Schermi_di_guerra [ 1.18 MB ]
Transcript
Schermi_di_guerra [ 1.18 MB ]
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI STUDIO IN DAMS TESI DI LAUREA SCHERMI DI GUERRA Le guerre jugoslave tra cinema, storia e società Relatore: Prof.Giaime Alonge Candidato: Mauro Ravarino matr. n°147230 Anno accademico 2004-2005 INDICE I NTR OD U Z IO NE 1.1 Cinema e guerre jugoslave 7 1.2 I film e la geografia del conflitto 13 PARTE PRIMA R A P PR ESE N T A Z I ONE E V IS I O NE : I TEATR I DI GU ERRA 1 Vukovar e la Croazia 22 1.1 Il disertore 24 1.2 Tempo d’amare 28 1.3 Harrison’s Flowers 30 1.4 Vukovar: Poste Restante 34 1.5 Gli altri film 36 2 39 Sarajevo 2.1 Benvenuti a Sarajevo 47 2.2 Do you remember Sarajevo? 54 2.3 Lo sguardo di Ulisse 56 2.4 Teatro di guerra 62 2.5 Il cerchio perfetto 64 2.6 Forever Mozart 66 2.7 Gli altri film 69 3 82 Bosnia-Erzegovina 3.1 Pretty Village, Pretty Flame 83 3.2 Beautiful People 91 3.3 No man’s land 95 3.4 La vita è un miracolo 100 3.5 Benvenuto Mr. President 105 3.6 Una ricostruzione storica e i documentari su Srebrenica 107 3.7 Gli altri film 113 1 4 Belgrado e la Serbia 4.1 La Polveriera: Belgrade as state of mind 116 116 4.2 I giovani registi e la generazione dei “ragazzi di Praga” 123 4.3 Gli altri film 131 5 135 La Macedonia e il Kosovo 5.1 Prima della pioggia 138 5.2 Il Kosovo sul grande schermo: tra documentario e fiction 145 6 La guerra tra mito, realtà e metafora 151 7 Il conflitto visto dall’Italia: “la guerra in casa” 174 7.1 Nema problema 177 8 Media e guerra 184 PARTE SECONDA G UERR E JU GOS LAVE (1991-1999) 1 Gli ultimi anni della Jugoslavia e la sua disgregazione 201 2 La guerra in Slovenia e in Croazia: 1991 213 3 La guerra in Bosnia-Erzegovina: 1992-1994 221 4 La guerra continua nel 1995 in Bosnia-Erzegovina e in Croazia 234 5 La guerra in Kosovo 1989-1999 246 2 PARTE TERZA E M IR K USTURICA E LA STOR IA DELL ’ EX -J UGOS LAV IA : U NDERGROUND 1 Analisi del film 279 2 Reconstruction: cinema e storia 300 3 Tra mito e realtà 309 4 Realtà e finzione: tra surrealismo, doppio, vero e manipolazione 315 5 Le polemiche 322 B I B L IO GR A F IA 335 F ILMOGRAFIA 353 S I T O GR A F IA 358 3 INTRODUZIONE La Storia irrompe nuovamente nel cinema contemporaneo con insolito slancio, originali forme e ampie problematiche. Il caso delle guerre jugoslave, che avevano colpito la civile Europa a cinquant’anni dal secondo grande conflitto mondiale, è assolutamente significativo al proposito. Esse sono diventate il soggetto fondamentale di una vasta filmografia. Numerosi autori si sono confrontati con la recente storia dei Balcani, sia registi originari delle repubbliche che costituivano la Jugoslavia, sia stranieri, definendo così due modalità diverse di approccio e messa in scena della storia: auto-rappresentazione e rappresentazione. Questa ricerca si propone di analizzare la produzione cinematografica, e più in generale audiovisiva, sui conflitti che, a poca distanza dal confine italiano, si sono protratti per tutti gli anni Novanta, e sulla complessiva disgregazione della Jugoslavia. Affronta un percorso interdisciplinare tra cinema e storia, inserendo i film in un contesto storico, culturale e politico, interessandosi al rapporto con gli altri media e arti, in primis la televisione e la letteratura. Utilizza strumenti e materiali diversi: testi scritti, video e multimediali. Tra i film compaiono opere di fiction (per la stragrande maggioranza lungometraggi, ma in alcuni casi anche cortometraggi) e documentari, non operando particolare distinzione fra fiction e non-fiction, ritenendo, d’altronde, una semplificazione la suddivisione delle pellicole in due rigide categorie. Realtà e finzione sono due dimensioni che, anche alla luce della post-modernità, si contaminano e compenetrano in modo difficilmente inestricabile. E’ nostra intenzione offrire uno sguardo critico su tale rappresentazione. 4 Lo studio del rapporto tra cinema e storia è un campo complesso, che da più di un decennio è stato alimentato da nuovi stimoli teorici e artistici. Permette di analizzare le dinamiche sociali di un’epoca, le forme figurative, le strategie comunicative, la mentalità, la ricerca e l’elaborazione estetica, l’interpretazione del passato e allo stesso tempo il ruolo del cinema nella società e nella contemporaneità, l’apporto alla formazione di un pensiero e immaginario collettivo, multiforme, e di una memoria, non solo iconografica. Il progetto è stato suddiviso in tre parti, in dialogo tra loro. La prima “Rappresentazione e visione: teatri di guerra” ripartisce la geografia del conflitto in cinque grandi aree territoriali, analizzando le diverse opere che si soffermano su ciascuna: dalla Croazia alla Bosnia, dalla Serbia alla Macedonia, fino al Kosovo. Focalizzando l’attenzione anche su tre città particolari: Sarajevo, vittima di un lungo assedio e protagonista di una indescrivibile resistenza culturale, Belgrado e Vukovar. La filmografia delineata, segnata da un non trascurabile approccio artistico, si è rivelata composita e multiforme. Tre approfondimenti concludono la sezione: la guerra e il destino dei Balcani come costante della relazione “mito e realtà”; il conflitto visto dai registi italiani; il complesso rapporto tra media e guerra. La seconda, sulla storia delle guerre jugoslave, si inserisce tra le due parti più “cinematografiche”, proprio a voler sottolineare l’interdisciplinarità che struttura la ricerca. Indicativamente vanno dal 1991 al 1999, ma comprendono una lunga fase di incubazione e la propaggine del conflitto macedone. Questa sezione cerca di fornire un quadro sulla storia recente e la società dell’ ex Jugoslavia, smontando l’idea distorta e semplificata di una guerra per motivi etnici, e si pone come base essenziale per lo studio dei film. E’, infatti, interessante in alcuni 5 passaggi utilizzare una lettura “non lineare” che permetta di creare un rapporto sincronico e diacronico tra cinema e storia. La terza ed ultima parte è dedicata ad Underground (1995) di Emir Kusturica, probabilmente allo stesso tempo il film più noto, controverso e complesso sull’intera tematica. Dopo l’analisi dell’opera, si sono rilevati alcuni nodi problematici del testo filmico: la “reconstruction” storica effettuata dalla pellicola, ovvero l’interpretazione creativa, non sempre filologicamente corretta, ma in grado di muovere un discorso articolato sul presente e sul passato1; il mito e la realtà nel film; la contaminazione delle categorie “realtà” e “finzione” tra surrealismo, doppio, vero e manipolazione; infine le numerose polemiche, sul suo valore “politico”, che avevano accompagnato il successo a Cannes nel 1995 e l’uscita del film nelle sale. 1 Si veda Marc Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980 (del testo vi è poi un’edizione aggiornata Cinéma et Histoire, Gallimard, Parigi, 1993). 6 1.1 C INEMA E GUERRE JUGOSLAVE Dieci anni di lunga guerra, con qualche pausa dopo il 1995, ma senza allentamenti di tensione. Tanto durarono i conflitti nell’ex Jugoslavia, che imperversarono per tutti gli anni Novanta e sono diventati oggetto, e a tratti ossessione, dei cineasti, prima balcanici e poi di tutto il mondo. Quella dei registi jugoslavi fu una reazione pressoché istantanea, basti pensare che il primo film Il disertore (1992) di Živjon Pavlović è stato girato a Vukovar quando i fuochi della guerra erano ancora accesi. E’ un argomento di ricerca che solo ultimamente viene studiato a livello accademico. Nell’aprile del 2004 Nevena Daković, storica del cinema e docente all’Università di Belgrado, contava più di trecento film di finzione e documentari, che trattano della disgregazione del Paese2. Ne deriva un racconto multiforme e stratificato. A questo “genere” senza confini, la stessa Daković propone la denominazione di “nuovo film di guerra postjugoslavo”3. Diverse opere hanno ottenuto una considerevole ribalta internazionale nei maggiori festival: Prima della Pioggia di Manchevski ha conquistato il “Leone d’oro” a Venezia nel 1994, un anno dopo a Cannes Kusturica con Underground ha vinto la “Palma d’oro” e Angelopoulos con Lo sguardo di Ulisse, il “Gran premio della giuria”; Benvenuto Mr. President di Žalica ha ricevuto il Pardo d’argento a Locarno nel 2003, Pretty Village, Pretty Flame di Dragojević e La polveriera di Paskaljević hanno riscosso notevoli consensi e riconoscimenti in varie rassegne 2 Il dato è riportato all’interno di un articolo di Nevena Daković, La guerra sul grande schermo per il settimanale indipendente “Vreme” di Belgrado, pubblicato dal “Corriere dei Balcani” (10 aprile 2004) e tradotto anche dall’ “Osservatorio dei Balcani” (16 aprile 2004). 3 Ibidem 7 internazionali, infine nel 2002 No Man’s Land di Danis Tanović ha ottenuto l’ Oscar per la Bosnia-Erzegovina. La narrazione cinematografica ha costruito metafore complesse (Underground e Prima della Pioggia), si è avvicinata alla tematica attraverso un naturalismo vivo e metafisico (Pretty Flame, Pretty Village; I (Benvenuto testimoni/Svjedoci), Mr. President, un Beautiful umorismo People) agrodolce e molto più raramente ha ceduto ad una propaganda unilaterale (Tempo d’amare). I film affrontano diverse storie: il mondo dell’informazione e dei reporter di guerra (Benvenuti a Sarajevo, Nema problema, Veillées d'armes), Sarajevo sotto assedio (Do you remember Sarajevo?), la difficoltà di prendere una posizione (Pretty Village, Pretty Flame; Prima della pioggia), la situazione di follia e stagnazione a Belgrado (Premeditated Murder, Ghetto), la complessità della Storia dei Balcani (Lo sguardo di Ulisse, Underground), il destino dei bambini orfani (Il Cerchio perfetto), l’assurdità della guerra (No man’s land), il dramma di Vukovar (Vukovar: Poste Restante, Harrison’s Flower), il rapporto tra Europa e Balcani (Beautiful People, Forever Mozart), la violenza contro le donne in guerra (Calling the Ghosts), l’incapacità dell’Onu e della comprendere comunità (tematica internazionale ricorrente) ed di intervenire insieme i e traumi contemporanei dell’ “urbicidio” (la distruzione sistematica delle città), della povertà, dell’isolamento e della distruzione sociale. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, i media di informazione jugoslavi, in primis la televisione, sono diventati strumento fondamentale della propaganda nazionalista e così fattore scatenante del futuro conflitto e del condizionamento popolare. In una situazione simile poteva essere possibile un allineamento del cinema agli altri media, in base ad una conversione in atto di 8 principi etici in etnici. Fortunatamente ciò non è accaduto, sia perché i registi hanno ritenuto impossibile associarsi all’isteria nazionalistica, sia perché nella seconda metà dello scorso secolo il cinema ha avuto una ricollocazione all’interno del sistema dei media, con l’avvento della televisione che l’ha in buona parte emancipato dai doveri di propaganda. I film offrono spiegazioni molteplici e complesse della guerra, talvolta cadono in confusioni interpretative, a cui sono soggette anche le numerose “instant history” (saggi storici o giornalistici) che accompagnano le rivalità balcaniche. Alcune pellicole ricorrono all’ipotesi di debiti storici e nazionali che si trascinano dal passato (Underground), altri invece, in forme diverse, spiegano la drammatica contemporaneità con l’impassibilità del destino balcanico (La polveriera, Prima della pioggia), altri ancora presentano gli eventi attraverso una situazione comica basata sulla follia del temperamento balcanico (Benvenuto Mr.President). I film criticano, anche indirettamente, chi ha incitato lo scontro militare e sollecitato l’odio tra i popoli della jugoslavia. Pretty Village, Pretty Flame e I testimoni suddividono le responsabilità tra tutte le parti in causa. No man’s land rappresenta la guerra come male universale e non solo come un fenomeno endemico di quei territori. Ritorna nei film un’interpretazione “mitica”, consolidatosi soprattutto nel dopo Dayton (novembre ’95) della storia della Jugoslavia, intesa come fatalistica e ciclica. A tal proposito Marco Dogo, in uno studio sulla storia dei Balcani, scrive: “Esiste un destino balcanico? La domanda può essere tradotta in questi termini: esiste una specie di condanna alla ricorrente ripetizione di una storia di violenze? Sì e no. Esiste un destino nel senso di 9 condizionamento storico che predispone al ripetersi intermittente di violenze, ma non è un condizionamento invincibile”4. L’analisi della relazione tra cinema e storia a proposito delle guerre jugoslave fa emergere problematiche affrontate nella ricerca teorica. Dal cinema come agente e fonte storica di Marc Ferro5 al concetto di visibile di Pierre Sorlin6. Gli ultimi studi di Sorlin, che in La storia nei film7 affrontava il tema del film “storico” sostenendo che tali pellicole rappresentano il passato e riorganizzano il presente, allargando la ricerca ad altri media come la televisione (che col cinema finisce per creare la “realtà”) si interrogano sull’“irrappresentabilità” della storia; L’immagine e l’evento8 esamina come la Storia possa essere anticipata se non addirittura determinata dal sistema dei media, le immagini che rappresentano il mondo, a volte influiscono sulle circostanze o condizionano un modo di interpretare gli eventi. Robert Rosenstone ha delineato le coordinate del film storico postmoderno, una catalogazione ampia ed articolata, a cui possono essere ricondotti in buona parte i film che analizzeremo9. 4 M.Dogo, Storia balcaniche. Popoli e stati nella transizione alla modernità, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 1999. 5 M.Ferro, op.cit., p.21. 6 “Il visibile è quel che appare fotografabile e presentabile sugli schermi in un’epoca data”, P.Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti Milano, 1979, p.253. 7 P.Sorlin, La storia nei film, interpretazioni del passato, La Nuova Italia, Firenza, 1980. 8 Cfr. Pierre Sorlin, L’immagine e l’evento, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p.145. 9 (1) Tell the past self-reflexively, in terms of how it means to the filmmaker historian. (2) Recount it from a multiplicity of viewpoints. (3) Eschew traditional narrative, with its beginning, middle and end – or, following Jean Luc Godard, insist that these three elements need not necessarily be in that order. (4) Forsake normal story development, or tell stories, but refuse to take the telling seriously. (5) Approach the past with humor, parody, and absurdist, surrealist, dadaesque and other irreverent attitudes. (6) Intermix contradictory elements – past and present, drama and documentary – and indulge in creative anachronism. (7) Accept, even glory in, their own selectivity, partialism, partisanship and rhetorical character. (8) Refuse to focus or sum up the meaning of past events, but instead make sense of them in a partial and open-ended, rather than totalized manner. (9) Alter and invent incident and character. (10) Utilize fragmentary or poetic knowledge. (11) Never forget that the present is the site of all past representation and knowing. Tratto da Robert Rosenstone, The Future of the Past: Film and Beginnings of Postmodern History, in Vivian Sobchack (a cura di), The Persistance of History: Cinema; Television, and the Modern Event, Routledge, London e New York, 1998, p.206. 10 Si sono confrontati con la rappresentazione del conflitto balcanico, quattro generazioni di registi jugoslavi: gli autori dell’”Onda Nera” (l’avanguardia degli anni Sessanta), quelli del cosiddetto “Gruppo di Praga”, la generazione di poco successiva (quella di Kusturica per intenderci) e i giovani film-maker. La filmografia, sviluppatasi nel corso degli anni, è stata solo in minima parte distribuita in Occidente. Le varie opere sono state presentate in diverse rassegne, che talvolta hanno dedicato apposite sezioni relative all’argomento: Sarajevo film festival, Pula film Festival, Belgrade film festival, Alpe Adria Cinema di Trieste, International Amsterdam Documentary Festival, Thessaloniki film festival. Le cinematografie nazionali dell’ex Jugoslavia che si sono espresse in modi e periodi diversi, verranno analizzate sia nella loro singolarità sia in un’ottica balcanica. Su tale e complessivo argomento il testo più esaustivo è Cinema of Flames10 di Dina Iordanova, storica del cinema, bulgara, a cui si aggiungono gli studi di Nevena Daković11. Importanti per la nostra ricerca sono poi i testi di Maria Todorova, Immaginando i Balcani (Argo, 2002) e Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario (Meltemi, 2004). In lingua italiana, al di là delle opere monografiche su Kusturica, la bibliografia sul cinema jugoslavo è ridotta, ricordiamo tra l’altro: La meticcia di fuoco. Oltre il continente balcani, a cura di Sergio Grmek Germani (Lindau, 2000), il volume collettivo Iugoslavia: il cinema dell’avanguardia (Marsilio, 1982) e il saggio di Paolo Vecchi Kusturica, Paskaljević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo12. 10 Dina Iordanova, Cinema of Flames: Balkan film, culture and the media, Bfi, London, 2001, p.141.Dina Iordanova, Cinema of flames. 11 N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, in “Nexus Project”, Sofia, 2003. 12 Il testo è pubblicato nel libro G.E. Bussi e Leech P., Schermi della dispersione, Lindau, Torino, 2003. 11 Nelle pellicole compare, sotteso, il rapporto tra l’Europa e i Balcani, in continuo riposizionamento dopo la fine della guerra fredda, in termini inclusivi ed esclusivi. I Balcani, non solo geograficamente e storicamente, sono parte dell’Europa ma sono stati concettualmente costruiti ed interpretati, soprattutto nel Novecento e nella sua ultima fase, come “Altro”, un luogo di violenza e confusione. Una percezione distorta e semplificata, che non risponde alla complessità del reale e che si riflette anche nei film. Sia in opere di film-maker occidentali (costruite spesso come un viaggio dall’Occidente ai Balcani), sia in alcune di registi jugoslavi, nei casi che Iordanova chiama di “self-exoticism”13. La filmografia generale che abbiamo stilato (fiction e documentari di registi balcanici e internazionali) si caratterizza per una qualità complessiva delle opere, caso non così frequente in altri casi di rappresentazione storica, per un approccio stilistico multiforme e per le complesse strutture narrative. Il racconto sulla guerra si è sviluppato in chiave metaforica, realistica, indiretta, surrealista, o allegorica, con un’introspezione maggiore, una ricerca metaforica più accentuata e magari un distacco fisico ma non mentale dal conflitto, sottolineati nell’auto-rappresentazione. Si sofferma su drammi individuali che si inseriscono in una più ampia storia collettiva. La rappresentazione del conflitto militare a volte risulta poco visibile, in altre violentemente realistica. Non deve essere ricondotta ad un unico modello, ma possono essere rintracciati tratti comuni nell’estesa filmografia. 13 Dina Iordanova, Cinema of flames, cit.p.61. 12 1.2 I FILM E LA GEOGRAFIA DEL CONFLITTO I territori dell’ex-Jugoslavia sono un’area non solo complessa dal punto di vista storico e culturale, ricco di contaminazioni, ma anche la loro “scoperta” geografica comporta alcune complicazioni per l’analisi dei testi filmici. Per comprendere gli eventi narrati nelle diverse opere è utile l’ausilio della cartina geografica. La grande produzione cinematografica, successiva o contemporanea al recente conflitto balcanico, si concentra, infatti, sui vari “teatri di guerra”, alcuni sconosciuti ad uno spettatore occidentale. Ciascun regista si è confrontato, in particolare, con uno di questi. Si passa dalla Slavonia, regione croata bagnata dalla Sava e dal Danubio, ai boschi, alle campagne e alle valli della BosniaErzegovina, il più tragico teatro di guerra del conflitto, delimitato, oltre che dal fiume Sava dalla Drina. Centro di interesse dell’immaginario cinematografico sono ovviamente le grandi città Sarajevo e Belgrado. E poi i territori “agli estremi” di Macedonia e Kosovo nel sud dell’ex-Jugoslavia. L’ambientazione geografica funge, in un certo senso, da “etnopaesaggio”, secondo la definizione di Antonhy Smith14, che costituisce lo sfondo di quei conflitti, non solo di guerra; i film contribuiscono alla creazione del mito della territorialità, che sta alla base della rappresentazione simbolica dell’identità nazionale. 14 L’etnopaesaggio è uno dei modi in cui la costruzione simbolica dell’identità nazionale è legata alla nozione di territorialità. L’etnopaesaggio è in primo luogo l’ambientazione geografica, come sfondo agli eventi storici determinanti per la crescita e la storia di una comunità. Smith sostiene che tale etnopaesaggio può inoltre svolgere una funzione “iconica”. Si crea così un legame tra gruppo e ambiente naturale, tra aspetti fisici del paesaggio e carattere degli eventi storici che vi accadono. In un terzo luogo questo legame può essere celebrato attraverso alcuni rituali (come quelli che riguardano la morte), giungendo così ad una “territorializzazione della memoria”. Antonhy Smith, Myths and Memories of the Nation, Oxford University Press, Oxford, 1999. 13 I primi film di fiction sono apparsi relativamente poco tempo dopo lo svolgersi dei fatti reali, contraddicendo la teoria che lo storico militare inglese John Keegan ha tratteggiato nel saggio Il volto della battaglia, ovvero che “tutte le guerre dei tempi moderni hanno provocato una risposta letteraria ma sempre a una certa distanza dalla fine delle ostilità”15. Quando ancora l’attualità era incandescente, ferita dalle bombe e dalle violenze, alcuni registi tentavano in modo quasi istantaneo di descrivere la distruzione della Jugoslavia, che li toccava in prima persona. Anche, se a voler esser precisi, la maggiore produzione cinematografica si è sviluppata dopo gli accordi di Dayton (1995). Ma tornando ai primi anni di guerra, gli incendi nella città croata di Vukovar non erano ancora del tutto spenti che questo centro barocco sul Danubio è divenuta il simbolo cinematografico di una distruzione senza fine16. Fu la prima città europea assediata, dopo la seconda guerra mondiale, e si trasformò in un tragico laboratorio del conflitto. Živojin Pavlović uno dei grandi maestri del cinema jugoslavo17, girò nel 1992 Il disertore ispirato alle vicende di Vukovar, un dramma intimista che racconta la storia di due ufficiali dell'esercito jugoslavo, un tempo innamorati della stessa donna e impegnati nella guerra serbo-croata da cui fuggono, ritrovandosi a Belgrado. Il primo è un disertore scappato da Vukovar, il secondo un giudice militare oramai umanamente incapace di condannare. Il film di Pavlović può essere considerato la prima opera che ha come oggetto il conflitto in corso. 15 John .Keegan, Il volto della battaglia, tr.it., Mondatori, Milano, 1978, pp.304-305. Cfr. Nevena Daković, La guerra sul grande schermo, cit. 17 Coscienza critica del cinema jugoslavo, Pavlović (1933-1998) fu uno uno degli animatori del “Novi film”, l’avanguardia cinematografica detta anche onda nera. 16 14 L’anno successivo uscì il Tempo d’amare (co-produzione italocroata) di Oja Kodar, ex-compagna di Orson Welles. Il racconto cinematografico si svolge durante il conflitto serbo-croato, in territori non lontani da Vukovar, ottenendo però un risultato meno riuscito e più retorico rispetto al film di Pavlović. Il disastro di Vukovar è ricreato, inoltre, in Harrison’s Flower di Elie Chouraqui, che fornisce la più articolata e realistica messa in scena dell’assedio e della presa violenta della città da parte delle milizie serbe, e in Vukovar: Poste Restante (1994) di Bora Drašković. La capitale della Bosnia-Erzegovina, Sarajevo, città cosmopolita e vivace, circondata dalle montagne, è stata al centro dell’attenzione dei media dell’informazione per quasi quattro lunghi anni d’assedio serbo-bosniaco, diventando il punto fondamentale delle immagini televisive del conflitto. E non poteva che essere così anche nella visione di molti autori cinematografici. Protagonista indiscussa del primo lungometraggio di Emir Kusturica, Ti ricordi di Dolly Bell?, sceneggiato dallo scrittore Abdulah Sidran, Sarajevo ritornò prepotentemente all’attenzione degli spettatori in un’atmosfera completamente diversa. Abbandonati i colori e la festosa confusione, attraverso la quale si muoveva il giovane Dino, Sarajevo, si ritrova in preda a cecchini sui tetti delle case, a bombardamenti massicci e alle rischiose corse per le strade dei suoi cittadini. Do you remember Sarajevo? è l’opera di tre giovani filmaker sarajevesi, i fratelli Kreselvijakovic e Nedim Alikadic, che instancabilmente durante raccolto l’assedio voci ed (1992-1995) immagini per hanno farne un documentario lungo poco meno di un'ora: un documento di memoria storica e d'amore, sulla vita e la morte in quegli anni. 15 Liberamente tratto dal libro Natasha’s Storvdel giornalista Michael Nicholson, Benvenuti a Sarajevo (1997), di Michael Winterbotton è stata la rappresentazione cinematografica più famosa dell’assedio a Sarajevo, vista attraverso gli occhi di un reporter inglese. In Lo sguardo di Ulisse di Théo Anghelopulos (1995), Sarajevo, dove il regista greco A. (interpretato da Harvey Keitel) giunge alla ricerca del primo film dei fratelli Maniakas, tenta di riprendere il corso della vita nelle improvvise nebbie, che ingannano il tempo dell’infinito assedio, in un’atmosfera quasi onirica. La lavorazione del film è avvenuta quando il conflitto era ancora in corso, la Sarajevo di Anghelopulos non è del tutto “reale”, ripresa un po’ a Mostar e un po’ a Vukovar e in parte ricostruita in studio. Anche Il cerchio perfetto di Ademir Kenović sceglie come location la Sarajevo accerchiata. Siamo a Napoli, nel 1994, nel film Teatro di Guerra di Mario Martone, ma l’idea di Sarajevo è continuamente richiamata alla mente, è il filo conduttore di tutto il film, la meta agognata. Una compagnia teatrale prova I Sette contro Tebe di Eschilo sperando di portare lo spettacolo a Sarajevo, sotto i bombardamenti, in segno di solidarietà, scontrandosi con l’indifferenza generale. La città sotto la morsa dei cecchini diventa il vero simbolo delle guerre jugoslave, influenzando concretamente l’immaginario cinematografico. Oltre ai film a soggetto, sono svariati i documentari sul dramma della città bosniaca, come i lavori del regista Giancarlo Bocchi o l’immenso materiale girato dai reporter della Bbc confluito in Yugoslavia: Death of a Nation (1995). A metà strada si colloca Notre musique (2004) di Jean Luc Godard, che già in Forever Mozart (1996) aveva affrontato il tema della guerra in Bosnia ed ha ambientato il secondo episodio 16 del nuovo film nel dopoguerra di Sarajevo e di Mostar, altra città storica della Bosnia-Erzegovina occidentale. Molti autori cinematografici hanno scelto la Bosnia come “teatro” dove si svolse il capitolo più tragico del conflitto. In quei villaggi e nelle campagne dimenticati dai media occidentali, una sorta di Jugoslavia in piccolo con la coabitazione di tre etnie (musulmani, serbi e croati), fu storicamente un confine virtuale tra Occidente e Oriente (il fiume Drina assunse spesso nel corso della storia il valore di “limes”). Pretty Village, Pretty Flame (Lepa sela, Lepo gore, 1996) di Srdjan Dragojević è forse uno dei film chiave per comprendere le guerre jugoslave: un’opera inquieta e complessa che va oltre le letture stereotipate del conflitto e non accetta compromessi di ogni sorta. Si muove nei territori della Bosnia nord-orientale, non lontano dal tunnel Bratsvo i Jedinstvo, la galleria che Tito fece scavare come simbolo della tanto predicata "unità e fratellanza”, dove durante la guerra un gruppo di combattenti serbo-bosniaci si rifugia per sfuggire ai musulmani. La valle della Drina e le montagne circostanti, ricche di paesaggi incantevoli, lungo il confine con la Serbia, vicino ai luoghi dove si registrarono i maggiori scontri armati tra serbi e musulmani di Bosnia, sono divenuti l’ambientazione dell’ultimo film di Kusturica, La vita è un miracolo (2004)18. Poco distante, proprio nella cittadina che patì la maggiore violenza della guerra Danis Tanović ha girato il suo episodio all’interno dell’opera collettiva 11 settembre, a Srebrenica, dove si verificò il noto massacro di migliaia di musulmani nel luglio del ’95 e, da quella data, il 18 L’ultimo film di Kusturica seppur ambientato nella finzione in Bosnia, tra i boschi, i monti e il fiume Drina che separano la Serbia dalla Bosnia, è stato girato principalmente in Serbia, poco al di là del confine e non molto distante dalla Drina. In La vita è un miracolo contro le previsioni del protagonista (che aveva costruito una sorta di “trenino della fratellanza”), scoppia la guerra fratricida che cambia radicalmente la vita da una parte e dall’altra della Drina, come accadde realmente dal 1992 in poi. 17 giorno undici di ogni mese le donne si ritrovano in piazza per commemorare la tragedia. Alcune decine di chilometri più a nord, ci troviamo nei pressi di Tuzla, nelle cui campagne due uomini Ciki e Nino, un bosniaco e un serbo, si ritrovano isolati dalle linee nemiche in una “terra di nessuno”, in No Man’s Land (2001). Il film che valse il premio Oscar a Tanovic è ambientato nel pieno della guerra in Bosnia, precisamente nel 1993. I toni tragicomici che lo caratterizzano sono anche un tratto distintivo di Benvenuto Mr.President (Gori Vatra, 2003), opera del regista bosniaco Pjer Valica. Beautiful People (1999) di Jasmin Dizdar rimbalza da Londra alla Bosnia, creando diversi punti di contatto tra i due luoghi, apparentemente così distanti, come nella grottesca vicenda di un hooligan ubriaco paracadutato per errore nel pieno dei combattimenti, che inconsapevolmente diventa quasi un eroe nazionale. L’italiano lungometraggio di Nema Giancarlo problema Bocchi si (2004) primo svolge, invece, completamente in Bosnia seguendo le vicende di due reporter di guerra. La città di Belgrado che venne toccata solo parzialmente dalle bombe è al centro dell’interesse di Goran Paskaljević in La polveriera. Il film racconta la realtà jugoslava, i suoi foschi scenari e la sua disperazione, meglio di qualsiasi resoconto di guerra, in una lunga notte “dove ogni individuo a Belgrado è una carica pronta a esplodere alla minima scintilla”19. Anche nella complessa metafora della storia jugoslava, che Kusturica ha creato con Underground, Belgrado occupa sicuramente un ruolo da protagonista. Il documentario Sedicipersone di Corrado Veneziano, attraverso interviste, notizie e immagini inedite, dà 19 P.Vecchi, Kusturica, Paskaljević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, in G.Elisa Bussi e Patrick Leech (a cura di), Schermi della dispersione, Lindau, Torino, 2003, p.316. 18 giusta memoria al bombardamento della Tv di Belgrado fornendo uno spazio virtuale alle “parole negate” di quel tragico fatto, spesso oscurato dai media occidentali. Il piccolo film, Ghetto di Mladen Maticević e Ivan Markon, produzione dei dissidenti di radio B9220, riflette criticamente sulla vita e sulla sorte di Belgrado durante la guerra. Una Serbia confusa e ferita, ma ancora piena di fervori, viene rappresentata nel lungometraggio di Gorčin Stojanović, Ubistvo s predumisljanjem/Premedidated murder (1995) mentre le sue contraddizioni tra arcaico e moderno prendono vita nel cortometraggio Moja domovina (1995) di Milos Radović, vincitore di diversi premi internazionali. Prima della pioggia (1994) di Milcho Manchewski, trittico a struttura circolare, porta invece l’attenzione su un territorio all’estremo sud-est dell’ex-Jugoslavia, la repubblica di Macedonia, anche qui l'odio ha contaminato i rapporti tra le due etnie (albanese a macedone) della popolazione. Un’altra regione geograficamente ai più sconosciuta è il Kosovo, incastonata tra Albania, Macedonia e Montenegro, arrivata ai vertici dell’attenzione mediatica per la guerra del 1999, in cui fu coinvolta anche l’Italia. Vento di Terra e Kukumi sono i film più significativi. Molti documentari si sono interessati al dramma dei profughi, al controverso intervento militare della Nato e al presente quanto mai instabile (Kosovo, nascita e morte di una nazione, 2000). 20 Cfr. Dina Iordanova, Cinema of flames, Bfi, London, 2001, p.13. 19 PARTE PRIMA RAPPRESENTAZIONE E VISIONE: I TEATRI DI GUERRA Una produzione cinematografica e audiovisiva vasta e composita, che proponiamo di analizzare suddividendo la filmografia sulle guerre jugoslave in cinque “teatri di guerra”: Vukovar e la Croazia; Sarajevo; la Bosnia; Belgrado e la Serbia; la Macedonia e il Kosovo. Attraverso un percorso che collega indissolubilmente il contesto storico, culturale e politico ai testi filmici, si esamina la rappresentazione del conflitto nei Balcani. Ogni autore, che si è confrontato con la materia, ha scelto principalmente e significativamente un “teatro”, ma sono possibili rimandi ad altri o la compresenza parziale, soprattutto quando le aree, non solo da un punto di vista geografico ma anche storico-politico, sono contingenti: vedi Vukovar e Belgrado (distano alcune centinaia di chilometri ma sono profondamente legate nella seconda metà del 1991) o Sarajevo e il resto della Bosnia. Detto questo, è rintracciabile una caratteristica comune nei film, ovvero l’attenzione per un particolare teatro di guerra, sia perché sono riferibili in buona parte a periodi e fasi diverse delle guerre, sia perché riflettono alcune tipicità proprie di ogni territorio e momento storico. Potrebbe balzare agli occhi l’assenza della Slovenia, il motivo principale è perché è stata la prima Repubblica ad essersi staccata dalla Federazione jugoslava; protagonista di una breve guerra nell’estate del 1991 è riuscita a contenere relativamente i danni. E’ necessario comunque ricordare il periodo vivace che sta vivendo la sua piccola ma non minore cinematografia, in grado di 20 confrontarsi in chiave originale con le problematiche del presente. Tra gli autori, spiccano due registi della nuova generazione di cineasti: Jan Cvitković e Damjan Kozole. Il primo è recente vincitore del “Torino film festival” del 2005 con Odgrobadogroba (Di tomba in tomba/Gravehopping). Il film a suo modo grottesco ma non assimilabile alla corrente kusturiciana, contraddistinto da uno stile sobrio e distaccato, mette in scena la storia di Pero, un trentenne, residente in un piccolo villaggio, che si guadagna da vivere scrivendo discorsi funebri nei quali sfoga le velleità letterarie ed esprime le sue idee sul mondo. Cvitković si era fatto notare, quattro anni prima, con Kruh in Meklo (Pane e latte, 2001): un ritratto di famiglia volto a descrivere il disagio sociale e politico del suo paese. Kozole in Rezervni deli (Pezzi di ricambio, 2003) affronta, invece, il dramma dei rifugiati in Slovenia, terra di passaggio per migliaia di immigrati clandestini che, condotti da “mercanti di uomini”, cercano di raggiungere l'Italia; Delo osvobaja (Il lavoro rende liberi, 2005) è l’ultimo e sesto lungometraggio del prolifico autore, che con un taglio prettamente tragicomico segue le avventure di Peter, un operaio specializzato che con l’entrata della Slovenia nell’Unione Europea perde il proprio posto di lavoro e da quel momento viene subissato da ulteriori problemi. La Slovenia è anche la location di Les 20 heures dans les camps (1993), opera dell’affermato documentarista francese Chris Marker. Il regista si sofferma su un gruppo di giovani rifugiati bosniaci, accampati tra le rovine di una caserma diroccata, a pochi chilometri da Lubiana. Hanno organizzato un laboratorio video, piratando il segnale dei network internazionali da dove riprendono le news e hanno messo in piedi un telegiornale, povero ma creativo, che ogni sera racconta le notizie del mondo 21 e del “campo”, smontando la manipolazione mediatica delle varie fazioni in guerra. E’ utile, in determinati passaggi, una lettura parallela all’analisi dei film, dei capitoli storici che costituiscono un corpus fondamentale di questa ricerca. 1 V UKOVAR E LA C ROAZIA Vukovar è immersa nella fertile pianura della Slavonia orientale, sulla riva destra del Danubio, là dove il grande fiume, al confine tra Vojvodina e Slavonia, abbandona la direzione ungherese “nord-sud” e piega a est verso Novi Sad. Arrivando da direzioni diverse, da Zagabria, Belgrado o dall’estero, la sua visione può essere contrastante, così la sua rappresentazione cinematografica. Le varie provenienze possono diventare “sguardi” diversi. Ma facciamo un passo indietro per comprenderne la sua storia recente. Nel 1991, Vukovar, importante porto fluviale e industriale, era una città dalle forti caratteristiche mitteleuropee e dalla consolidata convivenza interetnica: il 43,9 per cento degli abitanti era di origini croate, il 37,2 serbe, il restante 18,9 di varie nazionalità, tra cui molti ungheresi e cechi. Tra le vie del centro barocco e nei caffè della borghesia “cosmopolita”, nei primi di agosto, la guerra sembrava distante. Non sapeva che tra pochi giorni la città sarebbe stata assediata dalle milizie serbe, venute per lo più dall’esterno, e dalle truppe dell’Armata popolare, per tre lunghi mesi con drammatiche sofferenze, che 22 avrebbero registrato un’escalation di violenza finale e migliaia di morti. Vukovar, la prima città rasa al suolo dopo la seconda guerra mondiale, assurse presto a simbolo della distruzione della Jugoslavia e venne considerata la Stalingrado sul Danubio. “Capire Vukovar – ha scritto Paolo Rumiz - significa capire il nucleo degli eventi”21. I tragici fatti di Vukovar causarono un forte shock emotivo nell’opinione pubblica jugoslava, soprattutto tra intellettuali e artisti. Si verificò un’istantanea reazione espressiva, che si riflettè in diverse opere cinematografiche. In questo capitolo analizzeremo come l’immaginario cinematografico abbia raccontato la distruzione di Vukovar e la guerra tra croati e serbi, in territorio croato. Principalmente prenderemo in esame le seguenti opere: Il disertore (The Deserter/Dezerter) di Živjon Pavlović (1992), Harrison’s Flowers (2000) di Elie Chouraqui, Tempo d’amare (Vrijeme za...) di Oja Kodar (1994) e Vukovar poste restante (Vukovar – jedna prića) di Bora Drašković (1994). Terremo inoltre in considerazione il film Vukovar is coming home (Vukovar se vraca kuci a.k.a. Vukovar - The way home) di Branko Schmidt (1994) e l’importante documentario Yugoslavia: Death of a Nation (1995) di Angus McQueen and Paul Mitchell, una coproduzione americana, inglese e francese22; nonché i film di Vinko Bresan, tra cui I testimoni/Svjedoci (2003). 21 P.Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma, 2000, p.87. Rumiz definisce inoltre Vukovar città laboratorio delle guerre jugoslave. Vukovar è stata colpita in quanto città cosmopolita per mettere in scena l’impossibilità di una convivenza che invece era consolidata. 22 Il documentario è stato trasmetto la prima volta in Italia all’interno della trasmissione curata dal giornalista Andrea Purgatori, che porta il titolo dello stesso documentario: Yugoslavia morte di una nazione, andata in onda nell’aprile del 1999. 23 Sono quasi tutte opere di autori slavi, alcuni serbi altri croati, tranne quella di Elie Chouraqui, regista francese, a cui si aggiungono alcuni film stranieri che citerò nel testo. Vukovar è il centro dell’immaginario della prima parte di guerra, ma sono frequenti i riferimenti nei film presi in esame alle altre zone del conflitto, tra i croati e i serbi, affiancati dall’Armata popolare jugoslava, che proprio in questa fase si connotò sempre più in chiave serba. Scontro che raggiunse il livello più alto proprio negli ultimi mesi del 1991. Si tratta di territori molto diversi l’uno dall’altro dal punto di vista storico, geografico ed etnico che vanno dalle ricche pianure del nord-est della Slavonia occidentale e orientale (la zona di Vukovar), al territorio carsico della Krajna, a quello mediterraneo della Dalamazia e di Dubrovnik. 1.1 Il disertore Probabilmente il primo film sulla guerra dei Balcani, fu girato quando non erano ancora state del tutto spente le fiamme a Vukovar. Le riprese si svolsero in parte nella città barocca in riva al Danubio e in parte a Belgrado. Živjon Pavlović, regista serbojugoslavo, è considerato uno dei maestri del cinema jugoslavo, animatore dell’onda nera (secondo l’etichetta negativa affibiatale dal potere titino, poi orgogliosamente rivendicata dai suoi autori) insieme a Dušan Makavejev, l’avanguardia degli anni sessanta che rivitalizzò la cinematografia jugoslava contrapponendosi alla retorica ufficiale dei film patriottici e resistenziali, attraverso una visione radicalmente innovativa, critica e personale, della realtà e della società contemporanea, che mise a nudo le incoerenze del sistema jugoslavo, con un sguardo a tratti anarcoide, pungente e acuto. Pavlović, tra l’altro romanziere molto prolifico, 24 è scomparso all’età di 65 anni, durante la lavorazione del suo ultimo film Država mrtvih (1998)23. Il film (1991), tratto dal romanzo L’eterno marito di Fëdor Dostoevskij, non rinnega la classica ispirazione dostoevskiana che pervade la filmografia del regista belgradese, basti ricordare il suo primo lungometraggio Il nemico (Neprijatelj, 1965) tratto da Il sosia dello stesso autore russo. Al centro de Il disertore, si colloca la storia di due ufficiali dell'esercito jugoslavo, amici dai tempi dell’Accademia militare, trascorsi a Vukovar nei primi anni ottanta, e innamorati della stessa donna. Si incontrano nove anni dopo (1991), a Belgrado; ambedue in fuga dal fronte, per motivi diversi. Per uno è un allontanamento dalla guerra “legittimo” per l’altro no, Pavle Trusic è infatti un disertore scappato da Vukovar (“A Vukovar – dice – mi hanno distrutto tutto, casa e caserma”), mentre Aleksa Velijacuc è un giudice militare ormai umanamente incapace a condannare. La donna, Nadezda, di cui erano ambedue innamorati, è morta l’anno prima: Pavle era il marito, mentre Aleksa ne fu l’amante ai tempi dell’Accademia e padre inconsapevole della figlia dell’amico, Lila. Segreto di cui il capitano Trusic sembra sempre più al corrente. “La paura di morire al fronte li attanaglia entrambi, ed allora si aggrappano a quel poco che hanno per sentirsi vivi: l’amore e l’amicizia. Il dramma scoppia quando il disertore decide di 23 Cfr. Sergio Grmek Germani (a cura di). La meticcia di fuoco. Oltre il continente Balcani, Lindau, Torino, 2000, p.218. A proposito di Država mrtvih (Lo Stato dei morti) ,il vero eroe del film è la famiglia multinazionale di un ex ufficiale dell’esercito yugoslavo: il padre è sloveno, la madre macedone, il genero di Sarajevo, la ragazza del figlio è croata. Finiscono a Belgrado, in un campo comune, e vengono messi a confronto con la povertà, i suicidi, la criminalità, nella sventura generale di un paese e di un’epoca. 25 tornare a combattere. Non per la Serbia, né per l’onore di militare, ma solo per rabbia”24. I tormentati rapporti umani di Pavle, a cui si aggiunge la precoce morte di Lila (ammalatasi durante la sua permanenza in una residenza per figli di rifugiati), hanno provocato un forte risentimento, che troverà sfogo in guerra, causando morte e distruzione. Il film si struttura su un continuo parallelo tra Vukovar, dove infuria la guerra serbo-croata, e Belgrado, dove, se non per l’aumento di mezzi militari e dei soldati per le strade, il conflitto parrebbe più lontano. Ma anche a Belgrado la guerra combattuta arriva, attraverso la televisione e i telegiornali marcatamente propagandistici. L’utilizzo di immagini documentarie e televisive all’interno del montaggio filmico è una costante della cinematografia jugoslava sull’ultima guerra, che ha sviluppato un’interessante commistione di formati diversi e spesso superato i confini labili tra le categorie di realtà e finzione. Inizia e si chiude a Vukovar, a distanza di quasi dieci anni. L’incipit è un flashback: siamo nel 1982, un uomo in divisa militare e una donna, che si scoprirà la sua amante, si rincorrono in un bosco. Un semplice stacco di montaggio ci catapulta nel 1991: è guerra aperta. Un’ampia sequenza ricrea l’assedio della città (durato dal 18 agosto al 17 novembre del 1991), attraverso poche ma complesse inquadrature, che ritraggono i soldati dell’Armata popolare in combattimento, e termina con una panoramica che ci porta da un ambiente esterno all’interno di una caserma, dove Aleksa processa un militare, senza troppa convinzione. Le ultimi immagini sono, invece, un lungo camera24 E’ uno stralcio di una più ampia riflessione di Maurizio Bekar , scritta nel febbraio del 1994, che prende spunto dalla visione di due film: Tempo d’amare e Il disertore. Il nazionalismo è la percezione distorta, è stato pubblicato l’11 marzo 1994 nell’inserto culturale “7 Val” del bisettimanale “Primorske Novice” di Capodistria-Nova Gorica (Slovenia). 26 car “documentaristico” su una città completamente distrutta, dopo gli intensi bombardamenti serbi. Il disertore è pervaso da un costante senso tragico che le scelte di messa in scena contribuiscono a creare. Ne scandiscono il ritmo lunghe inquadrature, articolati movimenti di macchina, l’utilizzo del piano-sequenza (come nella scena della sepoltura di Lila) e una fotografia dai colori mai saturi, che insieme creano un’atmosfera cupa, dai toni amari. Sono i tratti stilistici di un dramma intimista attraversato dalla violenta disgregazione della Jugoslavia. Durante il Festival “Alpe Adria Cinema” del ’94, Pavlović, ospite della rassegna, rivelò al critico Sergio Grmek Germani, che, prima che scoppiasse la guerra, pensava di farne un film da camera, da girare in Russia. Per il regista, era infatti, un progetto in cantiere da diversi anni, prima della lavorazione: un altro capitolo della sua ossessione dostoevskiana. I collegamenti con le recenti vicende jugoslave, oltre a cambiare radicalmente l’ambientazione del film, “hanno accentuato – spiegò Pavlović – il carattere di dramma intimo”25. Il disertore, secondo la storica del cinema Nevena Daković, stabilisce già un modello di trasposizione retrospettiva della storia e dei transfert emotivi, che caratterizzerà molte pellicole successive. “Utilizzando la cronologia delle stragi reali, i nuovi film di guerra trattano i temi universali dell’amore, dell’odio, del tradimento, dell’onore, che si manifestano tra i personaggi rappresentativi dal punto di vista nazionale e sociale, con i quali il pubblico s’identifica”26. 25 La testimonianza è stata raccolta da Germani in un documento filmato andato in onda nel 1995 all’interno di una puntata di Fuori Orario (Raitre) dedicata alla tragedia jugoslava e al cinema dei Balcani. 26 Nevena Daković, La guerra sul grande schermo, cit. 27 1.2 Tempo d’amare Al festival “Alpe Adria” proprio lo stesso anno in cui fu proiettato Il disertore, era presente un altro film sulla guerra jugoslava: Tempo d’amare di Oja Kodar, fresco di lavorazione (1994). Ci furono polemiche per la concomitanza dei due film, mosse in particolare dai croati, stessa nazionalità della regista, che è stata l’ultima compagna di Orson Welles. Protestarono sia Zagabria, sia gli autori croati presenti al festival: non volevano sentir parlare di opere serbe. Troppo recente e ancora caldo il ricordo dello scontro fratricida tra serbi e croati e, tra l’altro, la guerra infiammava ancora nell’ex-Jugoslavia. Dopo giorni di mediazione gli organizzatori, che non volevano far altro che “stimolare una riflessione sulla guerra, tramite due opere di grande interesse”27 decisero di proiettarli in serate diverse. La vicenda narrata nel film della Kodar, coproduzione italocroata, è inserita nel contesto della guerra in Croazia nel 1991, di cui Vukovar resta il simbolo. Marija fugge dal villaggio attaccato dai cetnici insieme al figlio Darko da poco maggiorenne. Lei troverà lavoro nell'ospedale in una città vicina e Darko, all’insaputa della madre, si unirà ai “resistenti” della forze militari croate. Dopo una battaglia viene riconsegnato a Marija un corpo martoriato, le dicono che è quello di suo figlio. Disperata ma tenace, pretende di seppellirlo nel suo villaggio, distrutto dai serbi. Inizierà così un viaggio, per lo più a piedi verso il suo paese, Vidovo. Ma non è il corpo di Darko quello nella bara; lo rincontrerà solo alla fine in un paesaggio cupo e completamente distrutto. Sono due le versioni del film, quella integrale croata e quella italiana, molto tagliata. Prendiamo come riferimento, in questa analisi, la versione critica che confronta le due, andata in onda 27 M.Bekar, op.cit. 28 nel 1995 in una puntata di “Fuori orario”, su Raitre (rete televisiva che tra l’altro è uno dei partner della produzione). Nel film, la guerra in Croazia è appena scoppiata e le tensioni tra le due comunità etniche si sono fortemente radicalizzate, gli appellativi “cetnico” e “ustascia” vengono utilizzati da ambedue per indicare l’altro, seppur in realtà non siano rappresentativi di tutta la popolazione dei due gruppi. Si delinea presto una visione manichea del confitto da parte dell’autrice. I serbi sono considerati negativamente: violenti ed accecati dall’odio etnico hanno il sostegno dell’Armata Jugoslava che li aiuta fornendo le armi, sotto la benedicente approvazione del pope del villaggio. I croati sono considerati come carne da macello, le terre come proprietà da espropriare, le donne come oggetto di stupro. L’unico personaggio positivo serbo è un poeta alcolizzato che vive in una tomba, in un villaggio colpito della pulizia etnica, e uccide a mitragliate una banda di cetnici serbi. Si attua così quel meccanismo che porta ad identificare un popolo con i criminali; una schematizzazione che è ricorsa spesso, in altri casi, nel corso della Storia. Tempo d’amare è un film che certo non lascia indifferente, un’opera che denuncia le reali violenze subite dalla popolazione civile croata (dalla pulizia etnica serba), ma evita uno sguardo critico e sceglie la scorciatoia del nazionalismo. Emergono elementi di propaganda nella strategia comunicativa del lungometraggio. Caratterizzato da un approccio melodrammatico al tema e da alcune scelte “televisive” di regia, Tempo d’amare non si dimostra quello che invece risulta essere Il disertore, che come descrive Maurizio Bekar, “non è un film ‘serbo’ ma un’opera di segno universale, che cerca di mostrare le radici 29 della violenza”28. Rimane comunque intatto nel film della Kodar un grido di sofferenza, che condanna l’indifferenza degli occidentali nei confronti della tragedia jugoslava: “L’Europa ci ha dimenticati” sostiene un personaggio. 1.3 Harrison’s Flowers Se le due pellicole appena prese in esame sono casi di “autorappresentazione”, Harrison’s Flowers (2000) è invece l’opera di un regista francese, Elie Chouraqui. E’ l’unico film su Vukovar che abbia ricevuto un’adeguata distribuzione in Europa e in America, fornendo la più articolata rappresentazione cinematografica dell’assedio della città e della presa finale da parte dei serbi. Si sviluppa, soprattutto nella seconda parte, come un viaggio in mezzo a quel conflitto che gli occidentali faticavano ad interpretare, in cui viene affrontato un rapporto nodale per lo studio delle “nuove guerre”, quello tra media e guerra, sul quale ci soffermeremo maggiormente in un prossimo capitolo. Introduce il film una didascalia che riporta il numero dei giornalisti morti durante le guerre jugoslave dal 1991 al 1995: sono 48 tra giornalisti, fotografi e reporter televisivi. Un alto tributo in un conflitto che per la maggior parte ci è stato raccontato per immagini. Harrison Lloyd, fotografo e premio Pulitzer nel 1989, viene inviato dal “Newsweek” in Jugoslavia nell’autunno del 1991 perché porti a termine un reportage su quella che gli americani pensavano erroneamente fosse solo una piccola guerra. Il caporedattore del giornale le descrisse infatti all’inizio come “schermaglie etniche” e la Cnn ancora non ne parlava. La situazione reale è invece ben più grave e presto dovranno arrendersi all’evidenza delle stragi e della “pulizia etnica”. Per 28 Ibidem 30 Harrison dovrebbe essere la sua ultima “missione”, vuole smettere, rientrare in famiglia e dedicarsi ai suoi fiori. Di lui si perdono presto le tracce: prima viene dichiarato disperso, poi morto sotto un bombardamento. La moglie Sarah (Andie MacDowell) però non crede alla sua morte e prende il primo aereo per la Jugoslavia per cercarlo. Arriverà fino a Vukovar insieme ad altri reporter. La guerra piomba nella redazione del “Newsweek”, solo qualche mese dopo lo scoppio reale del conflitto (21 giugno ’91), con le prime fotografie di massacri e violenze spedite da Harrison, partito per i Balcani nel mese di ottobre. Il rullino di Llyod, come consuetudine, arreca con sé un bigliettino, questa volta con una scritta spiazzante: “They’re all insane”. Arriva poco prima delle immagini della Cnn e incomincia a confutare i luoghi comuni sulla supposta “guerricciola”. Entriamo prepotentemente nella guerra con l’arrivo di Sarah in Jugoslavia, ai primi di novembre, intenzionata a ritrovare il marito che lei non crede morto. Il ritmo del film accelera improvvisamente, superato l’incidere lento della prima parte, i tempi morti scemano e la tensione sale con l’avvicinamento a Vukovar. L’impatto di Sarah con la guerra è subito violento: la sua macchina, affittata a Graz, viene assalita dal fuoco dei blindati, la donna subisce un tentativo di stupro e lo studente croato a cui aveva dato un passaggio viene ucciso a sangue freddo. Recuperata da alcuni reporter tra cui ritroverà Kyle (Adrien Brody), il fotografo “idealista” che alla serata dei premi “Pulitzer” litigò col marito. Insieme a lui e al suo collega, Stevenson, si mettono in viaggio da Osijek verso Vukovar. Harrison’s Flowers prende la forma di un road-movie, quello dei reporter all’interno delle linee nemiche. Inizia per loro un percorso, per gironi, verso 31 il profondo inferno. Massacri, stupri, bombardamenti di giorno e notte, posti di blocco con soldati isterici che siano serbi o croati, fosse comuni, cecchini “cetnici” sempre pronti a sparare, fiumi di profughi che vagano per le strade, villaggi incendiati dai serbi, violenze contro i civili, donne e bambini: uno scenario da “guerra vera” in tutta la sua crudeltà. Spesso l’occhio dei fotografi si intreccia a quello della macchina da presa: gli scatti prendono movimento o, viceversa, la narrazione viene immortalata in un’immagine. Prima di arrivare a Vukovar incontrano Yeager, premio Pulitzer dell’anno, come gli altri, newyorkese e amico di Harrison. Cerca di dissuaderli dal proseguire per Vukovar, la città – dice – dove “nessuno entra e nessuno esce”, ma decide di seguirli. L’assedio serbo alla città si fa sempre più stretto. Riescono fortunosamente a superare, mimetizzatisi tra le sterpaglie, la guardia indomita dei cecchini. Percorrono un tratto dell’autostrada che collega Belgrado a Zagabria, interrotta ormai da metà agosto dopo gli incessanti bombardamenti dell’Armata popolare. Entrano a Vukovar: la cinepresa li segue o li precede di poco, si muove ad ampio raggio unendo piani ravvicinati a campi lunghi su una città rasa al suolo. Dopo le prime due inquadrature sull’arrivo nel centro della città, un travelling allarga il campo e ci svela il teatro di guerra che investe Vukovar, in mano alle bande paramilitari del temibile comandante Arkan. Tra le macerie e le fiamme, cadaveri penzolanti e corpi inermi distesi per terra, per le strade viene messa in pratica dalle milizie serbe una terribile pulizia etnica. I civili vengono cacciati dalle loro case, torturati e giustiziati per strada. La voce-over di Yeager, in una delle interviste “a posteriori” che raccontano a tratti la storia, descrive la scena. Elie Chouraqui decide di “scagliare” la cruda violenza della guerra dei Balcani contro lo spettatore, una scelta che lo 32 distingue dalla maggior parte dei registi jugoslavi che seppur utilizzino la guerra come fattore narrativo dominante, l’hanno spesso raccontata in via indiretta o metaforica. I tre reporter insieme a Sarah percorrono le strade di Vukovar: un tragitto in cui l’oggettività del documentario si unisce al pathos della finzione. Mentre si dirigono verso l’ospedale nella speranza di trovare Harrison, Kyle viene ucciso da un proiettile. Arrivano all’ospedale, che storicamente segna uno degli apici della violenza a Vukovar (seppur non se ne faccia esplicito accenno nel film): è, infatti, uno dei crimini di guerra per il quale diversi militari serbi sono accusati dal Tribunale Internazionale dell’Aja; si parla di 261 persone ricoverate, scomparse. Tra le fiamme che avvolgono l’edificio, Sarah riesce a ritrovare Harrison, immobile e senza parole seduto su un letto, fortemente traumatizzato da ciò che si chiama in gergo “shock da esplosione”. E’ il giorno prima della fine dell’assedio e della presa finale della città di Vukovar da parte dei serbi, che avvenne il 18 novembre del 1991. Terminò un assedio durato 87 giorni e costato 15 mila morti. Harrison’s Flowers è un film dalle molte anime. Si sviluppa in parte su una struttura classica da film di guerra: un prologo soft, una storia d’amore travolta dagli eventi (quella di Harrison e Sarah), nemici agguerriti e un finale relativamente lieto con il salvataggio della persona amata. A questa struttura si innesta, inoltre, un interessante “road-movie” dei reporter all’interno del conflitto. Il racconto filmico è inserito in una cornice costruita dalle interviste a Yeager Pollack e Marc Stevenson e ad altri colleghi, che raccontano la storia di Harrison. Nel film, sostenuto da un ottimo cast di attori tra cui spicca l’intensa interpretazione di Andie Macdowell, convivono alcuni elementi cari al cinema americano e altri al cinema europeo: da una parte, la tradizione 33 del road-movie, gli echi coppoliani di Apocalypse Now, la messa in scena spettacolare delle sequenze di guerra; dall’altra, i tempi più lenti della prima parte, i discorsi interrotti, l’attenzione per i contenuti “politici” e le immagini apparentemente precarie. 