA monetaria, a patto che la stabilità dei prezzi non fosse messa in 6 2009 ITALIA pericolo. In caso di shocks asimmetrici (che colpivano un solo paese o gruppo di paesi Ue), gli interventi si sarebbero dovuti 38 2008–09 SPAGNA limitare all’operare degli “stabilizzatori automatici” (es. sussidi 21 2009 UK di disoccupazione) e comunque sempre nei limiti fissati dal Patto di Stabilità e Crescita (Psc). L’eccezionalità della crisi ha Figura 2 - Pacchetti di politiche fiscali cambiato lo scenario, spingendo i Governi ad attuare politiche approvati dagli Stati membri (2008-09, fiscali discrezionali e portando ad uno sforamento dei parametri miliardi di Euro) (fonte: Governi nazionali) di Maastricht praticamente in quasi tutti i Paesi membri (vedi Sezione 4). In generale, l’impossibilità di un intervento congiunto a livello europeo pone i seguenti problemi: ridotto coordinamento e possibilità di free riding (uno Stato europeo può trarre vantaggio dagli ingenti piani di sostegno dell’economia di un altro stato mediante una crescita dell’esportazione dei propri prodotti in quel Paese) e mancanza di coerenza di questi aiuti rispetto agli obiettivi di lungo periodo (es. quelli previsti nella Strategia di Lisbona). Una soluzione di “first best” a questi problemi potrebbe essere rappresentata dalla possibilità per il bilancio europeo di generare deficit consistenti, ma dato che questa ipotesi “federale” non appare percorribile nell’attuale quadro istituzionale dell’Unione, un’altra soluzione potrebbe essere rappresentata dal c.d. multi-level planning, che passerebbe attraverso un rafforzamento del ruolo dell’Eurogruppo, una valutazione degli interventi statali in linea con il monitoraggio annuale operato dalla Commissione nell’ambito della Strategia di Lisbona e infine la possibilità di emettere titoli di debito europei (c.d. Eurobonds). 2. LA SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO PUBBLICO EVOLUZIONE E PREVISIONI La crisi economico-finanziaria ha avuto principalmente origine dallo scoppio della bolla nel mercato immobiliare statunitense. Buona parte della crescita degli Usa negli ultimi anni è stata generata dall’aumento dei consumi privati, spesso finanziati mediante debito. Il livello di indebitamento è infatti gradualmente aumentato non solo per le famiglie, ma anche per le imprese. Inoltre, una parte significativa dei beni e servizi consumati negli Usa è stata prodotta all’estero e, di conseguenza, il deficit della bilancia commerciale ha raggiunto livelli senza precedenti. La politica fiscale dell’Amministrazione Bush ha fatto poco Figura 3 - (fonte: Oecd economic outlook per controbilanciare questa tendenza e ha anzi permesso la 84, 2008) creazione di un enorme deficit pubblico. Tutto ciò ha dunque determinato un triplice deficit nell’economia statunitense: commerciale, governativo e del settore privato. In altri termini l’Amministrazione Bush ha optato per un pacchetto di stimolo fiscale permanente che ha favorito la crescita e l’occupazione, ma ha al contempo determinato un enorme aumento del debito Diversa è invece stata la situazione europea dalla nascita dell’Euro, in quanto il rigore dettato dalla Banca Centrale Europea e dal rispetto del Patto di Stabilità e Crescita, unito ai vincoli imposti ai paesi dell’Est in vista della loro adesione, hanno spinto verso una riduzione dei deficit di bilancio e dello stock di debito (si veda Fig. 3). Figura 4 - (fonte: DG ECFIN, European Economic Forecast - autumn 2009) La situazione è cambiata radicalmente - anche in Europa - con lo scoppio della crisi e i conseguenti pacchetti di salvataggio e stimolo dell’economia (si veda Fig. 4). Nel 2007 il rapporto debito/Pil nella Ue ha raggiunto quello che rappresenterà un minimo storico