1.4 Vukovar: Poste Restante Sei anni prima del film di Chouraqui, Bora Drašković, regista serbo-bosniaco nato nella cosmopolita Sarajevo, girò Vukovar: Poste Restante (1994), una coproduzione con partecipazione jugoslava. La pellicola si ispira alla vicenda di Romeo e Giulietta. Nei mesi della guerra serbo-croata Ana e Toma si sposano proprie nelle ore in cui scoppiano i primi focolai tra le due principali etnie. Lei è croata, lui serbo, ma quasi non ci penserebbero se non fossero gli altri – gli amici, i vicini, e i fanatici nazionalisti – a ricordarglielo. Dopo tutto loro arrivano da Vukovar, che nel corso dei secoli ha fatto della convivenza tra culture diverse un tratto distintivo. La guerra interrompe la loro luna di miele. Toma viene reclutato nell’esercito e Anna, incinta, rimane sola a casa, cade in depressione e subisce la violenza sessuale di un balordo. Nasce loro figlio, ma la guerra e le due forze antagoniste che si fronteggiano sono riusciti irrimediabilmente a dividerli. In un finale apertamente simbolico li vediamo salire su due autobus del tutto simili che imboccano strade diverse: uno è diretto a Zagabria, l’altro a Belgrado. Sullo sfondo del film c’è una città distrutta senza pietà, dove la violenza dei gruppi nazionali è superata dai “dogs of war”29, milizie paramilitari sia serbe sia croate che violentano e uccidono senza ritegno. Una lunga e cruda sequenza ripresa dall’alto 29 N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, in “Nexus Project”, Sofia, 2002/2003, p.21 34 testimonia, inoltre, come non sia rimasto intatto un solo edificio di Vukovar. Il film che offre una riflessione critica sulla guerra jugoslava, dividendo le responsabilità del conflitto tra le varie parti in causa, suscitò polemiche soprattutto in Croazia, mentre fu ben accolto all’estero. Dina Iordanova, docente di cinema e media all’università di Leicester, prova a sintetizzare i motivi della diatriba, collegando il film di Drašković all’opera di Srdjan Dragojević, Pretty Village, Pretty Flame (1996), che approfondiremo in un prossimo capitolo. Entrambe presentano un approccio non nazionalistico alla recente storia dell’exJugoslavia, uno focalizzandosi sulla distruzione di Vukovar, l’altro su quella della Bosnia. “While Dragojević and Drašković’s films were acclaimed abroad for trying to offer a balanced view of the conflict, critics in Yugoslavia did not accept the angle that the directors were proposing – it was not about guilt in principle, but about quantifying and measuring concrete crimes. The attempt to rise above the damaging side-taking by showing the madness of all sides, a proposition which looked promising form outside, was not really viable in the divided public space of former Yugoslavia. People there were not ready for an easy reconciliation”30. Rispetto al film di Dragojević, Vukovar: Poste Restante presenta sicuramente una struttura più semplice, tuttavia la regia di Drašković mette in circolo la sincerità del dolore. La pellicola presenta, infatti, alcuni riferimenti autobiografici; Bora Drašković è nato a Sarajevo ed è un serbo di Bosnia, ma i suoi genitori come i protagonisti del film provenivano da etnie diverse. E’ un testo, quindi, che - come nota il critico Umberto Rossi – “nasce 30 Dina Iordanova, Cinema of Flames: Balkan film, culture and the media, cit., p.141. 35 da un’esperienza quasi autobiografica da cui distilla una sofferenza autentica”31. 1.5 Gli altri film Anche l’esordiente Oleg Novković, regista serbo, raccontò la tragedia di Vukovar in Why did you leave me? (1993), rivolgendo l’attenzione alle conseguenze psicologiche sulle vittime del conflitto. Nel racconto filmico due storie parallele si incontrano. Da una parte un giovane che ha prestato servizio di leva nell’Armata popolare e torna da Vukovar profondamente traumatizzato, simbolo di una delle reali vittime della cosiddetta “sindrome di Vukovar” che causò diverse defezioni nell’esercito, soprattutto da parte di giovani sconvolti dalle efferate e disumane violenze commesse dai gruppi paramilitari. Dall’altra parte, una ragazza serba stuprata dalle truppe croate, intravista al tempo dal giovane militare e ritrovata casualmente. I due personaggi intrecciano una storia sentimentale dalla tragica fine. In risposta alle pellicole serbe, il regista croato Branko Schmidt girò Vukovar is coming home (1994), il dramma di un combattente che ritorna nella sua città; qui si confrontano il passato e il presente della città, il suo “memento”, pieno di odio e amarezza verso i soli colpevoli della distruzione. Il panorama cinematografico croato è sicuramente meno vivace di quello serbo. Un autore interessante è Vinko Brešan, regista di How the war started on my Little Island (1996) e Marshal Tito (1999), una commedia (genere poco frequentato in Croazia) contraddistinta da una marcata satira sociale, dove il fantasma di Tito prende vita, diventando ben altro rispetto all’abusata formula, cui riferirsi in ragione del declino jugoslavo. Nel 2004 31 Umberto Rossi, Serbia: schermi di guerra senza tentazioni “eroiche”, in “Cineforum”, n.343, aprile 1995. 36 con I testimoni (Svjedoci, 2003) vince il “Premio per la Pace” al Festival di Berlino. Un film coraggioso nel riconoscere le colpe croate nel conflitto, caso non troppo frequente finora nel paese che fu di Tudjman. A passare sotto la lente d’ingrandimento è una rappresaglia che un gruppo di soldati croati compie nella città portuale di Split alla casa abbandonata di un negoziante serbo. A dispetto delle apparenze, però, lui si trova in casa e viene ucciso. Non contenti, gli attentatori rapiscono la figlia di undici anni, tenendola in ostaggio in un garage. Questo, l’evento cardine dell’inizio che viene rivisitato ciclicamente, riproponendo ogni volta i punti di vista di tutti i personaggi coinvolti. Una scomposizione di piani temporali che raggiunge uno sguardo ad affresco e perviene ad un respiro corale. Uno dei più importanti registi croati, Lordan Zafranović nei primi anni Novanta, in forte disaccordo con il delirio nazionalista, si allontanò dal suo paese, in esilio a Praga, non perdendo l’attenzione-ossessione costante per la storia e le vicende della Jugoslavia. Nel 1994 esce Il tramonto del secolo/Testamento, documentario che può essere considerato la sintesi della sua opera nell’ambito del filone storico-politico dedicato alla seconda guerra mondiale. Due film italiani si sono interessati al conflitto serbo-croato. Il Carniere (1997) di Maurizio Zaccaro è tratto da un fatto di cronaca ed ispirato al diario di guerra del giornalista dell’“Espresso” Gigi Riva, che firma anche la sceneggiatura; un gruppo di italiani nell’autunno del 1991 raggiungono come d’abitudine una riserva di caccia tra la Croazia e la Bosnia, e si ritrovano a loro insaputa in mezzo ai primi e già cruenti focolai di guerra; feritosi uno dei tre, si rifugiano in un hotel (in una città che può ricordare Sarajevo) dove incontrano un giornalista che raccoglierà la loro testimonianza sui fatti accaduti. Ricco di spunti 37 interessanti e strutturato come un western mitteleuropeo è Il Toro di Carlo Mazzacurati (1994) che racconta la storia di due italiani che varcano la frontiera per poter vendere un toro rubato (il riproduttore numero cinque del mondo) in Ungheria. Attraversano la Croazia imbattendosi nei profughi della guerra, parcheggiati da mesi su dei binari, per cui il toro “Corinto” potrebbe diventare una preda e significare migliaia di bistecche; vengono poi ospitati in una casa colonica da un vecchio contadino e da una giovane nuora prima di riprendere il viaggio verso la pianura magiara. Infine, tra i documentari Yugoslavia: Death of a Nation (1995), coproduzione inglese, francese e americana, guidata dalla Bbc, affronta, nella complessiva ricostruzione delle guerre jugoslave, il caso di Vukovar. Mostra come la città, centro cosmopolita della Slavonia, sia stata abbandonata al proprio destino sia per accelerare il riconoscimento internazionale della Croazia e sia in conseguenza agli accordi sottobanco tra i governi serbo e croato per la futura spartizione della Bosnia. 38 2 S ARAJEVO «A Sarajevo, chi soffra d'insonnia può sentire strani suoni nella notte cittadina. Pesantemente e con sicurezza batte l'ora della cattedrale cattolica: le due dopo mezzanotte. Passa più di un minuto (esattamente settantacinque secondi, li ho contati) ed ecco che si fa vivo, con suono più flebile, ma più penetrante, l'orologio della Chiesa ortodossa, e anch'esso batte le due. Poco dopo, con voce sorda, lontana, il minareto della moschea imperiale batte le undici: ore arcane, alla turca, secondo strani calcoli di terre lontane, di parti straniere del mondo. Gli ebrei non hanno un orologio proprio che batta le ore, e solo Dio sa qual è in questo momento la loro ora, secondo calcoli sefarditi o ashkenaziti. Così, anche di notte, mentre tutto dorme, nella conta di ore deserte d'un tempo silenzioso, è vigile la diversità di questa gente addormentata, che da sveglia gioisce e patisce, banchetta e digiuna secondo quattro calendari diversi, tra loro contrastanti, e invia al cielo desideri e preghiere in quattro lingue liturgiche diverse. E questa differenza, ora evidente e aperta, ora nascosta e subdola, è sempre simile all'odio, spesso del tutto identica ad esso.» Ivo Andrić, da Lettera del 192032 E’ la città simbolo e martire del conflitto jugoslavo, soprattutto per l’audience occidentale, che qui ha calamitato l’attenzione mediatica. Sarajevo ferita da un interminabile assedio dei serbobosniaci, il più lungo della storia contemporanea, quasi quattro anni di sofferenze per la popolazione multietnica della città: musulmani, serbi, croati ed ebrei. Oltre 1300 giorni di agonia 32 Ivo Andrić, Racconti di Sarajevo, Newton Compton, Roma, 1993. 39 dalla primavera del 1992 ai primi mesi del 1996, 12 mila morti e più di 50 mila feriti. Visse al suo interno una coraggiosa resistenza culturale. Per paradosso, la vita artistica della città rivelò un’intensa, pur sofferta, vivacità nella prima metà degli anni Novanta, quelli della guerra. Ad essa presero parte intellettuali ed artisti di tutto il mondo, insieme a quelli locali forti di una consolidata tradizione, che nel decennio precedente ebbe uno dei suoi momenti migliori. Basti ricordare il festival internazionale “Days of Poetry”, l’annuale esposizione “Yugoslav Documenta”, “The international Festival of Fringe and Experimental Theatre” e soprattutto il movimento artistico di opposizione culturale “New Primitives”, tra teatro e musica, formatosi negli anni del dopoTito, a cui si affiancarono rock band come i “White Button” di Goran Bregović e i “No Smoking" di Nelle Karajlić ed Emir Kusturica, che tra l’altro faceva parte anche della formazione teatrale “Top Lista Nadrealista” , che attraverso il registro del grottesco costruiva una lucida e beffarda satira sociale. Kusturica nel frattempo portava a compimento i due primi lungometraggi cinematografici: Ti ricordi di Dolly Bell? (1981) e Papà è in viaggio d’affari (1985), entrambi sceneggiati dal poeta e scrittore sarajevese Abdulah Sidran, per qualche anno suo fedele compagno di strada, poi, complice il precipitare degli eventi in Bosnia, sua rispettosa ma ferma coscienza critica. Durante la guerra il regista abbandonò, infatti, Sarajevo per Parigi e Belgrado, né sostenne la causa bosniaca; fu accusato di tradimento e quasi rinnegato, criticato con toni assai meno distinti, e a volte ingenerosi, di quelli di Sidran, che nella sua 40 legittima accusa ha sempre riconosciuto il talento di Kusuturica33. Sarajevo, che ritroviamo nei “reportage” televisivi dei primi anni Novanta è completamente diversa da quella lasciata in Ti ricordi di Dolly Bell?, che si muoveva sullo sfondo delle vicende del giovane Dino (Slavko Štimac) nei primi anni Sessanta, pulsante, vivace e contraddittoria, in bilico tra innovazione e tradizione. Le corse agli angoli delle strade sotto il tiro dei cecchini, le fiamme che bruciano la Biblioteca Nazionale, le code per prendere l’acqua e i massacri del mercato hanno, invece, costruito l’immaginario collettivo di Sarajevo durante l’assedio. Una guerra etnica in cui Sarajevo si è ritrovata invischiata e che non gli apparteneva, in quanto, da secoli, città della convivenza e della tolleranza. Con la disgregazione della Jugoslavia e il sorgere dei nazionalismi la città divenne il principale “bersaglio” dopo Vukovar34. Durante l’assedio viene sottolineato il suo carattere cosmopolita, anzi viene rafforzato, forse come compensazione alla distruzione dilagante, nelle visioni della città da parte degli intellettuali accorsi. Il suo multiculturalismo era fortemente messo alla prova, minacciato e dilaniato dalle granate, dalla paura dei cecchini, dalla fame e dal nuovo odio etnico. Tutto questo succedeva a Sarajevo, città europea dai sapori orientali, un luogo dove a poca distanza, tra loro, si trovavano chiese, moschee e sinagoghe. Autori cinematografici, diventarono parte giovani integrante di film-maker, un’articolata documentaristi politica della rappresentazione della città, in cui erano elementi discriminanti la scelta di vivere per lungo o breve tempo a Sarajevo, per quanto riguarda i registi stranieri, e l’auto-rappresentazione da 33 Cfr. Paolo Vecchi, Emir Kusturica, cit. p.19 e Piero del Giudice, Sarajevo!, Nicoldi, Trento, 2001. 34 Cfr. Paolo Rumiz, Maschere di un massacro, cit. 41 parte dei cineasti sarajevesi che spesso non collideva con quella estera. Ne scaturirono diverse percezioni ed interpretazioni dell’assedio che si rifletterono nelle varie opere cinematografiche. Benvenuti a Sarajevo (1997) di Michael Winterbotton resta la rappresentazione sul grande schermo più nota, forse politicamente corretta, ma non priva di interesse. Nell’intreccio tra immagini reali e fiction, che caratterizza il film, compaiono quelle dell’incendio dell’antica Biblioteca Nazionale. Uno degli atti più simbolici dell’ “urbicidio” che colpisce la capitale bosniaca. E' stato proprio per i casi di Sarajevo e Vukovar che è stato coniato il termine “urbicidio”, ovvero un'intenzione feroce, premeditata, metodica, prolungata di massacrare una città. Urbicide: A Sarajevo Diary (1993) è infatti il titolo di un film documentario di Dom Rotheroe e come in Killing Memory (1994) di Andreas Riedlmayer, l’incendio viene paragonato a quello che colpì la biblioteca di Alessandria d’Egitto. La resistenza culturale, di cui parlavamo, viene evocata o ripresa direttamente nei film. Sarajevo è stata, in quegli anni, il centro principale di progetti di solidarietà internazionale da parte di artisti ed intellettuali35. In Teatro di guerra (1998) di Mario Martone, una compagnia teatrale di Napoli decide di allestire uno spettacolo da portare nella Sarajevo assediata. Similarmente in Forever Mozart (1996) di Jean-Luc Godard un gruppo di giovani attori si mette in viaggio alla volta della capitale bosniaca per mettere in scena Non si scherza con l'amore di Alfred De Musset. Tra le nebbie sarajevesi di Lo sguardo di Ulisse (1995) di Theo Angelopoulos scorgiamo lungo le strade un quartetto di musicisti che suona Mozart e a agli angoli di una città semidistrutta attori che presentano Romeo e Giulietta. Alla fine di Benvenuti a Sarajevo su un’altura panoramica un violoncellista esegue un 35 Cfr. Dina Iordanova, Cinema of Flames, cit., pp. 238-241. 42 concerto per la pace, suonando l’Adagio di Albinoni. Winterbottom prende spunto da un evento realmente accaduto nel 1992, nei giorni successivi al massacro di venti persone (in coda per il pane nella centralissima via Vase Miškina), quando il violoncellista locale Vedran Smajlović suonò l’Adagio proprio nel luogo dell’attentato. Ed è solo una delle numerose iniziative artistiche d’opposizione alla guerra. La scrittrice americana Susan Sontag curò la regia teatrale di Aspettando Godot, che fu presentato il 17 agosto del 1993 al Teatro Giovani di Sarajevo. Il regista sarajevese Haris Pasović produsse diversi spettacoli, dai drammi di Shakaespeare al musical Hair, tutti riadattati alla situazione contingente. Nel ’95 il compositore scozzese Nigel Osborne, scrisse e diresse una nuova opera a Sarajevo Europe, mentre dalle emittenti musicali veniva trasmessa Miss Sarajevo cantata dal leader degli U2 Bono Vox, che aveva appena messo in piedi con Brian Eno il progetto “Passengers” e con il tenore Luciano Pavarotti. Anche le arti visive avevano una parte significativa nella resistenza culturale: dal pittore Nusret Pašić ai designer del gruppo pop-art Trio, dai diari di guerra in forma di collage di Alma Hajrić (ricreati nel film Black Kites di Jo Andres) al pittore inglese Peter Howson o a quello bosniaco Muradif Ceremagić, fino al fotografo francese Louis Jammes, autore di Angels of the walls un’opera sperimentale sui ritratti dei bambini di Sarajevo, tra fotografia, grafica e murales. Senza dimenticare l’esposizione War Art nel 1994 di Nedzad Begović costruita attorno alle macerie della guerra, agli oggetti che dopo l’assedio hanno perso la loro funzione primaria. Lo stesso Begović ha girato un documentario sul progetto artistico. E’ difatti principalmente un regista ed è membro della Saga (Sarajevo Group of Authors), il collettivo fondato nel 1990 da Ademir Kenović (autore de Il cerchio perfetto, 1996) e da Ismet 43 Arnautalić, che dal 1992 divenne un fondamentale punto di incontro tra cineasti, artisti e studenti dell’Accademia di Cinema e Teatro di Sarajevo, che rimangono a Sarajevo durante il conflitto, ne prese parte anche Danis Tanović. Scendendo in strada con i giubbotti antiproiettile, armati di sola betacam, i registi filmarono l’orrore, la disperazione, la vita dei loro concittadini. Al fine di documentare, testimoniare e fermare in quelle immagini su supporto magnetico, ciò che il mondo doveva sapere: la quotidianità di quegli uomini e donne sotto assedio di cui spesso i servizi giornalistici non parlavano, poiché in due minuti ci aggiornavano sullo spostamento di forze armate e mezzi blindati e sul numero di granate cadute. Una guerra vista dall’interno: loro stessi erano vittime dell’assedio dei serbi. In quattro anni la Saga svilupperà un vasto archivio documentaristico, metterà in piedi progetti di fiction e farà da supporto alle produzioni estere. “Fama International” è un gruppo di creativi e ricercatori fondato nel ’91, che in quel periodo aveva prodotto numerosi progetti, dando vita ad un vero network indipendente, utilizzando più media: scrittura, video, disegno, grafica, televisione e multimedia. Sarajevo Survival Guide e Sarajevo Survival map 92-96 sono, per esempio, due diverse proposte secondo una “filosofia della sopravvivenza”, la prima una guida turistica “stile Michelin”, non priva di humour nero, per sopravvivere durante l’assedio tra i fuochi incrociati dei cecchini, mentre la seconda è una mappa topografica della vita e della morte a Sarajevo. Sono diventate parte integrante, insieme all’archivio video (documentari, interviste, reportage televisivi) costruito negli anni appena dopo la guerra, di quella testimonianza storica, politica e culturale che mostra la città non come vittima, ma come un 44 esperimento di sopravvivenza, una possibile vittoria dello spirito e dell’ingegno sul terrore. Nella resistenza culturale, nelle varie forme di opposizione al conflitto e alla violenza, nella documentazione e nella controinformazione, arti e media si contaminavano. I film documentari spesso ripercorrevano i luoghi e le problematiche affrontate dagli scrittori, come le pagine di Zlatko Dizdarević, caporedattore di Oslobodjenje, il quotidiano sarajevese indipendente, voce del dissenso. Nei suoi libri Giornale di guerra. Cronaca di Sarajevo assediata e Lettere da Sarajevo36, emergevano le storie e le cronache dalla città, i dilemmi, la rabbia e i drammi dei sarajevesi e poi un atto d’accusa nei confronti dell’indifferenza e dell’ipocrisia occidentale e dei nazionalismi al potere nelle repubbliche ex-jugoslave. Il volume Sarajevo! (2001, Nicolodi) è allo stesso tempo un libro fotografico, un reportage e un testo di memorie e racconti, nato dalla collaborazione di due fotografi di Sarajevo, Danilo Krstanović e Milomir Kovačević, e un giornalista italiano Piero Del Giudice. Attraverso fotografie in bianco e nero di forte impatto, alternate alle testimonianze di chi la guerra ha vissuto realmente, scopriamo una Sarajevo sradicata dalla sua stessa immagine, un popolo e la sua anima che rischia di scomparire con la città. E’ un libro che racconta l'assurdità della guerra con immagini, racconti, pagine di diario, interviste, poesie, articoli e lettere. Tra i brani riportati anche alcuni stralci degli scritti di Marko Vešović, autore di Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo (1996, Sperling & Kupfer) e del poeta Abdulah Sidran. A quest’ultimo Piero Del Giudice ha dedicato un breve 36 Zlatko Dizdarević, Giornale di guerra.Cronaca di Sarajevo assediata, Sellerio, Palermo, 1994 e Lettere da Sarajevo, Feltrinelli Milano, 1998 45 documentario Abdulah Sidran, poeta in Sarajevo (1995), presentato in una serata dell’Alpe Adria Cinema nel ‘95. Nello stesso anno prese il via nella capitale bosniaca, ancora sotto assedio, il primo “Sarajevo Film Festival”, che oggi, giunto all’undicesima edizione, è diventato il più importante evento cinematografico dei Balcani. “Tutto è nato perché volevamo dare un nostro contributo allo spirito e alla cultura della città assediata. Era un modo per resistere all’aggressione, per superare il terrore e la violenza” spiega Miro Purivatra direttore della rassegna37. Durante una guerra la quotidianità viene soverchiata, si vive in condizioni estreme, la tradizionale routine della quotidianità sostituita da un’altra più alienante e distruttiva, quella del coprifuoco, della ricerca di cibo e acqua, del rischio dei cecchini e delle granate. Sarajevo cerca di resistere nel disperato tentativo di ricostruire una condizione di normalità durante l’assedio, ma viene segnata irrimediabilmente dalle rivalità che hanno leso la sua convivenza multiculturale. Dopo questa articolata premessa in cui abbiamo descritto la resistenza culturale di Sarajevo e in cui il cinema ha occupato un posto di primo piano, analizziamo nello specifico alcuni casi filmici. Principalmente Benvenuti a Sarajevo (1997), Do you remember Sarajevo? (1992-2002) e Lo sguardo di Ulisse (1995); poi Teatro di guerra (1998), Il cerchio perfetto (1997) e Forever Mozart (1996). In conclusione, un rapido commento a riguardo di altri film, documentari e cortometraggi. 37 Jasenka Kratović, Sarajevo Film Festival: un decennio di crescita, in “Notizie Est”, 15 settembre 2004. 46 2.1 Benvenuti a Sarajevo Si tratta del quarto film del regista inglese Michael Winterbotton, dopo Butterfly Kiss (1994), Go Now (1996) e Jude (1996). Apre con le immagini reali, in bianco e nero, di un gruppo di serbi che festeggia, a colpi di mitra, vicino ad un carro armato la presunta liberazione di Vukovar; dopo uno stacco di montaggio, un lungo camera car percorre la città tra le rovine. Nelle successive inquadrature la fotografia prende gradualmente colore segnando il passaggio netto da realtà a fiction. Sono i due piani strutturali che si intrecciano nel corso della pellicola che appunto riunisce sequenze di fiction ad immagini documentaristiche, in modalità non sempre deducibili come in questo caso. Il prologo del film si conclude introducendo la figura di Michael Henderson (Stephen Dillane), giornalista televisivo, impegnato a registrare il commento al suo servizio, tra le rovine e i profughi di Vukovar. Al termine delle sue parole si ascolta The way young lovers do, una canzone di Van Morrison (tratta dal celebre album “Astral Weeks”, 1968), e con lei i titoli di testa sovraimpressi ad immagini panoramiche di Sarajevo, relative al 1984 l’anno delle Olimpiadi Invernali, che si tennero proprio nella città bosniaca. Quella che apparentemente potrebbe sembrare una musica extradiegetica non si rivela tale, perché in un’inquadratura successiva, che ci porta direttamente nella diegesi del film, scopriamo che viene emessa da un radioregistratore. Siamo nel ’92, nel locale di una parrucchiera, ad un certo punto manca la luce, la musica si interrompe. A Sarajevo la luce non c’è, chi se lo può permettere l’attiva con un generatore, una donna nel locale lo fa ripartire e la canzone riprende. L’attenzione del regista si sposta allora, a due altri momenti di vita quotidiana: in una chiesa, dove un giovane prete e alcuni chierichetti aspettano di celebrare una funzione religiosa, e in 47 una casa, dove una ragazza sta indossando l’abito da sposa. La vita tenta di proseguire nonostante la guerra. Alla musica del brano si sono ormai sovrapposti le raffiche dei mitra. Scesi per strada a festeggiare il matrimonio, sposa e parenti, vengono colpiti dai tiri dei cecchini, una donna muore proprio davanti alla chiesa di prima. Da un’inquadratura oggettiva passiamo ad una soggettiva, la stanno infatti osservando un gruppo di giornalisti. Cambia anche il formato da pellicola a video. La vediamo con gli occhi dei reporter o meglio, con quelli delle loro telecamere (l’immagine è sgranata, con camera a mano). Tra giornalisti e cameraman c’è anche Michael. Questa introduzione relativa alle prime due sequenze del film non è fine a se stessa, rimarca i differenti piani che si intrecciano nel film: realtà e finzione, oggettività e soggettività. Come si comunica la guerra? Come la si guarda? Come la si rappresenta? Michael Henderson, reporter inglese, si ritrova a Sarajevo per la sua quattordicesima guerra; sono i primi mesi dell’assedio. Nella bizzarra classifica dell’Onu si trova al quattordicesimo posto tra i luoghi più pericolosi della terra. Ma è sulla strada per diventare il primo. Nessuno è al sicuro nemmeno i giornalisti che lavorano in prima linea. Alla sera si ritrovano al bar dell'albergo Holiday Inn, per raccontarsi le reciproche esperienze, in un clima di rivalità professionale ma anche di umanità. Un giorno Henderson e il collega americano Flynn (Woody Harrelson) scoprono uno dei campi di concentramento organizzati dai serbo-bosniaci. Poi è la volta delle stragi di civili in coda per la distribuzione del pane. Durante la visita ad un orfanotrofio sotto il fuoco nemico Henderson sente il bisogno di fare qualcosa di più concreto e promette ad una bambina, Emira, di portarla lontano dai bombardamenti. La crudeltà della guerra ha cambiato il suo sguardo, prima distaccato. Quando un convoglio di aiuti 48 umanitari guidato da una giovane americana, Nina (Marisa Tomei), si offre di mettere in salvo alcuni bambini, Henderson decide di portare Emira in Inghilterra. Sembra tutto risolto, quando la mamma pretende di riaverla indietro. Henderson torna a Sarajevo e riesce a convincere la madre. Intanto in città qualcuno riesce ad organizzare un piccolo concerto, sfidando il pericolo, in favore della pace. Interamente girato a Sarajevo nel 1996, all’inizio della lavorazione non era ancora terminato l’assedio, Benvenuti a Sarajevo è tratto dal libro autobiografico Natasha’s Story di Michael Nicholson, giornalista della tv inglese, sempre in prima linea dal Vietnam in poi, che in Bosnia salvò la piccola Natasha dagli orrori di una guerra fratricida. Winterbottom e lo sceneggiatore Frank Cottrell Boyce hanno allargato la narrazione ad una coralità di personaggi, all’interno della quale spicca la città di Sarajevo con un ruolo da protagonista. Il personaggio di Flynn, il giornalista della tv americana che sembra approfittare del dramma della popolazione per mettersi in mostra (ma poi arriva a rischiare la vita per aiutare i civili), non è desunto dal testo letterario. Anche perché al di là della presenza fissa della Cnn, la maggior parte delle televisioni americane avevano seguito in minima parte la guerra. Non è solo un film sul conflitto in Bosnia, ma anche sul giornalismo di guerra. Ricostruisce come Sarajevo descritta dagli inviati: la frustrazione è stata dell’isolamento e dell’abbandono, le tragedie, i palazzi sventrati, i materassi alle finestre, le paure, il buio e la fame. Mette in luce i tentativi della gente comune di restituire alla città, anche solo per un giorno, la vita e quelli dei volontari stranieri, di fronte ai temporeggiamenti dei governi o ai raid della Nato, di caricare su camion viveri e medicinali e di portare soccorso alla popolazione assediata. 49 Il regista inglese ha scelto, nella messa in scena, una via di mezzo tra fiction e documentario in cui combina, a volte con eccessiva disinvoltura, materiale tratto dagli archivi televisivi, immagini in pellicola 35 millimetri ed immagini video, scene reali o verisimili e pura fiction. Ha ricreato, in tal modo, uno degli episodi più cruenti, la bomba al mercato di Sarajevo. Il vero si amalgama col falso, continuità, spesso con è la difficile finzione, senza riconoscere le soluzione due di diverse dimensioni. “Il cocktail all’inizio rende perplessi: è lecito montare immagini vere dell’assedio di Sarajevo a quelle ricostruite subito dopo sugli stessi luoghi? Hanno le vittime della cronaca ad essere preservate dalla messainscena?” si è chiesto Giorgio Rinaldi su Cineforum38. Winterbotton ha riproposto immagini già viste, ma perse nella memoria, facendole riemergere, confutando il diritto dello spettatore di guardare altrove. “Il mix documento-fiction funziona grazie anche ai prodigi del montatore Trevor Waite. [...] Non è l’unica strada (Underground e Lo sguardo di Ulisse raccontano la stessa guerra con la pura invenzione), ma permette di veicolare informazione e sensazione, emozione e denuncia. L’approdo è una sintesi tra un instant movie e un film sulla memoria”39. In un montaggio ritmato e complesso, Winterbotton sceglie come colonna sonora, in dialogo e contrasto con l’orrore delle situazioni, brani di gruppi rock inglesi (Blur, Stone Roses, Teenage Fanclub, Massive Attack e Happy Mondays). Nel film si intrecciano punti di vista diversi che definiscono un’alternanza di oggettività e soggettività, su un piano non solo linguistico. Attraverso l'occhio dei corrispondenti di guerra, nella 38 39 Giorgio Rinaldi, Benvenuti a Sarajevo, in “Cineforum”, n.369, novembre 1997. Ibidem 50 finzione, vediamo la città e seguiamo lo sviluppo narrativo, mentre attraverso l'occhio delle telecamere di chi c'è stato e qualche volta ci ha lasciato la pelle, osserviamo la realtà della tragedia bosniaca, quella che i giornalisti in Inghilterra mandavano in onda nel telegiornale, dopo il gossip sulla famiglia reale. La narrazione può essere, inoltre, suddivisa in due parti principali, che si compenetrano ed hanno pesi diversi nel corso del film: la storia collettiva (quella dei giornalisti in guerra) e la storia individuale (quella di Henderson). Nella prima tranche è preponderante il mosaico di esperienze, nella seconda il percorso individuale. Winterbotton ha realizzato un’opera in parte irrisolta, ma di certo non si può dire non sia impegnata. Oltre alla tragedia complessiva di Sarajevo focalizza l’attenzione, con le vicende di Emira e dei bambini dell’orfanotrofio, sulle sofferenze dei più piccoli in guerra. Punta poi il dito contro l’ipocrisia e l’indifferenza dell’Occidente, l’ignavia dell'Onu e le vergogne della politica europea, a cui dedica un collage d’immagini d’archivio. Una problematica che riguarda l’analisi del film, è il suo rapporto con la storia recente. Il film non si distacca dalla versione storica ufficiale, né la indaga. Critico nei confronti di un certo schematismo proposto dall’opera (un’impostazione politicamente corretta) è Giorgio Rinaldi, che tra l’altro è stato anche inviato durante la guerra in Bosnia40. In Cinema of flames sono raccolte alcune posizioni proposito. Roy critiche Gutman, di commentatori premio Pulitzer internazionali e giornalista al del “Newsday”, il primo che documentò l’orrore dei campi di concentramento in Bosnia, accusò il film di distorcere la realtà della guerra e far convergere eventi completamente separati, da 40 Ibidem 51 un punto di vista temporale e geografico, tutti a Sarajevo. Marshall Fine lamentava una costruzione stereotipata dei personaggi (i bosniaci vittime; i serbi selvaggi e violenti; gli adorabili orfani di guerra; i giornalisti occidentali allo stesso tempo insensibili e di buon cuore). Hoberman su “Village Voice” descrisse il film come un mix di “real tragedy with Hollywood drama”41. Emma Daly su “The Indipendent” notò che il film non fornisse un contesto alla storia narrata, che permettesse agli spettatori di poter comprendere la guerra bosniaca42. Benvenuti a Sarajevo è una produzione ad alto budget, investito anche per l’ampio battage pubblicitario che aveva contraddistinto la promozione del film. Fu presentato al concorso di Cannes nel ’97, dove ottenne un’accoglienza tiepida e giudizi differenti da parte della critica. La squadra di autori che ha lavorato alla scrittura e alla realizzazione del film era molto meno partecipe e conoscitrice dei fatti bosniaci, rispetto ad altri registi che si sono interessati al caso Sarajevo per lunghi periodi. Nella lavorazione sono stati coinvolte troupe locali e case di produzioni sarajevesi come la Saga. Scrisse Irene Bignardi su “La Repubblica”: “Il film rivela un irrisolto conflitto tra emozione e denuncia, tra invenzione e documento. [...] Forse per pudore, per paura della retorica, per self control britannico, la storia vera (ovviamente composta di immagini di finzione) è condotta sottotono, e risolve sbrigativamente e per ellissi la fuga della piccola Emira, mentre tutta l'emotività si concentra nelle immagini vere (queste sì) di Sarajevo, che sottratte alla cornice indifferente dello schermo televisivo, scelte con occhio attento, esplodono sul grande schermo del cinema con il loro carico di orrore realistico, facendo 41 42 Dina Iordanova, Cinema of Flames, cit. p.250. Ibidem 52 toccare con mano l'inadeguatezza delle fiction e di una storia individuale. Per cercare di fondere i due elementi del suo film Winterbottom si dà a sofisticati esercizi visivi e sonori - e bisogna dire che non si sentiva il bisogno di tutto quell'Albinoni. Ma alla fine di questo film onesto e squilibrato, generoso e irrisolto, non si può che dar ragione alle sue intenzioni e a Woody Harrelson: le immagini di Sarajevo sono un virus di cui lo spettatore farà fatica a liberarsi”43. Maurizio Porro sul “Corriere della Sera” descrisse “un film che, con un ottimo montaggio, lotta per non dimenticare e per denunciare il cinismo occidentale, sfiorando la poesia e parlando a nome di 300 mila bambini. Una cosa è certa: nessun uomo è moralmente abilitato a reggere l'agonia di un popolo. E i bambini sempre e comunque ci guardano"44. Al di là di alcune evidenti debolezze, nella contestualizzazione storica e nella costruzione drammatica, Benvenuti a Sarajevo rimane un film significativo, che crea e risveglia quella memoria addormentata (o mai conosciuta) nel flusso catodico del piccolo schermo domestico e invita a riflettere sul rapporto tra guerra e media e su come quest’ultimi costruiscano l’immagine del conflitto. Il racconto, forte e sdegnato, si rivela quadruplo: la guerra, le vittime della guerra, i narratori della guerra e gli spettatori della guerra. L’interpolazione di immagini documentarie con la finzione ha consentito, infine, al regista di evitare una spettacolarizzazione della guerra. 43 44 Bignardi I., Benvenuti a Sarajevo, in “La Repubblica”, 9 novembre 1997. Porro M., Benvenuti a Sarajevo, in “Corriere della Sera”, 8 novembre 1997. 53 2.2 Do you remember Sarajevo? Per la prima volta nella storia delle guerre, la gente comune si è trovata nella situazione di documentare gli eventi che avvenivano attorno a sé con una videocamera. Videocamere amatoriali che invece di filmare vacanze o compleanni, hanno ripreso il bombardamento della propria città, Sarajevo. Girato da appartamenti, rifugi, quartieri, in varie parti della città il materiale, è confluito in un film documentario sulla vita di ogni giorno in una città europea assediata, alla fine del XX secolo. Gli autori sono tre giovani film-maker che all’epoca avevano poco più di diciotto anni. I fratelli Sead e Nihad Kreševjaković e Nedim Alikadić, nell’aprile del 1992 decisero di filmare ciò che li circondava: l’assedio che li rendeva prigionieri. Do you remember Sarajevo? è l’assemblaggio, per lo più, di materiale video amatoriale selezionato da un corpus di cinquecento ore e, in minor parte, di immagini tratte dalla televisione bosniaca o straniera. Senza retorica documenta l'incredibile normalità dell'impossibile: la vita durante la guerra. Non ci troviamo di fronte alla solita celebrazione della multietnicità, con il ritualistico mostrare luoghi e simboli delle tre religioni e del loro tollerarsi, o alle scene dei massacri di massa. Assistiamo a qualcosa di realmente inedito, sia per il suo valore storico e culturale sia per il riflesso che il film ha avuto sul cinema documentario. Non mostra nessuna delle immagini più conosciute, ma tutto lo spirito dissacrante e irriducibile della città assediata e la sfida a rischio della vita per muoversi, vivere ma anche filmare senza la protezione di tessere giornalistiche o dei blindati bianchi Unprofor. Al di fuori di ogni news management, attraverso una fotografia sgranata, il quadro della camera è traballante, ma non per una mera scelta stilistica. 54 Marcello Walter Bruno intravede in Do you remember Sarajevo? l’avvento di una nuova categoria nel panorama dei documentari e dell’infofiction di guerra, segnata dalla rivoluzione digitale: “Una categoria del controinformazione tutto come nuova, che opposizione va alla oltre la propaganda governativa: i new media significano per la prima volta la possibilità dell’auto-informazione, dell’auto-documentazione”45. Sarajevo a dieci anni di distanza dall’inizio dell’agonia, nell’aprile del 2002 (quando è terminata la post-produzione del documentario), ha rivisto se stessa attraverso le immagini girate dai tre autori che, insieme ad altri amici, avevano instancabilmente raccolto voci, volti e situazioni per farne un documentario lungo poco meno di un'ora. Dall'immagine dei due grattaceli della Unis in fiamme (che riecheggiano le più famose torri gemelle newyorkesi) alle interviste ai cittadini, dalla vita quotidiana alle migliaia di granate scagliate ogni giorno dalle truppe di Mladić, dai concerti punk alla male armata resistenza bosniaca, fino ad un’improvvisata gare sugli sci nella città imbiancata che si conclude con una parodistica premiazione. “Un documento di memoria storica e d'amore, sulla vita e la morte in quegli anni”46. Il film termina con le immagini dei cimiteri di Sarajevo e mentre già vanno i titoli di coda, una voce fuori campo dice: “avrei potuto vivere anche senza tutto questo". Do you remember Sarajevo? riesce alla stesso tempo essere la vita, il film e la realtà di una comunità, dal 1992 al 1996. Una storia sulla gente comune che ha vissuto sotto un assedio barbaro alla fine del XX secolo. 45 Bruno M.W., L’infofiction di guerra, in “Close-Up”, Immagini del reale figure della nonfiction, n.16, settembre 2004. 46 Valentina Pellizzer, Sjecas li se - Do you remember - Ti ricordi Sarajevo?, in “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 2 aprile 2002. 55 Il documentario è stato ben accolto dalla città, tanto da prolungarne le proiezioni, e negli ultimi anni è stato presentato in diverse rassegne internazionali. Nihad Kreševjaković è cosciente del mutamento introdotto dalle telecamere palmari: “C’è una profonda differenza tra le immagini televisive e quelle amatoriali. E’ l’intimità dello sguardo. Quando riprendi con una telecamera professionale, tutti si atteggiano. Con le telecamere piccole era diverso, riuscivamo a registrare situazioni molto naturali”. 2.3 Lo sguardo di Ulisse A. il regista greco esiliato negli Stati Uniti, protagonista dell’opera di Theo Angelopoulos, ritorna nella sua terra natale alla ricerca delle bobine del primissimo film girato nei Balcani ad opera dei fratelli Maniakas e compie un viaggio attraverso tutta la penisola balcanica, incontrando i diversi teatri di guerra dell’ex Jugoslavia. Abbiamo collocato Lo sguardo di Ulisse all’interno del capitolo di Sarajevo, perché è il punto di arrivo del peregrinare di A., il luogo dove incontra realmente il conflitto, nonché lo spazio simbolico più importante del film. Lo sguardo di Ulisse, “Gran premio della giura” a Cannes nel ’95 (con disappunto dell’autore), è il secondo film della trilogia chiamata “dei limiti, dei confini e dell’esilio” ispirata alle novelle di Albert Camus L’esilio e il regno. Il motivo dell’esilio, elemento fondante della trilogia, viene affrontato associato a quello della frontiera. Varcando, appunto, tutte le frontiere della penisola, nella necessità di rincorrere un “altrove” che, se ne Il passo sospeso della cicogna (il primo film della trilogia del 1991) era visibile ma invalicabile, qui diviene meta necessaria per un’inevitabile presa di coscienza storica. A. interpretato da Harvey Keitel, fin dal nome un riferimento 56 autobiografico al regista (che più volte si è definito un esiliato in casa), sperimenta questa ricerca, dolorosa, che non è solo storica ma anche personale, attraverso la Macedonia, la Bulgaria, la Romania, la Serbia e la Bosnia. Presupposto di Angelopoulos per affrontare la storia contemporanea è la rilettura di un classico L’Odissea di Omero, utilizzato in chiave metaforica. A. è come Ulisse, cerca se stesso, i ricordi, il futuro. Come lo stesso eroe greco è ridotto ad essere Nessuno, “non ha più nome e la sola lingua nella quale può esprimersi non è la sua”47. Angelopoulos ha sottolineato come il suo è, a tratti, un Ulisse dantesco che sceglie la guerra in Bosnia per intraprendere un viaggio all'interno di se stesso48. Torna a Florina, la sua città natale per la proiezione eccezionale di uno dei suoi film più contestati, ma il motivo principale della sua venuta è quello di riuscire a scovare i primi leggendari rulli, mai sviluppati, dei fratelli Maniakas, citati in apertura con un frammento delle Tessitrici (1906). Nati in Grecia, si stabilirono nel 1905 in Macedonia, dove aprirono un laboratorio di fotografia e di sviluppo di film e successivamente una sala di proiezione. Ebbero una vita movimentata, percorsero gli interi Balcani senza preoccuparsi di quelle differenze nazionali o etniche, che a fine secolo sembrano insormontabili, lasciando attraverso il loro obiettivo un insieme di memorie di una regione e dei suoi costumi. A. si incammina alla ricerca di quello sguardo primigenio intrappolato nelle bobine, di quell’innocenza sconvolta dal corso della Storia, di quella testimonianza di una coesistenza multietnica che sembra perduta. 47 Sylvie Rollet, Figure dell’esilio e delle frontiere nell’opera di Anghelopoulos, “Cinemalibero”, I quaderni del Battello Ebbro, 2000, p.31. 48 Ibidem 57 Inizia un percorso complesso e visionario, dal sud al nord dei Balcani, che esplora la drammatica contemporaneità e porta inevitabilmente a Sarajevo. Il regista infonde al viaggio un carattere polimorfo strutturato su più piani: letterario, storico, individuale, ricco di simboli e metafore. Un viaggio a ritroso nel tempo, nei meandri della memoria e, allo stesso tempo, un'esplorazione meravigliata di un'attualità che sembra quasi irreale. A., novello Odisseo, costeggia le insidie di un mondo che non riconosce più, da Skopje a Bucarest, da Costanza a Belgrado. Lo sguardo del protagonista in perpetuo movimento costruisce il fulcro organizzatore del racconto. “Ulysse’s Gaze is a deconstruction of self-perceptions and identity believed to be firmly rooted in space and time”49. Angelopoulos rompe le categorie temporali e spaziali, la loro apparente linearità, dilatando il racconto. “A. si trova ad affrontare luoghi che, perduto ormai il loro statuto di spazio puramente geografico (e cioè non più sperimentabile esclusivamente come tale), si sono caricati delle tensioni di spazio della Storia e delle suggestioni di spazio dello sguardo. Qui legati in un rapporto di diretta subordinazione, poiché è lo spazio della Storia a strutturare il percorso dello sguardo. Gli scenari che fanno da sfondo al viaggio sono intesi come immediati portatori di senso e non sono mai presentati nella loro connotazione dell’ideologia fotografica”50. marxista Basti comunicato pensare dalla al statua fallimento di Lenin smembrata, trasportata su una chiatta del Danubio. Tanto quanto la statua di Lenin rappresenta il comunismo perduto, così la ricerca di una pellicola storica allude al cinema smarrito o alla paura da parte del regista di aver perso il proprio “sguardo”, la 49 50 Dina Iordanova, Cinema of Flames, cit., p.106. Attilio Coco, Lo sguardo di Ulisse, “Segnocinema”, numero 77, 1995,p.58 58 sua visione sul mondo, definendo la dimensione metacinetografica, uno degli elementi cardine del film. Nelle scelte stilistiche della messa in scena l’autore rimane fedele alla sua poetica e alla sua ricerca estetica, infondendogli però nuovi significati, come nell’uso del piano-sequenza. Appropriandosi dell’archetipo letterario dell’Odissea, il viaggio, fornisce un supporto narrativo alla fluidità del piano sequenza, che lega spazi e popoli, crea suggestioni, supera frontiere, dialoga con i silenzi del film ed interpreta la ricerca o la presa di coscienza del protagonista. Rimane per Angelopoulos quella struttura linguistica, che quasi al pari di una ideale macchina del tempo, permette di viaggiare nella memoria e nella coscienza del suo paese e del mondo, dall’inizio del Novecento ai nostri giorni. Un esempio è la sequenza ambientata, nel passato, nella villa di famiglia in Romania, dove sperimenta una fusione temporale e spaziale, tramite il piano sequenza, di tre capodanni (1945, 1949 e 1950), che affiorano alla mente o nei sogni del protagonista. Nei tre momenti i festeggiamenti sono ciclicamente interrotti dall’irruzione della Storia e della polizia. Dopo esser stato a Belgrado, A., accompagnato, insidiato ed atteso come il vero Ulisse da tre donne (Circe, Nausicaa e Penelope), in realtà una sola essendo interpretate dalla stessa attrice (Maia Mongerstern), giunge a Sarajevo, la devastata Itaca odierna, il cuore dei conflitti non solo jugoslavi, ma europei. Lorenzo Pellizzari ha sostenuto che non è un caso che la ricerca di Angelopoulos, e con lui quella del suo personaggio, termini a Sarajevo. “Un tempo sarebbe potuta finire a Madrid que bien resiste o alla Vienna de Il terzo uomo o alla Parigi del joli mai (che non è quello del ’68)”51. E’ ultima e fondamentale tappa del 51 Lorenzo Pellizzari, Lo sguardo di Ulisse, in Cineforum, 350, dicembre 1995, p.66. Nello stesso articolo Pellizzari attribuisce al film la qualifica di film “europeo” e sostiene che il 59 viaggio nella coscienza, nel passato e nel presente di A., alla ricerca di una propria identità, impersonato con un’immersione quasi da sonnambulo da Keitel. L’arrivo a Sarajevo è quasi metafisico, passando dall’inquadratura notturna di una barca che scivola sull’acqua di un canale, dove si trova A., alle immagini di distruzioni della città, anticipate brevemente da un tonfo di un’esplosione. La capitale sotto assedio è introdotta da lunghe inquadrature (longtake), percorse da A. quasi sempre in campo lungo. Antichi palazzi distrutti, nuvole nere all’orizzonte, macchine incendiate, gente che corre al riparo agli incroci delle strade con taniche d’acqua; le strade deserte ricordano i quadri di Giorgio De Chirico. La Sarajevo nel film, a causa dell’impossibilità di poterlo girare in quella reale, è stata ricostruita quasi completamente a Mostar e in parte a Vukovar e a Belgrado. Qui A. incontra finalmente Ivo Levi, conservatore della cineteca di Sarajevo, che ha custodito negli ultimi anni le tre bobine, interpretato da Erland Josephson (la parte doveva essere di Gian Maria Volonté, poco prima che l’attore italiano morisse). A. lo invita a liberare quello sguardo imprigionato all’inizio del secolo, che non vide mai luce. Dopo aver ritrovato la pellicola e sistemato il rullo nel proiettore, Ivo e il regista escono a festeggiare l’evento nella nebbia che avvolge Sarajevo. Ebbene sì, i giorni di nebbia sono i “giorni di festa” nella Sarajevo assediata. “La nebbia è la migliore amica dell’uomo, è il solo momento in cui la vita della città torna normale, quasi come prima” - spiega il direttore della cineteca ad A. “I cecchini devono fermarsi per problemi di visibilità”. Passeggiano tra la nebbia ed incontrano la figlia di Ivo; agli angoli delle strade film “è un invito alla ragione (e non alla ragion di Stato), di cui abbiam bisogno, perché il relativo sonno non generi altri goyeschi mostri”. 60 musicisti suonano ed attori mettono in scena il loro spettacolo, giovani musulmani, serbi e croati scendono in strada. Se nel precedente film di fiction analizzato, Benvenuti a Sarajevo, completamente diverso dall’opera di Angelopoulos, la città è sempre illuminata dal sole, qui la nebbia è la vera costante spaziale e simbolica della città. Una coltre di nebbia che scende a velare l’orrore quotidiano della guerra bosniaca, che però, anche nella sua dimensione quasi onirica, non smarrisce l’incertezza e le tensioni del presente. Una camionetta si avvicina ai personaggi, sentiamo degli spari Ivo e la figlia sono stati uccisi, vediamo solo i loro corpi quando A. si avvicina. Torna, affranto, alla cineteca e proietta la pellicola ritrovata. Keitel è inquadrato con un piano ravvicinato (i primi piani sono molto rari nel cinema di Angelopoulos), il volto in lacrime, lo schermo gli restituisce lampi ciechi di luce vuota. Non sapremo mai quale immagine sia stata fissata nel primo film dei fratelli Maniakias. Forse sopravvive l’innocenza di un primo sguardo creativo o molto più probabilmente è ormai perduto. Secondo Attilio Coco: “L’innocenza imprigionata in quel primo guardare il mondo non ha resistito di fronte alla violenza della Storia. Di questa che, fuor di retorica, è la nostra Storia”52. Nell’ultimo monologo, ispirato ad Omero, A. annuncia la sua ulteriore partenza, con queste parole: “Quando io tornerò, tornerò indossando gli abiti di un altro uomo e con il nome di un altro”. La storia raccontata è come un cerchio, si conclude per iniziare ancora. 52 Attilio Coco, op.cit. 61 2.4 Teatro di guerra Siamo nel 1994, la guerra in ex-Jugoslavia è ormai in corso da tre anni. A Napoli, un giovane attore e regista, Leo, inizia le prove di uno spettacolo da portare in un piccolo teatro di Sarajevo diretto da un regista conosciuto prima della guerra, nel corso di un seminario. La compagnia di Leo lavora in un teatro malandato in mezzo ai vicoli dei Quartieri Spagnoli, sta provando I sette contro Tebe di Eschilo: un testo che parla di un assedio e di una guerra fratricida. E’ lo spunto del quinto film di Mario Martone, che nell’arco di sei anni, ha creato una sorta di “trittico napoletano” con Morte di un matematico napoletano (1992), L’amore molesto (1995) e appunto Teatro di guerra (1998), scandagliando dall’interno le varie anime della città e i luoghi che la formano. Se Napoli è lo spazio fisico complesso e profondo del film, Sarajevo è lo spazio mentale, agognato, discusso e aspirato, a cui la storia tende ma mai raggiunge. In Martone, Napoli è una specificità non tanto per le storie scelte quanto per lo sviluppo, le implicazioni, i riferimenti che esse subiscono, “perché pare proprio e sempre che una sorta di destino esistenziale, connaturato alla città influisca sul loro svolgimento e anche su una certa impossibilità di fuga (verso Roma o verso Sarajevo)”53. Leo si scontra con l’indifferenza dei media allo spettacolo di solidarietà, i giochi di potere delle compagnie più potenti e il proprio senso di sconfitta di fronte alla realtà. Le prove si intrecciano alla vita degli attori della compagnia e a quella che scorre intorno alla sala teatrale, nei vicoli disagiati e violenti dei Quartieri Spagnoli, un altro “teatro di guerra”, reale e quotidiano. 53 Pellizzari L., Fra scene e vicoli le tragedie del tempo, “Cineforum”, n.374, maggio 1998. 62 Teatro di guerra riassume l’esperienza dei “Teatri Uniti”, unendo molti degli attori che negli anni hanno lavorato con Martone, da Andrea Renzi ad Anna Bonaiuto, da Iaia Forte a Toni Servillo. Mentre i due film precedenti di Martone avevano come elemento comune l’esistenza di un nucleo (la morte annunciata di Caccioppo e la morte memorizzata di Amalia) attorno al quale procedeva per cerchi concentrici, in Teatro di guerra sceglie un percorso inverso: i cerchi si stringono progressivamente fino all’evento: il debutto dello spettacolo teatrale che in realtà è un’ulteriore morte, quella di Yasmin, il direttore del teatro bosniaco. Quando ormai è tutto pronto, dopo la prova generale, Leo rivelerà, quello che per alcuni giorni ha taciuto, il suo amico di Sarajevo è morto da due settimane, colpito da una granata mentre si recava a teatro. Martone avvicinandosi al tema della guerra jugoslava, oltre a rivisitare un mito greco come Angelopoulos, ha scelto (lo riportano le note di regia) di non mostrare immagini di Sarajevo, di non parlare dell' "altro" in guerra ma di noi stessi "in pace" e di filmare il teatro per davvero, accettando che lo sviluppo del film dipendesse dall'andamento reale delle prove54. La Bosnia entra fisicamente nel film solo attraverso una lettera (letta da una voce fuori campo in inglese), il telegramma di Yasmin tenuto nascosto da Leo, un frammento di un fregio della biblioteca di Sarajevo donato come ricordo. L’occhio di Martone è un occhio riflesso: un’altra Bosnia, solo meno esplosiva, è vissuta dall’interno a Napoli. E’ un film dalla struttura complessa dove è difficile tracciare una linea di separazione tra la scena, il mestiere, la vita quotidiana; tra il richiamo del teatro classico e la messinscena che lo 54 Cfr. Irene Bignardi, Napoli di Martone è un teatro di guerra, “La Repubblica”, 1 maggio 1998. 63 aggiorna; tra testo e contesto; tra la memoria storica e la cronaca odierna; tra realtà e finzione. Un’opera che riflette criticamente sul teatro, oltre che su altri aspetti forse predominanti (la realtà di Napoli e, indirettamente, la guerra dei Balcani), ma non si dimostra, dal punto di vista stilistico, un film “teatrale”, anzi forse è il lavoro più propriamente filmico di Martone: “insegue corpi e umori attraverso i diversi piani di un mondo sospeso tra simbolo e quotidianità, con un occhio curioso e caleidoscopico”55. 2.5 Il cerchio perfetto Appena termina l’assedio nel febbraio del 1996, in una situazione ancora instabile, Ademir Kenović inizia le riprese del primo film bosniaco sulla guerra. Kenović, che ha studiato in America, ha alle spalle già due film realizzati prima del conflitto (A Little Bit of Soul del 1986 e Kuduz 1989); durante gli anni dell’assedio è stato il principale animatore del collettivo di cineasti Saga. Il cerchio perfetto è un progetto che l’autore aveva in mente da quattro anni. Co-sceneggiato dal poeta Abdulah Sidran è stato filmato completamente a Sarajevo, tra le macerie di una città distrutta. Nel bel mezzo della guerra un disilluso poeta musulmano, Hamza, lasciato da solo da moglie e figlia fuggite in Croazia (sotto false identità cattoliche), si ritrova improvvisamente in casa due bambini orfani, scampati ai massacri delle campagne. Kerim di nove anni è sordomuto, suo fratello più piccolo, Adis, ha invece sette anni. Col passare del tempo tra di loro si instaura un forte legame di amicizia e complicità, che permette ad Hamza, poco prima sull’orlo del suicidio di ritrovare un senso alla propria vita, e a tutti e tre di sopravvivere alla fame, alle sofferenze che 55 Paolo Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini&Castoldi, Milano, 2002, p.2073. 64 si trascinano nell’animo e che li circondano. Si mettono alla ricerca della zia dei ragazzini, l’unica parente ancora in vita, li accompagna un cane ferito. Dopo tanto cercare, ricco di siparietti surreali, il poeta ottiene notizie della zia, rifugiata in Germania. Hamza prepara Adis e Kerim alla partenza, ma il loro rapporto è diventato troppo forte e rifiutano di abbandonarlo. La casa viene bombardata, Hamza convice i piccoli ad andare dalla zia, devono solo raggiungere l'aeroporto. L’impresa, sotto il fuoco dei cecchini, è ardua e riserverà nuovi dolori. “Davanti a noi ci sono le tenebre” recita la poesia di Sidran nell’epilogo finale. Oltre ai tre personaggi principali, il quarto protagonista del film è la città stessa sotto gli attacchi dell'artiglieria pesante serba. La quotidianità dei suoi abitanti è allo stesso tempo composta di dramma e di voglia di vivere, di grandi conflitti e di piccoli litigi; viene raccontata, a volte con tratti surreali e ironici, a volte con brutalità disarmante. Kenović opta per una struttura lineare in bilico tra realismo e fantastico. I suoi personaggi sognano ad occhi chiusi o aperti, tanto “non si può sognare niente che sia più brutto della realtà”. Ma è l'autenticità di quei luoghi filmati, senza nessun filtro, che carica il film di ulteriore emozione. Non c’è una sola scena che non porti le stigmate del dramma realmente vissuto. La semplicità e la primordialità dei sentimenti nell’incastro melodrammatico, asciugano l’opera dai rischi di sentimentalismo Come altri film sulla guerra jugoslava termina con l’immagine di un cimitero, là dov’era iniziata la narrazione. In questo luogo, Kerim impara a tracciare il cerchio perfetto (come quelli disegnati dal poeta, quando le mani iniziavano a formicolare per lottare contro le tenebre) sulla lapide del fratello morto, per ricordare e congelare nella perfezione di quel disegno geometrico l'orrore e la violenza della guerra. 65 2.6 Forever Mozart Lo spunto principale del soggetto del film è un articolo di Philippe Sollers su “Le Monde” (20 maggio 2004) in cui lo scrittore sosteneva che sarebbe stato meglio rappresentare a Sarajevo Il trionfo dell’amore di Marivaux invece che Aspettando Godot, come aveva appena fatto Susan Sontag. “Non si scherza con l’amore a Sarajevo”56 pensò Jean-Luc Godard parafrasando il titolo di una commedia di De Musset. Il film racconta infatti il fallimento di un gruppo di giovani intellettuali francesi partiti per Sarajevo allo scopo di allestire Non si scherza con l'amore (On ne badine pas avec l’amour, il titolo originale in francese). Forever Mozart sintetizza le linee guida dell’ultima ricerca artistica di Godard: la storia, le guerre, i nuovi stati postcomunisti e il ruolo dell’arte e del cinema in tutto ciò. L’opera è, parallelamente alla storia principale della compagnia di attori alla volta di Sarajevo (che non raggiungeranno mai), anche la storia di una troupe cinematografica alle prese con un film che si intitolerà Bolero Fatale. I legami tra le due esperienze artistiche sono stretti, perché tutti i personaggi sono in qualche modo imparentati tra loro. Il regista del film è l’anziano Vicky Vitalis; sua figlia Camille è una degli attori del gruppo diretto alla volta della capitale bosniaca. Li troviamo in viaggio, prima in treno tra Salisburgo e Trieste, dove provano la pièce, poi in Jugoslavia, a piedi, dove si accampano sulla riva di un fiume. Incontrano soldati, miliziani e partigiani di nazionalità imprecisata, Sarajevo è ancora lontana. A Parigi, Harry celebre scrittore e sceneggiatore del film, accompagnato dalla madre di uno degli attori, Jerôme, si fa ricevere dal ministro della difesa perché intervenga in soccorso dei giovani 56 Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano, 2002, p.229. 66 artisti in pericolo nei Balcani. I tre si sono persi, è ormai inverno; finiscono in mezzo ad una zona di combattimento circondati dai carri armati. Tra i soldati ci sono anche giornalisti, fotografi, inviati dell’Onu e della Croce Rossa: “le brigate internazionali” o, parrebbe dire Godard, i briganti internazionali. I giovani vengono sequestrati dai miliziani serbo-bosniaci. Poco dopo, tra i colpi di mortaio sono costretti a scavare la loro fossa. Prima della fucilazione Camille dà l’addio a suo cugino Jerôme, chiamandolo Perdican, come nella commedia che non hanno potuto rappresentare. Intanto in Francia si incomincia a girare la pellicola, è un film di guerra, dal lago le riprese si spostano vicino al mare. In una ripresa un’attrice che dovrebbe pronunciare solo “sì” spreca centinaia di ciak. I due soci del produttore, il barone Felix, scappano con la cassa del film; si decide allora di stampare subito il film e di farlo uscire in sala, ma sarà un insuccesso. Nell’ultima sequenza il barone-produttore Felix si reca ad ascoltare in un sontuoso palazzo un concerto forse di Mozart in persona, dove arriverà anche Vitalis. La guerra in Jugoslavia è il momento di maggior coinvolgimento politico, morale ed emotivo della storia europea degli anni Novanta. Godard se ne era già interessato in Histoire(s) du cinèma e lo farà ancora nel successivo Notre musique (2004). In Forever Mozart è il soggetto cardine del film, sia in chiave diretta che indiretta, poiché anche quello che gira Vitalis è una pellicola di guerra. E come spiega Alberto Farassino è anche un film storico: “Il Bolero fatale è quel ripetitivo e ossessivo crescendo – proprio come nel Bolero di Ravel – di ‘piccole’ guerre che l’Europa ha vissuto negli anni Trenta. Anni che, come sostiene lo 67 scrittore Juan Goytisolo, citato direttamente nel film, sembrano ripetersi ‘con leggere varianti sinfoniche’ negli anni Novanta”57. Emergono nel film di Godard, un’opera a sé nella filmografia stilata, alcune similarità, con altre pellicole, nell’approccio al conflitto balcanico. Ad esempio, la comparazione della guerra jugoslava con altre guerre e l’analisi del passato, anche se su un piano simbolico, per comprendere il presente. Inoltre, lo accomuna ad altri lavori, soprattutto di registi occidentali, l’utilizzo di una figura classica nella costruzione narrativa, ovvero quella di uno straniero o di un gruppo di stranieri, che attraverso un viaggio giungono nei Balcani tormentati, intesi come “altro”, anche come regno di barbarie. Ma negli intrecci e nelle frantumazioni create rappresentazione dal della film, Godard Jugoslavia solo non in imbriglia la un’immagine semplificata o puramente simbolica, anzi nei “pro e contro” la inserisce in un contesto europeo in cui tutti siamo, come i personaggi del film, lontanamente imparentati. Il film è intessuto di “frasi” che provengono da molti scrittori cari al regista, da Pessoa a Malraux, da Duras a Bazin. Non è solo il classico mosaico parlato di un film di Godard, qui è anche un richiamo a quella cultura europea che produce mitologie ridicole (vedi la società del barone-produttore Società dei Grandi Film Europei), ma che esiste ed è esistita anche là dove ora sembrano esserci solo barbarie e “briganti internazionali”. Fra i soldati slavi c’è ne uno che assomiglia a Danton e che ha letto Michelet. Il Mozart finale, apparentemente slegato dal corpus narrativo, potrebbe incarnare simbolicamente il genio unificatore dell’Europa, il “voltar pagina” dopo la guerra. La parte francese e quella jugoslava sono collegate da una scena, in bilico tra flashback e dimensione fantasico-surreale, in 57 Ivi, cit., p.232. 68 cui l’aiuto regista di Vitalis scopre in Jugoslavia i cadaveri dei giovani uccisi e sembra trasportarli sul set francese, rendendoli attori del nuovo film. Forever Mozart è anche la storia di una guerra tra baroni e lavoratori, nei dialoghi ritornano infatti frequentemente considerazioni sociali e di classe. Godard, come l’alter ego Vitalis che si rifiuta di girare una sequenza di guerra, non vuole rappresentare l’oscenità della guerra (né mostrare la morte). Già in Les carabiniers, Godard evitava riprese di battaglia, attingendo da immagini di repertorio o costruendo versioni minimaliste di scene militari. Delle guerre jugoslave si sono già viste troppe immagini televisive, l’autore francese sceglie allora di rappresentarle attraverso i rumori, le esplosioni, i frastuoni, immagini confuse e disturbanti. “Non volevo mostrare la guerra. Mostravo delle persone fatte prigioniere e volevo che si sentisse che c’era qualcosa di più vasto di loro. Questo senso della guerra come qualcosa di più vasto dei personaggi, qualcosa che sta fuori campo, si avverte grazie a un rumore di mitraglia che spezza la colonna sonora, o con qualche carro armato che raffigura la pesantezza dell’acciaio” ha dichiarato Godard58. 2.7 Gli altri film Agli inizi del 1993, il regista Marcel Ophuls si reca Sarajevo, dove tornerà per brevi periodi nel corso dell’anno, con l’intento di realizzare un documentario sul giornalismo di guerra. Intervista gli inviati dei media occidentali, commentatori, storici, politici e intellettuali. Segue i reporter al fronte nella città assediata e sulla collina che la circonda, dove stanno gli assedianti. Il materiale confluisce in Veillées d'armes (The Troubles We've Seen: A 58 Ivi, cit., p.233. 69 History of personale Journalism in riflessione sull’informazione manipolazione, sulla Wartime, ricerca della 1994), verità, un’articolata in guerra, sul valore e sulla delle immagini, sulla disinformazione, sull’etica di una professione, che non si riduce alla guerra in Bosnia, ma abbraccia gli eventi bellici di tutto il Novecento, di cui una delle memorie storiche è Martha Gellom, leggendaria corrispondente di guerra e compagna di Ernest Hemingway. Tra gli intervistati compare anche il filosofo francese Bernard-Henri Lévy, autore con Alain Ferrari, del film documentario Bosna! (1994). Per l’esordio dietro la macchina da presa Lèvy si ispira a Espoir (1939) di André Malraux sulla guerra civile spagnola. Giunto a Sarajevo con una piccola troupe, ha girato un documentario apertamente militante sulla guerra in Bosnia e sul dramma della capitale assediata, affrontando un’analisi socio-politico su come la situazione sia precipitata, allo scopo di superare i luoghi comuni, che rappresentano i Balcani come luogo di eterni lutti e confusione. Sostiene la causa e la resistenza bosniaca musulmana, attacca il nazionalismo serbo, denuncia la vigliaccheria e l’attendismo dell’occidente, in particolare dell’Europa che ha “des yeux pour pour ne pas voir et des oreilles pour ne pas entendre”. Se Ophuls, Levy e altri autori decidono di andare a Sarajevo e qui fermarsi per un tempo limitato, alcuni di ritornarci per un breve periodo come Briton Bill Tribe (protagonista del documentario Urbicide), che visse ed insegnò all’Università di Sarajevo per oltre vent’anni, o il regista francese di origini jugoslave Radovan Tadić che ha diretto Les vivants et les morts de Sarajevo (1993), una piccola-grande tribù di giovani filmmarker stranieri ha inteso vivere a Sarajevo. In un contesto di morte e distruzione la decisione di venire o andare, lasciare o rimanere, diventa cruciale nella diversa percezione della città e 70 nell’autenticità della rappresentazione. Consideriamo il caso di coloro che decidono di vivere a Sarajevo, come i cittadini assediati, anche se a differenza di loro avrebbero la possibilità di abbandonarla. Si tratta per lo più di giovani occidentali, le varie esperienze riflettono nelle relative opere una sorta di Bildungsroman in versione cinematografica: la loro formazione si sviluppa parallelamente alla guerra, che vivono dall’interno. L’australiano Tahir Cambis ha vissuto a Sarajevo dal 1992 alla fine del 1995 ed è l’autore di Exile in Sarajevo, documentario che già dal titolo testimonia il suo esilio “dalla civilizzazione” a Sarajevo. Bill Carter, americano, rimane a Sarajevo quasi sei mesi, realizzando Miss Sarajevo, focalizzando l’attenzione sulla resistenza culturale della città. François Lunel, francese, trascorre diversi anni a Sarajevo, rimanendo per un lungo periodo anche a conclusione dell’assedio. Potremmo dire che è qui dove diventa film-maker. Prima con una serie di cortometraggi e poi esordisce con un lungometraggio Unspected Walk (1994-7). Nel film un soldato bosniaco ferito fugge dall’ospedale militare e va alla ricerca della sua fidanzata, nel viaggio incontra diverse persone. C’è un momento significativo nell’opera: quando il protagonista cammina nel parco, che noi riconosciamo essere uno di quelli costantemente ritratti dai documentari su Sarajevo, il prato è completamente verde. Non è distrutto come nella realtà, come nelle immagini che abbiamo recentemente visto. “The image of the green Sarajevo park is stronger than images of destruction; it resonates in the same way as the landscape of green fields at the site of Auschwitz today resonate in Claude Lanzmann’s Shoah”59. Lunel mostra le visibili cicatrici lasciate dall’assedio, ma preferisce concentrarsi su una dimensione invisibile del trauma vissuto dal protagonista 59 D.Iordanova, Cinema of flames, cit.,p.244. 71 che affiora in superficie dalla gestualità dell’attore e dai momentanei silenzi. Nel 1996 gira il suo secondo film Heroes, nuovamente ambientato nella Sarajevo sotto l’assedio dei serbi. La maggiore accessibilità alle tecnologie audiovisive, fin dai primi anni Novanta, aveva coinvolto un buon numero di persone nella produzione e documentazione video. La rappresentazione di Sarajevo solleva dunque anche la questione del cosiddetto “participatory cinema”, che l’antropologo visivo David MacDougall ha descritto come “a principle of multiple authorship, which in its turn creates a form of intertextual cinema, and thus makes cross-cultural films really dialogic and polyphonic”60. I cittadini di Sarajevo sono raccontati e filmati, dagli osservatori e visitatori, spesso loro stessi prendono parte ai progetti letterari, giornalistici e cinematografici realizzati dagli stranieri. Molte volte sono loro stessi che scrivono o filmano loro stessi, durante la guerra. Secondo Dina Iordanova, valutando tutti i vari lavori, possiamo sostenere che solo in alcuni casi possono essere descritti come dialogici e polifonici, “because the films made by outside observers enjoyed a much wider exposure tahn the ones local people made about themselves. It was not so much the chances for production, but the politics of exposure which came to matter so much”61. Sono tantissime le immagini registrate dai film-maker sarajevesi, proporzionale diffusione ma a di tale ciò non corrisponde materiale. A volte una veniva considerato potenzialmente propagandistico, in quanto, seppur sotto attacco, loro erano visti come una delle parti in conflitto. Lo stesso materiale appena veniva raccolto e utilizzato dai registi occidentali, pareva tutto d’un tratto privo di valenza propagandistica. Il caso più eclatante è quello della Saga che ha 60 61 Ivi, cit. p.245. Ibidem 72 prodotto diversi documentari. Sarajevo: Ground Zero (1993) che intreccia i cortometraggi documentaristici girati dai membri del gruppo, fu offerto ad un vasto numero di network televisivi internazionali, ma fu rifiutato, ufficialmente perché il formato non veniva considerato “adatto”. Il collettivo decise allora, di fronte a tale trattamento, di fornire il materiale a coloro che invece consideravano il formato “appropriato”, tra cui molti documentaristi occidentali che hanno girato film sulla città. Per esempio, Lèvy per Bosna! ha fatto grande uso dei lavori prodotti dalla Saga. Mgm – Sarajevo: Covjek - Bog - Monstrum (Mgm Sarajevo L’uomo - Dio - Il mostro, 1992/4) opera collettiva di Ismet Arnautalic, Mirsad Idrizovic, Ademir Kenović e Pier Žalica, registi Saga, presenta uno spaccato di vita nel cuore di una città assediata che soffre delle costrizioni imposte dalla guerra. I tre episodi scorrono dalla vita di un uomo comune (Covjek, significa “uomo”), un cineasta che vive nella città distrutta, alla descrizione degli sforzi tesi a comprendere che cosa si cela dietro la realtà palpabile, così come appare nella realizzazione della commedia Godot-Sarajevo (Godot, ovvero “Bog” nel titolo che significa Dio), messa in scena da Susan Sontag, “provando” con i suoi attori sotto i bombardamenti, fino all’incontro con una macchina che uccide (il “mostro”), un soldato serbo, Herak, poco più che ventenne addestrato ad uccidere i civili. Tra i documentaristi italiani colui che ha dedicato il maggior impegno a Sarajevo è probabilmente Giancarlo Bocchi, filmmaker e giornalista parmense, che ha realizzato quattro film dal 1994 al 1995. Sarajevo terzo millennio (1994) segue la vita di Esse, un giovane pittore di Sarajevo, che negli ultimi quattro anni ha alternato l'attività artistica con l'impegno militare nell'esercito bosniaco. La sua vita è divisa tra il suo studio di 73 pittore all'Accademia d'arte e la prima linea dove fa l' “antisniper”, il cacciatore di cecchini. Mille giorni a Sarajevo (1995) racconta tre storie in una città assediata. Alija, cinquantacinque anni , lavorava alla radio di Stato come coordinatore dei programmi , adesso vive solo perché la famiglia si è rifugiata in Inghilterra. Graca poco più che trentenne ,era un grafico di Oslobodenje il quotidiano di Sarajevo, mentre Idaet, cinquant'anni, era un manager di una grande industria di Stato. Durante l’assedio difendono la loro città nelle trincee sulle alture che sovrastano Sarajevo. Sono "impiegati" della guerra : partono da casa nel tardo pomeriggio per andare al fronte e tornato il giorno dopo. A Sarajevo la guerra è come un lavoro qualsiasi. A differenza dei primi due classificabili come “documentari di creazione”, Morte di un pacifista (1996) è un film inchiesta più tradizionale (con voce narrante), sulla morte di Moreno Locatelli ucciso durante una manifestazione pacifista, il 3 ottobre del 1993, sul ponte di Vrbania, tristemente noto a Sarajevo come "il ponte della morte". Qui c’era stata la prima vittima nell’aprile del 1992 la giovane pacifista Suada Delberović e poi trovarono la morte Bosko e Admira (Giulietta e Romeo di Sarajevo). La responsabilità dell' uccisione di Locatelli venne frettolosamente attribuita ad un "anonimo" cecchino. Dietro questo delitto si nascondevano verità inconfessabili. Diario da un assedio (1996) raccoglie, invece, interviste e testimonianze di alcuni giornalisti italiani, che hanno vissuto gli oltre mille giorni d’agonia di Sarajevo. Ricordiamo tra i documentari italiani Raja Sarajevo di Erik Gandini che con (1995), Dopo l’assedio (2003) di Roberta Ferrati e Massimo Sciacca e i lavori di Adriano Sofri che realizza nel 1994 per il programma televisivo Mixer cinque reportages da Sarajevo, prodotti dalla Palomar: Un sabato a Sarajevo, I cani di 74 Sarajevo, La primavera di Sarajevo, Dolce Vita di Sarajevo, Il giorno che il papa non venne a Sarajevo, Soluzione Sarajevo. La città è sotto assedio da oltre due anni quando Sofri vi giunge per la prima volta, ritagliandosi nella moltitudine di telecamere piazzate dalle tv di tutto il mondo un ruolo originale a metà strada tra il reporter della vita quotidiana e il narratore. Teorizzando un “uso morale” della telecamera – con cui, dice esplicitamente, “non si deve fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a noi”-, Sofri guarda l’orrore “di sponda”, ritrovandolo nelle vicende quotidiane, nei racconti e nei volti delle donne e degli uomini della città assediata. C’è pudore negli occhi e rabbia nel cuore in quelle immagini che raccontano di bambini che giocano a pallone nelle strade, di donne e uomini che sorridono gentili. Passiamo, ora, in rassegna i film a soggetto, prima i lavori dei registi bosniaci, poi quelli di autori stranieri. Remake (2003) del sarajevese Dino Mustafić è un coraggioso tentativo di leggere la guerra degli anni '90 come una ripetizione di quanto avvenuto durante il secondo conflitto mondiale. Lo fa intrecciando due piani narrativi e temporali in una trama multiforme dai continui rimandi all’interno del testo: le vicende del padre si riverberano e si ripropongono nelle vicissitudini del figlio, a distanza di cinquant’anni. Tarik è un giovane e sconosciuto scrittore di Sarajevo. Alla vigilia della guerra in Bosnia spedisce una sceneggiatura ad un concorso in Francia. Il testo, che riguarda la seconda guerra mondiale e come suo padre sia finito in un campo di concentramento e fu poi liberato in cambio di fascisti, diventa improvvisamente la storia della sua vita. Come nel remake di un film, le vicende del padre in tempo di guerra si ripetono in quelle del figlio. Tarik viene preso prigioniero dall’esercito serbo, ma il produttore francese che aveva accettato 75 la sua sceneggiatura, aiutato dall’Onu, organizza uno scambio e lo porta a Parigi. Lì, per puro caso, incontra il suo aguzzino del campo di prigionia e medita propositi di vendetta. Go West (2005) del promettente regista Ahmed Imamović per le tematiche affrontate ha suscitato numerose polemiche tra gli ambienti più reazionari della piccola repubblica balcanica. E’ una storia d’amore tra due giovani uomini durante la guerra. Milan, uno studente serbo, e Kenan, un musicista musulmano, vivono nella capitale bosniaca Sarajevo, le loro vite sono sconvolte dall’aggressione militare alla Bosnia-Erzegovina, le cui devastanti conseguenze portano alla luce pregiudizi razziali, che sembravano dimenticati. Decidono di fuggire insieme dalla città assediata dai serbi con il progetto di raggiungere Amsterdam, dove sperano di poter finalmente vivere in pace. Ma scappare non è semplice e Milan riesce a far passare Kenan attraverso le linee degli assedianti soltanto facendolo travestire da donna e spacciandolo per la sua promessa sposa. Con questo stratagemma i due arrivano nel villaggio natale di Milan, dove Kenan rimane travestito e viene presentato ai parenti con il nome di Milena. Mentre i due si preparano al grande salto verso l’occidente e la libertà di amarsi, il padre di Milan insiste per farli sposare e organizza la festa di matrimonio. Faruk Sokolović è autore di The Tunnel (1999) e Milky Way (2000). Il primo adotta un procedimento per certi versi simile al film di Mustafić nell’interpretazione del presente, come rilettura del passato. L’ingresso fisico nel tunnel (uno dei simboli della resistenza di Sarajevo) di un vecchio rifugiato della Bosnia, segna simbolicamente i suoi ricordi degli anni ’50 e del suo amore giovanile distrutto dalla gelosia e dalla vendetta di un poliziotto serbo, con le immagini delle persecuzioni “staliniane” contro il movimento dei “Giovani musulmani”. La storia di Milky 76 Way si svolge nella Sarajevo del dopo-Dayton: due coppie, una musulmana e l’altra croata, che vivono da un capo all’altro della città, intenzionate ad emigrare in Nuova Zelanda, cercano di eludere la legge sull’emigrazione, che consente solo alle coppie miste l’ottenimento dei documenti per l’espatrio. Srdjan Vuletić, considerato da Pjer Žalica (Benvenuto Mr.President) uno dei giovani registi bosniaci più interessanti, ha esordito con il suo primo lungometraggio nel 2003, Ljeto u Zlatnoj dolini (Estate nella valle dorata), anch’esso ambientato nella capitale bosniaca appena uscita dalla guerra e intriso di humour nero tipicamente balcanico, è il doloroso racconto di una società agonizzante, che cerca di sfuggire al suo declino. Fikret è un adolescente che passa il suo tempo per strada a bighellonare sognando una vita ricca e opulenta, con un amico "all’occidentale". La monotonia del loro quotidiano è rotta dalla morte del padre di Fikret, al funerale si presenta un uomo che pretende dal ragazzo la somma di un debito che il padre non gli ha mai pagato. Il ragazzo obbligato a rispettare i patti, per cercare i soldi, comincia, insieme all’amico, a frequentare persone sempre più losche, precipitando in un vortice di violenza. Nel 2002 è uscito in sala Il temporale-Nevrijeme con cui il regista italiano Gian Vittorio Baldi ha rinnovato la sua idea di cinema fatto rigorosamente in presa diretta. Nel film ci troviamo nel 1992, in una Sarajevo devastata dalle bombe e dalla mancanza di cibo, Sveto, un usuraio di cultura e religione ortodossa compra e vende di tutto, oggetti e anime, utilizzando il potere e le minacce. E' lui il perno di tre storie d'amore: la sua per Djula, zingara giovane e bella a servizio nella sua casa; quella di Blanka una ragazza (uccisa da una granata) che vive un amore assoluto e viscerale per un ufficiale dell’esercito bosniaco e infine quella di Suljo, un bambino di religione musulmana orfano di guerra, 77 innamorato di Kata, una bambina sua coetanea, di religione cristiana. Baldi coniuga con uno stile personale realismo e poesia, incastonando nel tessuto narrativo del film i diversi punti di vista dei personaggi. E’ stato girato interamente con camera a mano, tra Sarajevo e l’Appennino Tosco-Emiliano, senza illuminazione artificiale, presa del suono diretta (con lingue e dialetti diversi dal bosniaco al siriano fino al romagnolo). Tutti questi elementi consentono al regista di rimanere il più possibile vicino alla drammaticità degli eventi e concorrono a definire il linguaggio rigoroso di Baldi. La pellicola è scandita da finestrefotografie di una Sarajevo fantastica, dove convivono sinagoghe, moschee con i loro minareti, cattedrali cattoliche e chiese ortodosse. Le "finestre" sono state colorate a mano e i colori sono arbitrari e costruiscono quella che l’autore ha chiamato una topografia fantastica. Sarajevo era un esempio unico, in cui, convivevano i turcomanni, i serbi ortodossi, gli austroungarici, i dalmati di origine veneziana, gli ebrei sefarditi. Oggi la maggioranza è costituita di bosniaci musulmani. “Avrebbe potuto essere un esempio per la nuova Europa. Non lo è più”. Notre Musique presentato a Cannes nel 2004, segna un ritorno, dopo Forever Mozart, di Jean-Luc Godard ai temi della guerra e dell’ex Jugoslavia, ancora una volta attraverso il suo sguardo sperimentale e personalissimo. Il film è diviso in tre parti: Inferno, Purgatorio e Paradiso. La prima è risolta attraverso un montaggio di immagini sulla guerra, da Ejzenštejn a Hollywood, senza ordine cronologico né divisioni storiche. La seconda, “Purgatorio”, la parte più importante (un’ora di durata all’interno dei complessivi ottanta minuti), è ambientata a Sarajevo, durante gli “Incontri Europei del Libro”. Godard, presente direttamente nel film (fu invitato ad una conferenza) rincorre luoghi della memoria e della speranza: si concentra sull’apertura 78 del salone del libro e sulla ricostruzione del ponte di Mostar, completata recentemente. Il Purgatorio si rivela come una metafora della vita persa in un clima sospeso tra gli orrori di una catastrofe vicina e la speranza per un futuro migliore. A Sarajevo incontra Olga, una ragazza ebreo-russo-francese, ossessionata dal conflitto palestinese, che riflette attraverso la letteratura e la filosofia sul significato del suicidio. Olga di ritorno dal viaggio in Bosnia entra in un cinema di Gerusalemme con uno zaino “sospetto” e chiede agli spettatori di restare “per la pace”. Se ne vanno tutti e la polizia la uccide. Nello zaino aveva solo libri. L'ultima parte del film mostra una giovane donna che ha trovato la pace su una piccola spiaggia al bordo del mare, è Olga che gioca con gli angeli, alcuni marines vigilano su di lei. Notre musique è un film-saggio che mescola fiction e materiali di repertorio, recitazione e verità in un progetto d´intransigente radicalismo poetico. A colori e in bianco e nero, con parole, musica e immagini, Godard, contemporeanamente, denso e sintetico, percorre la sua Divina Commedia. Un’opera che parla di cinema e di politica, di attualità e di assoluto, come sempre nella filmografia del regista francese. Ispirato al libro omonimo di Arturo Perez-Reverte, Territorio comanche (1997) è una coproduzione internazionale che vede alla regia lo spagnolo Gerardo Herrero. La pellicola è il racconto della guerra in Bosnia vista da una troupe di giornalisti della televisione spagnola. Laura una giovane reporter, in cerca di sensazionalismo, si reca a Sarajevo per seguire la cronaca dell’assedio. Conosce Mikel un reporter di esperienza e di ferme convizioni, con lui anche Josè un cameraman. Herrero mette in scena le derive dell’informazione-spettacolo. Quando la troupe intervista un cecchino sul posto come fosse una “curiosità” locale, l’obiettivo della macchina da presa si confonde con il 79 mirino del fucile, mentre parte un colpo. La camera registra in diretta la morte di un uomo. Il film attacca il voyeurismo dei giornalisti e dei telespettatori, quasi come complici della morte in diretta. Altri registi si sono confrontati con il formato del cortometraggio. Presentato in concorso a Cannes nel 2001, Prima esperienza di morte (Prvno smrtno iskustvo, 2001) di Aida Begić, giovane filmmaker bosniaca, racconta la storia di disegnatore di fumetti, ventunenne, che vive a Sarajevo. A guerra finita, nel 1996, si reca negli uffici comunali per rinnovare la carta di identità e scopre di essere stato registrato come deceduto. Da quel momento il ragazzo deve dimostrare di essere ancora vivo. Una storia assurda, a tratti surreale - ma a Sarajevo può succedere di tutto -, che affronta i problemi delle nuove generazioni, la loro identità e la mancanza di politiche giovanili. E’un ritratto simbolico di un intero paese smembrato a causa della guerra. Attraverso un sottile senso dell'umorismo, supportato dalle tavole disegnate da Dado, fumettista, la regista riesce con leggerezza a raccontare una situazione difficile e complessa, come la guerra e il periodo successivo. Racconto di guerra (2003) di Marco Amura è ambientato nel 2003; narra di un gruppo di paramilitari che utilizza i bambini che non hanno più casa né famiglia per saccheggiare le case abbandonate a Sarajevo. In cambio li lasciano abitare una vecchia fabbrica, danno loro da mangiare e non li uccidono. Il film nella sua crudezza è lontano dalla retorica e dall'inutile spettacolarità mediatica. Ahmed Imamović è l’autore di 10 Minuta (2002); un montaggio parallelo tra due luoghi diversi: Roma e Sarajevo, nel 1994, su quante cose differenti possano accadere contemporaneamente in soli dieci minuti. (A)Thorzia dello sloveno Stefan Arsenijević, sceneggiato da Abdulah Sidran, 80 racconta l’avventura di un coro di dilettanti che negli anni dell’assedio, per partire alla volta di una tourneé in Europa, è costretto a attraversare il fantomatico “Tunnel” di Sarajevo, unico Jasmila canale con Žbanić, l’esterno per i cittadini sarajevese, ha girato due della capitale. cortometraggi, presentati ambedue al “Torino film festival” del ’98 e del 2000. Protagonisti di Noc Je, Mi Svijetlimo (1998) sono i gemelli venticinquenni Sead e Nihad Kresevjaković (Do you remember Sarajevo?), mentre realizzano un film su se stessi. Le riprese si svolgono in una Sarajevo postbellica, durante il mese del Ramadan. Sopravvissuti alla guerra in Bosnia, ora sono affetti da una sindrome post-traumatica: prendono la vita con uno stridente sense of humour. In Crvene Gumene Cizme (2000) Jasna P. è alla ricerca dei suoi due bambini, Amar e Alja, uccisi dall'esercito serbo durante la guerra in Bosnia e poi sepolti in una fossa comune. L'unico indizio sono degli stivaletti rossi, che suo figlio indossava quando venne rapito. “Ho sognato prima dell’alba di avere capelli lunghi, lunghissimi e la barba. Tutto il mio volto era coperto di peli e intravedevo la fossa. Cosa sarebbe successo se Jasna oggi avesse scoperto gli stivaletti rossi nella fossa? Sarebbe sopravvissuta? E se invece non li avesse trovati?”62. 62 In “Catalogo” 18° Torino Film Festival (17-25 novembre 2000), p.27. 81 3 B OSNIA -E RZEGOVINA Con la disgregazione della Jugoslavia pareva inevitabile il tracollo della Bosnia, la repubblica più multietnica di tutta la federazione e la più pacifica. E se i segnali erano già nell’aria nei primi mesi del 1992, nessuno voleva vederli. In Slovenia avevano combattuto, in Croazia combattevano, ma sulla Drina, nella zona di Srebrenica, dicevano che non sarebbe successo. Non fu così, la repubblica sprofondò in una drammatica spirale di violenza e di odio etnico: dal 1992 alla fine del 1995 in Bosnia Erzegovina si verificò la fase più lunga e cruenta di tutte le guerre jugoslave. Il crollo del ponte di Mostar, bombardato dalle truppe croate il 9 novembre del 1993, fu una delle immagini più emblematiche del conflitto. Non veniva abbattuta solo una via di comunicazione, cadeva una metafora, assai più forte, quella del legame tra culture diverse, splendidamente ritratta da Ivo Andric63. Si colpivano i simboli: i ponti, le città e le biblioteche, per mettere in dubbio una convivenza secolare. Due furono i conflitti principali: tra serbi e musulmani e tra, gli ex alleati, croati e musulmani. Quattro anni di guerra: Sarajevo vittima di un assedio infinito, migliaia di villaggi incendiati, oltre 200 mila morti e tre milioni di profughi (vittime della pulizia etnica operata nel corso della guerra da tutte e tre le etnie principali), a cui si aggiunge un numero incalcolabile di feriti. E 63 «Di tutto ciò che l'uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti. I ponti sono più importanti delle case, più sacri, perché più utili dei templi. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, [...], più duraturi di tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto o al malvagio.[...] Ovunque nel mondo, in qualsiasi posto, il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell'uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi... ». Ivo Andric, I ponti, in Racconti di Bosnia, tr.it. D. Badnjevic Orazi, Newton-Compton, Roma 1995, pp.156-157. 82 poi i campi di concentramento, tragicamente ricomparsi nella civile Europa cinquant’anni dopo la sterminio nazista, fino al genocidio operato dalle milizie serbo-bosniache ai danni dell’enclave musulmana di Srebrenica nel luglio del 1995 (8 mila morti). Gli accordi di Dayton del novembre del 1995 hanno interrotto il conflitto ma di certo non sono stati risolutori. Ora la Bosnia Erzegovina è divisa in due entità: Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e Republika Srpska (serba). In questo capitolo analizzeremo come il conflitto bosniaco sia stato rappresentato dai media audiovisivi in particolare dal cinema, tralasciamo i film direttamente interessati a Sarajevo, che merita uno spazio a sé all’interno della ricerca. In particolare la riflessione riguarderà: Pretty Village Pretty Flame (1996) di Srdjan Dragojević, Beautiful People di Jasmin Dizdar (1999), No Man’s Land di Danis Tanović, La vita è un miracolo (2004) di Emir Kusturica, Benvenuto Mr.President (2003) di Pjer Žalica e i documentari su Srebrenica. 3.1 Pretty Village, Pretty Flame E’ la seconda opera (titolo originale Lepa Sela, Lepa Gore) di Srdjan Dragojević, regista serbo, uno degli autori più interessanti del nuovo cinema balcanico. Il soggetto del film è ispirato ad un fatto realmente accaduto nell’autunno del 1992, quando un gruppo di soldati serbi rimase intrappolato in un tunnel vicino a Visegrad, assediato da truppe musulmane. L’articolo che riportava il fatto, da cui ha preso spunto lo sceneggiatore Vanja Bulić, fu pubblicato dalla rivista “Duga”, vicina al regime di Milošević, con un tono propagandistico da cui il film, invece, è stato completamente spogliato, scegliendo un più sobrio e complesso sguardo sulla 83 controversa esperienza della guerra, da una posizione antinazionalistica. La vicenda è inserita in un più ampio intreccio narrativo, dal quale emerge la storia di Milan e Halil, amici fin dall’infanzia, separati dalla guerra. Il film presenta una struttura non-lineare, una narrazione frammentata che si muove attraverso quattro diversi periodi: 1971, 1980, 1992 e 1994 (in questi ultimi due anni si svolge la maggior parte della storia), senza una scansione cronologica, ma con un ritmo dettato da continui flash-back e flashforward, tanto che è spesso difficile, soprattutto all’inizio, per lo spettatore riconoscere i diversi piani diegetici in cui gli eventi si svolgono. Un falso cinegiornale definisce il prologo metadiegetico del film. Nel 1971 viene inaugurato, vicino ad un piccolo paese della Bosnia, il “Tunel Bratsvo i Jedinstvo”, il tunnel dell’unità e della fratellanza (vocaboli cardine della retorica titoista), che avrebbe dovuto simbolicamente unire i popoli della Jugoslavia, posto su una strada che congiungeva Belgrado a Zagabria. Durante il taglio del nastro il politico venuto da Belgrado si ferisce il dito, il sangue schizza sul volto di una bambina: un’immagine grottesca che fa presagire la futura tragedia. Nove anni dopo, nei primi giorni del dopo-Tito due bambini si trovano davanti al tunnel, già in disuso: sono Milan e Halil, il primo di origine serba, l’altro musulmano. Niente di più normale e naturale nella Bosnia multietnica. Pensano che dentro alla galleria ci sia un orco o il diavolo che dorme, se si sveglia incendierà il villaggio. Torneranno il giorno dopo, armati con il coltello della nonna. Scorrono i titoli di testa e in poco tempo ci troviamo di fronte ad una scena concitata: una barella viene portata di corsa lungo i corridoi dell’ospedale militare di Belgrado, siamo nel 1994. Il soldato ferito è Milan. Da lì, partiranno i suoi ricordi di guerra e 84 di gioventù che si intrecciano nel corso del film, delineandone la struttura portante. Un semplice stacco di montaggio ci riporta due anni addietro, in Bosnia al primo giorno di guerra; Milan e Halil giocano a basket davanti nella spiazzo accanto al bar di Slobo, non pensano che la guerra sia alle porte. Dopo poco tempo, si arruoleranno nelle rispettive formazioni militari. La guerra scoppia sprigionando tutta la sua violenza e li divide irrimediabilmente. La truppa di miliziani serbo-bosniaci di cui fa parte Milan, saccheggia il suo villaggio e incendia la casa di Halil e l’officina che i due amici avevano messo in piedi. Milan non resiste e spara alle gambe dei suoi compagni. Intanto, dalla casa esce con la refurtiva Slobo, colui che diventerà profittatore di guerra e cercherà di dividere con le menzogne Halil e Milan. La madre di Milan viene uccisa, ma non dalla banda di Halil, come gli rivela Slobo. Lo rivedrà impellicciato e pieno di gioielli in ospedale a lanciare regali, senza ritegno, ai feriti di guerra. Durante un’azione militare, vicino al villaggio dei due protagonisti, il gruppo di Milan, si nasconde nel tunnel ma rimane intrappolato dai soldati musulmani giunti all’esterno. L’esperienza della truppa serba, assediata nel tunnel, diventa la linea narrativa principale e permette all’autore di approfondire i personaggi secondari che convivono con Milan durante i dieci giorni di assedio, ai quali si aggiunge casualmente una spaventata giornalista americana, che si era nascosta nel furgone di uno di loro. Diverse e contrastanti sono le motivazioni che li hanno portati in guerra. Attraverso una narrazione nonlineare, Dragojević ricostruisce, con un mosaico irregolare di diversi flashback, i percorsi individuali che hanno portato i soldati a trovarsi insieme nella galleria. Dall’anziano capitano dell’Armata popolare, Gvozden Maksinović che si era fatto 350 85 chilometri a piedi per andare al funerale di Tito a Barzia (il soprannome, traducibile in italiano con “Svelto” o “Speedy” in inglese), tossicodipendente, figlio di un ex colonnello dell’esercito jugoslavo, che in preda alle droghe si era lanciato su un camion di militari inneggianti la Grande Serbia; da Velja, che di ritorno dalla Germania, dove si era arricchito in traffici criminali, aveva sostituito il fratello, studente di archeologia, davanti alla chiamata militare (si suiciderà nel tunnel), a Petar, professore e poeta, fino a Fork (con barba e capelli lunghi in vero stile “cetnico”) e a Laza, contadini un po’ sempliciotti, condizionati dalla propaganda della televisione. Uno spaccato della società serba, certo parziale, ma ben caratterizzato, che il regista pone in dialogo con altre realtà. Nell’ospedale di Belgrado dove vengono ricoverati i tre superstiti (Milan, Barzia e Petar), feriti gravemente, le cure scarseggiano, i medici considerano i ricoverati degli “stranieri”, le infermiere si fanno sedurre dai soldati di guardia trascurando i malati, in strada i cittadini, tra cui un gruppo di intellettuali, manifestano per la pace e contro un regime che manda in guerra la gioventù di un Paese. Affiorano tematiche presenti nella società serba degli anni Novanta, come il contrasto tra città e campagna o gli scontri generazionali. Nella città cosmopolita, dove fervono posizioni e sentimenti diversi rispetto alla guerra, c’è chi si oppone (le manifestazioni di studenti ed intellettuali), chi la sente lontana o la ignora (le infermiere dell’ospedale), chi partecipa all’ondata nazionalista o chi vi è appena giunto, come i profittatori di guerra arricchitisi speculando sulla tragedia, rappresentati da Slobo (nome e diminutivo scelti non a caso). La campagna rurale, semplice e passionale, più condizionabile dalla propaganda televisiva nazionalista, su cui appunto vuole far presa, come nel caso di Laza che, in una sequenza a tratti surreale, ascoltando al 86 telegiornale (insieme ai parenti in mezzo ad un prato) il rischio di genocidio dei serbi da parte degli ustascia croati, si alza, senza proferir parola si dirige verso la strada, fa l’autostop ricevendo il passaggio da un autotrasportare a cui comunica la sua scelta di combattere per difendere il suo popolo. Un breve dialogo che il regista risolve con un campo-controcampo, prima inquadrando da solo Laza, che esterna la sua indignazione e poi afferma “il piede del crucco e del turco non toccherà più questa terra”, controcampo dell’autista, probabilmente turco, vicino al quale è appesa una piccola mezzaluna con una stella, simboli classici dell’Islam, (nonché della bandiera della Turchia) che annuisce dicendo “Ja Ja”. Chiude la sequenza “surreale” una domanda di Laza su come vada in Svezia. Compressi nel tunnel ognuno esterna idee, emozioni e rabbia. Come quando Liza, la reporter americana, improvvisa un’intervista, con tanto di videocamera, a Barzia/Speedy, che esprime il suo disprezzo nei confronti del padre ex ufficiale dell’Armata Jugoslavia “mascalzone e alcolizzato per tradizione”, a quel punto insorge il capitano Maksinović “Cosa dici imbecille?”; Velja chiede a Barzia di continuare, lui sarà il secondo a parlare davanti alla camera. Nasce un diverbio tra il capitano che accusa Velja di aver “taglieggiato le vecchiette in Germania, vergogna rubare agli onesti” e lui che è stufo della retorica comunista sull’onestà attacca Maksinović: “E la tua onestà? Fai la guerra per fregarti i gradi”. Con toni estremizzati, emerge quel contrasto che forse impropriamente potremmo definire “generazionale” tra gli anziani, ancora legati all’ideologia di Tito basata sull’unità e la fratellanza, e le giovani leve ormai disilluse. Dragojević smonta la mitologia dell’eroe serbo, analiticamente e allo stesso tempo con irriverenza e ironia. Gli improbabili eroi 87 della squadra “cetnica”, sono votati alla morte nell’assurdità della guerra. Il regista non nega un’umanità ai suoi personaggi, ma è la guerra che fa uscire il peggio da ognuno di noi. Attacca prepotentemente la pulizia etnica, montando in una sequenza le immagini di incendi dei villaggi, operate dai soldati di Maksinović, su musica rock, riecheggiando indirettamente The End dei Doors in Apocalypse Now. Bruciano villaggi di cui nemmeno conoscono il nome: “I bei villaggi sono belli quando bruciano, quelli brutti sono brutti anche quando bruciano” dice Velja, davanti allo sguardo ancora attonito di Milan, che si farà trascinare completamente dalla violenza e dall’odio solo alla fine del film. A parte il personaggio di Halil, i musulmani rimangono ombre all’estremità della galleria, ogni tanto si affacciano per sparare, ma sentiamo spesso i loro rumori e le voci, il dileggio tra i due gruppi. “You don’t see a lot of Muslims on the film. They are in the shadows, but this is good because this is a movie we made about ourselves. The sterotype is that the Serbs are the best, cleanest, true heroes. We attacked this mythology” ha spiegato lo sceneggiatore Bulić.64 Nel corso del film tra i personaggi rinchiusi nel tunnel, al di là delle differenze che li separano, si crea una sorta di solidarietà, la stessa giornalista americana sfata i suoi luoghi comuni sui “cattivi“ serbi. Ma è nel complesso della vicenda che notiamo invece come ci siano più similarità tra alcuni soggetti dei due gruppi rivali, che tra i membri della stessa truppa. Milan è di certo più vicino, per cultura, sensibilità, formazione, ad Halil, che al suo capitano, che a sua volta appartiene alla stessa classe sociale del collega musulmano, con il quale è stato compagno all’Accademia militare. Dragojević, in questo modo, confuta la 64 D.Iordanova, Cinema of flames, cit. p.145. 88 teoria semplificata di una guerra di matrice etnica, dovuta alle insormontabili differenze tra i popoli della Jugoslavia. Pretty Flame, Pretty Village non risparmia la violenza della guerra allo spettatore, alcune immagini di villaggi incendiati sono addirittura reali. Fa un gran uso di humour nero, che smorza solo in parte la tensione e rende ancora più assurda la guerra. La seconda opera di Dragojević è segnata da un ardito sperimentalismo su un piano stilistico e narrativo, sottolineato dalla struttura non lineare, che come ha scritto James Berardinelli potrebbe far sembrare Pulp Fiction un film lineare65. La macchina da presa si muove, senza soluzione di continuità, da un periodo storico all’altro. I primi anni Novanta riferibili ai due grandi blocchi 1992 e 1994, vanno oltre questa distinzione e sono più dilatati e intrecciati tra loro. Possiamo in parte ricondurre il film all’articolata classificazione che Robert Rosenstone ha chiamato “post-modern historical filmmaking”66. Pretty Flame, Pretty Village evita, infatti, una narrazione tradizionale con un inizio, una parte centrale ed una fine, riordinando in altro modo questi elementi, frammentariamente; mescola passato e presente, fiction e documentario e si concede creativi anacronismi; l’approccio alla Storia avviene anche attraverso parodia e ironia; affronta il passato in termini auto-riflessivi. Alla fine Milan e Halil si incontrano fuori dal tunnel, la guerra e la storia collettiva che si è frapposta fra loro, li ha divisi irrimediabilmente. Tra le fiamme, si rinfacciano delitti non commessi (la madre sgozzata, la casa e l’officina incendiata, episodi in cui centra direttamente Slobo). Halil chiede allora se 65 James Berardinelli, Pretty Village, Pretty Flame, “Reel Views” (moviereviews.colossus.net), 1997. 66 Robert Rosenstone Rosenstone R., The Future of the Past: Film and Beginnings of Postmodern History, cit., p.206. 89 l’autore fosse stato l’orco, quello di cui avevano paura da bambini, morirà di lì a poco per un’esplosione di una granata. Milan lo troviamo, invece, morente in ospedale dissanguato, dopo essersi trascinato per il corridoio per raggiungere un prigioniero di guerra musulmano, mentre Petar il professore tentava di fermarlo. Le sue ultime parole sono contro l’orco maledetto. L’ultima breve sequenza, a-temporale e simbolica, è risolta con una carrellata in avanti sopra una lunga fila di cadaveri e termina con un mezzo primo piano di Milan e Halil bambini. Si trovano all’inizio del tunnel, ai loro piedi anche i corpi esamini di loro due adulti, i bambini tengono in mano una pentola e una pistola giocattolo, come si erano accordati per affrontare l’orco. I due bimbi si voltano e fuggono via, scappano dal mostro che liberatosi ha sprigionato tutta la sua violenza. L’orco è una metafora multiforme; può rappresentare la Storia che ritorna ciclicamente con le sue guerre, i politici corrotti, i media propagandistici o prendere forma fisica nella figura ambigua di Slobo, il gestore del bar del villaggio. L’epilogo come il prologo, proprio per descrivere questa circolarità drammatica, è costruito come un falso cinegiornale ambientato negli anni Novanta, durante l’inaugurazione del tunnel prontamente ricostruito, l’autorità invitata si ferisce il dito, presagendo una potenziale e futura distruzione. Il film dall’indubbio valore artistico, ricevette reazioni contrastanti, come d’altronde la maggior parte dei film sulla Jugoslavia usciti subito dopo il conflitto. Alcuni lo criticavano perché ritenesse tutte le parti in causa unitamente responsabili, altri intravedevano elementi filo-serbi quando invece il film era boicottato dallo stesso Radovan Karadžić (leader dei serbo- 90 bosniaci), altri ancora riscontravano invece un ritratto troppo lugubre della Serbia. A livello internazionale ottenne numerose critiche positive soprattutto negli Stati Uniti (in Italia non è stato distribuito), dove fu spesso paragonato ai film sul Vietnam come Apocalypse Now e Full Metal Jacket. Veniva sottolineata la rappresentazione della complessità del conflitto e l’attenzione, per comprenderne i motivi dell’esperienza, agli “oppressori” serbi. Michael Wilmington sul “Chicago Tribune” parlò del film come “truly audacious spirit”67. Come afferma il sociologo Srdjan Stanković, l'opera di Dragojević “non vuole compromessi. Non accetta né l'immagine locale e popolare dei serbi come difensori della loro patria, né la generalizzata immagine internazionale dei musulmani come uniche vittime, né, infine, l’immagine che deriva dai reclami ufficiali della Serbia che afferma di non aver partecipato al conflitto"68. E' un film polemico e coraggioso, che sa esprimere con forza la critica dissacratoria di un intellettuale libero da pregiudizi e opinioni faziose. 3.2 Beautiful People Cinque anni dopo Prima della Pioggia (1994) torna, in un film sulle guerre jugoslave, l’asse anglo-balcanico, come punto di vista privilegiato, scelto dal bosniaco Jasmin Dizdar, da anni residente a Londra, per riflettere sui conflitti che hanno investito la sua terra d’origine. 67 D.Iordanova, Cinema of flames, cit.p.147. Drobilovic L., Il cinema serbo-croato: considerazioni sociologiche, “Fucine Mute” (www.fucine.com), gennaio 1999. 68 91 Con Beautiful People l’autore costruisce un articolato intreccio narrativo attraverso un mosaico di storie e oltre venti personaggi, tutti coinvolti nelle vicende della Bosnia, che si trovino a Londra o nell’ex Jugoslavia. Un iniziale “short cut”, riadattato dal modello originale di Altman (America Oggi 1993), delinea le diverse esistenze dei suoi personaggi, che si incontrano tra loro accidentalmente. Ci troviamo a Londra nell’ottobre del 1993. Mentre tutto il paese è in spasmodica attesa della partita di calcio, che si giocherà in serata fra la nazionale inglese e l'Olanda, la guerra nella ex Jugoslavia è giunta al suo culmine. La città di Srebrenica è sotto assedio serbo e le Nazioni Unite si stanno organizzando per paracadutare sul posto generi di soccorso rivolti agli abitanti, intrappolati nell’enclave. Su un autobus londinese si incontrano un serbo ed un croato; riconoscendosi rinnovano il loro astio scatenando una grottesca rissa. Intanto il dottor Mouldy, medico del servizio sanitario nazionale, sta per essere lasciato dalla moglie, pur stanco e sfiduciato riesce comunque a confortare la giovane paziente bosniaca Dzemila, incinta di un bambino non voluto, frutto di uno stupro etnico. Nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, Roger, direttore di una scuola elementare è triste perché vede il figlio ventenne, Griffin, traviato dalla cattiva compagnia dei coetanei Jim e Bigsy. I tre, tutti disoccupati e tossicodipendenti, decidono di andare a Rotterdam a vedere la partita. Ma qualcosa va storto: Griffin si ritrova sull'aereo sbagliato, viene paracadutato in Bosnia e qui partecipa ad azioni di soccorso in mezzo ai combattimenti. George Thornton, deputato dei Tory, la moglie Nora e il figlio Edward sono i prototipi dell'alta borghesia. Reagiscono con sospetto e disapprovazione quando la figlia Portia, neo dottoressa, si innamora di Pero, un suo paziente ex soldato 92 proveniente dalla Bosnia. Kate Higgins vive, invece, in uno stato di ansia prolungata legata a quello che potrebbe succedere al marito, corrispondente di guerra della Bbc. Lo sguardo di Dizdar arriva a frantumare la macrostoria in un autentico collage di microstorie, ricco di ironia e sarcasmo. Per forma e struttura, Beautiful People richiama La polveriera (1998) di Goran Paskaljević, sviluppando una costruzione ad incastro e in crescendo, mescolando registri diversi su un fondo grottesco; qui con una prevalenza di toni malinconici, nel film di Paskaljević tragici. Le differenze tra i due film, ha scritto Enrico Danesi, sono invece di tempo e di sostanza: ”La polveriera, col suo carico di violenza implosa è un grido di dolore contro il vacuo calderone delle rivendicazioni razziali e religiose che ciascuno riempie di personali grettezze; Beautiful People, che segue l’esplosione, inscena una possibile ricomposizione dei frammenti attraverso il recupero dell’umanità perduta e del senso dell’altro nel finale di ciascuna delle singole vicende, suggellato dalla composizione a livello di cornice”69. Dizdar sceglie i toni della commedia amara non risparmiando la tragicità e le contraddizioni della guerra. Vuole riflettere sul conflitto dell’ex Jugoslavia con le armi del paradosso (l’episodio surreale di Griffin, paracadutato per caso in Bosnia, deve molto allo stile di Danny Boyle), della commedia beffarda, dell’apologo poetico e della satira graffiante. Le tensioni etniche della Jugoslavia, apparentemente estranee alla capitale inglese, piombano a Londra, facendo riaffiorare analogie con la storia passata della Gran Bretagna nel dialogo tra un paziente gallese e i due profughi dell’autobus, ricoverati in ospedale dopo il litigio. 69 E.Danesi, Beautiful People, “Duel”, n.78, marzo 2000. 93 Il rapporto tra l’Inghilterra e la Bosnia, all’inizio distaccato o difficile, dà vita cambiamenti a nuove, radicali anche nell’esperienza positive, di relazioni ciascuno. e a Tutti i personaggi provano ad accettare gli altri e a cambiare se stessi. Griffin, tornato da Srebrenica quasi da eroe, ha portato con sé un bambino cieco salvato dalla guerra. Pero e Portia superano le diffidenze parentali e si sposano. All'ospedale, il serbo e il croato, senza placare del tutto i disaccordi si mettono a giocare a carte con gli infermieri. Nasce il bambino della coppia bosniaca, si chiamerà, non a caso, Caos. Il cronista traumatizzato dall’esperienza di guerra in Bosnia si dimette dalla Bbc e parte per un viaggio di riposo con la moglie. Il finale riconciliatorio non è del tutto un happy-end, è una concreta speranza: la convivenza passa attraverso la conoscenza e l’accettazione del diverso da sé, ma implicitamente il film pare avvertirci che i drammi della Storia ritornino. “Dizdar sin dalla prima sequenza ci descrive hegelianamente un Mondo e una Storia che vanno avanti proprio in virtù della tensione dialettica tra i poli opposti che li animano dall’interno e che si ripercuotono nella stessa accurata resa stilistica”70. Al rapido montaggio alternato della zuffa tra il serbo e il croato, costruito a ritmo di musica e alla mobilità agitata della macchina da presa intenta a riprendere il litigio, si oppongono inquadrature simmetriche e primi piani da cavalletto che incorniciano l’interno alto borghese della famiglia di Portia. E allora seguendo, di pari passo, la filosofia hegeliana non può che scaturire, da una tesi e da un’antitesi, una sintesi, che ci si augura capace di mettere finalmente pace tra le parti in conflitto. 70 Guidetti N., Lunga vita al piccolo Caos, “Cineforum”, n.394, maggio 2000. 