per molti anni (58,7%). Nel 2009 infatti passerà a circa il 73% (il più alto aumento mai registrato in tempo di pace) e continuerà a crescere nel 2010-2011, fino quasi a toccare il 90%. Questo potrebbe avere conseguenze molto negative anche sulle prospettive di crescita, soprattutto attraverso il rischio di spiazzamento (crowding out) degli investimenti privati. Secondo le ultime previsioni della Commissione, ci si può inoltre attendere che il rapporto deficit/Pil nell’Ue si riduca dal 7,5% nel 2010 al 6,9% nel 2011, anche se si manterrà a livelli alti negli anni successivi. A ciò si aggiunga anche il problema della possibile competizione tra gli Stati membri per il collocamento del proprio debito (con il conseguente aumento dei premi di rischio). 2 2. LA SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO PUBBLICO EVOLUZIONE E PREVISIONI (SEGUE) Dai dati fin qui considerati si ricava l’urgenza di affrontare il tema della sostenibilità del debito (per non parlare dell’equità intergenerazionale). Il deterioramento strutturale nelle posizioni di debito (si veda Fig. 5) e di deficit dei paesi membri causato dalla crisi è stato tale che la ripresa dell’economia e l’aumento del gettito fiscale (unitamente al ritiro degli stimoli fiscali) saranno comunque in molti casi insufficienti per il ritorno a trend sostenibili. In altri termini, una self -liquidating exit strategy non sembra purtroppo un’ipotesi percorribile per la maggior parte dei Paesi europei. Il ritorno a un trend fiscale sostenibile richiede dunque un prolungato e pesante aggiustamento degli indirizzi di politica economica. A tal proposito l’analisi empirica suggerisce che regole di spesa basate su meccanismi di enforcement automatici, obiettivi di budget di medio-lungo termine e il ricorso ad autorità indipendenti possono contribuire a una maggiore disciplina fiscale e allo spostamento verso voci di spesa che stimolano la crescita di medio-lungo termine. Inoltre, anche alla luce dell’invecchiamento della popolazione e dei trend demografici, è necessario che il consolidamento sia inserito in un quadro di riforme strutturali (es. riforma dei sistemi pensionistico e sanitario) capaci di generare importanti effetti indiretti in termini di potenziale di crescita del Paese. Infine, sul piano strettamente europeo, secondo molti analisti bisognerebbe procedere alla riforma del Psc (affinché questo scoraggi ulteriormente il fine-tuning dell’economia da parte degli Stati membri), nonché all’inclusione nella prossima Agenda di Lisbona di una forte enfasi sulla sostenibilità fiscale (che includa il monitoraggio delle decisioni riguardanti i sistemi pensionistici e sanitari) e all’eventuale creazione di un Fondo europeo che preveda l’accumulazione di attività per fronteggiare le sfide future. EU27 EURO AREA BELGIO BULGARIA REP. CECA DANIMARCA GERMANIA ESTONIA IRLANDA GRECIA SPAGNA FRANCIA ITALIA CIPRO LETTONIA LITUANIA LUSSEMB. UNGHERIA MALTA PAESI BASSI AUSTRIA POLONIA PORTOGALLO ROMANIA SLOVENIA SLOVACCHIA FINLANDIA SVEZIA UK 1998 66,4 72,8 117,4 79,6 15 60,8 60,3 5,5 53,6 94,5 64,1 59,4 114,9 51,2 9,6 16,6 7,1 59,9 53,4 65,7 64,8 38,9 52,1 16,6 n.d. 34,5 48,2 69,1 46,7 1999 65,8 71,5 113,7 79,3 16,4 57,4 60,9 6 48,5 94 62,3 58,9 113,7 51,8 12,5 22,8 6,4 59,8 57,1 61,1 67,2 39,6 51,4 21,7 n.d. 47,9 45,5 64,8 43,7 2000 61,9 68,8 107,9 74,3 18,5 51,5 59,7 5,1 37,8 103,4 59,3 57,3 109,2 48,7 12,3 23,7 6,2 55 55,9 53,8 66,5 36,8 50,5 22,5 n.d. 50,3 43,8 53,6 41 2001 61 68,4 106,6 67,3 24,9 48,7 58,8 4,8 35,6 103,7 55,5 56,9 108,8 52,1 14 23,1 6,3 52 62,1 50,7 67,1 37,6 52,9 25,7 26,8 48,9 42,3 54,4 37,7 2002 60,4 68,2 103,5 53,6 28,2 48,3 60,4 5,7 32,2 101,7 52,5 58,8 105,7 64,6 13,5 22,3 6,3 55,6 60,1 50,5 66,5 42,2 55,6 24,9 28 43,4 41,4 