94 3.3 No man’s land Danis Tanović, insieme a Pjer Žalica, è l’esponente più importante del nuovo cinema bosniaco, sviluppatosi dopo la fine del conflitto. Tutte e due hanno avuto un passato da documentarista. Nel 1992 quando iniziò la guerra Tanović, aveva ventitré anni ed era studente dell’Accademia d’Arte di Sarajevo; tra la pazzia e la fuga – come ha ribadito in diverse interviste – scelse la passione, sotto forma di cinepresa, con cui filmare tutto ciò che vedeva per strada. Entrò a far parte della Armata bosniaca, come operatore audiovisivo e poi responsabile dell’archivio filmico, successivamente collaborò insieme al regista Dino Mustafić (Remake, 2003) alla Commissione di indagine sui crimini di guerra e fu uno degli animatori del collettivo di cineasti Saga, guidato da Ademir Kenović. Nel 2001 riesce a realizzare il suo primo e fortunato lungometraggio, No Man’s Land, che oltre al premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes, ha conquistato nel 2002 il primo Oscar per la Bosnia-Erzegovina. Il film è ambientato nel 1993, durante la guerra di Bosnia. Due soldati, Ciki e Nino, uno bosniaco e l'altro serbo, si trovano isolati tra le due linee nemiche, nella cosiddetta “terra di nessuno”, esattamente in mezzo alle prime linee degli schieramenti contrapposti. Con loro c’è anche Cera, commilitone di Ciki, che poco prima sembrava morto ed era stato usato dai serbi come esca mortale, piazzandogli una mina sotto la schiena; non può muoversi altrimenti rischierebbe di esplodere. Ciki e Nino sembrano disposti, dopo le prime scaramucce, a collaborare, ma con il trascorrere delle ore la tensione tra di loro sale. Un casco blu francese cerca di aiutarli, violando l'ordine dei suoi superiori di un Onu inerme. I media si impadroniscono del caso trasformandolo in uno spettacolo mediatico internazionale. La 95 situazione diventa sempre più tesa e i due soldati devono negoziare il prezzo della loro vita nella follia della guerra. Davanti a loro non resta che il dramma. Tanović non ripercorre la storia della guerra, né indaga i motivi della dissoluzione di una nazione, sceglie di lavorare su una messa in scena del conflitto, che a partire dalla contingenza bosniaca si spinge verso una riflessione più ampia dell’assurdità bellica. “Conosci la differenza tra un pessimista e un ottimista? Il pessimista pensa che la situazione non possa peggiorare, l'ottimista sì”, è una delle prime battute del film, pronunciata da uno dei membri di un piccolo gruppo di soldati bosniaci musulmani, dalle divise scombinate, persi nella nebbia, che avanzano imprecando, a tentoni, prima di fermarsi per attendere l’alba. E' con questo freddo umorismo che si apre il sipario della tragedia umana a cui lo spettatore sta per assistere. I militari si sveglieranno proprio sotto una postazione serba e verranno tutti uccisi, tranne due: Ciki e Cera. Allo stesso tempo, le due semplici frasi, introducono il registro del tragicomico, uno degli assi portanti del film. Tanović, se dovessimo rispondere alla battuta di prima, è un “ottimista” perché ha vissuto la guerra e ne conosce gli imprevisti e la crudeltà; la situazione non può che peggiorare. Nino, giovane soldato, viene mandato dall’ufficiale serbo ad ispezionare, insieme ad un collega più anziano (colui che decide di collocare la mina sotto il corpo di Cera) cosa sia successo in mezzo alla trincea, dopo che loro hanno fatto fuoco. L’imboscata si capovolge improvvisamente, perché ad attenderli troveranno Ciki (con la maglietta dei Rolling Stones al posto della divisa), che uccide il militare più anziano e sequestra Nino. Rimangono loro due nella “terra di nessuno”. Scoppia una lite furibonda su 96 quale dei due popoli abbia cominciato la guerra, la risposta è semplice: il colpevole è chi, in quel momento, non ha il fucile in mano, sia esso Nino o successivamente Ciki. L'assurdità della situazione prende presto il sopravvento quando scoprono che c’è una terza persona con loro, ancora viva e sdraiata sopra una mina, Cera. Tutto ciò li porterà a parlarsi invece che spararsi; si creerà tra loro quasi una solidarietà, soprattutto quando scoprono di avere conoscenze comuni, la stessa ragazza di Banja Luka. Ma la tensione presto riprenderà di nuovo il sopravvento. Nella costruzione drammatica del film fa spesso comparsa il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett. L’attesa dell’artificiere tedesco, contattato perché risolva la situazione, tiene alta la tensione per circa un’ora, salvo poi scoprire che non potrà far nulla oltre che constatare l’impossibilità di disinnescare la mina. I caschi blu, che vengono chiamati sia dai serbi che dai bosniaci “puffi”, perseguono un solo obiettivo: impegnarsi perché non succeda nulla, schivando ogni difficoltà, fino a rimanere inermi di fronte alla tragedia. “Non è dunque assurda una guerra in cui ci si sventola in mutande per attirare l’attenzione dei rispettivi eserciti o dove chi parla la stessa lingua è nemico, mentre chi ne parla tre diverse dovrebbe far parte del medesimo schieramento di pace?” scrive Michele Marangi71. Oltre al teatro dell’assurdo nell’opera affiora un riferimento indiretto al teatro classico, alla tragedia greca, nell’organizzazione del racconto secondo una rigorosa unità di tempo, luogo e azione. Dopo il prologo in cui la squadra bosniaca si perde nella nebbia, la narrazione si svolge nell’arco di una giornata, dall’alba al tramonto. Lo spazio ristretto della trincea di mezzo e l’immobilità di una situazione drammatica, calamita l’attenzione morbosa dei media, 71 Marangi M., La morte in diretta assurda e grottesca, “Cineforum”, n.409, novembre 2001. 97 interessati più alla ricerca di uno scoop che a comprendere la complessità della guerra, tra i giornalisti si distingue Jane, reporter inglese, che oltre al lato sensazionalistico, pare anche interessata a sensibilizzare gli spettatori denunciando l’ipocrisia del non intervento. L’empasse dell’Onu acquista tratti grotteschi, tra ufficiali isterici ed inconcludenti che sbraitano al telefono o giovani soldati che invece di prestare attenzione all’evolversi della vicenda ascoltano musica techno in cuffia. Se i francesi dell’Onu ripetono più volte di trovarsi davanti ad un popolo di pazzi, ad una guerra fratricida che non comprendono, gli stessi tre protagonisti slavi sono letteralmente perplessi di fronte all’incapacità e all’inutilità di chi dovrebbe garantire la pace. Solo il sergente Marchand cerca invano di sbloccare la situazione, violando gli ordini superiori affermando che “la neutralità non esiste di fronte a un assassinio. Non fare niente per fermarlo è già una scelta”. Il regista muove un severo atto d’accusa nei confronti del comportamento dell'Onu durante il conflitto, guidato da un'idea di neutralità giudicata inaccettabile, che si risolveva in ogni caso nel cercare soprattutto l'incolumità per le proprie truppe e una buona immagine mediatica internazionale. Il film utilizza diversi registri stilistici e narrativi, in parte contrastanti, sviluppando uno slittamento continuo dal tragico al grottesco, dal realistico al surreale, che spiazza regolarmente la percezione dello spettatore, a voler testimoniare come la complessità della guerra jugoslava non possa essere risolta attraverso gli schematismi di una visione omogenea ed uniforme. No Man’s land si caratterizza per una regia sobria e soprattutto per un’ottima sceneggiatura, in cui Tanović ha approfondito la costruzione e la psicologia dei suoi personaggi mai stereotipati. Il 98 film sfoggia dialoghi ben calibrati ed un ottima gestione dei ritmi narrativi in bilico tra pause ed improvvise impennate. Nel vertiginoso finale, durante l’attesa di uno scioglimento improvviso della situazione, le telecamere rimangono accese inseguendo il mito della diretta e filmano la morte di Nino e Ciki, che, dopo la parziale tregua nella trincea, tornano a detestarsi violentemente fino ad uccidersi a vicenda. La morte in diretta, anch’essa assurda e grottesca, sembrerebbe il culmine tragico dell’opera, ma viene superata dalla scoperta del mancato disinnesco della mina, ormai a telecamere spente. Quando il sole tramonta, Cera rimane solo, ancora vivo, ma di fatto già morto, sopra la solita mina. Dall'alto e allargando il campo, la macchina da presa lo inquadra in un orrore infinito. Una visione che è riservata solo agli spettatori cinematografici perché gli ipotetici spettatori televisivi, interni alla diegesi, che hanno assistito allo spettacolo della guerra in diretta, non avrebbero mai potuto vederla. Le truppe dell’Onu mettono, infatti, in scena il disinnesco della mina, convincendo i giornalisti ad andarsene. “Tanović invita a riflettere sulla presunzione di chi produce e consuma immagini accontentandosi di ciò che vede, senza chiedersi cosa resta fuori campo o, ancora di più, ciò non è possibile mostrare”72. Danis Tanović è anche l’autore di uno degli episodi del film collettivo 11 settembre 2001 (2002), in cui ha voluto collegare la ricorrenza del giorno undici di ogni mese delle donne di Srebrenica, che sfilano per non dimenticare il massacro del 11 luglio ’95, con la tragedia delle Twins Towers. Un film di silenzi e di volti, nel quale prendono voce le parole di una giovane donna, che nonostante l’accaduto non vuole rimanere a casa e proprio l’11 settembre del 2001, le donne di Srebrenica scendono in 72 Ibidem 99 piazza per manifestare e per non dimenticare i due drammatici avvenimenti. 3.4 La vita è un miracolo Dopo Underground (1995), Emir Kusturica torna al tema della guerra nell’ex-Jugoslavia con La vita è un miracolo. L’ultimo film del regista di Sarajevo è uscito nelle sale in un clima assai diverso dal capolavoro visionario firmato dieci anni prima. Seppure attualmente la situazione non sia completamente pacificata (vedi il Kosovo), il conflitto ai tempi di Underground era ancora in corso, pochi giorni prima che vincesse la Palma d’oro a Cannes c’era stata la strage di Tuzla (26 maggio) in Bosnia, dove una granata serbo-bosniaca uccise più di settanta giovani, che si trovavano nella piazza centrale della città. In un clima surriscaldato, accolto positivamente dalla critica cinematografica, Underground subì da parte di diversi opinionisti di quotidiani francesi, italiani e bosniaci (il filosofo Finkielkraut e il giornalista Bettiza per dirne due che non avevano nemmeno visto il film) attacchi e forzate letture come propagandistico e filo serbo), che ideologiche (fu tacciato spesso rischiarono di prevalere sul valore del film. Problema che non ha corso La vita è un miracolo, quasi passato in sordina, che ha però collezionato giudizi di comodo, da una pubblicistica (anche specializzata) che forse non considera più "a la page" Kusturica, e analisi assolutamente superficiali rispetto al contesto trattato, le guerre jugoslave. In La vita è un miracolo ci troviamo in Bosnia nel 1992, poco prima che anche qui scoppi la guerra, altri focolai sono esplosi in Slovenia e, in modo molto più drammatico, in Croazia. Luka, ingegnere serbo, uomo ottimista e mite, e sua moglie Jadranka, soprano e un po’ isterica, si sono trasferiti da Belgrado, insieme 100 al figlio Milos, giovane calciatore, in un villaggio isolato tra verdi boschi con l'intento di trasformarlo in un luogo turistico. Abitano in una colorata e piccola stazione, in un paesino circondato da una ferrovia in via di completamento, che sembra un microcosmo a parte. Ma la triste realtà non è lontana. Luka non dà retta alle voci dello scoppio di un conflitto imminente; la guerra civile è però alle porte e invaderà presto la vita del villaggio. Quando suo figlio Milos, chiamato a prendere servizio nell’esercito, è fatto prigioniero, i militari serbo-bosniaci gli affidano in custodia un ostaggio musulmano: è Sabaha, una bella ragazza che fa l’infermiera in città. Luka finirà per innamorarsene. Nella prima parte del film Kusturica si esibisce in una maniera di se stesso, affascinante ma ripetitiva, in cui compaiono tutti gli elementi classici della poetica del regista bosniaco: caos, balli sfrenati, sbronze, personaggi bizzarri, musica tzigana e tanti animali (orsi, oche, asini, cani e gatti), l’unione indissolubile tra vita e morte, il confine labile tra realtà e sogno. E’ sicuramente più interessante lo sviluppo successivo del film. Ad un certo punto, la relativa quiete del villaggio viene rotta dallo scoppio della guerra in Bosnia-Erzegovina. Kusturica decide di affrontare meno il lato politico e concentrarsi sulle persone, sull'amara ironia della vita. Non spiega né indaga le cause del conflitto, ma il contesto non è puro sfondo, è assolutamente fondamentale nel film. I due grandi gruppi etnici che convivevano nella Bosnia orientale, serbi e musulmani, si ritrovano su sponde opposte a fronteggiarsi. Il caos coinvolge anche la famiglia di Luka: la moglie fugge con un musicista ungherese, il figlio Milos, che in una delle prime sequenze abbiamo visto impegnato in una agguerrita partita di calcio, sfociata in un profetico scontro etnico (riferimento 101 all’incontro tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa del 13 maggio 1990 finito in guerriglia), viene chiamato al fronte. Luka rimane solo e gli verrà affidato Sabaha, l’ostaggio da scambiare per riottenere il figlio. Sotto le bombe nascerà l’amore tra “diversi”, Luka e Sabaha; durante la guerra, fratricida, che si frappone tra loro, l’unica fuga possibile è nel sogno e appunto nell’amore. Il racconto cinematografico è liberamente ispirato ad una storia vera, raccontata al regista da un serbo rifugiato a Tolosa. Intanto, nel villaggio dilagano i traffici criminali (armi e droga), testimoniando una realtà storica, visto che durante le guerre hanno avuto un incremento esponenziale73. Nel corso del film si alternano farsa e tragedia. Il nostro sorriso, non è mai liberatorio, è smorzato come davanti alla comicità di Buster Keaton. La vita è un miracolo attinge a piene mani dal registro del grottesco rappresentando la tragicomicità della vita in un racconto sopra le righe, condito da forte humour nero. Sogno e suicidio, archetipi della letteratura serba, ricorrono spesso nel film che mescola in alcuni momenti topici realistico e fantastico. L’asina suicida, che piange per amore e attende sulle rotaie del treno il momento fatale, salverà alla fine Luka dalla morte. Lo stile di Kusturica, ormai diventato “classico”, si snoda tra le influenze dei suoi maestri: il vitalismo e il caos surreale di Fellini, le distanze invisibili tra sogno e realtà proprie di Vigo e i voli fantastici impressi da Chagal (come quello finale del letto che lievita in cielo). Estetizzante nelle inquadrature di una natura rigogliosa e nella composizione del quadro visivo, come quando le spalle di Luka affacciato alla finestra paiono le gobbe della 73 Cfr. P.Rumiz, Armi, droga, mafia: la guerra come affare, in “Limes”, La guerra in Europa,. n. 1-2, 1993, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso. 102 collina o nei fotogrammi in cui la dissolvenza a nero viene interrotta dal volto di Luka che esce dal tunnel della ferrovia. Interpreta splendidamente Luka, Slavko Štimac, uno degli attori più cari a Kusturica: è stato Ivan, il fratello di Marko in Underground e l’adolescente Dino in Ti ricordi di Dolly Bell?. Luka può essere identificato come il vettore ideale di Kusturica all’interno del film. All’inizio non vuole capire che la guerra stia cominciando, è un riferimento autobiografico: “Ero in Francia e per i primi quaranta giorni non ci volevo credere. Non volevo accettare che la guerra fosse iniziata. C'è stata un'intera generazione di persone della ex Jugoslavia che non erano consapevoli che questa cosa terribile fosse in atto. Luka è uno di questi”74. Il regista si identifica anche nel suo personaggio: “Mi piace di lui che non si butta immediatamente nell'amore. È un tipo un po' vecchia maniera, pospone il suo legame con questa donna al desiderio di rivedere il figlio. Quando lo vedo avvicinarsi alle cose piano piano mi accorgo che è come se lo facessi io”75. Alcune assonanze con il pensiero dell’autore possono essere rintracciate, ma solo in parte, in un personaggio secondario, il presidente del Comune, però spogliato dal carattere di politico non troppo onesto. Profondamente jugoslavo e legato a Sarajevo, metafora della multietnicità, morirà presto, ucciso dai cecchini, in una battuta di caccia, e in questo si avvicina alla visione di Kusturica: “Quando è sparita la Jugoslava io sono diventato invisibile”76, disse con disperazione d’apolide, dopo le polemiche su Underground. “Sono vissuto – racconta Emir - in un paese dove i miei film preferiti erano croati e i miei libri 74 Nicola Falcinella, Kusturica: la vita è un miracolo, in “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 15 giugno 2004. 75 Ibidem 76 P.Vecchi, Emir Kusturica, Gremese, Roma, 1999, p.105. 103 preferiti erano serbi”77. I suoi primi lavori sono nati nella Sarajevo multietnica, quella stessa città che lo ha ripudiato quando ha deciso di stare a Belgrado e a Parigi durante la guerra e il doloroso e infinito assedio della capitale bosniaca, patito dai suoi ex concittadini. La sua posizione, sicuramente molto discutibile, si è rivelata, presto scomoda in un ex Jugoslavia accecata dagli odi etnici. Se il simbolo della manipolazione mediatica della storia e della realtà in Underground era il cinema, strumento di propaganda dei totalitarismi del Novecento, qui viene messa all’indice la televisione (quella che Luka scaraventa dalla finestra, informazione sia occidentale sia slava) che ormai da diversi decenni ha preso il posto della settima arte in questo ambito. E così è stato per le guerre jugoslave: le televisioni balcaniche sono state esempio di vera manipolazione storica, mentre il cinema sulla recente guerra, seppur non abbia profondamente indagato sulle cause del conflitto (imprigionato in una visione, a metà, tra mito e realtà), si è rivelato di livello artistico, pacifista e non smaccatamente di una o dell’altra parte; ovviamente, gli elementi ideologici sono presenti nelle varie opere e su questo piano l’opera di Kusturica rimane ancora controversa. Kusturica non ha mai girato un film storico, nel senso classico del termine, ma i rapporti tra cinema e storia, mito e realtà, anche in termini metacinematografici, nella riflessione sulle modalità di messa in scena della Storia, sono tra i più intricati e interessanti della filmografia del regista. La vita è un miracolo, non è certo il miglior film di Kusturica, un’opera di transizione, ma in due ore e mezza di visione la noia appare lontana. 77 G.Rinaldi, Il film e le polemiche, in “Cineforum”, n.351, gennaio/febbraio 1996. 104 3.5 Benvenuto Mr.President Film d’esordio di Pjer Žalica, regista bosniaco con un passato recente di documentarista negli anni dell’assedio, è l’unica opera tra quelle analizzate che affronta il dopo guerra, la pace precaria successiva agli accordi di Dayton. Premiato con il Pardo d’argento nel 2003 al Festival di Locarno Benvenuto Mr.President è un racconto corale dal timbro tragicomico di un villaggio bosniaco situato vicino alla linea di demarcazione tra le due nuove entità della Bosnia: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska. E’ ambientato nel 1996, a Tesanj che è una piccola città devastata dall’intolleranza etnica, dagli atti criminali e dalla corruzione. La notizia di un’imminente visita del presidente americano Bill Clinton (desideroso di essere il padrino del new deal jugoslavo) lancia la comunità nel tentativo maldestro di simulare una democrazia fittizia tra gli abitanti del luogo, sotto l’occhio vigile e le pressioni degli osservatori internazionali, che pretendono che il paese sia ripulito dalle attività illegali e dai presunti terroristi e che i serbi e i musulmani collaborino. Le prostitute si trasformano in ballerine di danze popolari, i pompieri improvvisano una banda e il sindaco, fino a quel momento insensibile a qualunque necessità dei cittadini, si mette a fare le cose in grande, pur di non fare brutta figura. Il regista utilizza gli ingredienti classici del film balcanico, ma li mescola in una chiave originale, con uno sguardo che guarda oltre il conflitto. Contamina dramma e commedia, realismo e surrealismo, con quel particolare humour nero, prettamente bosniaco, che anche nella tragedia riesce a strappare una risata. Le influenze cinematografiche spaziano da quella dichiarata di due film di Altman, Nashville per la storia corale e M.a.s.h. per l'atmosfera, allo stile di Fellini e di Kusturica. 105 Nella coralità della storia, una famiglia assume il ruolo di protagonista, quella di Zaim che non si dà pace per la morte del figlio: lo crede vivo e lo “vede” la sera nel cortile della casa sulla collina. L'altro figlio Faruk è un vigile del fuoco che incontra dopo anni una vecchia fiamma rientrata, dopo essere fuggita in Germania; subito dopo l'incontro, la ragazza incappa in una mina inesplosa. Alla fine, Zaim, sempre più spinto dalla follia dopo aver scoperto il cadavere del figlio, si fa esplodere nella propria abitazione proprio mentre Clinton sta attraversando la strada principale di Tesanj, mandando a monte tutto. Quest’ultima sequenza è costruita alternato, che passa attraverso un simultaneamente magistrale dalla montaggio partecipazione collettiva alla festa di un paese intero alla solitudine domestica di un padre disperato. Durissimo nel dramma e geniale nella descrizione dei singoli caratteri, Žalica non enfatizza il dolore ma talvolta lo irride e lo utilizza semplicemente come metronomo di tutta la vicenda. Il suo uso della macchina da presa con alcune inquadrature dall’alto, in pianta, rompe il ritmo per fare tornare lo spettatore alla realtà. La luna compare nel primo fotogramma e viene ricordata più volte nel corso del film, dalla colonna sonora (con la rivisitazione “slava” di Guarda che luna di Buscaglione) alle due prostitute che si chiedono in che anno l’uomo è sbarcato sulla luna e rispondono nel ’93. Qualcuno guarda verso la luna, ma qualcuno guarda dalla luna. In almeno due momenti la macchina da presa, guarda la terra dall’alto: entrambi si riferiscono al presidente Clinton, che qui è il simbolo dell’opportunità di uscire dal dopoguerra, di ricostruire. La salvezza, la possibilità di una vita normale, è lontana quanto la luna. La complicata rappresentazione della Bosnia nel difficile dopoguerra è sincera e reale e anche gli americani, a tratti un 106 po’ “macchietta” corrispondono all'immagine che hanno fra i bosniaci. A piangere l'ex poliziotto Zaim si ritrovano insieme uomini dei due gruppi (i pompieri musulmani e serbi), in un finale che lascia spazio alla speranza. I preparativi di un villaggio diviso in due per accogliere il presidente Clinton in visita sono vanificati dalle ferite ancora aperte della guerra e dal dolore della perdita dei propri cari, ma un seme di convivenza è stato gettato. Stanco di girare film sull'orrore che lo circondava, sulle uccisioni, il sangue e le interminabili e futili discussioni su chi era il responsabile dice il regista, desiderava fare film sulla pace “ma ho scoperto – conclude amaro Žalica - che la pace può essere peggiore della guerra". “Sotto i tiri dei mortai e dei cecchini eravamo uniti, avevamo lo scopo comune di sopravvivere, oggi ognuno va per conto suo e vivere dignitosamente è difficile, con le divisioni che restano e la corruzione diffusa”78. 3.6 Una ricostruzione storica e i documentari su Srebrenica Srebrenica è una cittadina della Bosnia orientale, a pochi chilometri dal confine con la Serbia. Prima della guerra era un centro termale e minerario ora dopo la conflitto e il massacro di dieci anni fa si presenta come un triste agglomerato di case senza una reale identità. Nell’aprile del ’93 venne dichiarata “zona protetta” con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, nei sui confini si rifugiarono oltre 50 mila bosniaci di religione musulmana. Un mese prima era iniziata un’offensiva delle truppe serbo- 78 N.Falcinella, Intervista con Pjer Zalica, regista di Gori Vatra, in “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 21 agosto 2003. 107 bosniache nei territori circostanti, che si trasformò in lungo assedio della città, che si protrasse fino al luglio del 1995. In quei due anni e mezzo la popolazione rifugiata visse in condizioni estremamente disagiate e allo stremo delle forze: mancavano cibo e medicine, sopravvivevano solo i traffici criminali, in cui erano anche implicati anche i caschi blu. La “comunità internazionale” non si preoccupò di garantire livelli di vivibilità accettabili, la presenza del contingente Unprofor (prima francese e poi olandese), costretto al non intervento dalle disposizioni internazionali, garantiva solo che la città non capitolasse definitivamente. A fine maggio del ’95 il Consiglio di Sicurezza propose una riduzione delle forze di interposizione dei caschi blu in Bosnia, una scelta che già testimoniava le ambiguità del Palazzo di Vetro nei confronti di Srebrenica. Il 5 luglio incominciò l’attacco delle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic contro l’enclave e nei giorni seguenti ci fu l’avanzata. Sfondarono la debole linea di difesa (tra l’altro ai rifugiati erano state tolte le armi dai caschi blu), mentre le truppe Onu non opposero resistenza né si impegnarono in una reale azione di interposizione. Per alcuni giorni i soldati dell’Onu promisero alla popolazione dell’enclave un intervento dell’aviazione della Nato, che aveva già agito in altre occasioni in Bosnia, ma a Srebrenica non fu mai attuato. L’11 luglio la città cadde tragicamente in mano serbo-bosniaca. Nel frattempo, di fronte a questa situazione migliaia di persone, maschi di età compresa tra i 14 e i 60, cercarono di fuggire attraverso le montagne, verso Tuzla; una fuga che si trasformò in un’ecatombe: le colonne di uomini vennero attaccate violentemente dai serbi e decimate, i cadaveri fatti scomparire in fosse comuni. Le persone rimaste in città, donne, bambini e 108 uomini, circa tremila cercarono rifugio, ma invano, alla base dell’Onu a Portočari. Le milizie serbo-bosniache divisero le donne e i bambini dagli uomini e i ragazzi ritenuti abili al combattimento, inseriti nella lista di coloro da eliminare. Per oltre dieci giorni Srebrenica e i territori limitrofi furono protagonisti di massacri, rastrellamenti, suicidi e strupri; tra le truppe di Mladić operavano anche efferati gruppi paramilitari. L’esito finale fu un massacro tra le sette e le diecimila vittime. Il peggior crimine di guerre compiuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Il Tribunale Penale Internazionale dell'Aja ha catalogato la tragedia di Srebrenica come un vero e proprio genocidio. Ad aprile del 2005 il numero di vittime identificate e sepolte è di 1332, su un totale di settemila corpi recuperati. Nel 2003 a Portočari è stato realizzato un immenso cimitero che ospita le salme di oltre mille persone e, accanto, inaugurato un museo dedicato al massacro. I principali responsabili del massacro Ratko Mladić e il presidente della repubblica Srpska Radovan Karadžić, ricercati dal Tribunale dell’Aja, sono ancora latitanti. Oltre alle responsabilità individuali, di mandanti ed esecutori, assumono un rilievo internazionale – come spiegano Bonapace e Perino - “il ruolo delle forze dell’Onu che di fatto non reagirono, al contrario rimasero osservatori passivi degli eventi lasciando che il massacro si compisse in una zona definita ‘protetta’, e la posizione della Nato che, nonostante le altisonanti dichiarazioni a favore dei diritti umani, non intervenne”79. All'inizio dell'estate del ’95, prima della tragedia, pareva che la guerra in Bosnia-Erzegovina stesse per finire. Le forze in campo cercavano a tutti i costi di raggiungere gli obbiettivi sottoscritti: i 79 William Bonapace e Maria Perino La fine dell’innocenza in W.Bonapace e M.Perino (a cura di), Srebrenica, fine secolo: nazionalismi, intervento internazionale, società civile, Israt, Asti, 2005. 109 tre “signori della guerra”, parafrasando la formula di Pedrag Matvejević, ovvero il presidente della federazione jugoslava Milošević, quello della Bosnia Izetbegović e il croato Tudjman, con l'assenso delle potenze internazionali. Era ormai in atto il piano di spartizione su base etnica ratificato poi a Dayton: il 51 per cento del territorio della Bosnia ai croato-musulmani e il restante 49 per cento ai serbo-bosniaci. Unici ostacoli i quartieri della capitale Sarajevo in mano ai serbi e le zone protette dall'Onu, vale a dire Zepa, Goradze, Biach e, appunto, Srebrenica, enclavi musulmane in un territorio completamente in mano alla Repubblica Srpska. A Srebrenica dell’intervento sono emerse umanitario, le la drammatiche profonda contraddizioni inadeguatezza delle Nazioni unite, la realpolitik degli stati e le tragiche conseguenze delle politiche identitarie messe in atto dalle leadership nazionaliste dell’ex Jugoslavia. Srebrenica rimane una “vergogna incancellabile” per la comunità internazionale e l’Europa. Diversi documentaristi si sono confrontati con questa drammatica storia, ricostruita completamente solo negli ultimi anni. Andrea Rossini, redattore dell’ “Osservatorio dei Balcani” insostituibile portale di informazione che svolge un lavoro collettivo di monitoraggio, ricerca ed analisi sul sud-est Europa, è l’autore di due film: Europa, Srebrenica (1999) e Dopo Srebrenica: la memoria, il presente (2005). Il primo, prodotto dall’Associazione “Ambasciata della democrazia locale a Zavidovici” è stato girato a Vozuca, dove molte donne di Srebrenica, che hanno perso figli e mariti, sono sfollate. Attraverso le loro parole vengono ripercorsi l’interminabile assedio e la caduta della città. Rossini sceglie una regia minimale, si sofferma sui primi piani, sui volti e sugli sguardi delle donne, opta per il bianco e nero nelle interviste realizzate 110 tutti in interni, e per il colore negli inserti filmati relativi alle rovine dell’attuale Srebrenica. Il racconto delle donne è un flusso ininterrotto di ricordi; con lucidità e disperazione denunciano il comportamento ambiguo, e per certi versi complice degli assedianti, tenuto dalle forze delle Nazioni Unite (contingente Unprofor), che dovevano proteggere l’enclave ma assistettero inerti al massacro. Con testimonianze drammatiche, denunciano, infine, il brutale massacro del luglio ’95 operato dai serbi, che quando entrarono in città si impossessarono delle divise dei caschi blu. Dopo Srebrenica: la memoria, il presente, uscito a dieci anni di distanza dalla strage, è un documentario su Srebrenica oggi, che rappresenta la tragedia dei desaparecidos sullo sfondo di un conflitto che presentate al continua, regista nelle da memorie ritornanti e verità bosgnacchi parallele (bosniaci musulmani), sfollati serbi, istituzioni religiose e autorità locali. Struttura portante del film è l’insieme di voci di Srebrenica: vedove e madri, istituzioni, rappresentanti delle comunità, sfollati e rientranti. Solo loro, senza alcuna voce narrante. Una scelta che allontana qualsiasi accenno di retorica e restituisce la complessità della realtà. Sono oramai chiare le responsabilità dell'eccidio di Srebrenica. Il Tribunale dell'Aja ha contribuito a ricostruire in modo credibile e convincente quanto avvenne. Ma quella tragedia ha influito e condizionato le esistenze di molti cittadini bosniaci e va letta nel contesto più ampio della guerra in Bosnia e del disfacimento della ex Jugoslavia. Significativa l'ultima scena del documentario. Un anziano, in un campo di sfollati: la sua voce è flebile e le mani tremano, apre una teca, sfoglia dei documenti, sono atti di proprietà della sua casa. "Una volta avevo della terra …" afferma. La frase si sovrappone inevitabilmente con le parole di un giovane 111 rientrante, con la sua famiglia ritornato a vivere a Srebrenica: "Ora conta sempre di più il nazionalismo. Gli altri? Se li incontri è meglio non guardarli ed è meglio che loro non guardino te. Funziona così, torni a casa e ti chiudi la porta dietro” o con quelle di una donna che racconta che ha ancora paura che Mladić e Karadžić scendano dai boschi dove si nascondono e che accada nuovamente qualcosa di terribile. A Cry from the Grave (1999), è un importante documentario di novanta minuti diretto da Leslie Woodhead, che ha il merito di essere stati tra i primi a livello internazionale ad aver denunciato l’orrenda carneficina, fornendo un’articolata ricostruzione dei fatti. La pellicola è arricchita da testimonianze di chi si trovava sul posto in quei terribili giorni, dai sopravvissuti ai soldati serbi, dalle vittime ai mediatori di pace. Di fronte alle immagini del genocidio e le testimonianze sorgono diverse domande: Come è stato possibile questo genocidio? Cosa hanno fatto le truppe dell'Onu a difesa dell'enclave? Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale nei confronti di questo eccidio? Può l'orrore di questi crimini essere dimenticato in qualche maniera dai sopravvisssuti? Il film, prodotto dalla BBC, ha vinto il prestigioso Special Jury Award all' “Amsterdam International Documentary Film Festival”. In occasione del decennale sono stati realizzati vari film sul dramma della città bosniaca. Il cielo sopra Srebrenica (2005) di Marco Della Croce e Ciro Cortellessa ripercorre la tragica vicenda di Srebrenica, dall'assedio alla caduta, dalle esecuzioni sommarie alle fosse comuni, visitando la città a dieci anni di distanza dai quei giorni maledetti. Mimmo Lombezzi, giornalista e reporter, è l’autore di 10 anni dopo: Bosnia: la vergogna d’Europa, una testimonianza a due voci. Una musulmana di Focha torna a rivedere l’edificio dove fu violentata e venduta come schiava 112 sessuale per mesi. Un serbo di Pasaric ci mostra il lager dove ha vissuto tutto il tempo della guerra. Srebrenica, voci dall’oblio (2004) è invece il progetto audiovisivo di Luca Rosini, Alberto Bougleux e Roberta Biagiarelli, in ricordo del massacro; i primi due già giovani autori di Thank you people of Japan (2002) su Mostar, Biagiarelli aveva precedentemente curato lo spettacolo teatrale A come Srebrenica. 3.7 Gli altri film Predrag Antonijević, originario della Jugoslavia, ma residente negli Stati Uniti è regista di Savior (1998), ambientato durante il conflitto bosniaco. Protagonista del film è un ufficiale americano, che dopo aver perso moglie e figlio in un attentato di fondamentalisti islamici a Parigi, decide di arruolarsi nella legione straniera e sei anni dopo diventa cecchino dei serbi, per combattere i musulmani. L’incontro con Vera, una giovane donna incinta a causa di uno stupro etnico da parte di soldati bosniaci musulmani, lo cambieranno radicalmente, risvegliando quell’umanità assopita nei meandri dell’odio. Peacemaker (1997), produzione hollywoodiana diretta Mimi Leder, è un thriller fantapolitico dignitoso che però sfrutta pretestuosamente la guerra in Bosnia.In Russia avviene il furto nove testate da vendere in Iran. La reazione degli Stati Uniti è efficiente, ma vengono recuperati soltanto otto ordigni. Il nono arriva in Bosnia e di lì con valigia diplomatica a New York per un attentato alla sede dell'Onu, la porta un bosniaco reso folle dalla morte dei suoi cari, come protesta contro chi ha tollerato e a tratti favorito la guerra nella ex Jugoslavia. 113 Liberamente ispirato a La guerra in casa80 di Luca Rastello è Oltre confine (2002) del regista italo-svizzero Rolando Colla che racconta la storia di un profugo bosniaco, che si prende cura di un reduce italiano della seconda guerra mondiale. La figlia dell’anziano coinvolta e stupita da questo comportamento, comincia a indagare sul suo passato finché decide di partire per la Bosnia. Nel corso del suo viaggio, in un paese dilaniato dal conflitto, inizia ad esplorare il trauma rimosso della guerra. Girato con un approccio semi-documentaristico è sicuramente più riuscito nella parte bosniaca che non in quella italiana. Due anni dopo esce Nema problema di Giancarlo Bocchi (che verrà approfondito in un capitolo successivo), protagonisti due giornalisti molto diversi tra loro. Concludiamo con i film documentari. Calling the ghosts (1996) di Mandy Jacobson e Karmen Jelincić pone l’attenzione sulla violenza alle donne durante la guerra portando sugli schermi la storia di Jadranka Cigelj and Nusreta Sivać, sopravvissute al terribile campo di concentramento serbo di Omarska. Entrambe musulmane (anche se sappiamo che nell’ex Jugoslavia la religione era un fattore secondario), amiche fin dall’infanzia, donne moderne e colte, vivevano e lavoravano a Prjedor fino al 1992. Nella primavera di quell’anno furono deportate al vicino campo di detenzione Omarska e qui violentate e torturate, assistendo successivamente ai ripetuti crimini nei confronti dei prigionieri. Riuscirono a salvarsi, a differenza di molti altri, e sono diventate testimoni di quelle atrocità. Anche grazie al film, il Tribunale Internazionale dell’Aja ha definito nel ’96 la violenza sessuale (sistematicamente operata dalla pulizia etnica delle varie fazioni in guerra) come crimine contro l’umanità. Anche Picture me an enemy (2003) di Nathalie Applewhite intreccia, su 80 Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, Torino 1998. 114 un piano diverso, le storie intime di due giovani donne: Natasa, serbo-croata e Tahja, bosniaco musulmana. La vulgata popolare ma anche le semplificazioni mediatiche e politiche le vorrebbero “nemiche” da lunga data. Le due protagoniste del film smontano invece l’idea di una guerra etnico-religiosa, sottolineando come la figura del “nemico” sia stata costruita artificialmente e strumentalmente nel periodo precedente e durante il conflitto. Il documentario è un ritratto sincero di due giovani donne che con sensibilità e un inaspettato humour raccontano le proprie storie e impressioni: hanno le stesse paure, speranze e sogni. Spingendosi oltre le diversità nazionali individuano le questioni universali riguardanti la guerra e la pace. Linea di confine (2000) scritto e diretto da Davide Ferrario, è stato realizzato in occasione dei live che il gruppo rock Csi tenne a Mostar nel giugno del 1998. Coadiuvato da una piccola troupe Ferrario ha seguito per più di una settimana l’avventurosa storia dei concerti e scoperto la città e i suoi abitanti. Mostar ha subito danni enormi agli edifici e alle infrastrutture (è stato fatto saltare il celebre ponte sulla Neretva, recentemente ricostruito), ma soprattutto all’anima della città, divisa in due: musulmani a est e croati a ovest. I Csi hanno voluto tenere due concerti, uno nella parte occidentale ed uno in quella orientale, e, dopo numerose peripezie dovute alle avverse condizioni metereologiche e ad una serie di problemi politici, ci sono riusciti. Il giovane film-maker Evan Friedman ha girato, infine, nel dicembre del 2001 Leaving Tuzla. Se durante la guerra i cittadini di Tuzla scelsero di vivere uniti piuttosto che vedere la loro città divisa da linee etniche, nel dopoguerra, la straordinaria convivenza di Tuzla ha incominciato a sgretolarsi e l’unica possibilità per i giovani di avere un futuro, è lasciare la propria 115 città, come capita ad un gruppo musicisti su cui è incentrato il documentario. 4 B ELGRADO E LA S ERBIA Belgrado, seppur sia stata colpita solo in parte direttamente dalla guerra, la vive intensamente per tutti gli anni di conflitto. Ne subisce i riflessi, sconta un isolamento internazionale, patisce un governo autoritario, affronta l’arrivo in massa dei profughi dalle zone di guerra, fino ai bombardamenti veri e propri del 1999 da parte del contingente Nato. E’ una città cosmopolita che durante gli anni della guerra ha cambiato volto, che ha vissuto uno stato di inquietudine e una situazione di pressante confusione ed è divenuta per molti uno “state of mind”81, in cui è presente l’assillante dilemma se restare o partire. 4.1 La polveriera: Belgrade as state of mind Il film che meglio interpreta questa condizione, l’inquietudine e il malessere dei cittadini belgradesi, è La polveriera (Bure Baruta, 1998) di Goran Paskaljević. E lo fa attraverso una grande metafora. Ambientato a Belgrado nel 1995 poco prima degli accordi di Dayton (novembre ’95) intreccia casualmente in una sola notte storie individuali, colme di rabbia, follia e disperazione, incorniciate da un numero di cabaret. “I feel that it 81 D.Iordanova, Cinema of flames, cit., p.266. 116 is now my turn to show the current state of mind of my people”82, spiegò il regista. Paskaljević nato nel 1947 a Belgrado fa parte della generazione dei cosiddetti “ragazzi di Praga”, che segue l’ “Onda nera”, insieme a lui infatti si possono ricordare: Goran Marković e Sdrjan Karanović, anche loro serbi, e Lordan Zafranović e Rajko Grli, croati. Tutti studenti della prestigiosa Famu; pochi anni dopo li avrebbero seguiti Emir Kusturica e il suo futuro direttore della fotografia, lo sloveno Vilko Filać. Tratto dalla pièce Bure Baruta del giovane autore macedone Dejan Dukowski, che l'ha adattata con Paskaljević, Filip David e Zoran Andrić, La polveriera - come si è detto - si sviluppa all’interno di una cornice: un monologo di cabaret, che rimanda all’origine teatrale, ma qui assume sfumature precise. Il volto di Boris è pesantemente truccato, i fasci di luce sono radenti, la recitazione sopra le righe, il linguaggio risulta provocatorio e sentenzioso, tutto ciò rimanda ai caratteri tipici dell’espressionismo tedesco e alle sue riletture successive. Tra queste Paskaljević dice di essersi ispirato a Cabaret (1972) di Bob Fosse, per alcune analogie tra il clima dell’ultimo periodo della Repubblica di Weimar (il film di Fosse è ambientato nel 1931, dove affiorano i prodromi del nazismo) e quello della Serbia degli anni ‘9083. L’attore del cabaret, che non può che chiamarsi Balkan, annuncia all’inizio del film e contemporaneamente del suo spettacolo, che ne vedremo delle belle. 82 Ivi, cit. p. 269. Paskaljević motivò la sua ispirazione sostenendo che “l’atmosfera che si respira oggi a Belgrado è quella di un paese in rapida evoluzioni verso forme di fascismo o di nazionalcomunismo quindi assimilabile alla Germania di Weimar”. P.Vecchi, Kusturica, Paskaliević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, in G.Elisa Bussi e Patrick Leach (a cura di), Schermi della dispersione, cinema, storia e identità nazionale, Lindau, Torino, 2003, p. 316. 83 117 Si apre così un articolato ritratto notturno di Belgrado con un pullulare di personaggi apparentemente isolati in un singolo nucleo narrativo dei quali via via si chiariscono i rapporti. I titoli di testa scorrono su una lunga inquadratura ravvicinata, e in movimento, dell’asfalto di una strada urbana, illuminata dai fari di un taxi e ritmata dalla musica di Zoran Simjanović, storico collaboratore di Paskaljević. Sul taxi si trova Manè, un emigrante che torna a Belgrado per ritrovare la donna che ha amato, Natalia, ma è troppo tardi, tutto è cambiato dalla sua partenza. Incrociano per un attimo Alex, quanto basta perché la macchina da presa sposti l’attenzione su di lui, un giovane senza patente che tentando un maldestro approccio con una ragazza finisce contro un maggiolino e viene quasi linciato dal padrone dell’automobile, che finirà per sfasciargli la casa in cui vive con il padre. Il taxista incontra in un’osteria, Dimitri, poliziotto invalido per le percosse subite, e gli rivela sadicamente di essere lui il misterioso aggressore; si era vendicato dopo essere stato a sua volta massacrato di botte dal tutore dell’ordine. Sotto la doccia di una palestra due vecchi amici pugili si confessano i reciproci tradimenti, finché uno non uccide l’altro e fugge su un treno, dove, dopo aver insidiato una giovane donna vedova, si fa saltare in aria insieme a lei, tirando la linguetta della bomba a mano, ricordo del marito della donna, deceduto in guerra. Un giovane arrabbiato s'impadronisce della guida di un autobus, fermo al capolinea, mentre l’autista, un anziano professore serbo-bosniaco (profugo di guerra) sta sorseggiando un caffè. Il viaggio, in cui terrorizza i passeggeri, non ha lunga durata, perché il pullman sbatte contro un contenitore della spazzatura e poco dopo il “dirottatore” viene ucciso dall’autista, che poi sembra pentirsi dell’accaduto. Ana, una dei sequestrati sull’autobus litiga col fidanzato, morbosamente geloso, dopo che 118 gli ha rivelato di aver subito pesanti attenzioni dal giovane squilibrato che si era impossessato del mezzo. I due vengono rapiti dal figlio dell’autista del bus e da Topi, un losco criminale ex-sessantottino, che violenta la ragazza davanti agli occhi del compagno a cui obbliga di intonare un canzone patriottica. I fidanzati riescono a liberarsi dall’aguzzino e anche il giovane scappa, ma viene scambiato per un ladro di benzina e lapidato durante la sua fuga. Attorno a lui le macchine prendono fuoco, nell’ultima al quanto profetica esplosione. E’ solo una sintesi del mosaico di distruzione, violenza e morte che Paskaljević mette in scena, costruendo una struttura che lui stesso ha definito “sinfonica”84 e che può ricordare America Oggi (1993) di Robert Altman. Ma è lo stesso regista a marcare le differenze: “Volevo parlare del modo in cui i piccoli destini di ciascuno si incrociano. Il mio destino influenza il vostro e così di seguito. E nessuno può sfuggire a questa spirale di violenza. Questa costruzione è molto desueta. In America Oggi i destini sono paralleli e non sono davvero riuniti che alla fine, dal terremoto”85. Come ha scritto lucidamente Paolo Vecchi “ogni individuo a Belgrado è una carica pronta a esplodere alla minima scintilla”86. Paskaljević sosteneva appunto commentando il film, quando uscì, poco prima dello scoppio della “guerra vera” in Kosovo e a Belgrado, che “oggi in Serbia ogni singola persona è una polveriera”87, ricollegandosi così alla metafora che sottende il film. I personaggi commettono insensate violenze, quasi rapiti da un destino tragico e a turno possono diventare vittime e carnefici. Le ideologie sono diventate brutali caricature di se 84 N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, in Nexus, 2003, p.20. P.Vecchi, Belgrado, viaggio al termine della notte, in “Cineforum”, n.384. 86 P.Vecchi, Kusturica, Paskaliević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, cit., p.316. 87 Ibidem 85 119 stesse, la morale si è ribaltata e prevale la biblica legge del taglione e in pochi conservano un barlume di umanità. L’autore non esprime giudizi morali, il suo sguardo è, sia esso fenomenico sulla realtà contemporanea o metaforico, partecipe alla tragedia che vive il suo popolo. “Non sono colpevole” urla il ragazzo bosniaco sulla grata metallica mentre tenta di fuggire dal lancio delle pietre88. “E’ colpa mia?” ripete ossessivamente il fidanzato geloso; “Di che è la colpa?” domanda Manè a Natalia. Diviene il refrain degli episodi finali. Delinea così l’identità di un paese distrutto anche nell’anima. Emerge una visione mitico-fatalistica della storia dei Balcani, risucchiata periodicamente da guerre intestine, un dato comune rispetto ad altre opere incentrate sul conflitto jugoslavo. Ciò non fa comunque perdere a Paskaljević, da fiero oppositore del regime di Milošević qual era, un approccio critico nei confronti della contemporaneità, delle conseguenze di un becero nazionalismo sulla società e alla corruzione che dilaga tra i politici. La guerra intesa allora come destino, che può assurgere a simbolo di una tragedia universale, ma che calza perfettamente per i Balcani. E’ una visione che però non affronta nel profondo i complessi problemi che hanno scatenato la guerra, siano essi economici, politici e sociali89. I numerosi protagonisti della pellicola si muovono dal centro alla periferia della città e il film acquisisce a tratti la forma di un road-movie circolare. Il vagare del taxi per le vie notturne di Belgrado è un collante tra le diverse storie, diventa il file rouge del film; l’inquadratura chiave della striscia divisoria dell’asfalto, illuminata dai fari del taxi, è un elemento di stacco e continuità 88 Analizzando il film, Nevena Daković afferma, riferendosi ai personaggi (e a tutti noi): “They (and we) to be accomplices of some sort as no one could stay with the ‘clean hands’. The character in the last story cries, ‘I’m innocent’ yet he dies in the explosion” in Cineatic Balkans/Balkan Genre, p.22. 89 Ivi, cit., p.21 120 nel corso del lungometraggio. Questa circolarità si riflette sulla struttura narrativa del testo filmico: l’incastro continuo e la sovrapposizione dei diversi frammenti di racconto compromettono una percezione lineare del tempo, venendo così a creare una metafora sulla “storia ciclica” dei Balcani, compressa nel film in meno di ventiquattro ore, che risponde ancora una volta a quella concezione in un certo senso mitica della storia jugoslava. Ne La polveriera non c'è una vicenda predominante, ma un'angoscia incombente che pervade ogni personaggio, situazione, inquadratura. La tensione viene allentata in alcuni momenti dal registro dell’ironia, che si tinge di grottesco e di sarcasmo. La cornice del cabaret assurge, appunto, ad una funzione di distacco ironico dalla tensione delle vicende e anche la veloce apparizione di una banda itinerante zigana che segue, a ritmo di musica, due giovani sposi prima che salgano sull’autobus che verrà dirottato. “Nelle situazioni disperate il riso è l’ultima difesa” ha dichiarato il regista90. Con la figura di Mané, l’emigrante, Paskaljević affronta uno degli elementi caratteristici di quello che Iordanova ha definito uno “state of mind” di Belgrado: il dilemma se stare o rimanere in Jugoslavia durante della guerra, che ha pervaso molti intellettuali e non solo, e il trauma degli esuli al loro ritorno. Mané è forse un alter ego di Paskaljević che ha vissuto per un lungo periodo a Parigi, durante gli anni del conflitto. Al suo ritorno a Belgrado, dopo cinque anni all’estero, ritrova una società sconvolta dalla sua stessa follia. Boris l’attore del cabaret gli confessa di aver sbagliato a rimanere e Manè a ritornare. Cerca di riconquistare Natalia, che ora ha un nuovo compagno, che lo ucciderà con una 90 P.Vecchi, Kusturica, Paskaliević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, cit. p.316. 121 badilata alla fine della notte. Quella di Mané è l’unica morte “surreale” del film. Il personaggio dell’emigrante di ritorno è interpretato da Miki Manojlović, Marko in Underground; ma tutto il cast è assolutamente degno di nota, citiamo tra gli altri Lazar Ristovski (il pugile omicida), già il Nero, Petar Popara, nel film di Kusturica. La polveriera è sostenuto da un’accurata sceneggiatura che affronta, anche con crudezza estrema, problematiche sociali presenti nella Belgrado di metà anni Novanta. Oltre al dibattito sull’emigrare o meno, analizza anche il fenomeno dei profughi dalla Bosnia e la loro difficile integrazione nella metropoli jugoslava; vivere a Belgrado assurge, inoltre, quasi a condizione metafisica di quel periodo: “Non c'è più luce in questo paese, solo quella dei ceri delle chiese” dice Boris a Manè, in una scena che racchiude diversi significati politici. Paskaljević racconta il suo paese e i suoi abitanti, mescola simboli, tematiche sociali, metafore, realismo (in abbondanza), leggende e storia, prosegue così la sua poetica tesa a registrare i moti dell’animo, iniziata a metà anni settanta con Il bagnino d’inverno (1976). Interessante è la sequenza dell’autobus in cui emergono elementi simbolici e storici: il torpore che avvolge i passeggeri, dal quale il giovane cerca di svegliarli istericamente, è quello di un popolo addormentato dal fatalismo; la mancanza di memoria e il rischio di una nuova guerra (“Nessuno ricorda niente…avete bisogno di un’altra guerra”, urla il ragazzo); il richiamo alla battaglia di Kosovo Poje (1389); la corsa impazzita del pullman è una discesa verso il baratro. La polveriera conferma come ragionare di Storia al cinema significhi anche riflettere sulla realtà sociale contemporanea, sui suoi conflitti pubblici e privati, sulla rappresentazione dei drammi individuali e collettivi. La guerra e il suo carico d’odio, pur non 122 rappresentati direttamente, pervadono tutto il film; oltre che dai dialoghi, il conflitto entra esplicitamente solo tramite la radio e le cronache sull’intensificarsi della violenza in Kosovo e sull’avvio delle trattative di pace. Ricordiamo infatti che è ambientato appena prima dell’accordo di Dayton (21 novembre ’95). “Bure Baruta (il titolo originale de La polveriera) ci racconta della realtà jugoslava, dei suoi foschi scenari, della sua disperazione, molto di più dei freddi resoconti di guerra; ci racconta del conflitto ‘prima’ del conflitto”91. Succede a volte che il cinema anticipi la storia, infatti, uno dei nodi centrali dell’ultima ricerca di Pierre Sorlin analizza i casi in cui la rappresentazione precede l’evento92. L’esplosione finale, mentre il giovane bosniaco fugge dai suoi nuovi aguzzini e le macchine cosparse di benzina incominciano ad incendiarsi, prefigura la guerra che pochi mesi dopo l’uscita del film si sarebbe scatenata nella realtà, in Kosovo e in Serbia. 4.2 I giovani registi e la generazione dei “ragazzi di Praga” Oltre a La polveriera, altri film mettono in scena lo “state of mind” che pervade i cittadini di Belgrado. Negli anni novanta la capitale jugoslava cambia profondamente volto. Subisce sia una marcata emigrazione che un’altrettanto numerosa immigrazione. Il regista Goran Markovic parla, riferendosi al 1995, di 400 mila belgradesi che hanno lasciato la città, su una popolazione di poco superiore al milione di abitanti, e dell’arrivo di un numero quasi uguale di serbi dalle zone di conflitto della “Grande Serbia” (territori della Bosnia e della Croazia)93. 91 Vito Zagarrio, Una ‘polveriera’. Il cinema contemporaneo e la storia., in “Passato e presente”, a.XVIII (2000), n.50. 92 Cfr. Pierre Sorlin, L’immagine e l’evento, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p.145. 93 Cfr. D.Iordanova, Cinema of flames, cit., p.266. 123 “The ‘stay or leave’ dilemma is equally pressing for those trapped in Belgrade”94, ha scritto Iordanova a proposito della condizione di vita e mentale che opprimeva gli abitanti della metropoli. Rimanere o lasciare Belgrado comportava pro e contro. Per chi lasciava la città, poteva significare dover ricominciare una vita da capo. Per coloro che restavano, la situazione era ancora più complessa, oltre a subire altrettanta pressione, stare a Belgrado significava accettare l’isolamento internazionale, fare i conti con una città che non si riconosceva più, invasa oltre che dai profughi, anche dai profittatori di guerra, rischiare di essere associati al potere autoritario, vedere, e vivere sulla propria pelle, il radicalizzarsi del nazionalismo in un luogo che si considerava aperto e invece si ritrova imbarbarito. E’ uno stato di alienazione e di depressione che coinvolge molti cittadini della capitale ed emerge nelle opere di diversi autori cinematografici. In parte riuscirà a conservarsi – come vedremo - quella vivacità culturale che ha sempre contraddistinto Belgrado, magari nascosta nei meandri o nei sotterranei della città. Lo dimostra infatti il fervore della cinematografia serba che si sviluppò soprattutto dalla metà degli anni Novanta. Sarà casuale, ma è un tratto che ricorre spesso nel corso della storia, quello che le espressioni artistiche e intellettuali traggano nuova ispirazione e ricerca culturale dalle situazioni critiche della Storia. Così successe in Serbia, governata per tutto lo scorso decennio da un governo autoritario ed aggressivo, dove fermentò una cultura di contestazione ricca e vivace. Tra quelli che rimangono, la desolazione di Belgrado, diventa uno stato della mente, che qualcuno chiama “Ghetto”, altri “Zombietown”, diventando così il titolo di due documentari. 94 Ibidem 124 Ghetto è il film di due giovani film-makers, Mladen Maticevic e Ivan Markov, prodotto da B92, la radio indipendente di Belgrado che nel gennaio del 1997 guidò la contestazione a Milošević. Girato nel 1996 è la prima opera che focalizza la propria attenzione sulla scena artistica e culturale di Belgrado, durante il periodo della guerra e delle sanzioni internazionali. Va alla scoperta di quella comunità di giovani, artisti, intellettuali e musicisti, che resiste, o meglio sopravvive, in un’epoca di povertà spirituale e materiale, al degrado che ha colpito la capitale jugoslava. La macchina da presa segue il percorso di un giovane musicista, il batterista degli “Electric Orgasm”, che vaga per la vie della città, in un’intera giornata. Incontra musicisti rock, fotografi, artisti, che nei sotterranei della città provano, fanno concerti, organizzano mostre e mettono in scena performance teatrali. Qui si rifugia l’anima cosmopolita della città. In superficie divampa la volgarità: per le strade trovi degenerati e criminali, nazionalisti invasati e profittatori di guerra affini al potere; persone venute soprattutto da fuori, che hanno conquistato la città, spogliandola dell’anima dei suoi abitanti. "Questa Belgrado non ha più niente a che vedere con la capitale della vecchia Jugoslavia" racconta la voce-over, mentre il protagonista del documentario scende nei sotterranei. Il corpo estraneo e rozzo che ha invaso la città, ha cacciato l'elemento urbano, cittadino, autentico e civilizzato di Belgrado in un “ghetto” sotterraneo, dove conduce una battaglia eroica per assicurarsi la semplice sopravvivenza. L’esperienza del giovane musicista, le interviste raccolte tra artisti e intellettuali belgradesi, profondamente critiche nei confronti della politica del regime, testimoniano un senso di frustrazione e di delusione generale. 125 Zombietown (1995) è il documentario di Mark J.Hawker, coproduzione jugoslava e inglese, che ha come protagonisti i deejay della radio B92, i quali hanno fatto una scelta coraggiosa. Rimanere a Belgrado contro ogni circostanza e lottare per rimanere sani di mente in mezzo alla follia del reale. Nel film, sostenuto da una ricercata colonna sonora di musica rock, Belgrado è descritta come grigia e disperata, tagliata fuori dal mondo e dove ogni cosa può succedere95. Questo stato di alienazione e follia si riflette anche in alcune opere letterarie come nel racconto The Month of Dying (1996) dello scrittore serbo Vladimir Arsenjević e pervade una serie di film di giovani registi jugoslavi, che ricreano attraverso il cinema questa atmosfera sconfortante che abbraccia tutta la Serbia degli anni Novanta. I protagonisti delle loro storie sono i giovani di quella generazione rovinata dal conflitto, in cui sono crescenti sentimenti di disperazione e rabbia. Nel già citato Why Did You Leave Me? (1992). Oleg Novković indaga i devastanti effetti della guerra in un piccolo gruppo di amici a Belgrado, coinvolti nella battaglia di Vukovar. Sono le vittime della cosiddetta “sindrome di Vukovar”, raccontata in un capitolo del libro di Luca Rastello La guerra in casa96, in cui viene evidenziato il tragico ritorno da Vukovar per molti ragazzi di leva dell’Armata popolare, dopo aver assistito alle torture commesse dalle milizie paramilitari serbe. Ispirato ad un romanzo popolare di Slobodan Selenić97, Premeditated murder (Ubistvo s predumisljanjem, 1996) di Gorćin Stojanović, vincitore del primo premio al festival “Alpe Adria” del '97, è un film che coniuga ricerca stilistica e analisi storica, delineando un quadro lucido della società serba durante 95 Cfr.D.Iordanova, Cinema of Flames, cit., p. 267. Luca Rastello, La guerra in casa, cit., p. 8. 97 Cfr.D.Iordanova, Cinema of Flames, cit., p.267. 96 126 l'ultimo conflitto balcanico. La rappresentazione dell’amore disperato tra la studentessa Jelena e il soldato Bogdan e parallelamente quella l’aristocratica nonna collettiva un di della dolorosa di Jelena, fanno intero popolo, le storia rivivere cui due di la Buika, tragedia "anime" sono simboleggiate rispettivamente da Jelena e Bogdan: la prima è quella della Serbia culturalmente vivace e pacifica degli intellettuali e studenti moderni e polemici; la seconda è quella della Serbia arcaica, con i suoi miti e antichi valori, e l’eroismo a volte fanatico e assurdo98. Tramite un frequente uso di flashback, il regista crea un rapporto dialogico tra passato e presente e tra storia collettiva ed esperienza individuale. La ragazza non riesce a convincere Bogdan a non ripartire per il fronte come volontario, lui vuole vendicare la famiglia uccisa dai croati e difendere la sua patria. Pian piano crescerà in lui la consapevolezza dell'assurdità del suo fanatismo, ma neppure tale consapevolezza riuscirà a sottrarlo al suo destino: morirà sul campo di battaglia. Al centro del terzo lungometraggio di Srdjan Dragojević, The Wounds (Rane, 1998), ci sono due adolescenti. Collocato a Belgrado negli anni del completo disordine dal 1991 al 1996, racconta l’ingresso nel mondo del crimine di due ragazzi, Pinki e Svalba. Sullo sfondo si situano le vicende politiche della Jugoslavia. Gli idoli dei due giovani sono i balordi del quartiere, ma soprattutto gli ospiti del talk show televisivo “Pulse of the asphalt”, dove i criminali più feroci del paese condividono le loro storie con gli autori e il pubblico. I due provano a partecipare alla trasmissione commettendo crimini reali, sprofondando da quel momento nella follia totale. Alla prima persona uccisa, nel ’93, arrivano 98 le telecamere della trasmissione guidate Cfr. Luciano Drobilovic, Il diverso e il nuovo nel cinema balcanico, in “Fucine Mute”. 127 dall’affascinante presentatrice Lidija, che subito chiede ai due diciassettenni di rendere più spettacolare e truce il loro omicidio, prima di andare in onda. L’escalation di violenza prosegue per alcuni anni, con il solito entusiasta seguito mediatico, fino alla loro morte. Il film si conclude con il ritorno all’inquadratura iniziale: siamo nel 1996, Pinki e Svalba attraversano in automobile una manifestazione popolare, tra le proteste della gente. Sono diretti verso il cimitero, dove moriranno, uccisi dai loro stessi proiettili. La vicenda rappresentata è, infatti, strutturata come un lungo flashback, dal ’91 in poi. L’opera di Dragojević, che nel ’99 lascerà la Jugoslavia per gli Stati Uniti, è mossa come sempre da un continuo sperimentalismo stilistico-narrativo e da una lucida e tagliente analisi dell’attualità socio-politica. Alcuni critici hanno rilevato analogie tra The Wounds e Arancia meccanica (1971) di Kubrick e L’odio (1995) di Kassovitz, o meglio con Natural Born Killer (1994) di Oliver Stone. Ma se la polemica di Stone è rivolta al modo irresponsabile con cui la società americana usa i media, la tensione dissacratoria di Dragojević si esprime contro un regime che strumentalizza i media, quello di Milošević. La struttura narrativa multiforme ricca di flashback e di flashforward, crea legami tra le vicende individuali dei personaggi e quelle collettive. Il film testimonia, inoltre, il terribile impatto che hanno avuto gli anni del conflitto su un’intera generazione. “Wounds analyses the terrible impact of modern-day Serbian politics on a whole generation that has been robbed of a future – it chronicles the moral and ethical destruction as it manifests itself in the lives of the two teenagers, as pure rage born of the particular Serbian anomie,…inarticulate, directionless, blind”99. 99 D.Iordanova, Cinema of Flames, cit.p.268. 128 Se i giovani autori jugoslavi sono contraddistinti da un maggiore interesse per il futuro già segnato e le vite smarrite degli adolescenti o della loro generazione in Serbia, i registi del “Gruppo di Praga” o affermatisi in quegli anni (metà anni settanta), rappresentano invece il fatalismo, la passività e la disperazione delle persone di mezza età, tutti elementi della particolare sindrome, di cui abbiamo già discorso, “Belgrade as state of mind”. I loro film riflettono un sentimento apocalittico e, occasionalmente, anche una certa autocommiserazione, le stesse emozioni che vivono molti cittadini della capitale. Ne è un esempio Between Heaven and Hearth (Ni na nebu ni na zemlji, 1994) di Milos Radivojević, dove tre amici sono costretti ad intraprendere azioni estreme, obbligati dalle difficili circostanze della guerra, che li porteranno irrimediabilmente a dividersi. Goran Marković100 in Burlesque Tragedy (Urnebesna tragedija, 1995) mette in scena un’altra metafora di questo “stato” che non tocca solo Belgrado ma è estendibile ad altre realtà urbane della Jugoslavia. Il regista si preoccupa di mostrare come nella contemporanea Belgrado i tradizionali concetti di normalità e follia abbiano incominciato a diventare intercambiabili, i cosiddetti “normali” sono depressi e incapaci di agire, mentre i “deviati” prosperano nel caos provocato dalla guerra, nei traffici d’armi, droga e carburante. La trama del film intreccia più storie: uno psichiatra che non è più in grado di curare i pazienti, un libraio che incomincia a bere e a picchiare la moglie e un attore che si spara nel bel mezzo della scena. La linea narrativa principale è quella che racconta la chiusura forzata di un ospedale psichiatrico di Belgrado, in cui i pazienti sono rimandati a casa. Il film - come ha notato Iordanova – rimane troppo 100 Marković è inoltre l’autore del documentario Serbia anno zero (2001), in cui abbraccia gli ultimi quindici anni di storia del suo paese. 129 criptico per essere compreso al di fuori della Jugoslavia. In occidente è stato inteso come la cronaca della follia serba e non come uno stato di insofferenza della popolazione belgradese, venato da uno “humour” nero, che all’estero pare incomprensibile101. Un’altra pellicola, colta non in tutta la sua interezza all’estero, è il coraggioso Marble Ass (1994) di Želimir Žilnik, uno degli animatori dell’”Onda nera” degli anni Sessanta. La guerra è anche a Belgrado, nonostante sia lontana dal fronte. Merlyn e Sanela sono due travestiti, si oppongono a modo loro alla forza brutale, dominante in quegli anni. Si prostituiscono con i soldati di ritorno dalla battaglia, per proteggere le donne dalla rabbia repressa dei soldati, fino all’arrivo di Johnny che rovescia con violenza l’insolita routine. L’unico film che è riuscito a comunicare al mondo esterno gli effetti del malessere e della follia, causati dalla guerra, è, come abbiamo visto, La polveriera. Goran Paskaljević è tornato a raccontare la realtà del suo paese nel 2004 con Sogno di una notte di mezzo inverno. Lazar (interpretato da Lazar Ristovski), torna nell’inverno del 2004, nel suo villaggio dopo dieci anni di carcere per aver disertato. La casa è occupata da Jasna, una rifugiata bosniaca, e da sua figlia dodicenne autistica, Jovana. Non ha il coraggio di mandarle via e tra loro si instaura un forte legame, ciascuno porta con sé un bagaglio di dolore ed emarginazione. Nel dramma di una bimba autistica il regista ricrea la metafora di un paese: “Sentivo l’urgenza di raccontare lo stato d’animo che si avverte oggi in Serbia, che come la bambina autistica, vive in una sorta di autismo sociale, una chiusura al mondo esterno, un caos dominato da sentimenti violenti, da una parte la voglia di andare avanti, dall’altra la permanenza di un odio mai spento. Ma forse è normale, la 101 D.Iordanova, Cinema of Flames, cit.p.268. 130 Germania ci ha messo vent’anni a curarsi le ferite della guerra e a fare i conti con il passato”102, ha dichiarato Paskaljević. Tra gli autori della sua generazione, anche Sdrjan Karanović analizza la Serbia contemporanea con Sguardi d'amore (Sjaj u ocima, 2003) presentato alla Mostra del cinema di Venezia. Si differenzia dagli altri, disegnando una commedia surreale, dai toni agrodolci, il cui principale riferimento è René Clair, a cui lo stesso regista ha dedicato il film. In una Belgrado in stato d’assedio, nella metà degli anni ’90, Labud, studente giunto nella capitale a seguito dell'ondata di profughi, conosce Romana, una ragazza che proviene dall'altra parte della linea etnica. I due si innamorano, ma nella loro storia si intromettono gli spiriti del passato, che interferiscono con la vita reale e fanno di tutto per separarli. Belgrado è, inoltre, location fondamentale de Il disertore (1992) di Pavlović e di Underground (1995) di Kusturica, opere affrontate approfonditamente in altri capitoli. Da qui parte anche il viaggio-documentario Super8 Stories (2001) di Emir Kusturica in compagnia della sua rock band “No-Smoking”, in una formazione in buona parte rinnovata rispetto agli esordi nei primi anni Ottanta a Sarajevo. 4.3 Gli altri film Di particolare interesse, all’interno della nuova cinematografia serba, è il cortometraggio My Country (Moja domovina, 1997) di Milos Radović, vincitore di diversi premi internazionali, che concentra la propria narrazione attorno ad un passaggio a livello ferroviario, nei pressi del quale si fermano un motociclista e un carro trainato da un cavallo; presto scoppia una violenta baruffa, in cui vengono coinvolti altri personaggi. Il regista introduce il 102 Maria Pia Fusco, La mia Serbia disperata, in “La Repubblica”, 7 gennaio 2005, p.48. 131 breve racconto cinematografico secondo gli stilemi del cinema western, con una serie di campi lunghi su una campagna serba, bruciata dal grano maturo, per soffermarsi poi su un luogo ristretto vicino alla ferrovia, dove sprigiona la sua “balcanica” tra surreale e grottesco. Radović muove vena un’acuta critica alla propria società, in un film senza dialoghi ma ricco di suoni e rumori. La contemporanea presenza di antico (la locomotiva a vapore; il capostazione con l'orologio da tasca, la vecchia motocicletta e il carro trainato da un asino) e di moderno (l'automobile sportiva superaccessoriata e il suo ricco proprietario) produce uno scontro violento con esiti assurdi. My Country è una riuscita rappresentazione, in forma allegorica, di un disagio realmente esistente nella Serbia contemporanea. “E’ una commedia che riguarda alcuni tragici eventi capitati poche settimane fa nella Serbia contemporanea. L’assurdo è uno stile di vita tipico del mio paese”103 ha affermato l’autore. Il cortometraggio partecipò al “Torino film festival” del 1997, vincendo il concorso, a cui due anni prima prese parte Goran Radovanović con Columba Urbica (1995), ambientato nel 1994 a Belgrado. Ai piedi di una fortezza medievale, nel centro della capitale, Jasar vive in una baracca abusiva senza acqua e elettricità. A causa di un’inflazione spaventosa, dovuta alla guerra e all’embargo, il prezzo dei viveri è diventato insostenibile e per i più deboli i bidoni dell’immondizia sono diventati l’unica fonte di sussistenza e la lotta che si scatena attorno ai rifiuti diventa ogni giorno più spietata. Jasar la perderà, ma non la volontà di sopravvivere. Erano le due e sei minuti quando, nella notte del 23 aprile del ’99, venne bombardato il palazzo della radiotelevisione serba di Belgrado (Rts) dai missili Cruise della Nato, sotto le macerie 103 La dichiarazione è inserita all’interno del catalogo del Torino film festival del 1997. 132 furono ritrovati i corpi di sedici persone, tecnici e giornalisti dell’emittente. Sedicipersone – Le parole negate del bombardamento della Tv di Belgrado (2003), è il titolo del documentario ideato e diretto da Corrado Veneziano, regista televisivo e d’Amico, con teatrale, la nonché consulenza docente giuridica all’Accademia di Domenico Silvio Gallo, magistrato presso il Tribunale Civile di Roma . Il film dà voce alle vittime che quella notte erano di turno nel palazzo della tv, tutte molto giovani. Lo fa intrecciando interviste, notizie, letture (come quella di alcuni passi dei trattati internazionali) e immagini inedite di quella tragica notte. Sono stati coinvolti nel progetto giornalisti e operatori della Rai e i colleghi della tv di Belgrado, insieme ad alcuni familiari delle vittime. Le loro parole e testimonianze si sovrappongono nel ritmato montaggio del documentario. “Due fronti contrapposti in una professione che come quella del cinema unisce le frontiere, quella dei giornalisti, dei tecnici, dei cineoperatori televisivi”104. In risposte brevi si concentrano il ricordo dei fatti, il racconto del proprio lavoro e i problemi relativi alla libertà ed autonomia dell’informazione. Sugli stessi avvenimenti si è soffermato Anatomija bola (Anatomia del dolore, 2000) di Janko Baljak. Ambientato proprio in quella drammatica primavera del ’99, quando Belgrado fu bombardata, è Zemlja istine, ljubavi i slobode (La terra della verità, dell’amore e della libertà, 2000), lungometraggio di fiction, di Milutin Petrović. Girato all’epoca dei cambiamenti politici in Serbia, la pellicola offre una visione particolare del racconto sulla guerra, che a tratti si ricollega al precedente “state of mind” belgradese e lo universalizza. Boris giovane tecnico del montaggio, sopravvissuto al 104 Silvana Silvestri, Le parole perduete della tv di Belgrado, in “Alias” (supplemento de “Il Manfesto”) , 14 maggio 2005. 133 bombardamento, da parte della Nato, dell’edificio in cui aveva sede la televisione di Stato, giunge in un ospedale psichiatrico, trasferito in un rifugio anti-atomico senza elettricità. Il suo compagno di stanza è il vecchio Nebojsa, ex comunista, che porta dentro di sé il fardello delle centinaia esecuzioni commesse sotto il regime di Tito, che l'hanno trasformato in una specie di pazzo che immagina di essere un personaggio del film in bianco e nero La spada miracolosa. Il regista Petrović e lo sceneggiatore Sasa Radojević raccontano la follia come uno stato d’animo non solo nazionale, ma anche del mondo intero che passa da una guerra all’altra. Un documentario interessante è Beograd-Bar (2003). Sul treno che collega il Danubio all’Adriatico, appunto da Belgrado a Bar, Vuk Janić documentarista di origine bosniaca, ascolta le persone che viaggiano, studenti e lavoratori. Per scoprire una Jugoslavia che non c’è più, lungo una strada ferrata che unisce, ma sulla quale si scorgono i segnali di un allontanamento crescente. Dusan Milić ha raccontato, infine, la Serbia post-bellica e il suo difficile passaggio alla democrazia in fiction, con Jagoda: fragole al supermarket (2003), caratterizzato da un mix di follia, violenza, musica, humour nero e chiare influenze kusturiciane. Nel film Marko, un ex componente dei reparti speciali irrompe, in tuta mimetica, nel primo supermercato in stile “americano” aperto a Belgrado, per far giustizia alla nonna, alla quale era stata rifiutata una confezione di fragole. L'imprevista conclusione di questo assedio serrato, comico e grottesco, sboccherà in una storia d'amore, inaspettata quanto mai travolgente, tra la spaurita Fragola (Jagoda), commessa del market, e il “devoto” nipote, Marko. 134 5 L A M ACEDONIA E IL K OSOVO Se percorriamo la Serbia in direzione meridionale incontriamo una regione essenzialmente montuosa, ricca di miniere e fiumi, che solo dieci anni fa conoscevamo a malapena. Si tratta del Kosovo che sul finire degli anni Novanta catalizzò l’attenzione internazionale, in vista dell’intervento militare della Nato, per placare la pulizia etnica in atto da parte dei serbi nei confronti degli albanesi. Una guerra che fu definita “umanitaria” e durò 78 giorni, a dispetto della settimana scarsa prevista dall’Alleanza Atlantica, dai risvolti complessi e poco noti. Pur facendo ancora parte della Serbia, la provincia autonoma è attualmente amministrata dalle Nazioni Unite. Il Kosovo confina a sud con la Macedonia, repubblica che ottenne l’indipendenza dall’ex-Jugoslavia nel 1993 e fu solo marginalmente coinvolta nelle guerre jugoslave (1991-1999), parzialmente dalla guerra del Kosovo, quando fu invasa da oltre 300 mila profughi in fuga, ma fu protagonista di un’ultima propaggine di conflitto che si verificò nella primavera del 2001 e fece registrare intensi scontri tra l’etnia macedone e quella albanese. Riuniamo i due “teatri di guerra” non solo per vicinanza geografica o per alcune affinità di carattere storico-culturale, ma anche perché protagonisti di un fenomeno particolare nel rapporto interagente tra cinema e storia. Negli anni Novanta la Storia è tornata ad irrompere nell’immaginario cinematografico contemporaneo, con un nuovo slancio e nuove variabili rispetto agli anni Sessanta105. Parafrasando Baudrillard106, negli scambi simbolici all’interno del sistema dei media, in particolare 105 Cfr. V.Zagarrio, Una ‘polveriera’. Il cinema contemporaneo e la storia., in “Passato e presente”, a.XVIII (2000), n.50. 106 Si veda Jean Baudrillar, Il delitto perfetto, Cortina, Milano, 1996 e Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2002. 135 audiovisivi, nell’incontrollata e continua produzione e interazione di immagini, nella rottura dei labili confini tra realtà e finzione, possiamo scoprire come in alcuni casi il cinema anticipi la realtà. E’ un passo ulteriore rispetto alla nozione del cinema come agente di storia, elaborata da Marc Ferro107; la rappresentazione paradossalmente precede l’evento. Nella maggior parte dei casi, come ovvio, l’evento crea l’immagine, ma può anche accadere l’inverso. Il rapporto tra le due dimensioni si rivela rinnovato e forte di una nuova ambiguità: fin dove arriva il vero, fino a quando possiamo parlare di immaginario? Pierre Sorlin, che ha dedicato un libro a questa problematica, ha scritto: “Le immagini, rappresentano il mondo e talvolta influiscono sulle circostanze o suggeriscono un modo di interpretare gli eventi. In una parola, esse elaborano l’evoluzione storica, “fanno” la storia, dei giorni che corrono così come quella scritta dagli storici”108. Succede allora che il film Sesso e Potere di Barry Levinson (1997), satira sulla manipolazione mediatica, diventi improvvisamente realistico (se non addirittura quasi reale) con l’intervento militare in Kosovo. In esso il presidente americano viene coinvolto in uno scandalo sessuale, quando mancano due settimane alle elezioni presidenziali. Prima che l'incidente possa causare danni irreparabili per la rielezione, viene convocato alla Casa Bianca, Conrad Brean (Robert De Niro), consulente esperto di mass media a cui viene affidato il compito di spostare l’attenzione dell'opinione pubblica verso un altro avvenimento. Brean coinvolge abilmente il produttore hollywoodiano Stanley Motss (Dustin Hoffman). Costruiscono mediaticamente un’improbabile guerra contro l’Albania, a cui gli Usa non possono sottrarsi. Vengono girati in studio falsi servizi di finti reporter, 107 108 M.Ferro, Cinema e Storia, cit. P.Sorlin, L’immagine e l’evento, cit., p.145. 136 inviati al fronte, ed arrivano le prime vittime americane di guerra. Un conflitto creato al computer, dove l’immagine di una donna disperata ed in fuga da un villaggio bombardato commuove le platee mondiali. Al di là delle marcate analogie con il caso Monica Levinsky (che ha coinvolto il presidente Clinton), il film, che offre un’amara riflessione sulle potenzialità manipolatorie dei media, è diventato improvvisamente attuale con l’avvento nell’immaginario collettivo dell’operazione della Nato in Serbia. Se confrontiamo l’immagine “virtuale” della donna con quelle “reali” e successive dei profughi del Kosovo, assolutamente poco virtuali, che da lì a poco avrebbero invaso gli schermi domestici di milioni di persone, rimaniamo spiazzati per come il cinema avesse potuto anticipare la realtà dell’oggi. Anche Prima della pioggia (1994) di Milcho Manchevski anticipa in un certo senso, in via indiretta, le tensioni che si sarebbero verificate tra macedoni e albanesi in Macedonia negli anni a venire. La Macedonia considerata, fin dallo scoppio della guerre jugoslave, come una prossima Bosnia, così la raccontano alcuni documentari (What about Macedonia? del ’94 e Macedonia: the next Bosnia? del ‘95), arrivò all’indipendenza (nel settembre del 1991), unica tra le repubbliche, senza spargimento di sangue. Il suo riconoscimento internazionale venne però più tardi, dopo lunghe trattative tra la fine del 1993 e il 1995, a causa dei veti da parte della Grecia, che contestava l’uso del nome Macedonia, già utilizzato da una propria regione, arrivando a promulgare un embargo nei confronti della piccola repubblica. In Macedonia si erano verificate tensioni interetniche nell’autunno del 1992, ma non si respirava quel clima di pre-guerra civile, rappresentato dal film di Manchevski, che prese invece forma, nel 1995 (con l’attentato al presidente della Macedonia Kiro Gligorov) e poi drasticamente nel 2001 con gli intensi scontri tra slavomacedoni, 137 etnia maggioritaria, e gli albanesi che già nel 1998 rivendicavano lo status di “nazione fondatrice” della Macedonia. Il mese di marzo del 2001 fece registrare intensi conflitti a fuoco tra la polizia macedone e la neonata Uck locale. Scrisse Manchevski: “Mi sentivo a disagio nel collocare uomini con i mitra nel mio film: non ce n'erano in Macedonia a quell'epoca. Mentre scrivevo la sceneggiatura, durante la preproduzione, le riprese e il montaggio, una domanda mi perseguitava: sto davvero ritraendo la mia terra in uno specchio deformante? [...] Dopo che alcuni spettatori - sia in patria che all'estero - mi chiesero perché c'erano uomini con i mitra nel film, dissi loro che Prima della pioggia non è un documentario, che non oserei fare un documentario su un tema cosi complesso come la guerra nei Balcani, che esiste tensione in Macedonia ma non uomini col mitra. Il film è una metafora, la storia potrebbe svolgersi in qualsiasi Paese (inclusi, ma non solo, la Bosnia, l'Irlanda del Nord, la Russia o gli Usa) e dovrebbe servire da avvertimento, non da testimonianza. Infatti, il massacro bosniaco andava avanti, ma al di là delle montagne - in Macedonia - non un solo proiettile veniva sparato”109. 5.1 Prima della Pioggia Prima della pioggia (Before the Rain) è il primo lungometraggio di Machenvski, regista macedone, che aveva abitato molti anni in America, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel ’94. Il film a struttura circolare, con numerosi rimandi interni, è diviso in tre capitoli, ognuno con un titolo diverso: Parole, Volti e Immagini. Tre episodi paralleli destinati tragicamente ad incrociarsi tra loro. 109 Milcho Manchevski, Balcani di sangue non posso più raccontarli, in “Corriere della Sera”, 29 agosto 1997. 138 Nel primo capitolo, ambientato in Macedonia, Kiril, giovane monaco ortodosso votato al silenzio, vive in un convento sulla riva dell’incantevole lago di Ocrida, al confine con l’Albania. Una sera scopre che nella sua cella si è nascosta Zamira, una ragazza albanese, braccata da un gruppo di uomini macedoni armati: l’accusano di aver ucciso un loro “fratello”. Per proteggerla Kiril decide di fuggire insieme a lei nella notte e rompere il voto, le promette di raggiungere Londra, dove vive suo zio, fotoreporter affermato. Al mattino vengono raggiunti dai parenti albanesi di Zamira, che uccidono la ragazza. In “Volti” siamo a Londra: una donna inglese, Anne (Katrin Cartlidge), redattrice in un’agenzia, si incontra con Aleksander (Rade Serbedzija), l’uomo con cui ha una relazione. Aleksander è un famoso fotografo di origine macedone, che ha appena vinto il premio Pulitzer ed è appena tornato dalla Bosnia, sconvolto dalla guerra e da un rimorso: pensa di aver ucciso qualcuno anche solo con lo scatto della macchina fotografica. Vuole tornare in Macedonia, abbandonare per un po’ il lavoro, e chiede alla donna di seguirlo. Anne è combattuta, a Londra ha ancora il marito con cui i rapporti sono ormai logorati. La sera in cui gli rivela di essere incinta e di voler divorziare, nel ristorante in cui cenano, irrompe un uomo armato, probabilmente un serbo, che spara nel mucchio e uccide il marito. Nel terzo episodio Alekxander, tornato in Macedonia in cerca di quiete, si trova coinvolto invece nel conflitto fra i suoi parenti macedoni e i vicini albanesi. Vorrebbe incontrare la donna che ha amato in gioventù, ma ogni contatto con gli albanesi è pressoché impossibile. Il giorno successivo, scopre che i suoi parenti tengono sequestrata la figlia della donna, che é Zamira. Sceglie di proteggere la ragazza e subisce la vendetta dei propri cugini. 139 E’ difficile stabilire un rapporto cronologico tra gli episodi, perché le azioni, soprattutto tra il primo e il secondo, tendono parzialmente a sovrapporsi e a non coincidere perché “il cerchio non è rotondo”. Viene così messa in crisi la circolarità della struttura attraverso quelli che lo stesso regista ha definito “paradossi temporali”110, ovvero le varie incongruenze che si verificano nel film, quasi degli slittamenti nella curvatura del tempo, che impediscono alla vicenda di ripetersi esattamente identica nel gorgo del divenire temporale. Se, come si intuisce alla fine, il funerale del primo episodio è quello di Aleksander, come fa lui stesso a fotografare il corpo inerme di Zamira? L’immagine, che ritrae la morte della ragazza, si rivela nuovamente ambigua, funge da immagine-affezione e condiziona imprescindibilmente la rottura di quella circolarità degli eventi che sembrava fatale e necessaria. Alexander, dunque, può, da morto, fotografare il decesso di Zamira, mentre Anne può ricevere una telefonata da Kiril, ma questi non aver ancora assistito alla morte di Zamira, e ancora Anne può avere le foto di Alexander seppure non sia ancora partito. “Tali paradossi squarciano davvero la barriera del tempo non per definire l''assurdo' ma, anzi, per aprire al 'possibile', per creare dei varchi, delle uscite e delle soluzioni. Il cinema diventa in Manchewski l’infinita ipotesi da scrivere e riscrivere, ripercorrendola, rifacendola in un gioco continuo di dettagli - di 'parole', 'volti' e 'immagini', appunto - che spostano, fanno slittare gli esiti, sconfinandoli nell''altrove'” 111. Più volte nel film ritorna il motivo dell’imperfezione del cerchio, nelle parole dell’anziano monaco “Il tempo non muore, il cerchio non è rotondo”; in una frase simile su un muro londinese o “Il 110 Cfr. Alberto Crespi, Prima della Pioggia, in “Cineforum”, n.338, 1994. Cristina Boracchi, Tempo lineare e circolarità: a proposito di ‘Prima della pioggia’ di M. Manchewski, in “Comunicazione filosofica”, n.13, Sfi, aprile 2004. 111 140 tempo non aspetta; il cerchio non è rotondo”, pronunciata da un altro personaggio. La storia non si ripete o almeno non del tutto. Forse conta più la successione che il riannodarsi delle immagini, testimoniando quello spiraglio di speranza, di cui parla Manchevski, che si può intravedere nella drammaticità del film. Se alla fine la ragazza corre verso il convento, corre verso la salvezza, visto che il fotografo è morto e non potrà scattare la foto. Ma il regista infonde ambiguità anche in questa sequenza. Allo stesso tempo se è un messaggio di speranza, il non ripetersi della storia (la ragazza morta nel primo episodio potrebbe non essere uccisa nel terzo) può contenere un messaggio d’angoscia mass-mediologica, come lo definisce Alberto Crespi con l’accezione del dubbio: “Senza foto, non c’è la morte, perché ciò che non è testimoniato, non documentato, non esiste?”112. Nel suo alternarsi tra la Macedonia e Londra, Manchevski dà vita a un film degli “opposti”. Il silenzio monacale opposto al crepitare delle mitragliatrici; la Macedonia antica e ricca di storia che si scontra con la Londra moderna e consumistica; un fotografo specchio della realtà, in contrapposizione all’inesorabile crudezza della vita. Ai contrasti che la pellicola crea nell’intricato intreccio narrativo corrispondono altrettante unioni. Sia tra i personaggi che vivono contemporaneamente in luoghi diversi e distanti, fisicamente o con la propria immagine fotografata, sia perché scopriamo gradualmente come i protagonisti del film siano, tra loro, parenti o comunque strettamente legati: Kiril è nipote di Aleksander; Zamira è figlia della donna che il fotografo aveva amato. Si trovano, anche a loro insaputa, su fronti opposti durante il conflitto interetnico, come spesso è accaduto in Jugoslavia, dove si sono fronteggiati ex-vicini, abitanti degli stessi villaggi. 112 Alberto Crespi, Prima della Pioggia, cit. 141 Manchevski con Prima della piogga ha sviluppato un proprio stile registico, ricco di riferimenti cinematografici. Se l’inizio del primo episodio potrebbe far pensare all’Infanzia di Ivan (1962) di Tarkovski, bastano pochi minuti per smontare questa prima influenza. La sequenza in cui Kiril entra in camera e scopre Zamira dura un minuto in cui si condensano almeno quindici tagli di montaggio, campi esasperati, tagli di luce sui primi piani. Al mattino arrivano i miliziani macedoni alla ricerca della ragazza, in un’atmosfera quasi western. Si delinea così un’importante fonte ispirativa, Sam Peckinpah, a cui Manchevski è particolarmente legato (come si è potuto notare, tra l’altro, nel suo secondo lungometraggio, Dust). A parte la sequenza, di cui si è detto, il primo episodio è scandito da un ritmo più lento, in cui si alternano campi lunghi di paesaggi lunari a scene di sottesa violenza, rispetto al secondo ambientato a Londra, caratterizzato da un montaggio incalzante, affine al cinema contemporaneo nord-americano. Anche in questo capitolo pare però di scorgere, qualcosa di inconsueto, a proposito della sequenza del ristorante con il dialogo tra Anne e il marito: “nella forza oscura che raggiunge la coppia quella sera sembra di sentire la precisione fantastica e geometrica del Kieslowski di Film Rosso”113. Convivono in Manchevski due anime diverse in bilico e senza ansie di equilibrio: una occidentale e l’altra est-europea, non prive di contatti e contaminazioni. Un approccio “cosmopolita” che rispecchia il suo essere e la sua vita, quella di un uomo che si sforza “di vivere a Skopje e di lavorare a New York”114 come lui stesso ha dichiarato. Di certo non può stupire, se scorriamo il suo curriculum, come invece successe, anche positivamente, a 113 114 Paolo Taggi, Prima della pioggia, in “Segnocinema”, n.71, 1995. Alberto Crespi, Prima della pioggia,.cit. 142 Venezia nel ‘94115. Manchevski ha, infatti, vissuto e lavorato molto negli Stati Uniti, come regista di videoclip e pubblicità. Il carattere cosmopolita dell’opera si manifesta inoltre nella babele linguistica del film (macedone, albanese, inglese e francese) e nella colonna sonora che spazia dai brani inediti degli Anastasia, gruppo macedone che mescola folk tradizionale ed elettronica, all’hip-hop dei newyorkesi Beastie Boys (che risuona nel walkman del miliziano macedone), da Lene Hovich, cantante americana di origine jugoslava (“Home” è il pezzo che apre il secondo capitolo), a Bob Dylan, citato esplicitamente da Aleksander, quando a due passi da un cimitero londinese pronuncia: “A hard rain’s gonna fall” (titolo di una delle canzoni più politiche del cantautore). Gli episodi intrecciati tra loro in maniera “atemporale” ricordano Mystery Train di Jim Jarmush (1989), e si ricollegano ad alcuni stilemi stilistico-narrativi sviluppati dal cinema contemporaneo di cui anche Manchevski può essere considerato uno degli autori più interessanti: Pulp fiction (1994) di Tarantino non arrivò prima, bensì lo stesso anno di Prima della Pioggia. L’atemporalità richiama, inoltre, nel film una dimensione mitica, che il regista pone in dialogo critico e simbolico con il presente e la realtà. Nel terzo episodio, che chiude e contemporaneamente riapre il cerchio del tempo, Aleksander tornato in Macedonia, ritrova una realtà che non gli appartiene, che non conosceva. Non ne poteva più di sangue e di guerra, della Bosnia e di Londra, ma scopre che l’odio fratricida non ha risparmiato la sua terra dimenticata. Sono con buona probabilità presenti elementi autobiografici nella costruzione del personaggio di Aleksander. Al suo ritorno il fotoreporter non ritrova più le sue radici, spaesato, davanti ad una situazione che non comprende, diventa apolide, lacerato da 115 Cfr. Tulio Kezich,, “Il Corriere della Sera”, 27 Ottobre 1994. 143 un senso di colpa per aver scattato le foto di una fucilazione, dopo aver confessato ad un militare la sua frustrazione per essere a corto di foto sensazionali. “Sta per piovere” solo le ultime parole che pronuncia, guardando il cielo di nuvole nere, un’immagine che ricorre frequentemente nel film, la cui diegesi si svolge tutto prima della pioggia, tranne le ultime inquadrature. Quando cade finalmente la pioggia, forse catartica, anche sul volto di Zamira in fuga verso il monastero. Passano sette anni prima che esca il secondo film di Manchevski. Dust (2001), meno riuscito e più confuso dell’esordio, si muove nel tempo e nello spazio ancora con maggiore disinvoltura: dal 2000 agli inizi del secolo scorso, dall’America alla Macedonia. A New York, alle soglie del XXI secolo, il giovane ladro Edge trova la padrona di casa Angela, con una pistola in mano. L'anziana signora lo costringe ad ascoltare una vecchia storia, solo così potrà ottenere le sue antiche monete d’oro. Il racconto di Angela inizia nel selvaggio west, dove due fratelli sono innamorati della stessa donna, che però sceglie Elijah, il minore. Luke, amareggiato, decide allora di cambiare vita ed arriva in Macedonia in un clima del tutto simile a quello appena lasciato, anche qui domina la legge del più forte . Ben presto diventa uno spietato mercenario e partecipa agli scontri sempre più cruenti tra le numerose bande locali. Dust è un omaggio al cinema western, creando il primo “eastern movie” ambientato nei Balcani. Attraverso il racconto del passato e i suoi legami con il presente ci parla della condizione umana e della futilità della guerra. La cinematografia macedone dopo l’exploit di Prima della Pioggia è rimasta un po’ fuori dalla scena, ma in questi ultimi anni ha nuovamente presentato opere interessanti. Teona Strugar Mitevska, dopo essere stata in concorso al “Torino film festival” 144 del 2001 con il cortometraggio Veta (2000), ha esordito con il suo primo lungometraggio nel 2004, How I Killed a Saint. Il film racconta il ritorno in patria di una giovane ragazza, Viola, che dopo un lungo periodo vissuto negli Stati Uniti, decide di tornare in Macedonia. Al suo arrivo, trova però povertà e subbuglio. Le forze Nato non riescono a contenere le violenze e a placare l’atmosfera di tensione in cui vive la gente. La situazione non è diversa a casa di Viola: il fratello minore, Kokan aspira a diventare un terrorista e viene invischiato in traffici criminali, i genitori sembrano dimenticare il mondo esterno, e il nonno, exmilitante, passa tutto il tempo davanti alla televisione. Quando Konan prepara il suo primo grande attacco, la vita dei due fratelli cambia quasi completamente. Mitevska offre uno sguardo lucido sull’instabilità del presente in Macedonia, che vive in una sorta di limbo infernale tra guerra e infinito dopo-guerra. 5.2 Il Kosovo sul grande schermo: tra documentario e fiction Dalla Macedonia passiamo al Kosovo. Per quanto riguarda la rappresentazione cinematografica del piccolo territorio balcanico non abbiamo un film di richiamo internazionale. Tra le opere di fiction si distinguono Kukumi (2005) e Vento di Terra (2004) dell’italiano Vincenzo Marra. Kukumi è l’ultimo lavoro del regista Isa Qosja, che ha regalato al Kosovo il primo importante premio in un festival internazionale, gran premio speciale della giuria al Sarajevo Film Festival. Kukumi, ambientato nei mesi successivi al trattato di Kumanovo (10 giugno ’99) che pose fine alla guerra in Kosovo, prende il nome da uno dei tre protagonisti che lasciano un ospedale psichiatrico abbandonato dopo l'ingresso delle truppe Nato nella 145 provincia serba. Kukum, Mara e Hasan si ritrovano a contatto con quelli che ritenevano "liberi", ma non sono accettati e i pregiudizi e gli odi di prima si ripetono. La libertà non è ciò che si immaginavano. Attorno a loro la violenza giunge ad un culmine insopportabile, Kukum muore accidentalmente e due dei tre amici preferiscono far rientro in manicomio. Il film è una metafora del buco nero del Kosovo odierno. Attraverso tre esperienze personali Qosja racconta la storia collettiva del suo paese: le tensioni tra serbi e albanesi, la burocrazia delle Nazioni Unite, le truppe straniere stanziate nella provincia; sono lo scenario in cui si muovono frastornati i tre protagonisti, coscienti che soltanto essendo uniti tra loro riusciranno a far fronte a un mondo così radicalmente cambiato. “Tutto il film è una metafora. La libertà c'è quando si è in grado di aiutare e capire l'altro"116 ha dichiarato Qosja, durante la conferenza stampa seguita alla proiezione. Gli unici che lo hanno compreso sono i tre amici, considerati malati di mente. Vento di Terra (2004) è il secondo lungometraggio di Vincenzo Marra, dopo l’ottimo esordio Tornando a casa (2001). Vincenzo è un ragazzo napoletano vive con la famiglia nel difficile quartiere Secondigliano. Dopo la morte del padre, per evitare lo sfratto che lascerebbe l’anziana madre in mezzo alla strada, cerca un lavoro che non trova, si arruola allora nell’aeronautica e viene presto assegnato alla campagna militare in Kosovo, da dove tornerà gravemente malato per colpa dell’uranio impoverito con il quale è venuto a contatto. Marra sceglie un punto di vista interno alla società che racconta, attraverso uno stile asciutto e scarno, in cui la denuncia sociale si incrocia con lo spirito del reporter. Fa propria una sensibilità vicina al neorealismo: gira 116 Enza Roberta Petrillo Il Kosovo (www.peacereporter.net.), 30 agosto 2005. in un film, in “Peacereporter” 146 esclusivamente in ambienti reali e si serve di attori professionisti e non. Napoli è poi una città ritratta in presa diretta, con i suoi rumori, suoni, emozioni e contraddizioni in primo piano. “Nell´ammirevole misura dei novanta minuti, Marra mette in scena i ‘paesaggi’ umani e sociali che un emarginato di oggi si può trovare a percorrere: la periferia degradata, la caserma con i suoi soprusi, gli enigmi incomprensibili di un dopoguerra lontano e assurdo. Lo fa senza alcun compiacimento: il suo stile si è persino prosciugato. Rispetto ai film ‘medi’, quello di Marra sembra un architrave di film, un progetto in cui tutti gli orpelli sono stati espunti”117. Un altro film italiano ha raccontato il Kosovo: Radio West (2004) di Alessandro Valori. Il titolo prende il nome dalla stazione radio dei militari italiani in missione in Kosovo. Nella pellicola un gruppo di soldati del contingente italiano della Kfor (International Military Force in Kosovo), in missione di pace in Kosovo, affronta quotidianamente lo scenario disgregato e violento di una guerra che dovrebbe essere appena finita. Girato in digitale, forte di una fotografia sgranata e traballante, il film affronta le esperienze personali di tre soldati, i loro drammi. Al racconto oggettivo e partecipe della realtà, si alternano così gli sguardi soggettivi dei personaggi sul mondo e sulla guerra. La voce narrante del dj della radio rimanda direttamente a Good Morning Vietnam (1987) di Barry Levinson. Un discorso a parte merita la fiction televisiva, prodotta dalla Rai, Soldati di pace (2003) di Claudio Bonivento, che come Radio West si sofferma sull’operazione di “peace keepking” che vede impegnati i soldati italiani in Kosovo. Miniserie televisiva in due puntate (andate in onda nel giugno del 2003), segue giorno per 117 Alberto Crespi, Soffia un duro ‘Vento di Terra’ nell’ottimo film di Marra, in “L’Unità”, 22 settembre 2004. 147 giorno, le vicende dei giovani militari che rischiano la vita sia per la minaccia di attentati, sia per risanare zone minate, e allo stesso tempo si impegnano a ricostruire una terra distrutta ad aiutare la popolazione martoriata. Racconta in particolare la storia del soldato Vittorio Di Blasi che con poca convinzione, e per denaro, firma per andare in Kosovo; qui la sua vita cambierà e ritroverà felicità, nonostante le angosce ed i problemi che condivide con gli altri soldati. E’ stato girato quasi interamente in Kosovo e in Bosnia, una piccola parte in Campania vicino a Paestum. Retorico e buonista, Soldati di pace, si fa portatore di un’interpretazione della storia politicamente corretta, con alcuni elementi in un certo senso propagandistici, a proposito della missione italiana, che prima del contingente multinazionale Kfor, ha fatto parte del discusso intervento militare della Nato contro la Serbia. Molti sono i documentari che hanno analizzato la situazione del Kosovo. Deca Fëmijët/Children Kosovo 2000 di Ferenc Moldovànyi (2002) racconta con intensità, rigore e delicatezza come i bambini albanesi, rom e serbi del Kosovo, rapinati dell'infanzia, siano le vittime più indifese della guerra e dell'odio che ne è la causa e la conseguenza. Il titolo del film è costituito da due parole che significano bambino, in serbo e in albanese. I dannati del Kosovo (2003) è un’inchiesta di Michel Collon e Vanessa Stoijlkovic sulle condizioni di vita nel Kosovo postbellico. I “dannati” sono le vittime della contro pulizia etnica perpetrata dall'Uck albanese sotto lo sguardo indifferente delle forze militari internazionali presenti nell’area, Nato e Onu. Sono serbi, rom, goranci, askaljia, turchi: una ricchezza di lingue e culture che costituivano il Kosovo multietnico. Gli autori denunciano la mancanza di attenzione dei media rispetto a 148 questo problema. Parallelamente il documentario affronta un’analisi politica su come le guerre in Kosovo e Iraq siano indistintamente legate al petrolio. La Bbc ha prodotto La caduta di Milošević (2002) un documentario che raccoglie nuove testimonianze sulla guerra del Kosovo. Percorre gli anni dal 1998 al 2001, attraverso interviste ed immagini inedite: i contatti tra l’Uck e gli Stati Uniti, la promessa dell’indipendenza della regione mai ottenuta, la guerra, il caso Kosovo visto dall’occidente, il crollo del regime serbo e l’arresto di Milošević. Realities Kosovo/a (2005) di Eva Ciuk, regista e giornalista triestina, dà voce alle minoranze dimenticate del Kosovo (rom, ashkali, egiziani, gorani, turchi), che fin da prima della guerra avevano vissuto all'ombra delle dispute, politiche e sociali, tra la maggioranza albanese e la minoranza serba. Oltre due anni di lavoro, trascorsi in mezzo alla gente, per ascoltare la voce dei protagonisti di quella che è stata e per certi versi continua ad essere una catastrofe umanitaria, nel tentativo di documentare un quadro attendibile della situazione di disordine che ancora regna in quella porzione di Balcani. Un documentario costruito soltanto sulle testimonianze raccolte, senza l’intervento di una voce-over, interamente concentrato sui fatti descritti e sulle persone interpellate, alcune delle quali si sono rifugiate in Italia. Interessante e articolato è il lavoro di Giancarlo Bocchi, documentarista di guerra che al Kosovo ha dedicato tre documentari. In Fuga dal Kosovo (1999) un padre, una madre e due bambini piccoli cercano scampo dalla guerra attraverso un viaggio infernale tra frontiere e polizie, banditi e scafisti alla ricerca di un' altra vita in un paese occidentale. Nei volti, nelle lacrime, nelle vicissitudini della povera famiglia Hiseni, che ha dovuto 149 affrontare due guerre - quella per fuggire dal Kosovo e quella per arrivare in Italia - si può leggere la tragedia di un intero popolo . Protagonista di Kosovo anno zero (1999), che cita apertamente nel titolo Germania anno zero (1948) di Rossellini, è un bambino kosovaro di etnia albanese, cacciato dal suo villaggio dalla pulizia etnica serba. Adem ha assistito ad una fucilazione, in cui sono stati uccisi alcuni abitanti del villaggio e pensa che tra loro ci sia anche suo fratello, che non trova più. Finita la guerra, torna dall’Albania nel suo paese e fortunatamente lo ritrova, scampato al massacro. Invece, non c’è più notizia delle quaranta persone sequestrate nel villaggio. Kosovo nascita e morte di una nazione (2001) descrive un Paese dal 1998 al 2000, attraverso un mosaico di sette storie che portano sullo schermo i drammi e le sofferenze della popolazione kosovara di tutte le etnie, vittima della guerra, dei massacri, dei genocidi e della manipolazione del potere e dei media. E’ un viaggio attraverso il passato ed il presente, che svela molti fatti sconosciuti di un conflitto che non si è mai concluso. L’immagine del cielo invaso dai corvi segna il passaggio e il collegamento da una storia all’altra. Bocchi si sofferma, sulle persone; la macchina da presa registra i traumi di una popolazione martoriata e ne raccoglie le storie. Attraverso le loro parole e le immagini di villaggi ed edifici religiosi distrutti, l’autore tratta più argomenti: la pulizia etnica dei serbi contro gli albanesi, i bombardamenti della Nato e la contropulizia etnica da parte degli albanesi, guidati dalla violenta Uck, nei confronti di serbi (che ora vivono in eclaves), rom e albanesi non allineati. Il film è un documento importante che testimonia la violenza in atto tra i kosovari dopo la guerra del ’99. 150 6 LA GUERRA TRA MITO , REALTÀ E METAFORA Uno dei tratti fondamentali della rappresentazione delle guerre jugoslave sul grande schermo è la particolare miscela di realtà e mito, messa in scena dai registi sull’ultimo conflitto balcanico. Nel capitolo affronteremo un’analisi a proposito di questa problematica, considerando il contesto culturale, storico-politico e cinematografico in cui le opere nascono, nonché le diverse funzioni a cui si presta il mito, nel suo uso pubblico, artistico e storico, e la rappresentazione filmica della storia della Jugoslavia e delle varie identità nazionali. Tre film verranno presi successivamente in considerazione: Pretty Village, Pretty Flame (Lepa sela, lepo gore, 1996) di Srdjan Dragojević, Savior (1998) di Predrag Antonijević e Beautiful People (1999) di Jasmin Dizdar. Sono stati girati durante gli anni successivi al conflitto bosniaco e prodotti in differenti paesi: la pellicola di Dragojević è una produzione jugoslava, mentre le opere di Antonijević e Dizdar, sono partecipazione rispettivamente americana jugoslava. e Tutti tre e inglese, affrontano lo con stesso soggetto: la guerra della Bosnia, considerata come paradigma della guerra dei Balcani. Riferimenti saranno rivolti ad altri film in particolare: Prima della pioggia (1994), La Polveriera (1998), No man’s land (2001) e Underground (1995). Negli anni Ottanta dopo la morte di Tito, durante una forte crisi economica e il sorgere dei nazionalismi vi è un’ampia riscoperta di miti popolari, da un punto di vista antropologico, etnografico e storico. Uno dei fini, quello più strumentale, è quello politicopropagandistico esercitato da numerosi leader nazionalistici, vedi, per esempio, i continui richiami da parte del nazionalismo serbo al mito del re Lazar e all’eroica sconfitta subita dai serbi cristiani contro i turchi ottomani a Kosovo Poje (Campo dei Merli) 151 nel 1389, per far emergere, artificialmente, differenze insormontabili ed antiche ferite tra i popoli che abitano la Jugoslavia. Il passo è breve, anche attraverso la manipolazione mediatica, alla costruzione del conflitto su presupposti etnici. L’origine della guerra nei Balcani, come sarà successivamente spiegato, non è certo etnica. Le cause sono diverse, di natura socio-politico-economica, tra cui si distingue la volontà delle lobby nazionalistiche al governo nelle varie repubbliche di mantenere il potere, ma la complessità non può nemmeno essere ridotta a quest’unica motivazione. A cavallo tra anni Ottanta e Novanta in Jugoslavia, come nelle mitologie politiche novecentesche si occultava quello che già il filosofo tedesco Herder aveva definito, sul finire del Settecento, il potenziale liberatorio e intrinsicamente illuministico del mito, il suo potenziale utopico118. Ma il mito porta con sé anche il residuo perturbante, non risolto, terrifico del pensiero che trova espressione per esempio nell’arte, come ha sostenuto Karl Heinz Boher119. E’ il motore di un dibattito che prosegue da oltre due secoli, iniziato da Hegel (il primo teorico di una “mitologia della ragione”)120, in seno alla filosofia idealistica, che indaga la rifunzionalizzazione sociale del mito e propone le mitologie come discorso fondante del moderno. Questi studi e ricerche hanno ripreso vigore dagli anni sessanta del ‘900 in poi, soprattutto in Germania, delineando quella particolare branca dei cultural studies, detta mitocritica. Il primo approccio interdisciplinare in Italia sulla questione della neue Mythologie è offerto dal volume collettivo curato da Michele Cometa Mitologie della ragione, 118 Michele Cometa, Mitocritica, in M.Cometa (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma, 2004, pp.290-299. 119 Ibidem 120 L’interpretazione della questione mitologica è sollevata nelle ultime righe del manoscritto hegeliano Das älteste Systemporgramm des deutschen Idealismus ritrovato nel 1977. 152 Letteratura e miti dal Romanticismo al Moderno121, dove le mitologie vengono intese come quel repertorio di “fabulae” in cui si annidano e si conservano i sogni, le speranze e le utopie dell’umanità e in cui il non-razionale convive con la ragione. Sono infinite le tipologie di mito e le mitologie, nonché la loro struttura linguistica; ciò che ci interessa, in questo capitolo, è l’interpretazione mitica della storia dei Balcani, il rapporto tra il mito e la storia contemporanea nella rappresentazione del conflitto e i collegamenti continui tra passato e presente, in una relazione quasi meccanica di causa ed effetto, ricorrenti nell’immaginario balcanico. Si è delineata così un’interpretazione della storia dei Balcani, che mescola realtà e mito, e viene intesa come ciclica ed immersa in un tempo perdurante, dominato dal destino. Tale visione viene riproposta in numerosi film e si contamina con altri elementi caratteristici, come la relativizzazione del dramma jugoslavo, che assurge ad un valore universale, lo sguardo critico nei confronti della contemporaneità (la premessa realistica è il motore di ogni opera), un rigetto dell’isteria nazionalistica, che ha contraddistinto il cinema rispetto ad altri media – come vedremo – nella sua opposizione alla guerra. Vengono inoltre sollevate le problematiche relative alla rappresentazione e all’auto-rappresentazione di una nazione, o meglio delle nazioni che costituivano l’ex-Jugoslavia: la guerra civile e le loro relazioni sono osservate dal resto del mondo (vedi la struttura di outsider/insider, di Beautiful People e Savior) o sono visti dagli stessi Paesi (il caso interbalcanico di Beautiful People), o addirittura si differenziano nelle singole e mutevoli rappresentazioni di una nazione come in Pretty Village, Pretty Flame. La differenziazione delle nazionalità e le corrispettive 121 M.Cometa (a cura di), Mitologie della ragione. Letteratura e miti dal Romanticismo al moderno, Ed.Studio Tesi, Pordenone, 1989. 153 immaginazioni dell’altro, seppur presenti, non hanno comunque un ruolo cardine nell’interpretazione filmica del conflitto, altri sono i concetti che la compongono. Il “nemico” non è mai un’altra nazione o gli abitanti di essa, ma è il destino impassibile, o al più i politici corrotti e i profittatori di guerra, trasversali tra le varie nazionalità. Utilizziamo come riferimento teorico principale della ricerca, i saggi di Nevena Daković, docente di Teoria del film all’Università delle arti di Belgrado autrice di Yugoslav wars: between myth and reailty122 e Cinematic Bakans/Balkan Genre123, mantenendoli in dialogo con gli studi di Dina Iordanova, Božidar Zečević e della storica bulgara Maria Todorova. Ritornando al Jugoslavia, si contesto noti storico come i della media disgregazione abbiano promosso della una percezione assolutamente semplificata dei vari conflitti. Sono stati spiegati come la rinascita delle eterne ed ataviche tensioni etniche, che si Un’interpretazione sono intensificate costruita dai nelle mezzi di ultime guerre. comunicazione attraverso la manipolazione e disegnata dal potere politico come il pretesto che ha fatto innescare il conflitto, durante la lunga incubazione prima della guerra nella seconda metà degli ottanta. E’ un’analisi, sulle origini etniche, avvallata, anche in Occidente; ciò appaga alcuni schematismi nella percezione dei Balcani. Nell’ex-Jugoslavia si viene, inoltre, ad ipotizzare un primo scontro di civiltà su base religiosa, posizione molto cara al presidente croato Franjo Tudjman, che riprende alcune tesi del 122 Il paper di Nevena Daković è stato presentato all’interno di un’articolata sessione di studi “Media Practice and Performance Across Cultures”organizzata dall’Università del Winsconsin-Madison, svoltasi nel marzo del 2002 http://polyglot.lss.wisc.edu/mpi/Activities/activities.htm. 123 N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, cit. 154 politologo Samuel Huntington124. In Jugoslavia il fattore religioso è, invece, assolutamente secondario. Durante la nascita di nuovi stati-nazione i governi delle repubbliche enfatizzarono molto la storia nazionale. “Justifying the latest Balkan butchery analysts and politicians revive and reinterpret the past that explains the wars; serves as a model for the future and inspiration for the present”125 spiega Daković. Gli stati-nazione costruirono il mito, dalle molte facce, della nazionalità e dell'identità nazionale, che diventò lo spirito motore di tutto. La politica nazionalista era aggressiva e sostenuta da un uso politico e strumentale della storia, della cultura e delle arti. Le argomentazioni venivano costantemente svolte a proposito dell’eterogeneità geografica, linguistica e religiosa, differenze Jugoslava. soppresse La artificialmente successiva durante dissoluzione della la federazione Jugoslavia fu considerata il requisito preliminare per il ritorno all’indipendenza storica e democratica degli stati-nazione, mentre le guerre etniche erano imposte come il conseguente e sfortunato esito per realizzare tale progetto. Il nazionalismo rappresentava però anche una facciata che mascherava le altre cause, ugualmente reali, del conflitto. In questo clima, c’erano tutte le ragioni per immaginare una conversione, non solo linguistica, da etica in etnica (ethos into ethnic) nel cinema, come in tutti gli altri media. Questo fortunatamente non accadde, poiché i registi ritennero impossibile prendere una posizione, rifiutando di associarsi 124 S.Huntington sostiene che dopo la caduta del comunismo i principali conflitti nel mondo non sarebbero stati più ideologici o economici ma di “natura culturale”, tra appartenenti diverse civiltà, come quello tra la civiltà cristiana e quella musulmana. Vedeva nella Bosnia il primo scontro di civiltà. Cfr. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997. 