52,6 37,5 2003 61,8 69,4 98,5 45,9 29,8 45,8 63,9 5,6 31 97,4 48,7 62,9 104,4 68,9 14,6 21,1 6,1 58,4 69,3 52 65,5 47,1 56,9 21,5 27,5 42,4 44,4 52,3 38,7 2004 62,2 69,8 94,2 37,9 30,1 44,5 65,7 5 29,7 98,6 46,2 64,9 103,8 70,2 14,9 19,4 6,3 59,1 72,1 52,4 64,8 45,7 58,3 18,7 27,2 41,5 44,4 51,3 40,6 2005 62,7 70,4 92,1 29,2 29,7 37,1 68 4,6 27,6 100 43 66,4 105,8 69,1 12,4 18,4 6,1 61,8 70,2 51,8 63,9 47,1 63,6 15,8 27 34,2 41,8 51 42,2 2006 61,3 68,6 88,1 22,7 29,4 31,3 67,6 4,5 25 97,1 39,6 63,7 106,5 64,6 10,7 18 6,6 65,6 63,6 47,4 62,2 47,7 64,7 12,4 26,7 30,5 39,3 45,9 43,2 2007 58,7 66,2 84,2 18,2 29 26,8 65 3,8 25,1 95,6 36,1 63,8 103,5 58,3 9 16,9 6,6 65,9 62 45,5 59,5 45 63,6 12,6 23,3 29,3 35,2 40,5 44,2 2008 61,5 69,6 89,8 14,1 30 33,5 65,9 4,6 44,1 99,2 39,7 67,4 105,8 48,4 19,5 15,6 13,5 72,9 63,8 58,2 62,6 47,2 66,3 13,6 22,5 27,7 34,1 38 52 Figura 5- Debito nominale dei Governi (% del PIL) (fonte: Eurostat 2009) 3 3. FUORI DALLA CRISI (?): MERCATI FINANZIARI Sul piano finanziario la crisi può essere suddivisa in due parti. Nella prima - da agosto 2007 ad agosto 2008 - le Istituzioni finanziarie hanno accumulato perdite sempre più ingenti legate più o meno direttamente ai mercati sub-prime; nella seconda - da settembre 2008 - a seguito del salvataggio negli Usa di Fannie Mae e Freddie Mac, del gruppo assicurativo AIE e del fallimento di Lehaman Brothers, la crisi è diventata sistemica, causando un generalizzato crollo di fiducia che ha bloccato i mercati interbancari e reso indispensabili dei piani di salvataggio governativi. Entro la fine del 2008 le perdite e i writedowns per i mercati finanziari hanno superato i 1.000 miliardi di dollari, di cui circa 1/4 in capo ad Istituzioni finanziarie europee. Nell’aprile del 2009, i leaders del G20 hanno deciso di incrementare le risorse disponibili per il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) attraverso un immediato finanziamento da parte degli Stati membri di 250 miliardi di dollari, espandendo i New Arrangements to Borrow (ovvero gli accordi tra Paesi membri e l’Fmi finalizzati a garantire a quest’ultimo risorse extra in caso di eventi eccezionali) a 500 miliardi di dollari e rendendoli più flessibili. In settembre, l’Executive Board del Fmi ha inoltre approvato la vendita di riserve auree per un ammontare complessivo di 403,3 tonnellate metriche (per un controvalore di circa 2,4 miliardi di dollari), definendo limiti all’acquisto e una timeline di vendita finalizzati a ridurre l’impatto sul mercato dell’oro (si veda Fig. 6). Figura 6 - (fonte: Fmi) Un’altra importante iniziativa è rappresentata dal Financial Stability Board (Fsb) ovvero un organismo creato nell’aprile 2009 in sostituzione del Financial Stability Forum (avviato nel 1999 con lo scopo di offrire una sede di confronto sulla stabilità finanziaria dei mercati ai rappresentanti delle istituzioni finanziarie nazionali e ai principali organismi di controllo e regolazione delle istituzioni finanziarie internazionali). La crisi economica ha messo in luce i limiti dell’attuale regolamentazione e, di conseguenza, i leaders del G20 hanno deciso di creare un organismo più ampio e strutturato (guidato dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi) per aumentarne l’efficacia e garantire per il futuro una maggiore salvaguardia della stabilità finanziaria. In particolare, i+l mandato del Fsb è quello di garantire una tempestiva valutazione delle criticità del sistema finanziario e sorvegliare l’applicazione delle necessarie contromisure. In questa prospettiva, risulta centrale l’attività di costante monitoraggio dei presupposti della stabilità finanziaria internazionale (l’Fsb collabora col Fmi nella condurre gli Early Warning Excercises, ovvero valutazioni semestrali del potenziale impatto di scenari critici) e l’impegno dei Paesi membri a mantenere il massimo livello di trasparenza sulle attività del settore finanziario (inclusa la lotta ai “paradisi fiscali”), nonché a sottoporsi a periodiche valutazioni di stabilità. In sostanza, l’Fsb è uno strumento leggero di coordinamento creato con l’obiettivo di sfruttare il clima politico conseguente alla crisi finanziaria per rafforzare i meccanismi di cooperazione tra le diverse autorità preposte a garantire la stabilità dei mercati. 