125 N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit. 155 all’isterica propaganda nazionalista, che si rivelò una trappola creata dagli stessi mass media126. Nella vasta produzione cinematografica sul conflitto balcanico, l’accordo di Dayton, che mette fine alla guerra in Bosnia, segna un punto di snodo. Prima del 1995, la rappresentazione dell’assedio di Vukovar focalizza l’attenzione dei registi, come simbolo dell’inferno bellico. Le storie affrontano dilemmi morali universali o le sofferenze individuali, le personali tragedie durante della guerra. Due strutture narrative si ripetono nei film: il dramma del ritorno a casa e la storia d’amore impossibile tra persone di etnie diverse, stile “Romeo e Giulietta”. Si mantengono distanti dalla retorica nazionalista, che contrastano. Dopo il ’95, oltre ad aumentare la produzione audiovisiva, si consolida una visione mitico-fatalistica della storia e della guerra, come elemento inevitabile del destino balcanico. Il presente viene, inoltre, letto attraverso le vicende passate in un rapporto di concausa. Underground di Emir Kusturica, esce nel ’95, e codifica due caratteristiche importanti del nuovo genere cinematografico: l’utilizzo di un ventaglio di riferimenti mitologici, fatalistici, antropologici e nazionali sulla natura e le cause del conflitto da un lato e dall’altro una struttura narrativa, realizzata attraverso un dialogo permanente tra passato e presente127. Seppure i film costruiscano articolate metafore, complesse strutture narrative e superino gli stereotipi propagandati dai media, spesso rifuggono dalle vere cause del conflitto in questa visione mitica della storia. Una visione che è consolidata sia all’interno dei che all’esterno Balcani e in parte si può ricongiungere all’analisi sulla loro percezione in Occidente e sulla 126 127 Ibidem Cfr. N.Daković, La guerra sul grande schermo, cit. 156 autopercezione degli stessi popoli jugoslavi, affrontata nell’importante libro di Maria Todorova, Immaginando i Balcani (2002). La storica bulgara, ora docente all’Università dell’Illinois, smonta analiticamente l’immagine stereotipata e negativa dei Balcani creata geograficamente dalla cultura inscindibile occidentale. dall'Europa, ma Una terra culturalmente costruita come “l'altro”128. Traccia un rapporto tra realtà e finzione, attraverso fonti letterarie e non, che hanno contribuito all’immagine schematica e fuorviante dei Balcani. Svela i modi in cui un’insidiosa tradizione intellettuale è stata costruita, descrivendo la penisola come il regno dell’instabilità politica e addirittura della barbarie. Un discorso che Todorova definisce “balcanismo” (il cui feticcio epistemologico è l’orientalismo di Edward Said) e che affonda le radici nel XVIII secolo, ma si è cristallizzato agli inizi del Novecento, al tempo delle guerre del 1912-13 e poi della prima guerra mondiale. Uno stereotipo che è divenuto mito ed è stato utilizzato anche in diversi studi accademici. E’ un’immagine che si è anche autoriflessa nei Balcani e che nel cinema, spogliata dagli elementi di razzismo, riemerge nella concezione mitica della Storia, dominata dal destino di una nazione (condannata alla violenza della guerra). L’altro elemento, quello del rapporto di conseguenza diretta e inscindibile tra passato e presente, occupa le pagine delle numerose “istant history” (i saggi storici che escono durante il conflitto) sul crollo dell’ex-Jugoslavia e le argomentazioni di molti documentari. Strutturati secondo una visione teleologica del conflitto che Iordanova ha considerato la “trappola” dell’istant 128 I Balcani sono spesso serviti come ricettacolo delle caratteristiche negative su cui costruire un’immagine positiva e gratificante dell’ “europeo”. Cfr. Maria Todorova, Immaginando i Balcani, Argo, 2002, Lecce. 157 history129, che distoglie dalla complessità e dalla modernità del nuovo conflitto. Convenendo con il teorico del cinema jugoslavo Božidar Zečević, non possiamo che ribadire che l’incontro dell’artista con la Storia non muove dal desiderio di ricostruire delle scene della storia mondiale, ma, al contrario dalla necessità di capirla e di rappresentarla in una propria chiave creativa. Si arriva ad “un legame paradossale tra storia e mito che è caratteristico dell’epica e del dramma, come del resto anche di gran parte della letteratura”130. Ciò che forse non viene attuato nelle pellicole sull’ultimo conflitto, è quella particolare “distanza critica” dal mito che – come nota Zečević – il regista croato Lordan Zafranović, uno dei membri del “gruppo di Praga”, aveva utilizzato nell’introduzione della Storia in Okupacija y 26 slika (L’occupazione in 26 immagini), anche quando le due categorie interagivano reciprocamente e si compenetravano nel corso del film. E’ ovvio che ci troviamo in un contesto diverso ed è importante sottolinearlo: i film sulle guerre jugoslave (19911999) nascono dentro al contesto che raccontano, ovvero la disgregazione dell’ex Jugoslavia in quegli anni; il film di Zafranović è, invece, del 1978 (Arena d’oro a Pola e in concorso a Cannes) ed è ambientato nella seconda guerra mondiale, quindi in un contesto diverso da quello relativo alla sua lavorazione. Il film, che ottenne i maggiori riscontri di pubblico in Jugoslavia e in Cecoslovacchia nella stagione 1978/79, racconta le atrocità commesse dai collaborazionisti ustascia durante l’occupazione italiana e tedesca della città di Dubrovnik nel 1941 e fu, tra l’altro, reso famoso da una memorabile sequenza su un autobus in cui si scatena la ferocia degli assassini. 129 D.Iordanova, Cinema of flames, cit. p. 73. Božidar Zečević, Mito, storia e rivoluzione nel film Okupacija y 26 slika, in AA.VV., Iugoslavia il cinema dell’autogestione, Marsilio, Venezia, 1982. 130 158 A Belgrado, negli anni Novanta, tra i registi che rifiutano di assecondare il discorso enfatizzato della guerra e dell’identità nazionale (che sono la maggior parte), alcuni si rifugiano in generi come la commedia o il melodramma. Gli autori che, invece, scelgono di affrontare l’incandescente contemporaneità e di rimanere all’interno di quello che sta diventando un nuove genere: il film di guerra sul conflitto balcanico, l’immagine del conflitto come fatalità o male inevitabile che ritorna nel corso della storia, privilegiando storie locali, il ritorno a casa dei soldati, o la globale tragedia umana. Alcuni dei riferimenti interpretativi ricorrenti nei confronti dell’attuale guerra, riportano la visione mitica, tristemente ciclica, della storia della Jugoslavia: la guerra è il destino dei Balcani; la guerra come maledizione balcanica; un conflitto tribale in un angolo del mondo; “la guerra è come un virus” dice il medico che diagnostica i conflitti come malattia endemica dei Balcani (“Prima della pioggia”, di Milcho Manchevski, del 1994). Ad inizio capitolo abbiamo visto come l’establishment nazionalista utilizzi il mito in chiave politica e strumentale, il cinema se ne serve, invece, in tutti altri termini. Anziché il mito storico della nazionalità – spiega Daković - i film costruiscono la mitologia cosmopolita della guerra come malvagità antica e perenne di tutti gli ambienti multiculturali (e non soltanto alla soglia dell’Europa)131. I Balcani (e la Jugoslavia) sono come la polveriera che esplode regolarmente ogni cinquanta anni in una nuova guerra, secondo regole non scritte, come riporta nel titolo il film di Paskaljević (1998), intriso di lacerante realismo. È impossibile fermarla, evitarla o posticiparla. Nelle guerre jugoslave tutti o quasi sono vittime e non ci sono vincitori o perdenti e spesso gli stessi “carnefici” possono 131 Cfr. N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit. 159 diventare vittime. La popolazione civile viene, a volte, descritta come “unfortunate people in the time of evil”. I film sostengono la tesi di un umanismo essenziale, della sofferenza universale e sono contrassegnati da una esplicita posizione pacifista. La responsabilità e le colpevolezze sono distribuite su molte spalle, quelle dei politici corrotti e malvagi, sui profittatori di guerra e soprattutto sul destino prestabilito. I film, come testi di diniego e dubbio, puntano il dito, tragicamente e melodramaticamente, verso una gamma di forze che vanno al di là della comprensione o del controllo dei personaggi principali. Il nemico non è l’altra nazione, ma il destino scritto, che appare attraverso diverse rappresentazioni metaforiche: dalla figura di San Nicola (Why did you leave me? di Oleg Novkovic, 1993), ai fantasmi del passato che vivono sottoterra (Underground, 1995), ai “dogs of war”, ovvero i paramilitari serbi e croati che hanno devastato la città di Vukovar (Vukovar Poste Restante, di Boro Drasković, 1994), fino all’eterno campo di battaglia, nell’apoteosi finale di No man’s land di Danis Tanović (2001), ispirato a leggende nazionali, sia da un punto di vista antropologico sia etnografico. In Pretty Village, Pretty Flame i protagonisti sono gente comune sotto la morsa di un destino multiforme: condizionamento psicologico dei media; l’orco delle fiabe; il l’oscurità del tunnel o quella di Slobo. Slobo, da ex gestore di un bar di campagna a profittatore di guerra, è una versione contemporanea dell’orco che chiaramente evoca Slobodan Milošević. Il concetto di guerra ricorrente, perenne, viene messo in scena non come solo come questione regionale ma come tragedia universale. E’ la relativizzazione del luogo, in questo caso il “cronotopo” bosniaco della guerra, una delle caratteristiche principali che contraddistingue il discorso filmico. Sostituendo 160 nomi o luoghi, i film potrebbero descrivere anche altri conflitti moderni. Le storie diventano così universali e portano con sé una molteplicità di significati e una struttura stratificata, di complessa lettura. “The simple substitution of geographical, personal names or time would allow the narrative to be about conflict in any other part of the world in any decade of XXth century. The tragical perspective of growing chronological and geographical mobility allows the story to become universal, deeply human and of widest possible meaning”132. Ora analizzeremo il rapporto tra mito e realtà, che prende in considerazione anche la tematica dell’identità nazionale, nei tre film anticipati ad inizio capitolo. Pretty Village, Pretty Flame (1996), secondo lungometraggio del regista serbo Srdjan Dragojević costituisce una delle rappresentazioni più complesse della guerra in Bosnia (19921995). Si confronta con un soggetto, considerato ancora “esplosivo”, costruendo un’articolata struttura visiva e narrativa, supportata da un’ispirata miscela di realtà e mito, caratterizzata da uno sguardo acuto, a tratti dissacrante, sulla società e da un uso sapiente di metafore. La storia raccontata è basata su un evento reale della guerra bosniaca: un gruppo di soldati serbi bloccati nel tunnel Bratsvo i Jedinstvo (nato sulla scia della retorica titoista dell’unità e della fratellanza), nel cuore del territorio nemico. Le scene dell’assedio sono intrecciate con le memorie, personali e storiche, prima della guerra e con le vicende successive ambientate in un ospedale a Belgrado, dove gli unici tre superstiti del gruppo serbo sono ricoverati, da qui partono i ricordi di guerra e gioventù. Insieme delineano con 132 Ibidem 161 attenzione quattro periodi e diversi strati narrativi, passando dal 1971 al 1980 e dal 1992 al 1994, in modo non lineare. Il film sceglie due strategie contrastanti di rappresentazione: da una parte, la soppressione sistematica e la decostruzione delle identità nazionali in guerra, frantuma la tesi semplificata della guerra etnica; dall’altra, la decontaminazione della guerra dall'etichetta di “etnico” promuove nella visione di Dragojević, il concetto universale e mitico della guerra133. Se in Underground uno dei personaggi conclude dicendo che, “non c’è guerra fino a che il fratello non va contro il fratello” ed entrambi i personaggi sono serbi, in Pretty Village, Pretty Flame, la situazione si rivela più complessa, poiché le figure dei “fratelli” Milan e Halil, amici di infanzia ora su fronti opposti, sono rappresentate da un serbo e musulmano, non “veri” fratelli secondo la propaganda dell’identità nazionale, che vorrebbe i serbi di Bosnia uniti nella “Grande Serbia”. Il film mette, invece, in rilievo le somiglianze fra serbi e musulmani. In diversi casi, i nemici in guerra appartengono agli stessi strati sociali (l’ufficiale serbo Gvozden e quello musulmano, compagni all’Accademia militare), usano gli stessi stereotipi, credono nelle stesse cose, come Milan e Halil, e sono più vicini, tra loro, che i compagni della stessa fazione. Per Milan, alla fine l' “altro demoniaco”, il rivale, è più Slobo che Halil. In una delle ultime sequenze, nella quale Halil e Milan si ritrovano quasi faccia a faccia fuori dal tunnel, è impossibile distinguerli, come serbi e musulmani: entrambi sono soldati alla ricerca di una vendetta, pieni di rabbia per le sofferenze patite e intrisi da un confuso rancore nazionalista, che inconsciamente li ha penetrati, sintomo crudele della propaganda bellica, che artificialmente li ha divisi. E’ esplicativo il dialogo relativo a questa scena: Halil si trova nella collina sopra il tunnel, mentre 133 Ibidem 162 Milan è appena sotto, un leggero movimento di macchina li riunisce in un’unica inquadratura, dominata dalle fiamme che illuminano il buio della notte. “Ci sei entrato nel tunnel!” urla Halil, “Ci sono entrato” risponde Milan. “Perché hai incendiato la nostra bottega?” chiede Halil. “Perché hai sgozzato mia madre?” dice l’altro. “Io non ho sgozzato nessuno”, “Nemmeno io ho dato fuoco alla bottega”, si rispondono. “E chi è stato? L’orco del tunnel. Che sia stato l’orco del tunnel Milan?” dice sarcastico Halil, riferendosi all’orco di cui da bambini avevano paura e pensavano nascosto nel tunnel,poco prima di morire per lo scoppio di una granata. Forse non sanno che è Slobo uno degli artefici della morte della madre di Milan, che tra l’altro l’aveva visto durante l’incendio della casa di Halil e della bottega, aperta dai due prima della guerra. La guerra come costante mitologica balcanica è messa a fuoco esplicitamente nel prologo e nell’epilogo metadiegetico, ideati come un falso cinegiornale, il primo nel 1971 e l’altro alle soglie del 2000. In tutti e due viene inaugurato il tunnel “di fratellanza e di unità”, secondo il motto della ex-Yugoslavia multietnica che univa le diverse repubbliche. Nel prologo è inquadrata la prima inaugurazione voluta da Tito; nel finale, la ricostruzione dopo la guerra. Ma sono chiari gli elementi di comunanza. Nella breve sigla del documentario iniziale, intravediamo due elementi spiazzanti: la data contrassegnata come xyz e il numero dell'edizione, quello del diavolo, 666. Un incidente durante la cerimonia di apertura del tunnel, nel 1971, fa presagire la tragedia futura: il politico in doppio petto, epitome della burocrazia del regime, si taglia il dito invece, che il nastro e il sangue finisce a fiotti sul viso della bambina che sta accanto134. 134 Dragojević non risparmia certo allo spettatore la violenza della guerra, in tutta la sua crudeltà, e a volte l’esagera in chiave grottesca, attraverso modalità che l’hanno fatto 163 Parallelamente, alla fine del film, durante la manifestazione per la riapertura del tunnel, ricostruito in breve, un’immagine analoga (il dettaglio di un dito ferito accanto al nastro) annuncia implicitamente la futura distruzione. La storia torna così al punto di partenza, all’alba di una nuova e potenziale guerra che verrà, completando il cerchio storico. “The 'brotherhood' based upon friendship, childhood, memories is destroyed by fatal, inevitably drive for war and destruction and only distantly by nationalism”135. Nel 1998 è uscito Savior di Predrag Antonijević, regista di origine jugoslava, ma residente negli Stati Uniti. Il film prodotto da Oliver Stone e sceneggiato da Robert Orr, utilizza il personaggio di uno straniero, un soldato mercenario, come vettore principale, per addentrarsi nel caos balcanico. Un ufficiale americano (Dennis Quaid), dopo l’uccisione di moglie e figlio in un attentato di terroristi islamici a Parigi, decide, sconvolto dall’accaduto, di arruolarsi nella legione straniera (d’ora in poi si chiamerà Guy) e, alcuni anni dopo, consumato da sentimenti di vendetta, finisce a fianco delle truppe serbe per combattere i musulmani, durante il conflitto in Bosnia. La guerra e un particolare incontro lo cambieranno profondamente, risvegliandone l’umanità profondamente addormentata. Attraverso il suo sguardo disorientato, seguiamo lo sviluppo tragico della guerra. In quanto “straniero” ed incapace di afferrare l'essenza o scoprire le radici del conflitto, giunge ad una visione della guerra come mitica fatalità. Con questo espediente, il regista ottiene tre scopi: normalizza ed appiattisce il discorso accomunare a Pulp Fiction di Tarantino, sia per il sangue che scorre a fiotti, che per le scelte e il ritmo di montaggio, nonché per i complessi incastri tra i diversi strati narrativi che compongono l’opera. Certo ci sono analogie tra i due autori, ma anche grandi differenze stilistiche, tematiche e d’approccio storico-culturale. In Dragojević non c’è una vera e propria spettacolarizzazione della violenza e spesso anche nella sua esibizione, la violenza è sempre autodistruttiva. 135 N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit. 164 etnico, a proposito delle varie identità nazionali, arrivando ad un umanesimo universale; in secondo luogo, sottolinea le similitudini tra le esperienze di guerra nel mondo collegando indirettamente la “balcanizzazione del mondo” con la “mondializzazione dei Balcani”136; terzo, apre lo spazio a molte rappresentazioni della guerra. Antonijević sperimenta, in realtà, una formula narrativa già rodata. I riferimenti cinematografici principali sono rivolti al “thriller politico” ambientato in situazioni di crisi nel Terzo mondo. Per esempio, Un anno vissuto pericolosamente di Peter Weir (1983), Sotto tiro di Roger Spottiswood (1983) e Urla del silenzio di Roland Joffe, (1984). Tutti e tre raccontano l’esperienza catartica di uno straniero (nei tre film si tratta di un giornalista), che alla fine riesce a superare i travagliati problemi personali e trova, nel paese distrutto dalla guerra, un nuovo significato di vita. Questo modello è stato adattato alla situazione jugoslava, in modi diversi, sia in Savior, sia in Benvenuti a Sarajevo di Michael Winterbottom (1997), che affrontano rispettivamente i viaggi, anche interiori, di un ufficiale e di un giornalista. La squadra di autori internazionali che firmano Savior bilancia il discorso della guerra, dominato dalle brutalità etniche con una filosofia dell’uguaglianza, dell’umanesimo e del cosmopolitismo. La storia dell’ufficiale, diventato un freddo cecchino in guerra, si intreccia casualmente con quella di Vera, una ragazza serba incinta dopo aver subito una violenza da un gruppo di soldati bosniaci musulmani. La sua famiglia la respinge, non vuole un figlio della pulizia etnica, l’ufficiale decide di aiutarla. Quando Vera viene aggredita da un serbo invasato, che la minaccia di 136 Il termine “balcanizzare”, nato in riferimento all’instabilità e alla frantumazione della penisola Balcanica nei primi del Novecento è diventato un termine di comune uso in campo politico e giornalistico, per indicare lo smembramento di uno stato. 165 morte, Guy lo uccide e fugge con la ragazza e il bambino appena nato verso un territorio sicuro. Il racconto filmico si sviluppa allora come un road-movie, attraverso una serie di episodi in cammino verso il territorio sicuro e, all’interno del contesto diegetico, si inserisce una struttura melodrammatica, precisamente una combinazione di melodramma materno e religioso. Il percorso/viaggio esterno, reale, spaziale è parallelo a quello interiore e psicologico. “The growing up to maturity consisting of the gradated acts of sacrifices”137. Il sacrificio è quello della madre per il bambino o quello dell’ufficiale americano che, grazie alla fiducia ritrovata in sé, accetta di prendersi cura del piccolo sopravvissuto. E’ la prova estrema d’amore, di redenzione, che guida il racconto: il sacrificio conferma la redenzione e porta alla salvezza. Nel finale intriso di religiosità vediamo l’ufficiale in riva al mare con il bambino in braccio all'alba di nuovo giorno. In quest’istante la domanda più ricorrente che si rivolge lo spettatore è chi sia il salvatore: il bambino, l'uomo o la donna. In un momento storico così violento, tutti possiamo essere salvatori in attesa di essere salvati e nel caso specifico del film, le tre figure principali si aiutano contemporaneamente a ritrovare uno spiraglio di speranza dopo le tenebre, verso la salvezza138. Antonijević dall’interno, esplora ma il con paesaggio uno della sguardo guerra esterno, balcanica descrivendo un’atmosfera, violenta, multietnica ed ipertrofica. Nel film tutti i gruppi militari o paramilitari serbi, musulmani e croati commettono crimini tremendi contro i civili innocenti. Un dato interessante, per la nostra ricerca, è l’alto numero di riferimenti verbali ed iconografici che fanno rivivere gli stereotipi 137 N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit. “In the frenzied, aggressive world we are all saviors waiting to be saved” scrive Nevena Daković. 138 166 della seconda guerra mondiale, in primis i nomi cetnico e ustascia. Infatti, la possibile sovrapposizione di scene tratte dalle due guerre (seconda guerra mondiale e conflitti degli anni '90) conferma il tempo mitico dei Balcani. Il tempo circola, ricco di eventi ripetuti e di “deja vu”. Allo stesso tempo, relativizzando la guerra locale, il film tenta un parallelo con il conflitto in Medio Oriente tra ebrei e palestinesi e sottolinea gli argomenti religiosi, nello scontro tra musulmani e cristiano serbi in Bosnia. Ricorrono, inoltre, nel film riferimenti alla tradizione giudaicocristiana e, in un particolare momento, Guy rivela di chiamarsi in realtà Joshua. Si uniscono così spazialmente due guerre in realtà ampiamente diverse, non essendo le guerre jugoslave conflitti religiosi. E’ un processo, che comunque, al di là del profilo ideologico, nella sua intenzionalità metaforica ha un suo significato e ricorre nei film sulla disgregazione jugoslava. Come anticipato ad inizio capitolo, relativizzando la guerra di Bosnia, intesa come cronotopo e paradigma delle guerre jugoslave, i film giungono ad una “cosmopolitizzazione” e “denazionalizzazione” sia della sindrome balcanica che dello stesso conflitto. L'ultimo film, preso in considerazione come caso specifico, esemplifica già nel titolo un modello di tematica multiculturale, Beautiful People (1999), confrontando vari membri appartenenti a molte etnie, in diversi luoghi, occasioni e livelli. Diretto da Jasmin Dizdar, regista bosniaco da anni a Londra, diplomatosi anche lui alla Famu di Praga, mette in scena un mosaico di storie, attraverso un iniziale “short cut” in cui pian piano si delineano l’esperienze di venticinque personaggi, tutti coinvolti nelle vicende della Bosnia, che si trovino a Londra o nell’ex-Jugoslavia. La trama si sviluppa attraverso incontri accidentali tra i personaggi del film, in trenta diverse location sparse tra la capitale inglese e Srebrenica. La narrazione 167 ramificata offre una visione piuttosto schematica relativamente al conflitto etnico, inteso come “fatto ricorrente”, drammatico, nel corso della Storia, senza seppur un particolare riguardo alla luogo e al tempo in cui si sviluppa. La serietà del tema di base è presto interrotta nel film, che sceglie un registro tragicomico per raccontare le vicende. Dizdar sceglie i toni della commedia, attraverso una sferzante ironia, che non risparmia la violenza della guerra. Riesce così a smantellare i potenziali moralismi, l’eroismo e mette in crisi la retorica delll’identità nazionale. Chiusi nella stanza d’ospedale di Londra un croato, un serbo e un gallese discutono delle diverse vicende nazionalistiche, tracciando un sottile parallelismo tra le situazioni a livello europeo e il fenomeno della guerra etnica, debalcanizzato. Lo spirito balcanico, considerato esotico, contamina Londra, facendo emergere analogie con la storia britannica, che nel corso dei secoli è stata un terreno fertile per le tensioni etniche. Tale spirito diventa allora ibrido e non più esotico. Nello stesso ospedale, sboccia la storia d’amore fra Pero, bosniaco, e Portia, figlia ribelle di una ricca famiglia conservatrice inglese, un’infinita variazione del tema shakespeariano di “Romeo e Giulietta”. Si sposeranno, superando il parere negativo della famiglia “tory”. Il loro matrimonio unisce metaforicamente commedia romantica e politica: la complessa relazione tra Balcani ed Europa giunge ad un lieto fine, non privo di ambiguità. Durante il ricevimento nuziale, Pero confessa il suo passato: ha ucciso senza disprezzo e ripetutamente in guerra, ma ora si è pentito. “He repented and became 'just like you', 'one of you' - that produces twofold effect. It signals the ambivalence of the happy end (in the way of 168 the best Sirkian irony); the 'instability and improbability of the peace and continuation of the conflict”139. In entrambi gli ospedali, quello di Londra e quello di Srebrenica (dove finisce catapultato per sbaglio il giovane tossico e nullafacente, Griffin), i bimbi bosniaci aiutano gli inglesi nella loro vita. Il medico inglese trova una nuova famiglia proteggendo la coppia bosniaca e il neonato bambino (figlio anche lui di una violenza della pulizia etnica), che viene chiamato Caos. Griffin adottando l’orfano bosniaco diventa da figlio reietto a cittadino modello. La metafora principale che sottende la storia è quella di un mondo come un ospedale, o addirittura un ospizio, in cui le vite sono in terapia. La gamma di citazioni oltre a Shakespeare, include riferimenti a Freaks (1932) di Browning per i toni esagerati in un mondo capovolto e a Prima della pioggia di Manchevski, per l’ambientazione a metà tra Londra e la Jugoslavia. Racconta una particolare “sindrome bosniaca” che porta un'identificazione totale con la vittima. Succede ad esempio a Jerry, reporter Bbc, che dopo l'esperienza infernale in guerra sviluppa la “sindrome bosniaca”, e vuol farsi amputare una gamba in un ospedale di Londra. Tutti i personaggi comunque provano ad accettare gli altri e a cambiare se stessi. L'origine bosniaca della guerra ha ceduto il passo ad altri elementi rilevanti nella struttura narrativa e il film prende così la forma di una commedia sociale, romantica e contro la guerra, dal valore universale. Dopo aver analizzato i film presi in esame, possiamo sintetizzare alcune caratteristiche della rappresentazione cinematografica. 139 N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, cit.pp.22-23. 169 Delineano strategie che possono a volte rilevarsi contrastanti ma che sottolineano la peculiarità del discorso filmico sulla guerra dei Balcani, rispetto ad altri media o ad altre forme artistiche. Ricorrono questi modelli: il rapporto costante tra mito e realtà, che chiama in causa una visione fatalistica della storia balcanica; il dialogo tra presente e passato; una relativizzazione della guerra nell’ex-Jugoslavia, “debalcanizzata”; una posizione critica nei confronti del nazionalismo e della guerra. La risultante principale del connubio tra mito e realtà è la metafora, come strumento indiretto di analisi della storia contemporanea e di produzione simbolica e polisemica. Il ventaglio delle argomentazioni sulla guerra spazia dalla rappresentazione realistica e metaforica, con una decostruzione del nazionalismo, all'immagine fatalistica del conflitto come tragedia universale; dalla suddivisione delle colpe tra i partecipanti, che allo stesso tempo possono diventare vittime o carnefici, fino all’idea estremizzata di una mondializzazione della sindrome balcanica Come si è visto, l’immagine propagandata e manipolata dai media a proposito del conflitto balcanico, originato da insanabili differenze etniche tra i popoli jugoslavi, nel cinema è radicalmente sovvertita. Viene decostruito il mito eroico della nazionalità, sottolineato invece dalle leadership nazionalistiche. Più che la differenziazione nella rappresentazione delle varie identità nazionali, nemiche durante il conflitto, presente seppur in termini critici, viene messo in scena un confronto tra i diversi stereotipi nazionali e in risalto le analogie tra le varie comunità. Le strutture narrative dei film partono da premesse realistiche per costruire una mitologizzazione della nazione e della guerra, attraverso riferimenti antropologici, etnografici e culturali. La qualificazione etnica del conflitto viene sostituita da quella 170 mitica, delineando un rapporto/scontro tra il mito della nazione e il mito del destino140. In Pretty Village, Pretty Flame l’esplicita classificazione del nemico, come entità-nazione diversa, è presente solo marginalmente. I musulmani, nelle sequenze dell’assedio, sono rappresentati sia visivamente sia metaforicamente come “contorni” all'estremità del tunnel, figure sfocate con voci ma senza volti, spetta al gruppo serbo-bosniaco chiuso nel tunnel assegnarle un’identità, che si rivela molteplice. Il passato che determina il presente e si sovrappone ad esso, viene raccontato attraverso articolate strutture narrative, frammentate, circolari o multilineari. La temporalità è costituita da più strati che viaggiano paralleli e che, in un livello superiore, si riuniscono nella circolarità mitica del tempo. Tale percezione temporale non ha solo radici mitologiche ma solide basi filosofiche141. Nei film può essere simboleggiata da un intreccio non-lineare come in Pretty Village, Pretty Flame o in Premeditated Murder (1996) o può essere messa in dubbio in Prima della pioggia sia dall’ambiguità della struttura narrativa sia dalle parole di un monaco “il cerchio non è rotondo, il tempo non ha fine”. Anche in questo caso non si tratta di linearità, ma di una multilinearità, definita da livelli paralleli e sovrapposti. Una tesi che Manchevski ha ribadito in Dust (2002), che rigetta una linearità progressiva della storia (“The centuries do not follow up each other but coexist like parallel universes”). Ne La Polveriera, un primo livello, descrive una linearità temporale del film: in una 140 “The film narratives departing from the realistic premise of nationalist conflict inevitably slip into to the mythologisation of the nation, envisioning of the mythical nationhood, using the tropes of the local national mythomania. The qualification ethnic has every reason to be replaced by mythical. Newly articulated pair myth of nation vs. myth of destiny is not binarism but rather variation of the same mythical thing. The Gordian knot of war as nation and war as destiny anyway is necessarily seen in mythical optiques”. N.Daković, Yugoslav wars: between myth and reality, cit. 141 Cfr. Le tesi filosofiche di Gianbattista Vico (1688-1744). 171 notte si intrecciano numerose storie individuali; la frammentazione narrativa e la sovrapposizione delle storie, i salti temporali, costruiscono, invece, un secondo livello circolare. La guerra diventa reincarnazione di vecchi conflitti, che si verificano ogni cinquant’anni. Il passato viene nuovamente interpretato sulla base della sovrapposizione contemporaneità storico-temporale (Underground). si riflette Questa anche nella concezione popolare: uno dei protagonisti del documentario Mille giorni a Sarajevo di Giancarlo Bocchi (1995), avventurandosi per le trincee, spiega che sembra di ritrovarsi tutto di un tratto nella prima o nella seconda guerra mondiale e come se un secolo avesse riunito il suo inizio e la sua fine. A Sarajevo dice “Sembra di vivere fuori dal tempo”. Nel tentativo di debalcanizzare il conflitto e di renderlo cosmopolita, le immagini di caos e di dolore diventano analoghe a tragedie simili in tutto il modo, secondo un punto di vista interculturale che spinge gli spettatori più attenti a creare collegamenti e parallelismi tra diverse realtà di guerra142. Nei film prodotti sul finire degli anni Novanta e all’inizio di questo decennio, secondo un processo graduale, si può riscontrare come le immagini del conflitto, in particolar modo quello bosniaco, diventino sempre più decentrate dal contesto. La guerra appena trascorsa, può anche essere affrontata con un approccio ironico e parodistico come in Beautiful People La tragedia dei Balcani è raccontata attraverso un messaggio morale, in alcuni casi la sofferenza porta a redenzione (Savior), ma in generale dimostra la futilità e l’inutilità della guerra. Il recente cinema jugoslavo si rivela, tout court, un’utile fonte storica per interpretare il conflitto, basti pensare alla complessa 142 Cfr. Mette Hjort, Themes of Nation, in M.Hjort e Scott MacKenzie, “Cinema and Nation”, Routledge Londra, 2002: p.113. 172 analisi della memoria collettiva nei suoi aspetti psicologici e storici, che percorre tutte le opere. Diventa relativamente più confortante una riflessione che intravveda come i contrasti etnici siano tristemente condivisi in tutto il mondo e non esclusivamente dal destino balcanico. E’ il caso anche di No man’s land di Tanović che presenta la guerra come un male universale, e non come un fenomeno endemico della regione. I Balcani in questo articolato processo interpretativo, diventano una parte del mondo come le altre, soprattutto una parte dell’Europa e non la sua soglia. E’ un percorso che, in chiave metaforica si compie nei film in questo modo: il mito del destino balcanico, nato come particolarità di una regione, diventa universale e la guerra viene considerata come tragedia umana. E quindi dopo aver ripreso alcuni archetipi della autopercezione dei Balcani (la storia ciclica e mitica), messi in discussione da Maria Todorova, gli autori cinematografici convengono indirettamente con la storica quando sostiene che sarebbe meglio che la crisi jugoslava fosse spiegata non più “in termini di spettri balcanici, ma attraverso gli stessi criteri razionali che l’Occidente riserva a se stesso”143. E’ un passo che i registi non compiono del tutto, rimanendo ancorati ad un rapporto intrinseco tra realtà e mito, ma relativizzandolo si pongono come nuovi osservatori, da un punto di vista artistico, della situazione jugoslava e di quella internazionale, mettendo in discussione la relazione strabica e stantia tra Occidente e Balcani. 143 Maria Todorova, op.cit., p. 303. 173 7 IL CONFLITTO VISTO DALL ’I TALIA : “ LA GUERRA IN CASA ” Prendendo spunto da La guerra in casa (1998) di Luca Rastello, un libro di storie non di storia, non direttamente sulla guerra nell’ex-Jugoslavia, ma su quella guerra e noi, analizziamo come la guerra è stata osservata e interpretata dagli autori cinematografici italiani. Un conflitto che pareva lontano, ma distava solo poche ore dal confine italiano. Il libro narra il rapporto tra le due sponde dell’Adriatico, l’incontro personale, difficile e a volte fallimentare, fra chi è coinvolto e chi osserva. Il racconto si articola sulla coppia qui-lì, con particolare attenzione al qui144. Sviluppa un doppio punto di vista, tra l’Italia (nel libro di Rastello, Torino) e i molteplici luoghi della guerra nei Balcani, che si trasforma in un altro conflitto privato “qui”. Le storie raccolte hanno tutte un versante italiano, sia che si parli dell’ex-cecchino Darko, sia di Izmet prelevato dalla polizia di Spalato e massacrato perché musulmano o di Sead e Esad, fratelli e nemici, che descrivono quello che hanno visto nei campi di sterminio in Bosnia. Tutte hanno un punto di contatto comune, una loro origine “narrativa”: il Comitato accoglienza profughi ex Jugoslavia di Torino, in cui l’autore è stato coinvolto in prima persona. Accanto a storie individuali Rastello ricostruisce significativi e controversi eventi: dall’assedio di Vukovar a Sarajevo, con la morte rimasta impunita del pacifista italiano Moreno Locatelli, fino a Srebrenica e ai tragici esiti della missione “Unprofor” delle Nazioni Unite. I film a soggetto affrontano la guerra con un doppio sguardo, interno ed esterno al conflitto. Sono Il Toro (1994) di Carlo 144 Cfr. Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, Torino, 1998 174 Mazzacurati, Teatro di guerra (1998) di Mario Martone, Il Carniere (1997) di Maurizio Zaccaro, Il temporale (2002) di Gian Vittorio Baldi, Oltre confine (2002) di Rolando Colla con la sceneggiatura di Luca Rastello, Radio West (2004) di Alessandro Valori, Vento di Terra (2004) di Vincenzo Marra e Nema problema (2004) di Giancarlo Bocchi, il film maggiormente “dentro la guerra”, rispetto a quelli citati. Numerosi cineasti, giornalisti e reporter si sono confrontati, a livello documentaristico, con il conflitto jugoslavo. Davide Ferrario è autore di Linea di Confine (2000), un film su Mostar, città bosniaca divisa dagli odi etnici e religiosi: da una parte i bosniaci di etnia croato-cattolica, dall’altra i bosniaci musulmani, separati dal fiume e dal ponte bombardato sulla Neretva. Ferrario ha seguito con la sua troupe i concerti del gruppo rock Csi (Consorzio Suonatori Indipendenti), che nel 1998 decisero di suonare, tra inconvenienti e peripezie, nelle due parti di città. Nel 1995 Marco Bechis, regista italo-argentino, ha girato un documentario sulla guerra e sui lager in Bosnia145, in vista della lavorazione de Il Carniere, di cui ha curato inizialmente la sceneggiatura, ma non ha poi diretto, per disaccordi con la produzione. Ha creato un parallelo tra l’attualità della Bosnia e la situazione in Argentina durante la dittatura militare, venti anni prima. Questa ricerca documentaria è poi confluita in parte in Garage Olimpo (1998). Nel lungometraggio Bechis ha, infatti, deciso di raccontare la Buenos Aires di fine anni Settanta e la storia dei desaparecidos come fosse la Bosnia dei primi anni Novanta. 145 Il documentario di Marco Bechis, a cui il regista non ha dato un titolo preciso, è stato presentato in diverse occasioni (festival e manifestazioni), come una lunga ricerca audiovisiva sulla guerra contemporanea, durata anni e confluita in Garage Olimpo. E’ stato proiettato durante la rassegna Cinemambiente 2004, precisamente all’interno del convegno “L’occhio di Marte, come si comunica la guerra”, dove Bechis è stato uno dei relatori. 175 Giancarlo Bocchi è regista, oltre che di Nema problema, di numerosi documentari sul conflitto nei Balcani, che rappresentano un nucleo di forte riflessione sul tema della guerra contemporanea. Si è soffermato in particolare sul lungo assedio di Sarajevo e sul Kosovo: Mille Giorni a Sarajevo (1995), Sarajevo Terzo Millennio (1994), Diario di un assedio (1995), Morte di un pacifista (1995), Fuga dal Kosovo (1999), Kosovo anno zero (1999), Kosovo nascita e morte di una nazione (2001). Sarajevo è stata al centro dell’attenzione di numerosi documentaristi tra cui Erik Gandini che con Raja Sarajevo (1995) ha “fotografato” il capodanno del ’94 nella città assediata, seguendo quattro amici che nonostante la guerra tentano di vivere una vita normale. Dieci anni dopo Roberta Ferrati e Massimo Sciacca hanno ripercorso gli stessi luoghi in Dopo l’assedio (2003), raccontando la realtà dell’oggi. A distanza di una decade, è tornato in Bosnia anche Mimmo Lombezzi, reporter, con 10 anni dopo: Bosnia: la vergogna d’Europa (2005). Adriano Sofri, inviato a Sarajevo, oltre agli articoli scritti per l'Unità ha girato, tra il 1994 e il ‘95 cinque documentari di lunghezza diversa, dai venti ai cinquanta minuti, tra cui ricordiamo I cani e i bambini di Sarajevo e La primavera di Sarajevo. Srebrenica è un altro luogo tragico, dove nell’estate del ’95 si verificò il più grande massacro dalla seconda guerra mondiale. Il cielo sopra Srebrenica (2005) di Marco Della Croce e Ciro Cortellessa ripercorre le drammatiche vicende dell’enclave musulmana. Andrea Rossini, regista e giornalista (è redattore dell’ “Osservatorio dei Balcani”), ha da poco completato Dopo Srebrenica, la memoria e il presente (2005), mettendo a fuoco la tragedia dei desaparecidos, sullo sfondo di un conflitto che continua, nelle memorie e nelle verità parallele. Rossini aveva 176 già diretto nel 2001 Europa Srebrenica, dove aveva narrato attraverso le parole delle donne sopravvissute, l’assedio e la caduta della città. Nel 2000 fu costituita “Unità di cooperazione creativa”, un laboratorio di sperimentazione audiovisiva sul documentario etico e sociale, che nel corso degli anni ha realizzato film in Europa Orientale e in Iraq, diventando uno degli animatori del progetto Telestreet (la rete italiana delle tv di strada). Il progetto ha visto impegnati giovani film-maker, come Luca Rosini e Alberto Bougleux, autori di Thank you people of Japan (2002), che intreccia storie di identità, divisione religiosa e ricostruzione sociale nella città distrutta dalla guerra, Mostar. 7.1 Nema problema (2004) di Giancarlo Bocchi L’espressione “nema problema” è qualcosa di più del “no problem” globalizzato e ormai asettico. “Nell’ex Jugoslavia ‘nema problema’ è una suprema dichiarazione metafisica, pronunciata secondo l’umor nero che governa quella terra irrimediata” ha scritto Adriano Sofri146. Giancarlo Bocchi, dopo essersi fatto le ossa con il documentario, ha realizzato con Nema problema il suo primo lungometraggio di fiction, girato completamente in Bosnia-Erzegovina, che fin dal sottotitolo “La verità è la prima vittima della guerra” sottolinea una delle tematiche principali del film: l’informazione in tempo di guerra. Protagonisti del film sono infatti due giornalisti, molto diversi tra loro. 146 Adriano Sofri, Grande intrigo a Sarajevo, in “L’Espresso”, 7 maggio 2004. Sofri ha firmato, inoltre, un intervento all’interno del libro, G.Bocchi, A.Curà e Luigi Riva, Nema problema, la verità è la prima vittima della guerra di (Lecce, Manni, 2004), che raccoglie tra l’altro la sceneggiatura del film e altri due interventi dei giornalisti Ettore Mo e Bernardo Valli. 177 Lorenzi, un inviato di guerra, si avventura con Aldo Puhar, un interprete locale, in un territorio conteso tra diverse fazioni in guerra. Vuole scoprire l'identità del "Comandante Jako", ritenuto l'autore della sparizione di un intero convoglio di profughi. Si aggregano a loro due giovani, Maxime, inesperto giornalista pieno di ideali, e Sanja, ragazza del posto alla disperata ricerca dei parenti dispersi. Lorenzi, non riuscendo a raggiungere il suo scopo, pur di conservare immutata la sua fama d' inviato si inventa storie e notizie, facendo indignare Maxime, al quale Sanja confiderà le sue verità celate. I quattro, fortunosamente entrano a Vaku, una città assediata. Malgrado i pericoli e le difficoltà che hanno dovuto sopportare insieme, i quattro sono ormai divisi da incomprensioni e sospetti. Maxime scoprirà che le verità di Sanja non sono tali e gli hanno dato una fama immeritata ed effimera e Lorenzi, ormai vicino al suo obiettivo, il “Comandante Jako”, rimarrà vittima delle sue stesse manipolazioni della verità. Nema problema smonta la fiction dell’informazione attraverso la fiction cinematografica, portandosi dietro l’autenticità e le tecniche del documentario, rifiutando il compromesso o la ricerca vana della “bella immagine”. Il film è un viaggio, una corsa nel tempo non per fuggire, ma per cercare. Lungo i sentieri e le menzogne della guerra, attraverso luoghi dove l'aspetto più bestiale della storia, del mito e delle tradizioni riaffiora prepotentemente nelle divisioni etniche e religiose. Si fa strada una domanda: qual è la verità? Esiste forse il diritto all’informazione? “Ogni volta che tornavo da un paese in guerra, mi sforzavo di spiegare come le storie, le testimonianze, le esperienze che avevo raccolto non erano fuori dal mondo, ma erano tutte del nostro mondo. Vedevo incredulità in quelli che non potendo più 178 rispondere, ‘non sappiamo’ sostenevano con forza che fosse colpa loro. Giorno per giorno una realtà, anzi un'irrealtà, bugiarda e consolatoria ci ha resi inconsapevoli complici. Cecchini della visione. Solo oggi scopriamo che non siamo affatto lontani da quei mondi in guerra. Vedere la verità costruita dalla disinformazione, dalla falsificazione del sistema o da una rimozione privata; vedere una verità mai condivisa, storica, filosofica, ma semmai ‘rivelata’, è stato la prima intuizione per iniziare a lavorare a questo film" ha spiegato il regista147. Bocchi ha scelto una messa in scena scarna e asciutta, fin dalla sceneggiatura scritta insieme al giornalista Luigi Riva, già inviato nei Balcani, e lo scrittore Arturo Curà. Lontana da cedimenti spettacolaristici, da concessioni al “genere” o al grottesco tipico del cinema jugoslavo, dall’essere una replica di una visione televisiva del mondo148. E’ un film “dentro la guerra”, senza carrelli o dolly, perché la camera sia sempre ad altezza d’uomo. La fotografia di Renato Tafuri è volutamente “sporca”, l’obiettivo registra freddamente le azioni dei personaggi. La colonna sonora è inesistente o meglio è composta dai suoni d’ambiente e dai rumori di guerra, alcuni veri e propri. Infatti Bocchi ha utilizzato anche i rumori registrati durante le riprese dei suoi documentari, insieme a Tullio Arcangeli che ha curato complessivamente il suono. Un altro elemento che non marca il discrimine fra realtà documentaristica e fiction. Le influenze cinematografiche sono Jori Ivens e Roberto Rossellini. La scenografia spoglia dei cespugli e delle boscaglie, curata da Dragan Sovilli, è ispirata a Paisà, in particolare all’episodio ambientato nel Polesine, sul delta del Po. 147 G. Bocchi, Note di regia, in G.Bocchi, A.Currà e Luigi Riva, op.cit., Lecce, Manni, 2004, pp.15-16. 148 “Non volevamo realizzare un "film di guerra" e tantomeno il ‘solito’ film sulle guerre balcaniche” ha detto Bocchi, Ivi, cit. p.17. 179 Nema problema si sviluppa attraverso una serie di episodi verosimili - il treno dei profughi, il bombardamento a salve della città – che i personaggi incontrano nel loro percorso, come sarebbe potuto realmente accadere. “Da un lato ho pensato a una realtà essenziale senza alcun compiacimento stilistico o estetico e dall'altra ad una apparente linearità di racconto che potesse rivelare la molteplicità di livelli e la complessità quasi labirintica di quello che si voleva rappresentare”149. E’ un film d’azione quasi senza azione. E’ impregnato di violenza, senza che ci siano combattimenti: l’unica uccisione in diretta è ambigua e in campo lungo. Il ritmo del film rincorre i tempi della realtà di guerra: pause di vita quasi normale con improvvise accelerazioni di tensione quasi esasperati, drammatica. I passaggi temporali, vengono utilizzati in funzione di un rafforzamento del "non detto", dell’inquietudine che cresce tra i personaggi e ai fini di inserire nella narrazione nuovi piani di lettura che mettono in discussione, nel corso del film, le verità presunte, rivelando la “fiction” costruita della realtà. Prima che con le immagini, il film si apre con un forte rumore, lo stridore di un treno che viaggia a bassa velocità e scorgiamo al termine della dissolvenza d’apertura. Un locomotore protetto da alcuni sacchi di sabbia: è un treno di guerra. Avanza in un paesaggio di campagna. Rapidi stacchi successivi mostrano i volti di povera gente, triste ed impaurita, sono i passeggeri. I freni del treno stridono per affrontare la curva, prima di entrare in una galleria. All’uscita del tunnel il mezzo si ferma, salgono soldati in tuta mimetica che con tono minaccioso intimano alle persone di scendere. Una ragazza nascosta assiste alla scena, inquadrata in primissimo piano, è Sanja la giovane donna che accompagnerà i due giornalisti e l’interprete nel corso del film. Sentiamo solo 149 Ivi, cit. p.18. 180 urla, le immagini non ci vengono mostrate. Un brusco stacco ci riporta all’esterno sui binari della ferrovia sono sparsi indumenti, oggetti, bagagli e fagotti. Sono stati persi dai profughi, ma quello che è successo non lo sapremo mai, possiamo solo immaginarlo, sperando che la nostra immaginazione possieda ancora qualche barlume di verità150. Nella prima sequenza il film sintetizza e prefigura l’assioma centrale del film: la verità è la prima vittima della guerra. E’ una riflessione amara sulla verità che sembra scomparsa ferita a morte da mille interessi, dalla “ragion di stato”, dalla propaganda e dalla paura; sulla realtà manipolata dai media, che può passare dalla tv ai libri di storia. I servizi televisivi e le fotografie vogliono, inoltre, mostrarci le diversità, spesso deformate, culturali, etniche e religiose tra noi e loro, inducendoci ad una rassicurante e fuorviante idea di lontananza. E’ una problematica complessa che Bocchi affronta, senza accenno di retorica o di tesi prestabilita. Si interroga indirettamente se sia possibile raccontare la guerra, è un dilemma etico e gnoseologico. Non è un film urlato, è una cruda constatazione, se si indigna lo fa in silenzio. Lo fa lavorando sui personaggi del suo film, sui volti, la psicologia e le loro contraddizioni. “E’ costruito come un’improvvisazione di jazz ognuno ha il suo momento”151 nell’intreccio narrativo. Lorenzi è un inviato italiano quasi drogato dalla guerra, pronto ad inventare falsi scoop, vista la ricerca infruttuosa di Jako, pur di raggiungere la prima pagina; è interpretato da Vincent Riotta, attore inglese di origine italiane. E’ affiancato da Zan Marolt, nato a Sarajevo (già protagonista di Milk Way di Faruk Sokolović), nel ruolo di Aldo, interprete dai 150 Cfr. Gianni Canova, Francesco Costa (a cura di), Vedere la guerra con occhi diversi, in “Letture”, agosto-settembre 2004. 151 Silvana Silvestri, Cecchini della verità, in “Il manifesto”, 27 aprile 2004. 181 tratti ambigui che nel colpo di scena rivela la sua vera identità finale, svelerà infatti di essere l’inafferrabile comandante Jako. Fabrizio Rongione, co-protagonista di Rosetta (1999) Palma d’oro a Cannes, dà il volto a Maxime, reporter belga giovane e idealista, ma non meno assetato di sensazionalismo e di voglia di emergere. Labina Mitveska, che già avevamo visto in Prima della Pioggia nei panni di Zamira, interpreta la giovane donna alla ricerca dei parenti dispersi; vuole salvarsi ma senza rinunciare alla sua dignità, la versione dei fatti che si inventa per Maxime è un urlo di disperata protesta in un mare di mistificazione, disinformazione e manipolazione. Ognuno è a caccia della propria verità, ognuno ne darà una versione diversa e si rivelerà altro da ciò che appare. I quattro personaggi sono legati tra loro da piccole verità, grandi menzogne ed interessi, ciascuno usa o cerca di usare l’altro per i propri scopi. I due reporter hanno una visione differente della deontologia professionale, ma entrambi, consapevolmente o meno, manipolano la realtà, nel cui stesso fraintendimento vengono invischiati. La storia solo apparentemente non ha un unico protagonista perché il vero protagonista - il comandante Jako - non si vede mai , ma regna sovrano come il "regista interno" alla storia. Solo alla fine si scoprirà che lo abbiamo sempre incontrato. Bocchi ha analizzato il conflitto jugoslavo che negli anni Novanta ha seguito molto da vicino, mettendone in discussione le semplificazioni mediatiche. E’ stata, però, intenzione della squadra di autori che ha curato la sceneggiatura trasformare i tumultuosi e aggrovigliati conflitti balcanici nella "guerra" per definizione, senza entrare specificatamente nelle problematiche "etniche" o strettamente legate alle particolari rivalità. La narrazione tende ad un significato universale, racconta lo stravolgimento della realtà quotidiana che spesso diventa fiction. 182 “Dalla prima guerra del Golfo in poi – sottolinea il regista -, tutti i conflitti sono identici: potrebbe essere l'Iraq, il Kosovo, non importa. Sono tutte guerre che dietro scontri etnici e religiosi celano un unico motivo, quello economico. Così come in Iraq”152. I giornalisti, loro malgrado, sono parte integrante dell’apparato bellico, strumenti di comunicazione all’interno del “news management”, la gestione delle notizie imposta dalla pressione del potere politico e militare. Le diverse nazionalità degli attori, si riflette nella pluralità linguistica del film (italiano, serbo-croato, inglese e francese) e nella composizione multietnica della troupe composta da serbi, croati e musulmani, riuniti per la prima volta dopo la guerra nella produzione del film. E’ stata un’esperienza importante , sottolineata dall’autore, visto che le riprese sono state realizzate tutte in una zona della Bosnia del nord, non ancora pacificata, roccaforte del criminale di guerra, latitante, Radovan Karadžić. E’ stato, infatti, girato tra Teslic e Tesanj, a ridosso della surreale “zona di separazione” che divide le due entità bosniache. La location del film è pressappoco la stessa di Benvenuto Mr. President (2004) girato proprio a Tesanj. “La verità è la prima vittima della guerra” scrisse Arthur Ponsonby153. “E' vero - conclude Bocchi - se non si ha il coraggio di cercarla fuori e dentro di noi”154. 152 Gabriella Gallozzi, Nessun problema, è solo la guerra dei Balcani, in “L’Unità”, 7 maggio 2004. Nelle dichiarazioni riportate nell’articolo, Bocchi pone l’accento sulla limitazione dei diritti civili che stiamo vivendo nell’attuale scenario mondiale, la pellicola è un modo per rivendicare il diritto alla verità e alla giustizia 153 “When war is declared, truth is the first casualty” scrisse nel 1928, Arthur Ponsonby politico e scrittore britannico in Falsehood in Wartime: Propaganda Lies of the First World War (Bloomfield Books, 1991) 154 G.Bocchi, A.Curà e Luigi Riva, op.cit., p.20. 183 8 M EDIA E GUERRA «Per un reporter in guerra “territorio comanche” è il posto dove l’istinto ti dice di fermare l’auto e fare marcia indietro. Il posto dove le strade sono deserte e le case sono rovine bruciate, dove sembra sempre l’imbrunire e cammini stretto ai muri verso gli spari che risuonano in lontananza, ascoltando il rumore dei tuoi passi sui vetri rotti. In guerra, il suolo è sempre coperto di vetri rotti. “Territori comanche” è là dove li senti scricchiolare sotto i tuoi scarponi e anche se non vedi nessuno, sai che ti stanno guardando. Là dove non vedi i fucili ma i fucili vedono te». Arturo Perez-Reverte da Territorio Comache155 In questo capitolo analizzeremo come il complesso rapporto tra guerra e media sia presente e interpretato nei film di fiction e nei documentari. Con il termine “media” consideriamo in particolare i mezzi di informazione, quali la televisione e la stampa. Il cinema è certo un medium, ma un medium “impuro” perché allo stesso tempo è un’arte. Terremo comunque in considerazione la sua fondamentale valenza di medium e nel corso della riflessione faremo cenno alla relazione tra cinema e giornalismo. La figura del reporter come personaggio principale della pellicola, il sistema dei media, la manipolazione e la propaganda, l’informazione, la ricerca della verità e la messa in scena della realtà sono diverse problematiche ed elementi, che emergono nello studio del cinema sulle guerre jugoslave. 155 Arturo Perez-Revert è scrittore e giornalista spagnolo; reporter di guerra in Bosnia, nel 1994 decise che era arrivato il momento di cambiare mestiere. Come fa dire al reporter Barles, della Tv España, uno dei protagonisti del suo romanzo-verità: “è meglio essere giovani, credere nei buoni e nei cattivi, avere gambe salde, sentirsi protagonista coinvolto e non semplice testimone. Dai quaranta in là, in questo mestiere diventi maledettamente vecchio”. Dal suo libro (edizione italiana: Territorio Comanche, Tropea, 1999, Milano) è stato tratto nel 1997 un film dal titolo omonimo del regista spagnolo Gerardo Herrero. 184 Il cinema ha ben presto accolto la guerra e i temi bellici nel suo immaginario, consegnando e conservando, nella sua infinita memoria di celluloide, la cronaca e la rappresentazione dei conflitti che hanno segnato il Novecento. Oltre a documentare o a ricreare la guerra, le tecniche cinematografiche sono state utilizzate fin dalla prima guerra mondiale per scopi militari delineando così quella “logistica delle percezione militare” teorizzata dal sociologo Paul Virilio, in cui l’approvvigionamento di immagini diventa l’equivalente dell’approvvigionamento di munizioni, all’interno di una guerra moderna in cui la rappresentazione degli eventi domina la presentazione dei fatti156. Ciò che però ci interessa maggiormente è l’informazione in guerra di cui il cinema fu agente principale nella prima metà del XX secolo e poi narratore privilegiato, a posteriori, e memoria storica. Nei primi decenni del Novecento, il cinema si offriva come il centro principale di articolazione della storia e dei miti, in una fase poco successiva all’inizio della seconda guerra mondiale - ricorda Jean-Luis Comolli - “Hollywood si incaricava della rappresentazione pubblica del nemico nazista e dimostrava che il cinema poteva rivaleggiare nella guerra di propaganda con i mass media dell’epoca,stampa e radio”157, in quel periodo la figura del giornalista diventa quella di un possibile eroe cinematografico, d’altronde Quarto potere di Orson Welles è del 1941. Con l’avvento della televisione il cinema venne spodestato dal ruolo di registrazione dell’attualità (i cinegiornali), nonché del privilegio di rappresentare “i collegamenti tra gli individui e i gruppi umani e gli eventi nel corso dei quali essi venivano 156 Cfr. Paul Virlio, Guerra e Cinema: logistica della percezione, tr.it., Lindau, Torino, 2002. 157 Jean-Louis Comolli, Destino cinematografico del giornalista, in AA.VV. (a cura di Giorgio Gosetti e Jean-Michel Frodon), Print the Legend: cinema e giornalismo, Il Castoro, Milano, 2005, p.179. 185 ripresi”158. Nella seconda metà dello scorso secolo il medium televisivo acquisì il valore di strumento politico che era stato del cinema, in termini di propaganda. La figura del reporter è diventata spesso, nel racconto cinematografico, vettore insostituibile all’interno di un conflitto e la riflessione critica sul sistema dei media è entrata saldamente nel corpus tematico dei film. Nella contemporaneità post-moderna può anche capitare che il cinema si riappropri degli strumenti comunicativi e meccanismi propri del giornalismo d’inchiesta (in particolare nel documentario), per cercare un approfondimento o magari la fantomatica “verità”, annichilita nel blob virtuale ed autoreferenziale dell’informazione televisiva. Il cinema mette in scena i conflitti storici e umani, la possibilità o impossibilità di raccontare la guerra e in alcuni casi svela la costruzione dell’effimera immagine mediatica della guerra, con esempi più o meno interessanti. Suddividiamo in quattro sezioni i film presi in considerazione: le opere con giornalisti come protagonisti; le pellicole che trattano i problemi legati al mondo dei media e al loro ruolo nella società, durante la guerra; i film in cui viene affrontata la propaganda delle televisioni jugoslave fin dal periodo antecedente il confitto e quelli che deliberatamente cercano di andare oltre alle semplificazioni dei mezzi di informazione. Nel corso della storia del cinema l’affascinate figura del giornalista acquista più volti: reporter, cronista, militante, detective, traditore, profittatore, provocatore, eroe. L’articolata relazione tra il giornalismo e la finzione cinematografica può essere riassunta in una declinazione dei differenti stati della verità, questo perché il personaggio del giornalista si definisce per il suo rapporto con la verità, come, in termini diversi, il 158 Ibidem 186 detective o il poliziotto si confronta costantemente con la Legge. “Dalla fiction idealista tradizionale alla messa in discussione delle apparenze e delle trappole dell’ideologia, il giornalista nel cinema è stato un personaggio complesso in cerca di un’impossibile neutralità” ha scritto Jean-François Rauger. Consideriamo quattro film dove i reporter sono i personaggi principali: Benvenuti a Sarajevo, Harrison’s Flowers, Prima della Pioggia e Nema problema. La formula utilizzata è quella del viaggio: dall’occidente ai Balcani, sottesa o esplicitata, e all’interno del teatro di guerra. Il primo impatto con il conflitto è spiazzante e traumatico, nessuno riesce a decifrare il “caos balcanico”. Nel film di Winterbottom, ispirato al libro autobiografico Natasha’s Story di Michael Nicholson, due troupe occidentali registrano l’assedio alla città di Sarajevo, una inglese e l’altra americana. Il mondo dei giornalisti di guerra si ritrova nei locali dell’Holiday Inn, è un mondo di rivalità, concorrenza, opportunismo, ma anche slanci di umanità. D’altronde, seppur non venga sottolineato nel film, questa rincorsa sfrenata alle notizie più che alla volontà di dare alla gente una conoscenza “obiettiva” è dovuta, come ha spiegato Pierre Sorlin, al fatto che l’informazione è una merce che si vende e si scambia come altri prodotti e la distorsione dell’informazione oltre ai limiti imposti da censure e propaganda è causata anche da questo motivo159. Nel film due personalità diverse, ma anche in parte due modi fare giornalismo, si scontrano (ritratti anche con qualche stereotipo): l’americano Flynn, reporter-star, che vive smanie di protagonismo e non riesce o meglio non vuole ad andarsene dalla trappola della città (“questo posto è come un virus da cui 159 Pierre Sorlin, Immagini in movimento: guerra, cinema e televisione, in AA.VV. (a cura di Peppino Ortoleva e Chiara Ottaviano), Guerra e Mass Media, Liguori, Napoli, 1994. 187 non riesci a liberarti”) e l’inglese Henderson che supera il distacco iniziale (nella ricerca di scoop) e rompe il silenzio su un orfanotrofio in pericolo, facendone una vera e propria campagna stampa, per calamitare l’interesse dell’Occidente. Henderson ritiene che la strategia di insistere su un fatto in particolare, invece di abbandonarlo per dedicarsi a qualche altra notizia del giorno sulla Bosnia, permetta al lavoro di informazione di incidere in qualche modo sulla realtà che si sta testimoniando. Come abbiamo Winterbotton già potuto riattualizza un ribadire in modello un altro capitolo, cinematografico che riscosse una discreta fortuna nei primi anni Ottanta, ovvero il racconto dell’esperienza catartica di uno straniero (spesso un giornalista), che nel paese devastato dalla guerra riesce a superare i tormentati problemi personali e riscoprire un nuovo significato della vita. In quei casi era apportato al “thriller politico” ambientato nel Terzo mondo (Un anno vissuto pericolosamente, Sotto tiro, Urla del silenzio), qui alla situazione jugoslava. Aprendo il film con le riprese autentiche della guerra, il regista si propone di restituire un significato a quelle immagini di repertorio, facendole ritornare di attualità, dopo essere state neutralizzate dal grande contenitore spettacolare e rassicurante dei mass media e della televisione in particolare. Harrison’s Flowers, invece, si sviluppa nella seconda parte come un road-movie di un gruppo di fotoreporter americani in mezzo al conflitto e delinea, nel complesso del film, in modo mai banale, la percezione del mondo occidentale di questa guerra e la costruzione della sua immagine mediatica. Fin dai titoli di testa Chouraqui esplicita l’interesse per i corrispondenti di guerra, una didascalia avverte che il numero dei giornalisti morti durante le guerre jugoslave dal 1991 al 1995 sono ben quarantotto 188 (complessivamente in tutto il decennio nei Balcani supereranno gli ottanta). Prima Harrison Lloyd, fotografo e premio Pulitzer, solitario inviato dal “Newsweek” e poi la moglie Sarah, alla sua ricerca, e la pattuglia di reporter al contatto con la guerra non possono che dedurne la follia e l’incomprensibilità, sfatano comunque da subito l’idea, diffusasi nei primi giorni nella redazione del giornale newyorkese, che fossero solo “schermaglie etniche”. La Cnn non ne parlava ancora. E quasi a voler avvalorare ciò che sostiene provocatoriamente Ennio Remondino, uno dei principali inviati in zone di guerra della televisione pubblica italiana, in uno dei suoi recenti saggi, un conflitto senza immagini (dunque senza una rappresentazione, un racconto) rischia di non esistere160. La televisione trasforma, infatti, la guerra in un evento mediatico. Le guerre jugoslave sfuggiranno a questo “pericolo” di invisibilità, anche la televisione americana (più che altro la Cnn), quando già i network europei erano sul campo, si interesserà al conflitto, e la guerra passerà ben presto dalla condizione di unmonitored wars a monitored wars, riprendendo la distinzione di Bruce Cummings, a seconda dello spazio che a esse viene dato dai media161. Sfuggirà ma non del tutto, perché - come storici e massmediologi hanno notato – si è assistito a una progressiva sottrazione dei conflitti armati alla visibilità mediatica, anche nei casi di vasta e ridondante informazione (anche a scapito di poche reali notizie) come durante la prima guerra del Golfo. In Jugoslavia l’attenzione dei media è improvvisamente scemata con la presunta cessazione dei conflitti o nel corso della guerra si è soffermata solo su alcuni luoghi, tralasciandone altri e, al contempo, anche ulteriori complessità; durante la guerra in 160 Ennio Remondino, La televisione va alla guerra, Sperling & Kupfer, Milano, 2002. Bruce Cummings, Guerra e televisione. Il ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra, tr.it., Baskerville, Bologna, 1993. 161 189 Kosovo di fronte alla mole di parole profuse, le immagini sono state nettamente inferiori e addirittura al termine della missione Nato è piombato il silenzio sulla drammatica situazione del Kosovo, che è sprofondato in quella condizione di unmonitored wars. I reporter del film appartengono alla carta stampata, che tradizionalmente rispetto alla televisione tende ad approfondire maggiormente la realtà, da essa si differenzia per prerogative, linguaggi e tempi diversi. Per di più, i protagonisti sono tutti fotografi e le immagini possono raccontare in modo ancora più diretto la tragedia, imprigionano in uno sguardo l’orrore che si trovano davanti agli occhi. Ma è narrabile una guerra? L’osservatore di un conflitto vede soltanto un piccolo settore e non sa se è importante per l’insieme della battaglia, lo verificherà solo alla fine della guerra. E allora come mai durante i conflitti l’informazione è così ridondante? Luisa Cicognetti fornisce tre risposte: ”La prima riguarda l’ansia di ‘sapere’ di coloro che sono direttamente o indirettamente coinvolti, anche se si rendono conto che l’informazione non corrisponde alla realtà. Un secondo motivo è che l’informazione è un aspetto del conflitto stesso: serve per sostenere la propria parte e ingannare il nemico. Infine l’informazione è stata da molto tempo e sarà sempre più una merce, che consente di ‘nutrire’ la stampa e le reti televisive”162. I fotoreporter di Harrison’s Flowers entrano nella città di Vukovar attraverso un lungo viaggio segnato da infiniti pericoli, si muovono senza protezioni aldilà della scritta “tv” sul fuoristrada, non sono al seguito di truppe come i futuri embedded, e nel loro percorso riescono ancora a trascinarsi l’alone romantico che ha 162 Cicognetti L., Servetti, Sorlin P. (a cura di), La guerra in televisione, Marsilio, Venezia, 2003, p.16. 190 caratterizzato la mitologia dell’inviato di guerra. All’interno del gruppo si vivono contrasti, solidarietà e contraddizioni, dalla retorica dei reporter diventati famosi “una fotografia può imprigionare la memoria del nostro tempo" alla bulimia nevrotica dei fotografi, non ancora consacrati e insigniti con il premio Pulitzer, che scattano ossessivamente e volendo citare Aleksander in Prima della Pioggia quasi “sparano” una seconda volta alle vittime. Nel film di Manchevski, Aleksander, celebre fotografo di origine macedone, si pone interrogativi etici sul valore della fotografia di guerra che immortala la violenza del conflitto e il dolore degli altri. I turbamenti lo portano temporaneamente ad allontanarsi dal suo lavoro. Tornato a Londra dalla guerra in Bosnia porta con sé un profondo rimorso, pensa di aver ucciso con uno scatto fotografico: ha impresso nel suo obiettivo la fucilazione di un uomo, dopo aver confessato ad un soldato la frustrazione per essere a corto di foto sensazionali. Ritorna nella sua terra d’origine, in Macedonia ma ripiomba in una nuova guerra che lo coinvolge direttamente. Come riportato nell’analisi del film, se l’imperfezione del cerchio storico rilevata nell’ultima sequenza, che alluderebbe ad una possibilità della Storia di non ripetersi, contiene un messaggio positivo, allo stesso tempo la scoperta della morte precedente di Aleksander infonde al film un messaggio d’angoscia mass-mediologica: “Senza foto, non c’è la morte, perché ciò che non è testimoniato, non documentato, non esiste?”163. Nel 1928 Arthur Ponsonby, scrittore e politico britannico, scrisse che “La verità 163 è la prima vittima della guerra” nel saggio Alberto Crespi, op.cit. 191 Falsehood in Wartime: Propaganda Lies of the First World War164. La frase, entrata ormai a far parte dell’immaginario collettivo, è l’asse centrale su cui ruota Nema problema, prima opera di fiction del regista Giancarlo Bocchi, che attraverso le tecniche del cinema svela la messa in scena della realtà, operata quotidianamente dai mezzi di informazione. La verità sotterrata dai molteplici interessi, dalla “ragion di stato”, dalla propaganda, dal montaggio audiovisivo, dall’opportunismo e dalla paura. Tra i quattro protagonisti in viaggio tra i territori del conflitto, alla ricerca del comandante Jako, spiccano le figure di due giornalisti Lorenzi e Maxime, molto diversi tra loro nella visione della deontologia professionale. Il primo ormai freddo di fronte agli sconvolgimenti del conflitto è pronto ad inventare falsi scoop e finte interviste pur di comunicare qualcosa della guerra, il secondo, giovane e idealista, alla ricerca di verità indiscutibili anche se a sua volta bramoso di sensazionalismo, tanto da non riconoscere se la versione del massacro del treno raccontata da Zamira sia vera o falsa. L’autore cerca di far emergere nella vicenda narrata un dilemma etico e gnoseologico: se sia possibile raccontare la guerra (una realtà che pare quasi inenarrabile) e come farlo senza cedere alle falsificazioni, alle mistificazioni e all’artificio. “Forse, l’unico modo per non essere complici per non diventare tutti ‘cecchini della visione’, consiste nell’adottare quello sguardo “sghembo” che per primo abbiamo visto in azione nel film : quella della ragazza con i due occhi diversi che pratica sempre una doppia visione (e una 164 L’origine della celebre frase è dubbia, è sicuro invece che Ponsonby è stato il primo a riportarla per iscritto. “In 1918 US Senator Hiram Warren Johnson is purported to have said: The first casualty when war comes is truth. However, this was not recorded. In 1928 Arthur Ponsonby's wrote: The 'When war is declared, truth is the first casualty'. (Falsehood in Wartime) Samuel Johnson seems to have had the first word: 'Among the calamities of war may be jointly numbered the diminution of the love of truth, by the falsehoods which interest dictates and credulity encourages (from The Idler, 1758)” fonte tratta dal sito del quotidiano britannico The Guardian, www.guardian.co.uk. 192 doppia versione) su ciò che il mondo e la guerra le consentono di vedere”165. Dietro le quinte, il riferimento numero uno dell’autore è Egisto Corradi, figura schiva e strepitosa di inviato speciale (lavorava per il “Corriere della Sera” ai tempi del Vietnam), uno che la guerra non la guardava in televisione ma andava, vedeva, capiva. La verità è la principale vittima, perché oggi la guerra è combattuta anzitutto sul terreno dell’informazione (oltre che ovviamente sul fronte militare). E come scrive Mimmo Candito, uno dei più importanti giornalisti di guerra italiani, autore di una monumentale storia sulla professione, che fu anche di Ernest Hemingway, I reporter di guerra: nelle “nuove guerre” più che in passato l’informazione è diventata l’arma più importante di un conflitto, perché il consenso dell’opinione pubblica è lo strumento essenziale in qualsiasi operazione bellica166. Oggi un governo e i comandi militari non dichiarerebbero una guerra se prima non fosse stato predisposto un adeguato apparato di controllo del flusso informativo e in fase operativa saranno sempre assistiti da un nutrito gruppo di professionisti, ingaggiati dalle migliori agenzie pubblicitarie, che controllino e pilotino l’attività dei giornalisti, definendo quello che è tecnicamente chiamato news management ovvero la gestione delle notizie, che vigila e delimita il territorio virtuale del corrispondente. Dopo il Vietnam (il primo conflitto ripreso dalle telecamere, in cui i media godettero di un’indipendenza che mai più si ripropose) ogni guerra è stato un passo in avanti nel tentativo di sottrarre libertà ai giornalisti impegnati in prima linea, allontanandoli dal campo di battaglia. La guerra del Golfo, la Jugoslavia e l’Afghanistan si sono rilevate le tappe fondamentali di un processo che cela – 165 Gianni Canova, Francesco Costa (a cura di), Vedere la guerra con occhi diversi, in “Letture”, agosto-settembre 2004. 166 Mimmo Candito, I reporter di guerra, Baldini & Castoldi, Milano, 2002, pp.595-7. 193 secondo Candito – l’intento della censura dietro l’offerta allettante di una lettura preconfezionata della cronaca del conflitto, televisione che avviene stessa, attraverso ormai i media modello elettronici. dominante La della comunicazione, aggiunge un ultimo anello a questo processo di mutazione trasformando la guerra in uno “spettacolo”. Alla verifica del fatto che alcune parole che potrebbero sembrare quasi eccessive così non sono, basta valutare come le tecniche di fiction vengano utilizzate nella costruzione dell’informazione. Marcello Walter Bruno, in un interessante saggio L’infofiction di guerra167, spiega come un team di esperti che formano il Moc (Media Operation Center) abbia messo appunto le strategie comunicative per presentare all’opinione pubblica la guerra della Nato in Kosovo, producendo una documentazione fotografica sulle fosse comuni serbe e un video sui massacri di Kosovari, rivolti alle televisioni. “Se dal punto di vista politico si tratta di propaganda, dal punto di vista dei generi audiovisivi non possiamo che parlare di fiction: non ha neanche importanza sapere tutto sull’organizzazione del profilmico, è l’idea di regia (o meglio di sceneggiatura, di script) che qui gioca nel ridefinire radicalmente il concetto di informazione”168. Il giornalismo diventa allora un ‘osservazione di secondo grado: la verità del materiale “documentario” è asserita da un testo “metadocumentario”. La guerra mediatica è anche guerra contro i media nemici. La notte del 23 aprile i missili della Nato bombardano la sede della televisione di Belgrado, con un bilancio di sedici morti civili. I serbi distruggono, invece, i siti kosovari di Radio 21 e l’edificio 167 168 M.W.Bruno, op.cit. Ibidem 194 del quotidiano “Koha Ditore”. I reporter diventano parte in causa del conflitto, in passato ne erano soltanto testimoni. Sedicipersone documentario di Corrado Veneziano, con la testimonianza di Ennio Remondino e la consulenza giuridica di Domenico Gallo, rilette sul bombardamento della Rts, la televisione di stato serba, si interroga sulla ricaduta che ha avuto sulla libertà di informazione e ricostruisce, con interviste, notizie letture e immagini inedite, la cornice dell’evento. All’epoca dei fatti i giornalisti e le televisioni non erano obiettivi militari, ma da quel momento - spiega Veneziano - la troupe televisiva fu interpretata come “figura militare da contrastare nell'atto della sua funzione di guerra”. La Rts era considerata principale strumento di propaganda del regime di Milošević. Il documentario dà voce alle vittime che quella notte erano di turno nel palazzo della tv, tutte molto giovani; intreccia le parole e le testimonianze di giornalisti e operatori della Rai a quelle dei colleghi della tv di Belgrado, che all’epoca si trovavano su “fronti” opposti (vista la partecipazione diretta dell’Italia all’intervento militare in Kosovo). Con Sedicipersone entriamo nella seconda sezione, prendendo in considerazione i film che affrontano il ruolo dei media nella società, durante la guerra. No Man’s Land di Danis Tanović ambienta la storia rappresentata nel 1993 in Bosnia. Due soldati, uno serbo e l’altro bosniaco, a cui si aggiunge un terzo sospeso su una mina, rimangono intrappolati nella “terra di nessuno”. Sopraggiungono i caschi blu dell’Onu, solo un sergente violando gli ordini dei superiori cerca di intervenire per risolvere la situazione. Nel frattempo giunge anche la stampa che – appostata in attesa di uno scoop – trasforma la vicenda in uno spettacolo mediatico internazionale. Il regista costruisce un ritratto critico dei giornalisti non privo di satira, che però li 195 differenzia in positivo rispetto ai rappresentanti inermi delle Nazioni Unite. I reporter ossessionati dal sensazionalismo, cercano comunque di portare all’attenzione dell’opinione pubblica i drammatici fatti, denunciando la passività dei caschi blu. Ha affermato lo stesso Tanović: “I giornalisti, come noi registi, dovrebbero avere sempre in mente l’etica. I reporter hanno fatto molto per il conflitto jugoslavo, anche indotto l’Onu a intervenire, come mostro nel film, ma nella maggior parte di casi è lo scoop, il sensazionalismo che si cerca a tutti i costi. Vi faccio un esempio. Un giorno sento in tv che era caduta una granata sul quartire Onu, ma in quello stesso giorno erano piovute su Sarajevo oltre 3000 bombe di cui non s’è data notizie. E’ una questione di scelte, come sempre”169. Veillées d'armes: Histoire du journalisme en temps de guerre di Marcel Ophüls è il risultato di quattro viaggi del regista a Sarajevo nel 1993. Ha intervistato corrispondenti di guerra e giornalisti di fama mondiale (tra cui John Burns, Pulitzer del “New York Times”) sui rapporti tra la guerra e i media. Dal tristemente famoso Holiday Inn, Ophüls e gli intervistati analizzano come i media trattano l’attualità, comparano i diversi modi con cui i reporter hanno documentato altre guerre e si interrogano sulla delicata questione dell’etica professionale. Secondo Jean-Louis Comolli, per rimediare al male fatto dalla televisione, che lo ha distrutto, tocca al cinema far tornare a esistere il giornalista come figura possibile e desiderabile. I giornalisti di Ophüls “non dominano dall’altro, non manipolano le informazioni, ma ne sono piuttosto in balia”170. Nella Sarajevo, dimenticata dai mezzi di informazione dopo che si ha avuta l’impressione che la guerra fosse finita, Godard 169 170 AA.VV. (a cura di Giorgio Gosetti e Jean-Michel Frodon), op.cit., p.261. Jean-Louis Comolli, op.cit., p.181 196 rincorre i luoghi della memoria e della speranza. Il regista francese ha dichiarato di essere andato a filmare Notre Musique a Sarajevo, perché nessuno oggi ci va più, mentre negli anni dell’assedio era diventato un tema obbligato di intellettuali e artisti di ogni genere. Sarajevo, ora luogo di un conflitto raffreddato, diventa nel corso del film per Godard il luogo ideale per pensare ad un presente “caldissimo”: la questione israelopalestinese. “Se c’è qualcuno che ha mantenuto la consapevolezza della ‘linea orizzontale’ di cui parla Valery, questi è proprio Godard, la cui intera opera, ormai da quindici anni, rielabora la stessa linea del ritorno sulla storia e sulla memoria del Ventesimo secolo per comprendere le linee spezzate del presente di cui i media ci presentano solo segmenti sparsi”171. La terza area è relativa ai film che hanno trattato, in modo fortemente polemico, la propaganda operata dei media jugoslavi, in primis serbi, fin dalla seconda metà degli anni Ottanta. La manipolazione mediatica nell’informazione televisiva è stata uno dei fattori scatenanti il conflitto. Fin dall’inizio della sua ascesa politica Milošević si propose di arruolare i media per legittimare la campagna nazionalista, i sogni della “Grande Serbia” e così il futuro l’intervento militare, paventato nel famoso discorso di Kosovo Poje nel giugno del 1989, per celebrare i seicento anni dall’eroica battaglia di “Campo dei Merli”. E poi, quarto, ma non ultimo scopo, scatenare nel popolo serbo, la paura del vicino. Esumando e mandando in onda le montagne di teschi dei serbi uccisi dagli ustascia, cinquant’anni prima, il video-trainning del leader nazionalista Milošević convinse i serbi residenti nelle zone di confine o in Croazia e Bosnia, di essere destinati, nella Croazia di Tudjman e nella Bosnia di Izetbegović, ad un altro stermino, 171 Alain Bergala, Alla lunga, non è mai successo niente, in AA.VV. (a cura di Giorgio Gosetti e Jean-Michel Frodon), op.cit., p.211. 197 spingendoli ad un’inevitabile rivolta armata. I fenomeni di manipolazione mediatica e la stessa logica di strumentalizzazione dei mezzi di informazione si sono verificati, in molti casi, anche nelle altre repubbliche nate dalla frammentazione violenta della ex Jugoslavia: in Croazia, dove il regime di Tudjman non si rivelava certo meno autoritario di quello serbo neutralizzando le voci indipendenti e in Bosnia, dove sorsero radio e televisioni fomentate dall’odio nazionale. Riuscivano a reagire con enormi problemi, all’omologazione imposta e all’ingerenza del potere, alcuni media indipendenti come l’emittente B92 di Belgrado e il quotidiano cartaceo “Oslobodjenje” di Sarajevo. Ne Il disertore di Pavlović la guerra arriva a Belgrado attraverso i telegiornali marcatamente propagandistici. Tempo d’amare, dove la guerra serbo-croata viene vista dalla parte dei croati, punta il dito contro la manipolazione mediatica della televisione serba, che deformava inverosimilmente le notizie. Lepa sela, lepo gore affronta tale argomento in una sequenza dai tratti surreali: Laza vedendo la tv in un prato di campagna insieme ai parenti e sentendo il rischio di un nuovo genocidio ustascia, decide improvvisamente di andare a difendere con le armi la sua terra, la Serbia. La vita è un miracolo si scaglia letteralmente contro la disinformazione televisiva: non importa se l’apparecchio, che Luka scaraventa dalla finestra, trasmettesse informazione occidentale o balcanica. Nella quarta e ultima sezione emerge una nuova categoria, che va oltre la controinformazione come opposizione alla propaganda governativa. I new media forniscono la possibilità di autoinformazione e auto-documentazione. Radio B92, censurata dal governo, continuò a trasmettere dal suo sito (la guerra in Kosovo diventa la prima guerra in internet), alcuni anni prima i fratelli Sead e Nihad Kreševjaković e Nedim Alikadić, dall’interno 198 dell’assedio di Sarajevo, realizzarono, all’inizio quasi inconsapevolmente, la base del futuro documentario Do you remember Sarajevo?. Il film (1992-2002) è l’assemblaggio di materiale video proveniente dalla televisione (bosniaca o straniera) e, per la stragrande maggioranza, di materiale amatoriale girato con le minicamere dalla primavera del ‘92: un corpus di rappresenta cinquecento un ore enorme di materiale patchwork reso registrato, possibile che dalla rivoluzione digitale. Ha notato Marcello W. Bruno, come già nel 1915 la Kodak italiana avesse fatto un annuncio pubblicitario in cui affermava che ogni ufficiale e soldato avrebbe dovuto provvedersi dell’apparecchio fotografico “Vest Pocket Kodak”, che - come recitava il comunicato - si poteva comodamente portare in una tasca della divisa, ma l’innovazione tecnologica non trasformò i fanti della Grande Guerra in tanti Robert Capa172. Con gli anni Novanta arriva invece il momento della caméra stylo anonima e collettiva, con immagini che possono viaggiare nella rete telematica. “La controinformazione non è più ‘guerriglia semiologica alla Eco’ (decostruzione della testualità prodotta dagli apparati ideologici di stato) ma produzione testuale alternativa”173. Accanto alle nuove forme resistono ancora i documentari che si propongono di andare oltre la banalizzazione imposta dai mezzi di informazione, nei casi dei registi/reporter. I lavori di Giancarlo Bocchi lo testimoniano: eludendo qualsiasi tentazione di film a tesi, attraverso la forma dei “documentari di creazione” costruiscono sentieri paralleli ai percorsi meno tortuosi e più rassicuranti dei mass media, scavando nella realtà e nelle storie 172 173 Cfr. M.W.Bruno, op.cit. Ibidem 199 quotidiane, lontane dall’ufficialità della Storia, siano esse a Sarajevo o nel Kosovo. Nel corso del capitolo si è intuito come fin dall’invenzione della settima arte, cinema e giornalismo si incontrino e si raccontino a vicenda, talvolta si facciano concorrenza. Hanno in comune la rappresentazione della realtà, riprendendo le parole di Abbas Kiarostami che oltre a riconoscere le analogie, ricorda un vantaggio del cinema rispetto all’inchiesta giornalistica: “rimane nel tempo, può usare un linguaggio più profondo, può aspirare a non essere effimero”. Non sempre ci riesce. Attraverso gli scritti di studiosi abbiamo presentato una visione lucida, ma certo pessimistica, della contemporaneità e dello stato dell’informazione. Crediamo che, al di fuori delle logiche del news management, possa ancora esistere uno spazio per un giornalismo etico ed indipendente e gli esempi non sono così rari. Basta scarpinare come diceva il reporter Egisto Corradi, “vedere è essenziale e per vedere bisogna scarpinare”174. 174 Mimmo Candito, op.cit., pp. 471-2. 200 PARTE SECONDA LE GUERRE JUGOSLAVE (1991-1999) 1 G LI ULTIMI ANNI DELLA J UGOSLAVIA E LA SUA DISGREGAZIONE La dissoluzione della Jugoslavia iniziò anni prima che scoppiassero le guerre, che si sarebbero protratte per tutti gli anni Novanta. Fu una lunga incubazione che durò almeno dieci anni, subito dopo la scomparsa del maresciallo Tito (Josip Brosiz), figura autoritaria e carismatica che aveva governato la Federazione Jugoslava per trentacinque anni, anche con scelte relativamente fortunate come l’ “autogestione” territoriale dell’economia, in contrapposizione alla pianificazione economica centralizzata tipica del modello sovietico, promuovendo la partecipazione degli operai all’organizzazione della produzione e alla gestione delle imprese. Il sistema comunista jugoslavo, seppur si distinguesse per alcune scelte, sia in politica estera sia interna, dal dogmatismo del socialismo sovietico (col quale ebbe numerosi scontri), non riuscì mai a risolvere il problema della democrazia, nodo essenziale per l’evoluzione dello stato. Dopo un lungo coma, che si trasformò in una sorta di veglia collettiva in tutto il paese, il 4 maggio del 1980 Tito morì. “L’emozione e lo sconforto degli Jugoslavi – scrive Stefano Bianchini175 – furono enormi. La loro sensazione immediata fu quella di aver perso il ‘padre’, l’anziano (Stari era appunto chiamato) secondo un modulo interpretativo di origine rurale”. La sensazione generalizzata di insicurezza, legata anche al fatto che 175 Stefano Bianchini, La questione jugoslava, Giunti, Firenze, 1999, 134. 201 l’anno prima era morto Edvard Kardelj, il “numero due” del regime, si inserì in un momento di disagio sul piano economico e politico. L’improvviso aumento dei prezzi petroliferi si sommò ai crediti internazionali che avevano fatto lievitare l’indebitamento estero fino a 20 miliardi di dollari. Queste enormi difficoltà non tardarono ad aggravare le tensioni tra le diverse repubbliche, tutte gelose delle proprie prerogative. Tito era, invece, riuscito, con la sua autorità a far convivere le diverse etnie, favorendo l'intreccio delle persone e dei popoli in una società multietnica. Risorsero, così, sul finire degli anni Settanta i forti sentimenti nazionalistici dei vari gruppi etnici della Jugoslavia e, con la morte del dittatore Tito, le spinte secessionistiche delle repubbliche, ai fini di creare stati monoetnici; si acuirono le contrapposizioni tra i ricchi territori del nord (Slovenia e Croazia) e le aree più depresse della federazione; si sviluppò, negli anni Ottanta, una volontà egemonica della Serbia (con forti richiami mitici)176, mentre la Lega dei comunisti precipitò in un’irrimediabile crisi. La Jugoslavia era divisa in sei repubbliche autonome (Serbia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro) e due regioni (Kosovo e Vojvodina). La penisola balcanica è un’area geografica particolare, che aveva subito nel corso della sua storia numerose dominazioni (ricordiamo le ultime, quelle dell’Impero Asburgico e dell’Impero Ottomano), conflitti e contaminazioni culturali177. 176 Il mito di San Vito, il giorno della sconfitta dei serbi cristiani contro i turchi ottomani (28 giugno 1389), ha sempre occupato un posto di rilievo nella cultura popolare serba. Fu richiamato, in chiave politico propagandistica, dai nazionalisti del dopo Tito, per sollecitare la riscossa del popolo celeste al fine di costruire la “Grande Serbia” che unisse tutti i popoli serbi della Jugoslavia. Contemporaneamente si sviluppava in Croazia, l’idea di una “Grande Croazia”, che nella prospettiva di Tudjman comportava la conquista dell’Erzegovina, popolata da molti croati. 177 L’idea “jugoslava” come prospettiva unitaria risale alla fine del Settecento. “La Storia dei popoli jugoslavi degli ultimi due secoli – ossia da quando la questione nazionale è emersa come fenomeno politico moderno – non è solo Storia di conflitti, di 202 I popoli jugoslavi (letteralmente “slavi del sud”) si erano riuniti per la prima volta sotto uno stato unitario nel dicembre del 1918 al termine della prima guerra mondiale che li vide tristemente protagonisti. Il primo dicembre, un mese e mezzo prima dell’inizio della Conferenza di pace a Versailles, il principe reggente Aleksandar proclamò la costituzione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (Regno SHS). Ci vollero però quasi due anni prima che i confini di tale regno fossero stabiliti definitivamente dai vari trattati di pace, dopo il conflitto bellico. Nel 1941 gli eserciti dell’Asse occuparono la Jugoslavia (così denominata dal 1929), che precipitò nella seconda guerra mondiale. Invasori, nazionalisti e antifascisti si combatterono aspramente. Nel maggio del 1945 il movimento partigiano, protagonista di un’eroica lotta di liberazione, ebbe un capo riconosciuto: Josip Broz, detto Tito (1892-1980). Il 29 novembre del 1945 venne proclamata la Repubblica federativa popolare di Jugoslavia (che nel 1963 prese il nome di Repubblica federativa socialista di Jugoslavia), secondo un sistema di tipo comunista. Raggruppava otto grandi gruppi etnici (Serbi, Sloveni, Croati, Musulmani, Montenegrini, Albanesi, Ungheresi e Macedoni) tre religioni e quattro lingue178. La Bosnia-Erzegovina, una sorta di Jugoslavia in piccolo con la odi e di contrapposizioni che di tanto in tanto riemergono prepotenti per la realizzazione del “fine ultimo”, ossia lo Stato Nazione. Essa, con pari dignità, è anche Storia di integrazione, di aspirazioni unitarie, di consapevolezza che, per popoli tanto piccoli e da tanti (compreso Marx) considerati ingiustamente ‘senza Storia’, la dignità e i diritti nazionali, la ‘diversità’ e le specificità di ciascuno di essi, nonché il loro futuro economico, sarebbero stati meglio rassicurati dalla creazione di una compagine statale più ampia come la Jugoslavia, se non addirittura dalla Federazione balcanica. […] In definitiva, dimenticare ‘una parte’ della Storia, solo perché oggi il nazionalismo caratterizza la prima fase del post-comunismo balcanico, può indurre a erronee valutazioni sul passato e ad una sostanziale incomprensione della ‘transitorietà’ (e quindi, della relatività) del presente”. S.Bianchini, Sarajevo le radici dell’odio (Identità e destino dei popoli balcanici), Ed. Associate, Roma, 1996, p.33. 178 Le religioni principali: ortodossa, cattolica e musulmana. Le lingue ufficiali: serbocroato, croato-serbo, macedone e sloveno. 203 coabitazione di tre etnie (musulmani, serbi e croati), fu storicamente un confine virtuale tra Occidente e Oriente (la Kraijna croata e il fiume Drina sono assurti spesso al simbolo di “limes”). Ritornando agli ultimi anni di vita dello stato jugoslavo, dobbiamo inoltre inserire la crisi della federazione (oltre a valutarne le cause endogene) in un contesto internazionale di disfacimento del blocco comunista, che si verificò, nonostante i coraggiosi tentativi di riforma di Gorbačëv, tra i reali problemi economici, il declino dell’ideologia comunista e il risorgere dei nazionalismi nei paesi dell’Europa orientale. Seppur Tito avesse rotto con Stalin nel ‘48, la Jugoslavia fino al 1990 mantenne la struttura a partito unico e proprio in quegli anni le sorti dei due paesi parvero unirsi nei differenti destini. Da anni era in atto un simile impoverimento dell’idea socialista accompagnato dal sorgere dei nazionalismi; il processo di autodisintegrazione fu contemporaneo. In Urss e in Juogoslavia si verificò un rigetto del totalitarismo e del potere monopolistico dell’apparato, che in diversi casi riuscì a conservare il potere convertendosi in profondità al nazionalismo e palesando una superficiale adesione alla democrazia179. Tre grandi crisi - spiega il sociologo Edgar Morin - si intrecciarono: politica (fragilità della democrazia e riesumazione delle vestigia del vecchio sistema, burocrazia corrotta rimasta al potere), economica (il buco nero tra l’economia di Stato e quella di mercato) e nazionale (il delirio nazionalista)180. In Jugoslavia la crisi del regime a partito unico toccò il punto più drammatico, fece saltare i precari equilibri fra le nazionalità su cui il paese si reggeva dalla fine della seconda 179 180 Cfr.Edgar Morin, I fratricidi, Meltemi, Roma, 1997, p.63-64. Ivi, cit., p.66. 204 guerra mondiale fino allo scontro armato e alla disgregazione dello Stato federale. Sono passati pochi anni dalla conclusione dell’ultimo conflitto in Kosovo (1999), ma la conoscenza delle guerre jugoslave, anche a causa della superficiale rappresentazione fornita dai media occidentali, è spesso semplificata e ricca di facili luoghi comuni. Strano, per una tragedia che si è svolta a poche ore di macchina dall’Italia. Le cosiddette guerre dei Balcani sono una fase storica assolutamente complessa. Ricondurle ad odi atavici è fuorviante. Il problema, come vedremo, non è l’appartenenza etnica, ma il suo uso politico. La sbrigativa categoria di conflitto etnico è stata utilizzata per spiegare o per indicare le guerre jugoslave e i conflitti dei Grandi Laghi (Burundi, Ruanda, Congo, Zaire). “Il conflitto etnico non è la realtà della guerra, ma piuttosto il nome della rappresentazione pregiudiziale con cui gli osservatori sia locali che occidentali si dispongono a fronte di un conflitto del quale capiscono ben poco e da cui vogliono a tutti i costi sentirsi distanti”181. La rappresentazione etnica del conflitto dei Balcani ha mascherato problemi differenti e moderni182. L’odio etnico, anche se presente, non deve essere ritenuto la causa scatenante della guerra, dalla quale però viene ampiamente rinfocolato. “Spiegare la guerra con l’odio tribale è come spiegare – ha scritto Paolo Rumiz- un incendio doloso col grado di infiammabilità del legno da costruzione, e non col fiammifero 181 Marco Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, Emi, Bologna, 2005, p.105. Il conflitto militare jugoslavo di fine anni Novanta è espressione di culture sostanzialmente europee. “Esso è prettamente moderno, poiché la sua natura investe le fonti di legittimità degli Stati, i loro ordinamenti e le loro strutture; il futuro della democrazia; la sicurezza e l’organizzazione internazionale”. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit. p.174. 182 205 gettato da qualcuno”183. L’odio etnico esplode solamente se qualcuno decide di servirsene strategicamente e politicamente in maniera sistematica; è un progetto lungo e complesso che si sviluppa attraverso la manipolazione storica e mediatica, il richiamo forzato ai miti nazionali, infondendo la paura del vicino come nemico, riscoprendo antiche ferite, cavalcando i sentimenti delle popolazioni e provocando i primi focolai di un violento conflitto civile184. Le guerre jugoslave vissero una lunga fase di incubazione. Alla costruzione del conflitto, all’interno del quale si intrecciavano interessi economici e nazionali, concorsero politici, mass media, apparati militari e intellettuali, che crearono la teoria dell’odio etnico e del “tribalismo”, inteso strumentalmente come principale motore dei conflitti balcanici. I tratti più riconoscibili di questo processo sono rintracciabili principalmente nella Serbia di fine anni ’80 con l’ascesa al potere di Milošević, ma anche in Croazia e in Slovenia si verificarono fenomeni simili. Nelle tre repubbliche erano presenti mire espansionistiche (in Serbia e per certi versi in Croazia) o secessionistiche (in Slovenia e in Croazia e successivamente in Bosnia). “L’imbroglio etnico è stato ampiamente utilizzato per legittimare il conflitto, garantendo così la permanenza al potere di leadership 183 Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma, 2000, p.29. Spiega Paolo Rumiz (Maschere per un massacro, cit., p.61) come dietro alla preparazione della guerra ci fosse un importante piano di manipolazione e intrigo, perno della quale erano i mass media. Un congegno complesso (principale regista è Slobodan Milošević) di cui si possono riassumere i principali momenti: la disgregazione del vecchio mito titoista di “fratellanza e unità”; la costruzione di un destino storico nuovo (grazie all’apporto dei mass media); l’invocazione del leader da parte della massa in modo da esaltare la spontaneità dell’operazione, occultandone la sofisticata regia; il risveglio dell’aggressività attraverso la paura (mobilitando, per esempio, il ricordo di antiche ferite e sottolineando tutte le reali o fittizie discriminazioni di una parte etnica, utilizzando la “memoria” in chiave propagandistica), in modo tale che il “futuro aggressore” si senta vittima; l’accensione di focolai di scontro soprattutto nelle zone più rurali, quelle più sensibili alla causa nazionale e contemporaneamente più manipolabili, che hanno costitutito il “materiale umano” della guerra; la teoria del tribalismo, creata ad arte dal potere secondo i peggiori luoghi comuni che vedono i Balcani come la “terra dell’odio”. 184 206 nazionaliste senza scrupoli”185. Risolvendo la questione etnica, tout court, in quella nazionale e quindi in quella statuale186 si è trovato il pretesto per scatenare guerre fratricide contro le popolazioni civili su cui la pratica della pulizia etnica è stata esercitata senza sosta. La guerra raggiunse livelli altissimi di violenza soprattutto ai danni dei civili. Il furore nazionalistico, diffusosi e andato al potere nelle varie repubbliche187, fu anche utilizzato contro la multietnicità delle città jugoslave e fece breccia, opportunamente, nelle zone più rurali e chiuse della Jugoslavia, che diventarono la prima avanguardia militare del conflitto. Si creò allora uno scontro più sociale e culturale, che etnico, che fu notato solo da quegli attenti osservatori, che sfuggivano al cliché del tribalismo, costruito invece per “esaltare” la spontaneità della guerra e nasconderne la lunga preparazione. La teoria della guerra etnica assolve naturalmente ad alcuni scopi cruciali: “Innanzitutto fa credere all’irrazionalità di uno contro i cui scopi (economici) e i cui metodi (di manipolazione) sono invece assolutamente razionali, e dove le responsabilità di vertice sono del tutto trasparenti; in secondo luogo, fornisce la base teorica all’impossibilità della convivenza e dunque 185 G.Marcon, Dopo il Kosovo: le guerre nei Balcani e la costruzione della pace, Asterios, Trieste, 2000, p.95. 186 Tra i principali gruppo etnici o meglio comunità che si contrapposero nelle guerra jugoslave, dal 1991 al 1995, era diversa la percezione dello stato-nazione. Il diritto di stato croato, legato fondamentalmente a una sovranità territoriale, si opponeva ad una visione più etnica e comunitaria dei serbi, mentre i “musulmani” di Bosnia hanno oscillato dopo il 1878 fra l’integrazione in un insieme più ampio (ex-Jugoslavia, blocco croato, solidarietà musulmana) e la recente affermazione del loro stato-nazione. Josip Krulic, La percezione dello stato nazione da parte dei croati, dei “musulmani” bosniaci e dei serbi, in Aa.Vv., Nazioni e Nazionalismi, Asterios, Trieste, 1999, p.127. 187 Durante la guerra di smembramento della ex-Jugoslavia sostiene Edgar Morin, nacque un nuovo sistema: “Mentre la Croazia era dominata da un partito nazionalistapopulista di stampo classico, assai poco tollerante nei confronti delle minoranze e dell’opposizione, in Serbia si è formato un modello integrato di total-nazionalismo. E’ dunque nello Stato-nazione serbo che si è prodotta una sintesi tra il sistema d’apparato ereditato dal comunismo – integralmente convertito al nazionalismo – e la fazione ultranazionalista di vecchia tradizione storica. (E.Morin, op.cit., p.66) 207 all’inevitabilità della pulizia etnica; in terzo luogo, soddisfa in pieno il bisogno di spiegazioni banali da parte dell’opinione pubblica internazionale”188. I paesi occidentali, a tratti disinteressati (per lo più nel periodo precedente ed iniziale della guerra, quando rimasero inermi di fronte al massacro) e a tratti interessati (soprattutto per motivi economici ed equilibri politici) dalla lunga disgregazione della Jugoslavia, utilizzarono spesso in termini autoassolutori la teoria dell’odio. Diversi storici dei Balcani, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta del Novecento, dissero che la guerra sarebbe finita in Kosovo là dov’era iniziata. Così si esprime anche Nicole Janigro, l’autrice di L’esplosione delle nazioni189. E’ proprio in Kosovo che la disgregazione della Jugoslavia del secondo dopoguerra ebbe la sua prima tappa. Nel marzo del 1981, in un clima da tempo teso in tutto il paese, la piccola regione autonoma della Serbia abitata in maggioranza da albanesi aveva dato vita a manifestazioni separatiste che erano culminate in un’aperta ribellione e in gravissimi disordini, con un bilancio di 11 morti e oltre 250 feriti. “Il malessere del Kosovo – scrive Giulio Marcon – veniva da lontano. I serbi lo consideravano da sempre come propria culla storica”190. Qui, si era svolta la battaglia di Kosovo Polje nel 1389, in cui l’esercito cristiano, guidato dal principe serbo Lazar fu tragicamente sconfitto dai Turchi ottomani. Nacque nei villaggi un’epopea raccontata oralmente che cantava le geste di Lazar, eroe e martire, caduto in battaglia per difendere la cristianità dall’invasore musulmano. Nell’Ottocento fu un tema centrale per gli scrittori serbi e divenne presto un mito politico, ovvero un 188 P.Rumiz, Maschere per un massacro,.cit., p.76. Scrisse Nicole Janigro “La guerra in Jugoslavia è iniziata in Kosovo e terminerà in Kosovo, in L’esplosione delle nazioni, Feltrinelli, Milano, 1993, p.193 190 Giulio Marcon,, op.cit., p.25. 189 208 racconto riguardante il passato, che viene tramandato in una determinata versione al fine di giustificare precise scelte politiche. La battaglia del 1389 si svolse il 28 giugno, giorno di San Vito, che diventò una data cruciale nella storia dei Balcani, basti pensare all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno del 1914 a Sarajevo, da cui iniziò la prima guerra mondiale. In Kosovo, inoltre, hanno sede i più importanti monasteri e luoghi di culto della chiesa serbo ortodossa. Nel secondo dopoguerra la presenza della popolazione serba nella regione autonoma era, tuttavia, progressivamente diminuita, mentre era cresciuta la popolazione albanese. I disordini del 1981 mettono in luce i vecchi squilibri tra nord e sud del paese, che la politica di autogestione aveva sotto alcuni aspetti approfondito. Ai due estremi vi erano la Slovenia e il Kosovo. Con un tenore di vita di 7 a 1 a vantaggio di Lubiana, dove la disoccupazione era quasi assente mentre a Priŝtina toccava il 27%, il valore più alto di tutta la Federazione, nonostante i massicci investimenti nelle aree sottosviluppate stanziati dal governo centrale. Tra la fine del 1986 e l’inizio dell’anno successivo la società jugoslava era profondamente scossa dall’uscita di due documenti redatti, rispettivamente, da un gruppo di intellettuali di Belgrado e da un altro di Lubiana. Il primo scritto fu il Memorandum firmato da alcuni membri dell’Accademia serba delle scienze e delle arti di Belgrado, fra cui il romanziere Dobrica Čosić; il secondo, una raccolta di sedici saggi apparsi sulla rivista slovena “Nova Revija”, dal titolo Contributi per un programma nazionale sloveno. I due documenti dal contenuto nazionalista, destinati a incidere profondamente sull’assetto del Paese, suscitarono aspre 209 polemiche191. In quei mesi, un uomo, da qualche anno entrato in politica, rimase in disparte: si trattava di Slobodan Milošević192, il quale stava accrescendo il suo potere (divenne proprio allora presidente del Partito comunista serbo) e pochi anni dopo si fece il massimo interprete dei valori del Memorandum. Il documento dell’Accademia di Belgrado descriveva una “Serbia vittima della storia”. In particolare denunciava la discriminazione dei serbi in Croazia, che avrebbero rischiato addirittura il “genocidio”. E da qui, nasceva l’invito al popolo serbo, il “popolo celeste”, a rialzare la testa e riunificarsi in un unico stato sovrano (la Grande Serbia), revocando da subito l’autonomia al Kosovo, decisa anni addietro da Tito, con il quale il Memorandum non era assolutamente tenero. L’atmosfera in Jugoslavia divenne sempre più tesa, con il passare del tempo i rapporti tra il potere centrale e le diverse repubbliche si fecero più difficili. Si svolsero manifestazioni di protesta in Slovenia (a Lubiana, capeggiate dai giovani della rivista “Mladina”), in Kosovo (soprattutto da parte dei minatori) e in Vojvodina; a questi ultimi due, venne revocata nel 1989 da Milošević, da poco eletto presidente della Serbia, l’autonomia (sancita dalla Costituzione del 1974). In tutta la Serbia si registrò, sul finire degli anni Ottanta, un boom editoriale delle pubblicazioni letterarie, che dopo il Memorandum, mescolavano folklore e nazionalismo. A Kosovo Polje, il 28 giugno del 1989, in occasione dei 600 anni dalla battaglia contro gli Ottomani, Milošević tenne un infuocato discorso, davanti a una folla galvanizzata, nel quale si impegnava solennemente a difendere i 191 Il presidente della Repubblica Serba definì Ivan Stambolić il Memorandum “in memoriam della Jugoslavia” (riportato in S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.147). Anche la Lega dei comunisti, precipitata in una gravissima crisi e vittima di contrasti insanabili tra i vari burocrati del partito, condannò il documento. 192 Cfr. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.144, A.Marzo Magno (a cura di), La guerra dei dieci anni, il Saggiatore, Milano, 2001, p.35 e S.Bianchini, Sarajevo le radici dell’odio, Identità e destino dei popoli balcanici, cit., pp.51-58. 210 Serbi dagli Albanesi e poi, facendo anche riferimenti al mito di Lazar, non escludeva la possibilità futura di conflitti armati. La preparazione della guerra si identificò con la scalata politica di Milošević, che si fece campione di uno sfrenato nazionalismo, ai fini di conservare il proprio potere, riempiendo il grande vuoto lasciato dalle sicurezze dell’ideologia comunista193. La strategia panserba si scontrava però con le mire nazionalistiche delle altre repubbliche da quelle etnicamente più complesse come la Bosnia-Erzegovina a quelle economicamente più ricche come la Croazia e la Slovenia, che al tempo teorizzava ancora la nascita di una Federazione asimmetrica per tutelare la propria economia e i propri privilegi. Tra aprile e maggio del 1990, dopo la frantumazione della Lega dei comunisti, si svolsero le prime elezioni pluripartitiche in Slovenia e in Croazia che videro l’affermazione dei partiti nazionalisti e la sconfitta delle leghe dei comunisti, presentatesi sotto altro nome. In Slovenia si affermò la coalizione Demos, che aveva come priorità di programma l’indipendenza della repubblica, certo di impostazione più moderata rispetto al partito ultranazionalista Hdz (Comunità democratica croata), guidato da Franjo Tudjman, che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi a Zagabria. L’Hdz aveva sollevato fin dalla sua fondazione il problema della revisione dei confini della repubblica, auspicando un’annessione della Bosnia-Erzegovina alla Croazia. Nell’estate del 1990 incominciarono gli attriti e gli scontri tra la minoranza serba di Krajina, che ormai propagandava la propria autonomia, e i croati. Tra novembre e dicembre dello stesso anno si tennero le consultazioni elettorali anche nelle altre quattro repubbliche. In Serbia si aggiudicò le elezioni il partito socialista di Milošević, 193 Andrea Speranza, La costruzione del mito serbo del Kosovo, in Balkan, febbraio 2000. 211 nato dalla fusione della Lega e dell’Alleanza socialista. In Montenegro vinse, senza modifica al nome del partito, la Lega dei comunisti. In Bosnia, si verificò la situazione più complicata, ad ottenere i maggiori consensi furono i tre partiti a carattere etnico-nazionale: l’Hdz (collegata direttamente a Zagabria), radicata soprattutto nell’Erzegovina; l’Sda, formazione musulmana, di Alija Izetbegović e di Fikret Abdić; l’Sds, il partito serbo-bosniaco guidato da Radovan Karadžić. Solo in Macedonia il partito riformista e multietnico del premier federale Ante Marković ottenne un buon risultato. Il 23 dicembre 1990 si svolse in Slovenia un referendum per l’indipendenza con il risultato di 88,2% di voti favorevoli. Da notare che il diritto di secessione era già stato inserito nella Costituzione slovena l’anno precedente. Il primo ministro della Federazione jugoslava (scelto a rotazione, tra le repubbliche, dopo la morte di Tito), appunto Marković, che aveva sostituito Branco Mikulić, aveva sempre meno peso politico e le tentate riforme economiche rimasero come inapplicate, soffocate dallo strapotere dei leader repubblicani di Serbia, Slovenia e Croazia. Non fu mai accettata dalle tre repubbliche la richiesta di Marković di elezioni pluripartitiche jugoslave. I lunghi anni del regime di Tito, sebbene avessero messo a tacere i nazionalismi delle varie etnie, non avevano permesso, a causa dell’assenza di strutture democratiche, la nascita di un’ampia società civile, matura e democratica, pronta a difendere i valori dell’interculturalità su cui si basava tutta l’esperienza della Jugoslavia; alcuni gruppi, come l’Ujdi (Associazione per l’iniziativa democratica jugoslava), si facevano promotori di tale sensibilità soprattutto nelle città, senza però riuscire realmente ad incidere sull’attualità politica. 212 La Federazione degli slavi del sud si trovò così in un’irreversibile crisi politica, dopo diversi anni di difficoltà economica, dove i partiti ora giunti al potere, grazie anche ad un uso strumentale dei mezzi di comunicazione di massa, a carattere etnico, erano tutti orientati all’interesse e al bene della propria nazione o meglio della propria etnia. “Il trionfo non era in realtà unanime e monolitico, come quei partiti avevano voluto far credere. Esso si basava per lo più sul consenso convinto e fanatico di una larga minoranza, in grado tuttavia di condizionare e trainare il resto della nazione, organizzazioni nonché religiose sulla collaborazione (soprattutto cristiane, di talune cattoliche e ortodosse) che dopo il 1990 avevano visto crescere la possibilità di influire sulla società attraverso i sistemi educativo e assistenziale”.194 2 L A GUERRA IN S LOVENIA E IN C ROAZIA : 1991 Si giunse ad un punto di non ritorno nel 1991 con un clima di “muro contro muro”, che aveva cancellato ogni margine di compromesso. Mentre all’inizio dell’anno, i presidenti delle sei repubbliche si riunivano in inconcludenti incontri sul futuro della Jugoslavia, in Bosnia e in Croazia i dirigenti serbi e poi quelli croati dell’Erzegovina proclamavano la nascita di regioni autonome. Come successe in Krajina, uno dei primi focolai del conflitto nonché uno dei nodi del contrasto tra Serbia e Croazia; la regione croata dove risiedeva una maggioranza serba, che decise la separazione dalla Croazia costituendo un governo a 194 S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.157. 213 Knin. La neonata Repubblica serba della Krajina (proclamata il 19 marzo 1991 e costituita formalmente a dicembre) non verrà mai riconosciuta dalla Comunità europea. Con la vittoria, mesi prima dell’ Hdz di Tudjman, che non rinnegava l’eredità storica del movimento fascista ustascia, aumentò notevolmente l’ansia separatista dei serbi, rinfocolata strumentalmente da Belgrado. Come ha sottolineato Luca Rastello195, la radicalizzazione nazionalista fece comodo sia al regime di Zagabria, in cerca di una nuova legittimità antijugoslava, quanto a quello di Belgrado che faceva dei cosiddetti “prećani” (i fuoriusciti, ovvero i serbi che vivono fuori dai confini della repubblica di Serbia) il perno della propaganda nazionalista. I primi morti della guerra si registrarono proprio in Krajna a Plitvice, dove ha sede uno dei più bei parchi dei Balcani, dove centinaia di turisti increduli assisterono a furiose sparatorie tra serbi e croati, due poliziotti croati tra le vittime. Si susseguiranno nei mesi successivi altri scontri, tra le due etnie, a Borovo Selo (massacro di 12 poliziotti croati) e a Zara (distruzione dei negozi “serbi”). Nei primi mesi del 1991 si erano incontrati i presidenti di Slovenia e Serbia, Kučan e Milošević discutendo di una possibile separazione consensuale della Slovenia dalla Jugoslavia. Ma la situazione del Paese diventò sempre più confusa e instabile, con la crescita degli attriti tra i gruppi nazionali, soprattutto tra Serbia e Croazia. Il 15 maggio il referendum per l’indipendenza croata registrò una sonora vittoria del fronte del sì. Anche in Macedonia vinsero, al referendum, i favorevoli all’indipendenza della repubblica meridionale. Nello stesso mese Milošević impedì l’elezione a presidente della federazione, che avveniva secondo rotazione, del croato Stipe Mesić. 195 Luca Rastello, La guerra in Casa, cit., p.31. 