4 3. FUORI DALLA CRISI (?): MERCATI FINANZIARI (SEGUE) Riguardo alla specifica risposta europea alla crisi finanziaria, questa è passata attraverso la Banca Centrale Europea, che è intervenuta prontamente riducendo i tassi e immettendo liquidità nei mercati. Inoltre, sotto l’attiva guida di Sarkozy (Presidente di turno dell’Unione), gli Stati dell’Eurozona hanno concordato - consultando anche la Gran Bretagna - bailout plans nell’ambito dell’Eurogruppo (si veda Fig. 7). Figura 7 - (fonte: DG ECFIN, European Economic Forecast - autumn 2009) Le misure prese nell’Unione hanno non solo impedito il blocco dei mercati finanziari europei, ma hanno anche portato ad un netto miglioramento delle condizioni dei mercati negli ultimi mesi al punto che molti stress indicators sono ormai tornati a livelli pre-crisi. Nei mercati interbancari gli spreads hanno continuato a ridursi fino a raggiungere livelli non visti dall’inizio del 2008 (addirittura inferiori nel caso americano). La riduzione dei tassi di interessi ha inoltre abbassato notevolmente il costo del denaro sia per le imprese (1,5 punti percentuali dal picco di ottobre 2008 secondo la Commissione europea) sia per le famiglie (1 punto percentuale) (si veda Fig. 8 sull’andamento dei prestiti negli ultimi 10 anni). Figura 8 (fonte: DG ECFIN, European Economic Forecast - autumn 2009) 5 3. FUORI DALLA CRISI (?): MERCATI FINANZIARI (SEGUE) Nonostante i segnali di recupero, l’ammontare di prestiti concessi alle imprese e alle famiglie continua però a risentire degli effetti della crisi (il tasso di crescita annuale dei prestiti al settore privato si è ridotto dello 0,1% ad agosto). Inoltre permangono preoccupazioni in merito ai bilanci del settore bancario; secondo recenti stime della Bce e del Committee of European Bank Supervisors, le perdite potrebbero ammontare a 200-400 miliardi di euro per il biennio2009-2010, con importanti conseguenze in termini di intermediazione e sostegno alla ripresa economica. Per quanto concerne i mercati borsistici europei, si è già registrato netto recupero (circa il 20% solo tra la primavera e l’autunno del 2009): dopo aver fatto registrare nei primi mesi del 2009 livelli minimi (con perdite medie oltre il 50% rispetto all’inizio del 2007), a partire dal secondo trimestre hanno mostrato costanti segni di ripresa (si veda Fig. 9). In definitiva sembra dunque che i mercati finanziari stiano recuperando rispetto allo scorso anno, ma la solidità di diverse Istituzioni bancarie rimane incerta e, come dimostrato dal recente caso di Dubai, non è escluso che si possano ripresentare forti segnali di instabilità. Figura 9 - (fonte: DG ECFIN, European Economic Forecast - autumn 2009) 6 4. FUORI DALLA CRISI (?): ECONOMIA REALE L’attuale crisi economica si è dimostrata essere la più profonda, lunga e ampia nella storia dell’Ue. Nel 2009 il Pil si ridurrà del 4% circa sia per l’intera Ue che per l’Eurozona. Tutti i paesi membri sono stati colpiti dalla recessione (si veda Fig. 10), seppur con impatti diversi anche tra i Paesi più grandi (riduzione del 2% circa per la Francia, rispetto al 4,5%-5% per la Germania, l’Italia, la Gran Bretagna). Queste differenze (si veda Fig. 11) dipendono, tra le altre cose, dalla esposizione del settore finanziario alla crisi, dal peso del comparto estero rispetto al Pil e dalla presenza (o meno) di una bolla immobiliare prima della crisi. In seguito al massiccio intervento delle banche centrali e dei Governi nazionali, concretizzatosi in quasi 1.500 miliardi di dollari di pacchetti di stimolo (si veda Sezione 3), Figura 10 - (fonte: DG ECFIN, European Economic Forecast - autumn 2009) i primi segnali di ripresa si sono ravvisati nel corso del 2009. Le previsioni di crescita del Pil per il 2010 sono state riviste al rialzo per tutte le principali economie, segnando un’uscita dal trend negativo scatenato dallo scoppio della crisi nel 2008. Figura 11 - Variazioni del Pil in % (fonte: Oecd economic outlook no. 86 - 2009) L’Ue nel suo insieme è cresciuta dello 0,2% nel terzo trimestre. Nello specifico, tra le grandi economie europee sono cresciute Germania (0,7), Francia (0,3), Italia (0,6), mentre hanno continuato sulla strada della recessione Gran Bretagna (-0,4) e Spagna (-0,3). A livello internazionale, anche gli Usa (0,9) e il Giappone (1,2) sono tornati a crescere e, in misura ancora maggiore, i principali paesi emergenti soprattutto in Asia (prima fra tutti la Cina) . Le previsioni per il prossimo biennio sono anche più positive, ma permangono ancora fattori che possono frenare la crescita. 7 4. FUORI DALLA CRISI (?): ECONOMIA REALE (SEGUE) In particolare per l’Ue l’impatto ancora forte della crisi sulla domanda interna (si veda Sezione 6) e la modesta ripresa delle esportazioni non possono far sperare in sostenuti tassi di crescita che permettano un veloce recupero. Dopo la temporanea ripresa nella seconda metà dell’anno, la crescita del Pil reale sarà più ridotta nella prima parte del 2010 per poi riguadagnare terreno nella seconda parte. Particolare importanza rivestirà il commercio internazionale, fortemente colpito dalla crisi (si veda Fig. 12). Questo dato sarà particolarmente per grandi Paesi come la Germania e l’Italia. Figura 12 - Le perdite nel commercio internazionale ammontano a 3-4 mila miliardi di USD nel 2009, a fronte di una diminuzione assoluta del PIL mondiale pari a 1-2 mila miliardi di USD (fonti: BEA, ECB, China Data Online, Statistics Japan - tutti i valori sono relativi ai corrispettivi in valuta locale) Infine va segnalato che, in un’ottica di medio-lungo periodo, la crescita dovrà essere ancorata, tra le altre cose, ad un recupero della produttività, alla disponibilità di adeguate risorse finanziarie per le imprese, all’attuazione di riforme strutturali e all’attivazione di investimenti produttivi da parte degli Stati nella loro strategia di rientro del debito pubblico. Tutto ciò in un coerente quadro europeo che dovrebbe permettere di rilanciare la Strategia di Lisbona con obiettivi precisi e un monitoraggio costante delle politiche adottate dagli Stati. 8 5. FUORI DALLA CRISI (?): IMPATTO SOCIALE Malgrado il recupero dei mercati finanziari e i positivi (ma deboli) segnali di ripresa dell’economia reale, l’impatto della crisi sui cittadini rimane ancora alto e la situazione potrebbe addirittura peggiorare nel 2010, seguendo il tradizionale lag esistente tra i trend economico-finanziari e le conseguenze di carattere sociale. Particolarmente preoccupanti sono i dati che riguardano il tasso di disoccupazione (si veda Fig. 13) che si presume continuerà a crescere raggiungendo il 10,5% nell’Ue entro il 2010 (l’11% nell’Eurozona) e rimarrà sostanzialmente invariato nel 2011 (tradizionalmente in Europa il tasso di disoccupazione impiega circa 3 anni per tornare ai livelli pre-crisi). Figura 13 - (fonte: DG ECFIN, European Economic Forecast - autumn 2009) In particolare, dopo aver raggiunto il livello più basso dell’ultimo decennio (6,7%), nel secondo trimestre del 2008 il tasso di disoccupazione è costantemente aumentato fino al secondo trimestre del 2009, causando la perdita di 4 milioni di posti di lavoro, di cui oltre 2/3 nel 2009 (in pratica in 1 anno è mezzo sono stati annullati i positivi risultati raggiunti in oltre 3 anni). Secondo le stime della Commissione, altri 2,7 milioni di posti di lavoro potrebbero essere persi nel 2010 (nell’intero periodo 2008-2011 le performance più negative si registreranno in Irlanda, Spagna ed Estonia). Le categorie di lavoratori più colpiti (si veda Fig. 14) sono quelle che hanno minori tutele contrattuali, le qualifiche più basse e minore esperienza (con una più alta incidenza sugli uomini rispetto alle donne data la loro presenza in percentuale più alta nei settori colpiti prima dalla recessione: costruzioni e industria manifatturiera). Particolarmente significativo è anche l’impatto sulla disoccupazione giovanile, che è crescita di 4 punti percentuali in un anno toccando il 20% (con una perdita di circa 1 milione di posti di lavoro) Figura 14 - (fonte: DG ECFIN, European Economic Forecast - autumn 2009) 9 5. FUORI DALLA CRISI (?): IMPATTO SOCIALE (SEGUE) È importante sottolineare che l’impatto sociale della crisi è decisamente diverso tra i vari Paesi membri. Conta infatti molto il modello economico adottato. Semplificando, si possono individuare due modelli economici estremi in Europa: quello “dirigista” francese (tipico dell’Europa continentale) e quello “liberista” di stampo britannico. Come sottolineato provocatoriamente dall’Economist (7 maggio 2009), il primo sembra rispondere meglio alla crisi in termini di impatto sociale (si veda Fig. 15). La presenza di un forte welfare state (sanità, istruzione, sistema pensionistico) e l’attivazione degli stabilizzatori automatici (come i sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione ecc.) hanno infatti permesso ai cittadini di avvertire meno il peso della crisi. A tal riguardo, un indicatore può essere rappresentato dall’andamento dei consumi privati, in crescita nel 2009 in Francia (0,6) e Germania (0,8) nonostante la crisi (il dato britannico invece è stato 3%). L’impatto sui Paesi che hanno adottato il secondo modello è quindi stato più forte, rendendo peraltro necessari pacchetti di aiuti straordinari comparativamente più alti. In generale non si tratta di risultati sorprendenti, dato che il modello continentale è da sempre considerato migliore in tempo di crisi ma risulta più rigido (e appesantisce i conti dello Stato) nei periodi di crescita. Variazione Pil Consumi privati Consumi pubblici Disoccupazione Francia Germania Italia Polonia Spagna Regno Unito Francia Germania Italia Polonia Spagna Regno Unito Francia Germania Italia Polonia Spagna Regno Unito Francia Germania Italia Polonia Spagna Regno Unito 2007 2,3 2,6 1,5 6,8 3,6 2,6 2,4 -0,3 1,2 4,9 3,6 2,1 1,5 1,7 1,0 3,7 5,5 1,2 8,0 8,3 6,2 9,6 8,3 5,4 2008 0,3 1,0 -1,0 5,0 0,9 0,6 1,0 0,2 -0,9 5,9 -0,6 1,2 1,1 2,0 0,6 7,5 5,5 2,5 7,4 7,2 6,8 7,1 11,3 5,7 2009 -2,3 -4,9 -4,8 1,4 -3,6 -4,7 0,6 0,8 -1,9 3,2 -5,1 -3,0 1,5 2,3 1,7 1,9 4,4 2,8 9,1 7,6 7,6 8,4 18,1 8,0 La crisi potrebbe rappresentare un’irripetibile occasione per permettere, nel contesto dell’Ue, un nuovo accordo che permetta di trovare un compromesso tra i due modelli economici: completamento del Mercato Unico (in linea con il modello liberalista) vs maggior coordinamento e impegno sulle politiche economicosociali (in linea con il modello continentale). Figura 15 - (fonte: Oecd economic outlook 2009) Documentazione a cura dell’ISPI nell'ambito del progetto EEGM (European Economic Governance Monitor; ChathamHouse, EPC, IFRI, ISPI, SWP) con il sostegno della Compagnia di San Paolo 10