214 Il 25 giugno i parlamenti di Slovenia e Croazia proclamarono l’indipendenza delle due repubbliche, dando però a tale atto una valenza profondamente diversa. “Mentre il parlamento di Zagabria – abbandonato in segno di protesta dai suoi membri serbi – si limitò ad una dichiarazione di principio, quello di Lubiana autorizzò l’esecutivo a passare ai fatti”.196 Arrivate a Belgrado le notizie da Lubiana e Zagabria, il parlamento federale si riunì (privo di membri sloveni e croati) definendo illegali tali atti e insieme al governo impartì l’ordine alle truppe del ministero degli Interni di riprendere i controlli dei confini internazionali con l’assistenza dell’esercito di stanza in Slovenia e di occupare militarmente la repubblica “ribelle”. Il 26 giugno del 1991 iniziò così la guerra civile sorprendendo in un certo senso il gruppo dirigente sloveno che credeva di aver raggiunto un accordo con quello serbo. La prima guerra jugoslava, detta anche “guerra delle dogane”, fu caratterizzata da scontri di bassa intensità, durò un mese e provocò diverse decine di morti, soprattutto tra le file dell’Armata popolare (l’esercito federale), dove erano arruolati numerosi giovani di leva. I generali dell’Armata sottovalutarono la preparazione delle truppe slovene (allertate e preparate da tempo in vista di possibili scontri) e furono costretti alla ritirata, che avvenne a cominiciare dal 29 luglio. Ha scritto al riguardo Paolo Rumiz: “La guerricciola slovena – che dà il via nel 1991 alla disintegrazione dei Balcani – è un capolavoro di astuzia strategica e di messa in scena, e l’esperienza fatta a Timosoara mi aiuta a prenderne atto con relativa rapidità. Lo strappo - come si vedrà più tardi – avviene grazie a una tacita unità d’intenti con la Serbia. Si consuma all’insaputa della Croazia, e soprattutto dell’esercito federale, che 196 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, Einaudi, Torino, 2002, p.40. 215 cade nel tranello della provocazione. La Slovenia non interessa a Milošević; dietro alle sue dichiarazioni roboanti sull’integrità dei confini, egli già lavora per ritagliare dal paese la fetta più larga possibile di Grande Serbia, dunque il separatismo sloveno gli è utile a mettere in mora il processo e a schivarne la responsabilità. Anche per i dirigenti di Lubiana è un abile gioco delle tre carte. Essi hanno costruito la separazione pompando la rabbia popolare dei ‘mitteleuropei’ contro i ‘bizantini’ serbi, ma è proprio con i bizantini che essi ai accordano per spaccare la Federazione”197. Molto più cruenti e tragici sono stati i conflitti successivi, che si spostarono velocemente in Croazia. In totale sono quattro i teatri di guerra dove, solo pochi anni fa, si svolsero i conflitti balcanici. Dopo la Slovenia (la repubblica più settentrionale dell’exJugoslavia e quella più “omogenea” etnicamente), il secondo teatro di guerra è quello relativo alla Slavonia orientale e occidentale (zona a est di Zagabria bagnata dal Danubio e dalla Sava), alla Krajina e alla Dalmazia centro-meridionale, tutti territori croati ai confini con la Bosnia e in parte con la Serbia e il nord del Montenegro. Il terzo teatro di guerra è quello bosniacoerzegovese (delimitato dai fiumi Sava e Drina, storica linea di separazione fra impero d’Oriente e d’Occidente ieri, fra Serbia e Bosnia oggi); il quarto è il Kosovo, regione autonoma della Serbia incastonata tra Albania, Macedonia, Montenegro e Serbia. Fin da luglio 1991 ci furono scontri in Croazia nelle zone abitate dai serbi in Krajina e in Slavonia. Da tempo era in atto una propaganda condotta da Belgrado tesa a convincere la popolazione serba che abitava in Croazia del “carattere genocida del popolo croato” e del regime fascista al potere a Zagabria. Lo storico Jože Pirjevec ha sostenuto come “a questo scopo fu 197 P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit., p.58. 216 condotta una politica rozza ma efficace a livello psicologico: si incominciò a scoprire un gran numero di tombe collettive nelle quali gli ustascia avevano sepolto le loro vittime durante la seconda Guerra mondiale”198. Anche se non aveva diretta attinenza con l’attualità trovò terreno fertile soprattutto nelle regioni contadine meno sviluppate, ma non solo. L’utilizzo delle fosse comuni, come strumento di propaganda, è stato uno degli elementi più frequenti, adoperato dalle parti in lotta nelle guerre jugoslave. Come nota Marco Deriu199 basta richiamare alla memoria la vicenda discussa della fossa comune di Racak, che è stata usata per giustificare, agli occhi dell’opinione pubblica l’intervento Nato in Kosovo contro la Serbia di Milošević. L’armata federale si ritirò dalla Slovenia attraverso la Croazia, passando per la Slavonia. Dalla fine di luglio, per tutto il mese di agosto si verificarono incidenti tra Croati e l’Armata popolare, sempre più serbizzata. Anche in Kraijna, furono numerose le stragi; iniziò un esodo di massa da Knin da parte dei croati, un primo episodio di “pulizia etnica”. Il 16 agosto incominciò la “battaglia dell’autostrada”, l’arteria tra Zagabria e Belgrado fu interrotta. E’ ormai avviata un’altra guerra, ora in Croazia. Il 18 agosto prese l’avvio il terribile assedio di Vukovar in Slavonia orientale, durato tre mesi. L’esercito federale bombardò con artiglieria pesante e incursioni aeree Vukovar e i villaggi limitrofi, città di pianura, industrializzata multietnica e barocca. Proprio a Vukovar l’Armata popolare jugoslava perderà ogni credibilità di equidistanza, coincidendo sempre più con gli interessi serbi, che la consideravano un avamposto strategico per controllare i separatisti croati. L’esercito jugoslavo durante i 198 199 J.Pirjevec, op.cit. p.65. M.Deriu, op.cit, p.207. 217 mesi dell’assedio segnerà molte diserzioni200, presero infatti il sopravvento le truppe paramilitari, mercenarie, serbe, armate ed equipaggiate da Belgrado come i reparti regolari, di Željko Raznjatoć, alias Arkan (in turco l’intoccabile), e di Vojislav Šeŝelj, ovvero le “tigri” e le “aquile bianche”. La difesa di Vukovar fu invece organizzata dagli estremisti delle forze di liberazione croate (Hos), ala militare del partito dei diritti (Hsp) di tendenza neoustascia guidato da Dobroslav Paraga. Le truppe croate erano comandate da Mile Dedaković, detto il falco. In un clima di guerriglia urbana, con l’impiego costante di cecchini, a fine assedio, le perdite umane, tra cui molti civili, saranno altissime. Nel mese di novembre l’offensiva serba si fece sempre più massiccia. Il 17 novembre i serbi entrarono in città travolgendo l’ultima resistenza croata, commettendo atrocità e torture contro la popolazione civile, i prigionieri di guerra e i feriti croati prelevati da un ospedale (è uno dei crimini di guerra per il quale diversi militari e paramilitari serbi sono accusati dal Tribunale Internazionale dell’Aja: si parla di 261 persone ricoverate nell’istituto sanitario e scomparse). Migliaia di persone furono deportate in campi di prigionia. Il giorno dopo, i Serbi invitarono la stampa a filmare la distruzione consumata a Vukovar, dopo la fine dell’assedio; tutto era a portata di telecamera e di taccuino, ma chissà perché, chi aveva convocato questa improvvisata conferenza stampa/reportage erano proprio gli “aggressori”, ora vincitori? Fu, infatti, l’ultima volta che capitò un fatto simile, nella guerra dei Balcani; in tutti gli altri casi si preferì un depistaggio nei confronti dei media o un loro uso strumentale. Il 24 novembre fu fatto arrestare dal governo di Zagabria Mile Dedaković, considerato da molti croati, l’eroe di Vukovar. Un 200 Nel capitolo un cecchino, del libro La guerra in casa (Einaudi 1998), Luca Rastello racconta come fu tragico il ritorno da Vukovar per molti ragazzi di leva dell’Armata, dopo aver assistito alle torture commesse dalle milizie paramilitari serbe. 218 fatto strano che fece pensare ad un tradimento del governo alla causa nazionale o meglio metteva in luce alcuni accordi sottobanco tra le dirigenze croate e serbe: lasciando la conquista di Vukovar a Belgrado, a Zagabria sarebbero andati in cambio alcuni territori dell’Erzegovina201. Come vedremo in altri casi, per esempio Sarajevo, è stato colpita Vukovar, in quanto città cosmopolita per mettere in scena l’impossibilità di una convivenza che invece era consolidata. Per dar sfogo a quel fantomatico pretesto etnico che aveva mosso la guerra, che, come si è già sottolineato, non è la causa delle guerre ma jugoslave, lo strumento utilizzato dalle lobby nazionaliste al potere per scatenare la guerra e tutelare i propri interessi economici e anche i traffici criminali che controllavano, considerati da alcuni studiosi come uno dei fattori detonanti del conflitto e del suo perdurare202. I traffici di droga e di armi, tra cui quelli più o meno “coperti” con le industrie belliche europee, durante la guerra raggiunsero livelli altissimi, arricchendo spesso la criminalità organizzata. A Vukovar avevano combattuto milizie paramilitari e mercenarie, composte per la maggior parte da soldati reclutati tra le campagne e le montagne della Jugoslavia (Erzegovina per i croati; Kraijna, Montenegro e le montagne della Bosnia orientale per i serbi, rispuntano infatti i cetnici), là dove aveva maggiormente attecchito l’indottrinamento nazionalista degli ultimi anni, in quella società arretrata, in un certo senso autarchica (suddivisa in “clan” secondo le regole della “zadruga”, la comunità familiare), chiusa in sé, arroccata 201 La tesi che il governo croato avesse “venduto” Vukovar è raccontata in La linea dei mirtilli (Editori Riuniti, Roma, 2000). Paolo Rumiz, nel capitolo Il prezzo di una cabriolet scrive: “I rinforzi che Tudjman aveva promesso ai difensori della ‘Stalingrado croata’ non arrivarono mai. Il ministro della Difesa Sušak li aveva dirottati sulla Dalmazia e quindi sull’Erzegovina. Già allora Belgrado e Zagabria sapevano che la guerra in Bosnia sarebbe stata inevitabile”. 202 P.Rumiz, Armi, droga, mafia: la guerra come affare, in “Limes”, La guerra in Europa , n. 1-2, 1993, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso. 219 nel proprio fervente tradizionalismo, lontana dal cosmopolitismo urbano, che guardava con astio. Ciò porta a pensare come uno scontro tra campagne e città (latente nella società jugoslava) sia stato indotto e preparato dall’esterno. “Capire Vukovar significa capire il nucleo degli eventi”203 ha affermato Rumiz, parlando del centro urbano come di una città-laboratorio del conflitto. Infatti, chi fu spazzata via da Vukovar è stata la borghesia produttiva e cosmopolita sia croata che serba, più che un’etnia una classe sociale. Lo dimostra anche la distruzione dei palazzi borghesi del centro, mentre alcune periferie (dove risiedevano gli “inurbati) rimasero quasi intatte. A metà settembre, l’indipendenza che la però Macedonia non fu aveva riconosciuta proclamato a livello internazionale per i veti della Grecia fino al 1993. Un mese dopo la Bosnia-Erzegovina scelse il cammino dell’indipendenza durante una seduta parlamentare in cui i rappresentati serbi abbandonarono l’aula, in netto disaccordo. Nei primi d’ottobre, con violenti combattimenti attorno a Dubrovnik in Dalmazia iniziò l’assedio della città e del suo splendido centro medievale. Il 21 novembre i serbi fecero saltare il ponte di Maslenica, Zara rimase isolata e la dorsale adriatica tagliata in due. Solo il primo gennaio del 1992 venne firmato un cessate il fuoco tra serbi e croati, con la mediazione dell’Onu. Il 18 dicembre del 1991 la Germania fu la prima a riconoscere ufficialmente la Croazia e la Slovenia come stati indipendenti, accelerando la decisione della comunità internazionale che solo tre mesi prima aveva dichiarato che “nessun riconoscimento di repubbliche indipendenti e sovrane sarebbe stato effettuato prima di un accordo generale soddisfacente per tutti”204. 203 204 P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit. p.87. G.Marcon, op.cit., p.84. 220 Pochi giorni dopo il premier federale Ante Marković, emarginato e privo di qualsiasi sostegno all’estero, si dimise, decretando la fine dell’ultimo governo jugoslavo; qualche settimana prima aveva fatto la stessa scelta il presidente della Federazione, Mesić. 3 L A GUERRA IN B OSNIA -E RZEGOVINA : 1992-1994 Il 15 gennaio del 1992 i dodici Paesi della Comunità europea (Cee) riconobbero la Croazia e la Slovenia, dopo le pressioni della Germania e del Vaticano (sollecitato dalla chiesa cattolica croata). Dopo le secessioni delle due repubbliche settentrionali della Jugoslavia si aprì il fronte in Bosnia-Erzegovina. In Bosnia, a differenza delle altre repubbliche, non esisteva una componente etnica che rappresentasse la maggioranza assoluta del paese: i musulmani (non in senso esplicitamente religioso) erano circa il 43% della popolazione, i serbi il 31% e i croati il 17%. Il 29 febbraio del 1992 si votò il referendum per l’indipendenza, a cui non parteciperà per protesta la popolazione serba. Il risultato è favorevole alla secessione. Il 6 aprile, il giorno del riconoscimento della Comunità europea e ventiquattro ore prima di quello degli Usa dell’indipendenza della Bosnia205, incominciarono i bombardamenti dei serbo-bosniaci (forti delle risorse dell’esercito federale) su Sarajevo, capitale della repubblica. Il giorno seguente i serbi-bosniaci dichiararono 205 Fu la prima volta che gli Stati Uniti intervennero concretamente nelle guerre jugoslave, riconoscendo contemporaneamente oltre alla Bosnia, le altre due repubbliche secessioniste: la Croazia e la Slovenia. 221 la costituzione della nuova Republika Srpska (Repubblica Serba di Bosnia), con capitale Pale, un comune montano a pochi chilometri da Sarajevo; presidente dell’autoproclamata repubblica era l’ultranazionalista Radovan Karadžić, psichiatra di origine montenegrine. Seguirono tre anni e mezzo di guerra con combattimenti prolungati e atti di una ferocia senza limiti. Nella primavera, fin da marzo, vennero inviati, su decisione del Consiglio di Sicurezza (che pur nutriva dubbi al suo interno), i Caschi blu dell’Onu, attraverso la missione “Unprofor” (United Nations Protection Force), prima di stanza in Croazia e poi in Bosnia, principalmente con il compito di assicurare l’arrivo degli aiuti umanitari alle popolazioni segnate dalla guerra in corso. Da aprile in poi, si susseguirono i bombardamenti su Sarajevo da parte delle truppe serbo-bosniache, sostenute da quello che era rimasto dell’Armata federale jugoslava, Jna. Iniziò così l’assedio della capitale bosniaca, che durò quasi quattro anni: oltre 1300 giorni (il più lungo subito da una città nella storia moderna). Sarajevo, città cosmopolità e multetnica, importante centro culturale, diventerà il simbolo della guerra, colpita da attacchi quotidiani di artiglieria pesante, con migliaia di vittime civili, cecchini continuamente appostati, la distruzione sistematica di interi quartieri e palazzi storici, fame e mancanza di aiuti umanitari. Da secoli avevano sempre convissuto a Sarajevo, definita la Gerusalemme dei Balcani, cattolici e ortodossi, ebrei e musulmani; quella città piena di suoni, contaminazioni, colori e contraddizioni che emerge nella prosa inquieta del premio Nobel Ivo Andrić (1892/1975). Nei primi giorni di scontri armati a Sarajevo ci furono diverse manifestazioni pacifiste in cui non si contavano gli striscioni con scritto “Possiamo vivere insieme”; il poeta bosniaco musulmano 222 Abdullah Sidran affermò: “Senza i serbi non potrei respirare; senza i croati non potrei vivere; e senza essere me stesso non potrei vivere con loro”206. A Sarajevo, ha scritto Paolo Rumiz, si verificò come a Vukovar uno scontro sociale e culturale, e non principalmente etnico: da una parte i cittadini cosmopoliti, nella capitale assediata, dall’altro gli abitanti delle montagne, le zone rurali e meno progredite del paese, dove avvenne il maggiore reclutamento militare sotto il condizionamento della retorica nazionalista. Era così possibile trovare croati, musulmani e serbi urbani uniti nel fondovalle, sotto assedio (a cui in alcuni casi si aggiunsero gli ebrei sarajevesi), e sulle alture i serbi delle montagne circostanti (nei luoghi dove, si narra, vivessero le popolazioni più “guerriere”) nelle truppe al seguito del generale Ratko Mladić, a cui si unirono quelli della “nuova” periferia di Sarajevo, recentemente immigrati nella città e poco integrati nel melting pot cosmopolita. Una contrapposizione simile avvenne anche in territorio croato tra i dalmati costieri e gli abitanti delle Alpi dinariche, da un lato una società aperta e multietnica, dall’altro una comunità chiusa in sé, in una visione familistica, epica e religiosa della vita (bacino del fondamentalismo etnico) 207. Il 27 aprile i parlamenti di Serbia e Montenegro avevano proclamato a loro volta la repubblica federale di Jugoslavia, composta da Serbia e Montenegro, che non verrà riconosciuta né dalla Cee né dagli USA. La Serbia di Slobodan Milosević, che a dicembre verrà riconfermato presidente, si dichiarò da subito favorevole alla 206 Ali Rabia e Lawrence Liftschultz, Why Bosnia?, Stony Creek, CT: The Pamphleteer's Press, 1993. 207 Lo scontro socioculturale tra città e montagna, città e campagna, è raccontato da Paolo Rumiz in Maschere per un massacro, nel capitolo La taverna di Mladen (pp.105119). Soprattutto per quanto riguarda Sarajevo ma anche altre realtà. La contrapposizione etnica si rivela niente meno che un prodotto del conflitto balcanico non la causa. 223 formazione della Republika Srpska, che intravedeva come primo passo per la realizzazione dell’obiettivo della “Grande Serbia”, collegando i territori della Bosnia orientale con quelli della Serbia. Intento non diverso aveva la Croazia di Tudjman che prospettava un’annessione dell’Erzegovina ai territori croati (un progetto a volte definito “Grande Croazia”). Come già riportato, sono ormai documentati alcuni incontri tra i due presidenti, come quello che si tenne a Karadjordjevo il 25 marzo del 1991208, prima dello scoppio della guerra, per stabilire una divisione della Bosnia-Erzegovina, anche con le armi, facendo leva sui pregiudizi dell’Occidente sui musulmani, mettendo in scena un fantomatico “scontro di civiltà”, che secondo i due leader nazionalisti avrebbe assecondato la spartizione. “La guerra doveva risultare uno scontro ‘spontaneo’ tra popolazioni portatrici di civiltà inconciliabili”209 da una parte la cristianità dei serbi ortodossi e dei croati cattolici, dall’altra i “minacciosi” musulmani di Bosnia. Bisogna subito sottolineare un particolare non di poco conto, i musulmani bosniaci sono musulmani più che altro per l’anagrafe, perché nella ex Jugoslavia il fattore religioso era secondario. Per la scarsa osservanza, che contraddistingueva molti di loro, venivano infatti considerati “i peggiori musulmani”. Zlatko Dizdarević, noto giornalista del coraggioso e autorevole quotidiano Oslobodjenije, che usciva nella Sarajevo assediata, disse: “Sono stufo di dover continuamente dire alla gente che non sono fondamentalista, che mangio prosciutto, bevo cognac e 208 Cfr. Zlatko Dizdarević, Bosnia Erzegovina 1992-1993, in Alessandro Marzo Magno (a cura di), op.cit., p.163. 209 Guido Rampoldi in L’Occidente trovò la sua missione, quell’intervento fu una svolta storica, “La Repubblica”, lunedì 11 luglio 2005. Avvallavano la posizione di Tudjman e Milosevic anche gli studi del cosiddetto “culturalismo”, che vedeva nella guerra di Bosnia il primo scontro di civiltà. Il fondatore di questa corrente, il politologo Samuel Huntington, sosteneva che dopo la caduta del comunismo i principali conflitti nel mondo non sarebbero stati più ideologici o economici ma di “natura culturale”, tra appartenenti diverse civiltà, come quello tra la civiltà cristiana e quella musulmana. 224 che qui le ragazze portano la minigonna. Non siamo noi, è l’Occidente che ci vuole islamici”210. I musulmani di Bosnia fecero ogni tanto ricorso al termine Bošnjaci (tradotto in italiano, bosgnacchi), per distinguersi dal termine bosniaci, indicante tutta popolazione della Bosnia. Il 27 maggio a Sarajevo tre granate ammazzarono almeno venti persone in coda per il pane, ferendone 150, non lontano dal mercato centrale; si erano fidate della tregua promessa dall’Armata e dal partito democratico serbo di Karazdić (Sds); fu la prima grande strage di civili a Sarajevo ed ebbe un enorme impatto sull’opinione pubblica mondiale, che attraverso le immagini diffuse della televisioni, aveva colto in tutta la sua crudezza l’accaduto. Il 30 maggio l’Onu decretò sanzioni economiche per la Serbia e il Montenegro, iniziò un isolamento internazionale per la Repubblica federale di Jugoslavia. Due settimane dopo Tudjman e Izetbegović firmarono un’alleanza militare (croati e musulmani erano stati i fautori dell’indipendenza della repubblica), in opposizione ai serbi, che però non durò molto (formalmente solo quattro mesi): sia perché incominciavano a girare le voci di un accordo sottobanco tra Milosević e Tudjman, sia perché i croati di Bosnia costituirono una comunità autonoma, denominata Herceg-Bosna (il 2 luglio). La guerra, intanto, era esplosa in tutta la Bosnia-Erzegovina provocando migliaia di morti e profughi. Nel mese di agosto esplose lo scandalo dei lager serbi dopo la pubblicazione di un reportage di Roy Gutman, corrispondente del “Newsday”, che concentramento, documentò una vergogna l’orrore dei che civile la campi Europa di a cinquant’anni dalla seconda guerra mondiale non si sarebbe mai più aspettata all’interno dei suoi confini. Il più tristemente noto 210 La dichiarazione è riportata in P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit., p.118. 225 divenne quello di Omarska nel nord della Bosnia, vicino a Banja Luka, nel quale 13.000 persone furono internate e almeno 5.000 ammazzate. Quelli serbi, tra cui anche il terribile campo di prigionia Trnopolje, non furono gli unici campi di concentramento, infatti furono anche costruiti, durante la guerra in Bosnia (1992-1995), da croati e musulmani. Le truppe serbo-bosniache guidate da Ratko Mladić, sia regolari che irregolari, si distinsero per massacri sistematici, stupri di donne musulmane, cecchinaggio e azioni di pulizia etnica. Avvantaggiati dal sostegno della Jna e da rifornimenti dalla Serbia, conquistarono in breve il 70% del territorio della Bosnia. La pulizia etnica fu presto generalizzata: alla fine del conflitto oltre 2.400.000 bosniaci (musulmani, serbi e croati) avevano lasciato le proprie case. I villaggi distrutti furono centinaia. Il termine pulizia etnica nacque proprio in Jugoslavia211 ed è ormai entrato nel lessico giornalistico e diplomatico; sta ad “indicare i casi in cui un’entità politico-nazionale o un gruppo organizzato usano la violenza (omicidi, tortura, stupri, imprigionamenti) o l’intimidazione nei confronti di una popolazione civile non in ragione di un particolare comportamento di quelle persone ma in ragione della loro appartenenza a uno specifico gruppo etnico o religioso e al fine di cacciarla da un territorio su cui si intende affermare la propria sovranità”212. 211 “Il termine pulizia etnica è una tradizione letterale del serbo-croato etničko čisčenje e venne usato inizialmente a partire dal 1981 dai serbi per indicare le azioni condotte dagli albanesi kosovari nei confronti della minoranza serba per creare delle zone etnicamente pure”. (M.Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, p.321). Fu ripreso nel 1992 per qualificare gli attacchi serbi nei confronti dei musulmani bosniaci, al fine di cacciarli dai territori dove fino allora avevano abitato. Come pratica, seppur non fosse definita con tale termine, fu utilizzata in alcuni momenti storici nei Balcani: in precisi periodi nell’Ottocento quando la Serbia allontanò dal proprio territorio popolazioni islamizzate, cercando invece nei primi del ‘900 di assimilare i macedoni e, in modo molto violento, nella fase della seconda guerra mondiale quando gli ustascia croati (creatori di uno stato “fantoccio” nazi-fascista) sterminarono un numero imprecisato di serbi di Croazia (Michel Roux, La “pulizia etnica”: teoria e pratica, in Aa.Vv., Nazioni e Nazionalismi, cit.p.178) . 212 M.Deriu, op.cit., p.322. 226 Ad ottobre del 1992, visto un aggravamento della situazione, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose attraverso una risoluzione il divieto di voli militari sui cieli bosniaci. L’Onu che il 13 agosto aveva condannato le operazioni di “pulizia etnica” condotte dai Serbi in Bosnia, aveva autorizzato le forze delle Nazioni Unite a proteggere con le armi i convogli diretti ad aiutare la popolazione civile. Alla fine del 1993, i soldati delle forze Onu impegnati in Bosnia e in Croazia saranno oltre ventimila. Premier del governo della Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro) era stato chiamato l’industriale serboamericano Milan Panić che tentò di avviare i processi di riconoscimento reciproco tra le repubbliche jugoslave, ma per contrasti insanabili con il presidente Milosević abbandonò (dopo la sua sconfitta alle presidenziali) il governo e la Serbia, proprio negli ultimi giorni del 1992. Da quel momento le relazioni tra serbi e americane divennero sempre più tese. All’inizio del 1993 venne presentato a Ginevra un piano di pace, frutto della mediazione di Cyrus Vance e David Owen, in rappresentanza dell’Onu e della Cee. Il piano Vance-Owen prevedeva una divisione della Bosnia in 10 cantoni su base etnica. Fu però rifiutato dai serbi di Bosnia, che avrebbero dovuto restituire il 20% di territorio conquistato. Successivamente la Serbia, in grave crisi economica, cercò di convincere Karaždić213 ad accettare il piano, ma non ebbe riscontri positivi, segnando una prima rottura tra i due leader serbi Milošević e appunto Karaždić. Nota criticamente Rastello: “Quel che è evidente è che in un contesto di guerra ancora fluido, dove a una parte favorevole alla divisione etnica si contrappone una parte che difende le ragioni 213 A proposito della figura di Radovan Karaždić, psichiatra di origine montenegrine (leader ultranazionalista dei serbi di Bosnia) è interessante leggere Karaždić uomo normale, in P.Rumiz, La Linea dei Mirtilli, cit., pp. 11-20. 227 dell’unità, l’Unità Europea e le Nazioni Unite intervengono fin dalle prime battute proponendo la spartizione”214 L’uso delle mappe geografiche sia da parte dei partiti nazionalisti, per sostenere pretese territoriali, sia dai mediatori di pace (anche quelli di Dayton nel 1995), in Bosnia aveva spesso negato l’esistenza di un’identità nazionale bosniaca, preesistente, come se nella repubblica vivessero distintamente serbi, croati e musulmani. Mentre la distribuzione territoriale e la composizione sociale è più complessa, dovuta anche alle diverse migrazioni storiche. “L’idea della suddivisione di un territorio su base etnica sorvola disinvoltamente sull’identificazione che una popolazione può avere con il territorio stesso: essa sacrifica l’identità locale sull’altare di quella etnica e religiosa, in Bosnia spesso secondaria prima della guerra”215. Il piano Vance-Owen, come detto fu rifiutato dai serbi di Bosnia e invece accolto favorevolmente dai croati, sia quelli dell’Erzegovina sia quelli al governo di Zagabria (in Bosnia era stato fondato, mesi prima, – insieme alla proclamazione dell’Herceg Bosna - il partito nazionalista croato, Hdz, ad immagine e somiglianza del partito-stato che governava, con lo stesso nome, nella Repubblica Croata). Sarebbe andato ai croati il 18% di territorio bosniaco (tre cantoni), che con le armi non avrebbero mai potuto conquistare. Diventarono, inoltre, sempre più palesi gli accordi spartitori fra Tudjman e Milošević. Accordi che ebbero una dura, ma minoritaria, opposizione interna in Croazia da parte degli estremisti di destra dell’Hos (ala militare del partito neoustascia di Drobloslav Paraga), che non avrebbero voluto la completa 214 L.Rastello, La guerra in casa, cit., pp.67-68. E’ l’analisi di Luca Rastello, che spiegò inoltre come la parola bosniaco fu una parola che per i mediatori, così come per i nazionalisti, sembrava non avere nessun significato (Ivi., cit., p.72). 215 228 annessione della Bosnia alla Croazia, e non solo del territorio dell’Erzegovina occidentale. L’accantonamento del piano Vance-Owen, convinse i dirigenti dell’Hdz di imporre con le armi ai bosniaci quanto prevedevano le mappe dei mediatori internazionali, dichiarando illegittimo il governo di Alja Izetbegović. Si espresse così lo stesso Tudjman, lanciando l’ultimatum contro Sarajevo perché fossero consegnate diverse città, tra cui Mostar che sarebbe diventata capoluogo, al comando dell’Hvo (Consiglio Croato di difesa, ala militare dell’Hdz) diretto da Mate Boban, fondatore dell’Herceg-Bosna. A febbraio i croati, che stavano da tempo muovendo una campagna propagandistica anti-islamica, attaccarono i musulmani a Gorni Vakuf. Il 15 aprile del 1993 scadde l’ultimatum imposto dall’Hvo al governo bosniaco di Sarajevo di abbandonare i “cantoni croati” o di assoggettarsi al suo comando, dichiarando illegali tutte quelle unità, presenti nella Herceg-Bosna, che non avessero obbedito. Il giorno seguente iniziò il terribile conflitto tra gli ex alleati. Nella mattinata del 16 aprile i croati entrano nel villaggio di Ahmič, etnicamente misto, uccidendo a freddo tra i 100 e i 200 musulmani (tra cui anche bambini), sorpresi nel sonno, alcuni arsi vivi. Verso maggio ci furono gravi incidenti a Mostar; i musulmani di Mostar furono costretti a raccogliersi nei quartieri orientali. Il 9 novembre fu abbattuto dalle cannonate croato-erzegovesi il ponte vecchio di Mostar, che univa le due parti della città (ricostruito nel 2005). Dopo i serbi, anche i croati e poi i musulmani ricorsero alla pulizia etnica. I croati nell’Erzegovina occidentale, mentre nella Bosnia centrale furono i musulmani a circondare i croati cacciandoli con forza verso la Croazia o l’Erzegovina, tra le truppe bosniache arrivarono anche alcuni mujaheddin stranieri. 229 A marzo nella valle della Drina, in Bosnia orientale, le truppe serbo-bosniache del generale Mladić avevano mosso un offensiva contro Srebrenica. Città che subirà un tragico massacro l’ultimo anno di guerra in Bosnia e che prima dello scoppio del conflitto contava quasi 40 mila abitanti, in larga maggioranza musulmana. Era fino all’inizio del 1993 una delle poche zone della riva destra della Drina a non essere sotto il controllo di Mladić, che l’assediava con le sue milizie. Si erano rifugiati tra i suoi confini migliaia di profughi, la popolazione era ormai arrivata alle 60 indescrivibile: mila unità. senz’acqua, La città elettricità viveva e in scarso un caos cibo. Il comandante dell’Unprofor, Philippe Morrillon, arrivò a Srebrenica l’11 marzo, pronunciò il tristemente famoso discorso: “Voi siete sotto la protezione delle Nazioni Unite. Io non vi lascerò mai”216. Il 19 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’Onu decretò Sarajevo e Srebrenica zone di sicurezza. Lo stesso succederà, il 4 maggio, per Tuzla, Žepa, Goražde e Bihać. A fine maggio, con la risoluzione “827”, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu istituì il Tribunale internazionale per i crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia, con sede all’Aja. A partire da luglio la situazione a Sarajevo si fece sempre più problematica217. La città, assediata dai serbo-bosniaci, è in preda alle scorribande della bande criminali ribelli (un duplice assedio), quelle musulmane di Celo (Ramiz Delalić) e di Caco (Musan Topalović), che difendono e insieme terrorizzano la popolazione, soprattutto i serbi e i croati rimasti in città. Inoltre, gestiscono un redditizio mercato nero (armi, droga, prostituzione, aiuti umanitari), che in una città affamata non fa che arricchire gli speculatori; loschi traffici ai quali contribuiscono tutte le parti in 216 217 A.Marzo Magno (a cura di), op.cit, p.482. Cfr. J.Pirjevec, op. cit., pp.302-304 e p.318. 230 guerra e, scoprì un’inviata del “Guardian” a Sarajevo, anche le Nazioni Unite. Nel mese successivo, dopo un’inchiesta interna, saltarono importanti teste ai vertici dell’Unprofor. Nell’autunno si acuì lo scontro tra le milizie ribelli e le truppe governative di Bosnia. Dissidi tra i musulmani ci furono anche su più larga scala, tra Izetbegović e il suo vice Abdic, che si affiancò ai serbi cercando di stabilire il controllo sulla sua regione di origine nell’Unska Krajina, fra Bihać e Cazin, fondando la Regione autonoma Bosnia occidentale (Apzb). Il 3 ottobre perse la vita a Sarajevo Gabriele Moreno Locatelli, volontario dei Beati Costruttori di Pace (organizzazione nonviolenta italiana), ucciso durante una manifestazione pacifista sul ponte di Vrbanja, il luogo d’incontro dei quattro poteri in conflitto: sulla riva di “stari Grad” c’erano l’Armja governativa (l’esercito regolare bosniaco) e i croati dell’Hvo; dall’altra parte, Caco e, di fronte, i serbi218. Sostituì a metà anno Cyrus Vance, Thorvald Stoltenberg, che affiancò nel ruolo di mediatore Owen, per l’elaborazione di un nuovo piano di pace. Gli incontri si svolsero nell’estate a Ginevra; il nuovo piano prevedeva la divisione della Bosnia-Erzegovina in tre entità divise su base etnica. Non andò in porto per la dura opposizione del presidente bosniaco Izetbegović. Un altrà zona incandescente rimaneva la Kraijna dove si registrarono violenti scontri tra serbi e croati, sia all’inizio del 1993 sia nel mese di settembre. La Bosnia, tra l’estate e l’autunno del 1993, sembrava risucchiata da una spirale di violenza, alimentata da tutte le tre 218 La storia di Locatelli è raccontata nelle pagine del libro La guerra in casa di Luca Rastello (nel quarto capitolo Sul ponte pp.107-141). La dinamica non fu mai chiara, sembrò un’esecuzione, probabilmente furono i bosniaci di Caco a sparare. La vicenda è anche l’oggetto di un documentario di Giancarlo Bocchi, Morte di un pacifista. 231 parti in lotta, in cui era fiorente il commercio d’armi, provenienti anche dai paesi occidentali, nonostante ci fosse un embargo dell’Onu sulle armi per tutti i paesi in guerra. Oltre agli eserciti regolari nell’ex-Jugoslavia erano attivi diversi gruppi paramilitari, i più sanguinari, e non potevano mancare mercenari e avventurieri. Uno degli ultimi tragici avvenimenti dell’anno, come già detto, fu il crollo del ponte di Mostar, il 9 novembre, sotto i colpi dell’artiglieria croata. Il 16 dicembre fu riconosciuta, come stato indipendente, dalla neo-nata Unione Europea la Macedonia, dove si erano verificati scontri tra macedoni e albanesi. Il 5 febbraio del 1994 una granata di mortaio cadde sul mercato di Sarajevo uccidendo 68 persone e ferendone 197. I responsabili erano i serbi, seppure avessero incolpato i musulmani di inscenare stragi per ottenere il consenso occidentale. Per la prima volta intervenne la Nato che diede un ultimatum agli assedianti: se non fossero state allontanate le armi pesanti, ci sarebbero stati raid-aerei contro i serbobosniaci. Anche per la tempestiva opera di mediazione della Russia le truppe di Mladić allentarono l’assedio. Si giunse ad un cessate al fuoco nella capitale bosniaca, che però nei mesi successivi venne ripetutamente violato. Il 28 febbraio i caccia Nato abbatterono alcuni aerei serbo-bosniaci che avevano violato lo spazio aereo interdetto sulla Bosnia; fu la prima azione di guerra dalla fondazione dell’Alleanza atlantica. Nell’ultimo periodo era aumentato l’interessamento degli Stati Uniti, con l’amministrazione Clinton. Gli Usa svilupparono un’intensa attività diplomatica, sostituendosi spesso all’Onu, anche con (formando la collaborazione insieme il di cosiddetto alcune potenze “Gruppo di europee contatto”). Convocarono a Washington, il 18 marzo del 1994, le delegazioni 232 croate e musulmane alle quali imposero la fine delle ostilità fra di loro, che fu condivisa. In quel giorno croati e musulmani firmarono un accordo per la creazione di una Federazione croatomusulmana in Bosnia219, che, com’era prevedibile, non fu ben visto da Karadžić. Alla fine del mese sul fronte croato, si giunse ad un “cessate il fuoco” in Kraijna, che durò fino ai primi mesi del 1995. Nella valle della Drina, quella zona a cui i serbi erano molto interessati come primo importante passo per la Grande Serbia, infuriava invece la guerra. I serbi-bosniaci attaccarono ad aprile l’enclave musulmana (area protetta) di Goražde. La battaglia si protrasse drammaticamente fino a giugno, con interventi militari della Nato. Le numerose ingerenze degli Stati Uniti sui Balcani suscitarono malcontenti ai vertici dell’Onu, che si sentiva scavalcato nel suo ruolo di mediatore internazionale. Il “Gruppo di contatto”, formato da Usa, Francia, Germania, Gran Bretagna e Russia (l’Italia fu cooptata successivamente) elaborò nel mese di maggio un piano di pace che assegnava ai serbi il 49% del territorio e il 51% alla neo-nata Federazione musulmano-croata. Ma l’ipotesi, presentata a luglio, fu respinta da Karadžić, nonostante l’opinione favorevole di Belgrado che a quel punto applicò a sua volta delle sanzioni ai serbo-bosniaci bloccando il tatticamente passaggio di lunga smarcarsi da la Drina. Karadžić, Milošević, cercava scaricando ogni responsabilità sui serbo-bosniaci. Il presidente della Repubblica 219 La costruzione di tale Federazione fu proposta dagli Usa a Tudjman il 17 febbraio del 1994. Gli fu chiesto in maniera drastica di rinunciare all’idea di spartirsi il territorio della Bosnia con Milošević. “Tale gesto di buona volontà avrebbe spinto Washington ad appoggiare il tentativo croato di riconquista della Krajna e ad aiutare la ripresa economica del paese con un contributo di 500 mila dollari, sostenendone la candidatura al Consiglio d’Europa, nonché alla Partnership for Peace” (J.Pirjevec, op.cit, p.161). In caso contrario la Croazia sarebbe stata colpita da serie misure economiche, che il Consiglio di Sicurezza aveva già minacciato, se non avesse ritirato le sue truppe dalla BosniaErzegovina. Inoltre c’era il pericolo che Tudjman e l’Hvo fossero considerati complici di gravi crimini di guerra, responsabilità di cui erano convinti anche i diplomatici americani. 233 Srpska aveva, inoltre, avvalorato la sua posizione contraria al piano del “Gruppo di contatto”, attraverso un referendum popolare tra i serbo-bosniaci che rigettarono in massa il piano. A fine agosto le truppe governative bosniache (musulmane) si impossessarono della regione autonoma di Bihać (Apzb), governata dal dissidente musulmano Fikret Abdić. I croati chiusero subito l’accesso alle frontiere ai profughi provenienti dalla Bosnia occidentale. Proprio attorno a Bihać nell’autunno si intensificarono gli scontri tra i serbi da una parte e i musulmani e i croati dall’altra, per il controllo del territorio. Il 23 dicembre, dopo le pressioni internazionali e la mediazione dell’ex- presidente americano Jimmy Cater, musulmani e serbo-bosniaci firmarono una tregua di quattro mesi. 4 LA GUERRA CONTINUA NEL 1995 IN B OSNIA - E RZEGOVINA E IN C ROAZIA Intanto, a Sarajevo il capodanno del 1995 fu il giorno numero mille dell’assedio superando così primato del secolo di Leningrado. Gli equilibri militari dell’area, nell’ultimo inverno di guerra, si erano invertiti: notevolmente rafforzato, anche dagli aiuti americani, era l’esercito croato, anche quello bosniaco si trovava in discreta salute, mentre ormai in affanno erano le truppe serbo-bosniache, che avevano, invece, negli anni precedenti dimostrato la loro superiorità, grazie ai contributi della Jna e della Serbia di Milošević. 234 All’inizio dell’anno fu respinto sia dai serbi di Kraijna con sede a Knin, che dai croati di Tudjman220, il piano Z4, studiato dal “Gruppo di contatto”, che avrebbe consentito il ritorno della Kraijna alla Croazia in cambio di una larghissima autonomia alla regione a maggioranza serba. Fu avversato dai primi in maniera più plateale e più sottile dai secondi, che in parte sembravano disponibili. Ruppe la tregua un bombardamento pesante contro Tuzla il 20 marzo, che causò cinquanta morti. “Tuzla è diventata a poco a poco ‘imbarazzante’ – scriveva l’inviato dell’ Espresso, Gigi Riva – oltre che per i serbi anche per lo stesso governo di Sarajevo. La sua difesa è politicamente organizzata da un sindaco, Selim Beslagić, rappresentante del Partito socialdemocratico (erede della Lega dei comunisti), molto amato dalla popolazione e strenuo oppositore della logica della divisione etnica. E’ il contraltare dello stesso Alija Izetbegović, il presidente ormai votato alla creazione di uno stato dei musulmani”221. Il 24 aprile il Tribunale internazionale dell’Aja rese nota l’iscrizione nel registro dei criminali di guerra di Karadžić e di Mladić. Pochi giorni dopo scattò l’operazione “fulmine” che permise ai croati di recuperare i territori della Slavonia occidentale in mano ai serbi, con il tacito assenso di Belgrado e Washington. I serbi stanziati in Slavonia fuggirono verso la Bosnia; ma non giunse nessun segnale di solidarietà dalla madre patria (che sbarrò le 220 Franjo Tudjman, presidente della Croazia, è stato uno dei “Signori della guerra” (secondo l’azzeccata definizione di Predag Matvejević che dà il titolo al libro da lui curato, I signori della guerra, Milano, Garzanti, 1999) insieme a Milošević (il “regista” del conflitto da Belgrado) e Izetbegović. E’ una figura dai tratti ambigui: da un lato cercava di accreditarsi le simpatie dell’occidente, dall’altro trattava con Milošević la spartizione della Bosnia (soprattutto nella prima parte del conflitto). Istituì in Croazia, negli anni Novanta, un regime autoritario, negando, tra l’altro, la libertà di stampa. 221 G.Riva, Bosnia-Erzegovina 1994-1995, in A.Marzo Magno (a cura di), op.cit, p.227. Izetbegović ha incarnato il nazionalismo musulmano bosniaco, che si è radicalizzato dall’inizio della guerra in Bosnia, auspicando uno stato monoetnico musulmano. 235 frontiere). Ad una pulizia etnica risponde un'altra di verso opposto: ci pensarono, infatti, le truppe di Mladić irrobustendo gli attacchi contro i croati e i musulmani a Banja Luka. Nel frattempo iniziò il progetto di riconquista della Krajina da parte dei croati. Nel mese di maggio, la tregua (poco rispettata) era ormai dimenticata, si intensificarono le operazioni militari dei serbobosniaci a Sarajevo come nelle enclavi musulmani della Bosnia orientale, “convinti che tra l’altro l’Occidente si sarebbe limitato a protestare come in passato e confidando nel sostegno del parlamento russo”222. Il 22 maggio essi si impossessarono degli armamenti pesanti che erano stati presi in custodia dall’Unprofor e incominciarono a bombardare Sarajevo, fermamente convinti che questa volta l’avrebbero presa. La Nato lanciò un ultimatum per la restituzione degli armamenti, che non venne rispettato. Entrarono allora in scena i caccia alleati, che bombardarono depositi militari vicino a Pale. La sera del 25 maggio tiri di artiglieria serbi su Tuzla provocarono la morte di 71 persone, tutti giovani seduti ai tavolini del cafè nella piazza centrale e 200 feriti. La notte tra il 25 e il 26 e il giorno seguente furono tra i più lunghi della guerra. La Nato bombardò nella mattina, di nuovo, Pale; i serbobosniaci presero allora in ostaggio 48 osservatori dell’Onu, minacciando di ucciderli se non fosse cessato il bombardamento alleato. Le immagini dei rappresentanti dell’Onu fecero il giro del mondo. Il 28 maggio i serbi di Kraijna abbatterono l’elicottero dove viaggiava il ministro degli Esteri bosniaco Irfan Ljujianćik. L’attenzione internazionale in quei giorni fu calamitata sui Balcani, anche a Cannes, dove Emir Kusturica vinse con Underground la Palma d’oro e il Gran premio della giuria fu 222 S.Bianchini, La questione jugoslava, cit. p.169. 236 assegnato al regista greco Theo Anghelopoulos con Lo sguardo di Ulisse, anch’esso ambientato in parte nelle zone teatro di guerra. Nei giorni seguenti i governi di Parigi e Londra decisero di organizzare una forza di reazione rapida a sostegno dell’Unprofor, ormai impotente di fronte al precipitare della situazione. Gli ostaggi Onu vennero rilasciati, probabilmente dopo una trattativa, il 13 giugno. A metà mese i bosniaci musulmani tentarono un’offensiva a Sarajevo per rompere l’assedio, che però non andrà a buon fine. Con l’inizio di luglio si fece più aggressivo l’assedio serbobosniaco alle enclavi musulmane. Srebrenica223, come abbiamo visto, era una di quelle zone protette dall’Onu (missione Unprofor), un’enclave musulmana all’interno della Bosnia-Erzegovina, fin dal 1993. Una città tra le valli e i monti della Bosnia orientale, vicino alla Drina. Si erano rifugiati, tra i suoi confini, migliaia di profughi musulmani, assediati dalle milizie del generale Mladić, in un caos indescrivibile dove si moriva di fame. Nel luglio del 1995 la morsa delle milizie serbo-bosniache (all’interno c’erano anche efferati gruppi paramilitari, come gli Skorpions e le Tigri, e mercenari) divenne più stretta. Il 5 luglio iniziò l’offensiva contro la città, protetta dai caschi blu olandesi. Tra il 6 e il 9 avvenne l’avanzata dei serbi che occuparono un avamposto dell’Onu, prendendo in ostaggio una ventina di soldati olandesi. I rifugiati cercarono salvezza nella base Onu a Portočari. L’11 luglio, mentre i Caschi blu convincevano i musulmani ad arrendersi garantendo un intervento della Nato (che non arrivò mai), le truppe serbo-bosniache occuparono con forza la zona protetta. Iniziarono rastrellamenti (perché secondo Mladić a 223 Sui drammatici avvenimenti di Srebrenica si veda, W.Bonapace, Maria Perino (a cura di), Srebrenica, fine secolo – Nazionalismi, intervento internazionale, società civile, Israt, Asti, 2005. 237 Srebrenica si nascondevano i “terroristi” musulmani), stupri, uccisioni e massacri. Le donne e i bambini vennero divisi dagli uomini che furono imprigionati e poi uccisi. Si verificarono fughe di massa verso Tuzla e non si contarono i suicidi. Il 13 luglio in cambio degli ostaggi, i caschi blu olandesi consegnarono 5 mila civili che erano ancora rifugiati nella base, molti, che tentarono di scappare tra i boschi, furono giustiziati dai serbi. Si parla di 8000 morti (bosniaci musulmani dai 14 ai 70 anni), sepolti in fosse comuni e molti ancora non rinvenuti: il più grande massacro in Europa, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Tutto avvenne sotto lo sguardo indifferente dei militari dell’Onu, che nulla fecero per proteggere la popolazione. E’ vero non avevano l’autorizzazione a sparare, ma non attuarono nessuna azione per tutelare i rifugiati di Srebrenica. Pensare che il generale francese Philippe Morillon dell’Unprofor, due anni prima aveva assicurato di proteggere la popolazione! La verità è che Srebrenica fu abbandonata da tutti224. Fu anche abbandonata dallo stesso Izetbegović, presidente musulmano della Bosnia. Fu una sconfitta per la comunità internazionale che nulla fece per fermare il massacro. Di Ratko Mladić e di Radovan Karadžić leader ultranazionalista dei serbo-bosniaci, principali imputati del massacro, che assunse le dimensioni di un genocidio, si sono perse le tracce negli anni 224 Qualche giorno prima dell’11 luglio il comandante francese dell’Unprofor Bernard Janvier si lasciò sfuggire una battuta illuminante: “Messieurs vous n’ avez donc pas compris que je dois être débarrassé de ces enclacves?”. Signori non avete ancora capito che qualcuno deve togliermi dai piedi queste enclaves. (P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit. p.25). Rumiz ha inoltre precisato: “Già all’inizio dell’anno il piano di spartizione – che poi diverrà il piano di Clinton – è stato messo a punto dal cosiddetto gruppo di contatto delle cinque grandi potenze. Esso assegna Srebrenica ai serbi”. (Ibidem). E così che il 6 luglio Mladić si sente pienamente autorizzato a risolvere la questione. “In fondo, non è una situazione nuova. E’ dall’inizio della guerra – ha scritto il giornalista– che i geniali piani di spartizione – le cosiddette mappe etniche – sfornati dagli occidentali autorizzano anziché impedire i massacri in Bosnia”. (Ibidem) 238 successivi. Li cerca senza successo il Tribunale internazionale dell’Aja. A dieci anni dal massacro la riconciliazione, però, a Srebrenica, che ora si trova nella Republika Srpska (entità serba di Bosnia), è ancora lontana. Nella città “fantasma” sono rientrati circa quattromila musulmani, gli altri seimila residenti sono serbi (gli abitanti prima della guerra erano quasi quarantamila). L’anniversario del 2005 ha avuto un’eco sui media internazionali, era presente per la prima volta presente il presidente della Serbia Boris Tadić. I serbi-bosniaci hanno invece commemorato il giorno seguente, nella vicina Bratunac, i loro morti uccisi nel 1993 dalle milizie musulmane di Naser Orić, nei dintorni di Srebrenica. Finito lo strazio di Srebrenica, iniziò un’altra offensiva dei serbobosniaci contro l’enclave di Žepa, 17 mila abitanti a ridosso della Drina, tra il 15 e il 25 luglio. Come prassi, furono divisi gli uomini dalle donne per la deportazione. Ma stavolta, pochi erano gli uomini. La maggior parte si era rifugiata nelle montagne attorno alla città per resistere ai serbi. La città fu messa a ferro e fuoco e solo il 25 luglio cadde saldamente in mano serba. Ad inizio agosto i croati diedero il via all’operazione “Tempesta” (Oluja in serbo-croato) per la riconquista della Krajina, in mano ai secessionisti serbi225. Durerà solo quattro giorni dal 4 al 7 agosto. L’esercito croato, addestrato da esperti americani, appoggiato dal “Quinto corpo bosniaco”, circondò la regione, dirigendosi verso Knin, muovendosi, a colpi di artiglieria pesante, all’interno di un territorio montagnoso coperto da foreste inestricabili. In meno di quarantotto ore, travolgendo anche le forze di interposizione Onu che proteggevano la zona, conquistarono la capitale della Krajina. Un fiume di 200 mila 225 Cfr. Giacomo Scotti, Croazia, Operazione Tempesta, Gamberetti, Roma, 1996. 239 serbi, vittime ora della pulizia etnica croata, incominciò a fuggire dai territori conquistati nel 1991, verso la Bosnia settentrionale e la Serbia. Una marea di profughi privi di tutto, spesso anche di acqua e di cibo; si segnalarono episodi di violenza contro le colonne di profughi. Su sollecitazione del mediatore Ue, Carl Bidt, fu avviato un ponte aereo per i profughi. Una sorpresa attese però i fuggiaschi: la Serbia aveva chiuso le frontiere, un'altra prova degli accordi segreti tra Tudjman e Milošević. Loro erano la seconda ondata, quella stracciona. Gli arricchiti, i profittatori di guerra, ben informati, erano partiti da Knin in tempo, diretti verso Belgrado. Si sentirono, come se fossero stati usati da quella Serbia, la madre patria, per cui avevano combattuto e che pochi anni fa li aveva infatuati circa un imminente pericolo croato226. Nella Bosnia settentrionale ci fu una nuova pulizia etnica, contro i pochi musulmani e croati rimasti, per far posto ai profughi in arrivo. Nei mesi successivi i croati, nei territori “liberati” della Krajina scateneranno una vera e propria caccia al serbo, che però non ebbe risalto mediatico. Così, dopo quattrocent’anni non c’era più nessun serbo nella Krajina. L’escalation complessiva di violenza, che si era verificata (con l’apice di Srebrenica) portò, a metà agosto, il commissario Onu per i diritti umani nell’ex-Jugoslavia, Tadeus Mazowiecki, a dimettersi dal suo incarico, in forte dissenso con l’operato delle Nazioni Unite e dei paesi occidentali: erano rimaste inascoltate le sue denunce sugli orrori perpetrati durante il conflitto e, le ultime critiche, sull’incapacità dell’Occidente ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti della guerra, in particolare per la mancata difesa delle aree dichiarate protette dall’Onu. 226 Cfr. P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit., pp.160-161. 240 A fine agosto tornò la paura a Sarajevo, quando cinque granate colpirono nuovamente il mercato di Sarajevo, provocando la morte di 39 persone e il ferimento di 89. La provenienza era probabilmente serba, seppur si affermasse che fossero state lanciate dall’esercito bosniaco. In risposta, due giorni dopo iniziò un raid aereo della Nato contro le postazioni serbe nelle aree di Sarajevo, Tuzla e Goražde, che si ripeterono a fasi alterne fino a metà settembre. Nei bombardamenti Nato, come si saprà come certezza alla fine del 2000, furono impiegati proiettili anticarro di uranio impoverito227. Nel frattempo gli eserciti musulmano e croato diedero il via ad un’offensiva in Bosnia centrale che lì portò il 18 settembre alle porte di Banja Luka, che si trovava in una situazione assolutamente complicata: era invasa dai profughi serbi che erano arrivati dalla Kraijna e toccata da vicino dal lancio di missili americani, a lunga gittata Tomahawk, contro le contraeree serbo-bosniache. L’Onu intimò loro di fermarsi, ma potevano essere soddisfatti: avevano appena conquistato quel 51% previsto dagli accordi firmati, dieci giorni prima, alla conferenza di pace di Ginevra, primo passo verso gli incontri di Dayton. I serbi-bosniaci, fortemente colpiti dai bombardamenti Nato, accettarono di ritirare l’artiglieria pesante da Sarajevo e di formare una delegazione congiunta con i serbi di Serbia per le trattative di pace. Il 12 ottobre entrò in vigore il “cessate il fuoco”, raggiunto grazie alla mediazione di Richard Holbrooke, diplomatico inviato nei Balcani dall’amministrazione Clinton. Nel mese di novembre si svolgeranno a Dayton228, una base militare dell’Ohio (località scelta dagli americani), i colloqui di 227 228 Cfr. A. Marzo Magno (a cura di), op.cit., p.245. Cfr. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.170. 241 pace a cui presero parte le delegazioni delle tre parti in causa, capeggiate da Milošević, Tudjman e Izetbegović. La discussione tra i vari rappresentati fu molto tesa e si protrasse per alcune settimane, solo dopo forti pressioni degli Stati Uniti, i reali mediatori degli incontri, fu firmato, il 21 novembre, un comune accordo e la cessazione delle ostilità. Il trattato fu poi solennemente ratificato a Parigi, il 14 dicembre del 1995. L’accordo di Dayton prevedeva che la Bosnia rimanesse uno stato unitario, costituito da due entità: la federazione di BosniaErzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Srpska), con fortissime autonomie e una propria costituzione, nonché la possibilità di stabilire rapporti privilegiati la prima con la Croazia e la seconda con la Serbia e il diritto di formare due eserciti. La divisione territoriale ricalcava quella stabilita dal “Gruppo di contatto” (51% alla Federazione e 49% alla Republika Srpska). La Bosnia avrebbe avuto un governo centrale, una presidenza collegiale, un parlamento con due camere in cui le garanzie dei gruppi etnici erano assai simili a quelle in vigore ai tempi di Tito. Si dovevano presto svolgere le elezioni politiche per eleggere i rappresentati istituzionali. Nessun criminale di guerra (leggi Karadžić e Mladić) avrebbe potuto svolgere una funzione pubblica. Il trattato prevedeva inoltre la riunificazione della capitale della Bosnia, Sarajevo. La Nato aveva il compito di sorvegliare l’applicazione del trattato per un anno con una propria presenza militare. Con la ratifica degli accordi di pace si concluse formalmente il conflitto che in Bosnia durava dal 1992 e aveva provocato oltre 200 mila morti (cifra che sale a 300 mila se valutiamo il bilancio complessivo di tutte le guerre jugoslave), 3 milioni tra profughi e rifugiati e un numero indefinito di feriti. Fu revocato l’embargo 242 contro la Federazione Jugoslava. L’assedio di Sarajevo terminò realmente solo nel febbraio del 1996. La firma di pace, fu salutata con entusiasmo dalla stampa mondiale, ma lasciava insoluti diversi problemi. L’accordo di Dayton non è stato di certo risolutore; pose fine ai combattimenti ma non costruì una pace duratura: l’unità si è dimostrata più che altro di facciata e l’integrazione e la convivenza tra le due entità è stata in questi anni inesistente. Nella sua marcata incertezza tra primato della cittadinanza e primato dell’etnia, dando la priorità a quest’ultima, ha indirettamente avvallato la pulizia etnica applicata dai tre contendenti durante il conflitto, consolidando così i leader nazionalisti al potere, trasformatisi da un momento all’altro da “signori della guerra” a garanti della pace. Il trattato di Dayton è stato un cedimento alla risoluzione spartitoria di Milošević e Tudjman nonché - nota Rumiz - “un riconoscimento implicito del principio della separazione etnica come strumento di pacificazione”229. I nazionalisti hanno tentato di sedimentare, in tutti gli anni novanta, nelle coscienze un’idea distorta di democrazia, sostenendo che essa è possibile solo in società omogenee. E così all’antica parola greca “demos” (popolo), essi hanno sostituito l’ethnos (etnia). Dalla democrazia si rischia così di passare all’etnocrazia.230 Al di fuori della storia ufficiale emergono altre storie, che ottengono scarsa visibilità, ma sono fondamentali per il futuro di un paese dilaniato dalla guerra. Sono quelle che vedono protagonista una fascia della società civile che ha rifiutato di schierarsi per l’uno o per l’altro nazionalismo, per la Grande 229 230 P.Rumiz, Maschere per un massacro, cit., p.159. Cfr. S.Bianchini, La questione Jugoslava, cit., p.181. 243 Serbia, per la Grande Croazia o per lo stato bosgnacco di Izetbegović. A Sarajevo, Belgrado, Tuzla e in altre realtà (come anche successivamente in Kosovo) sono emersi diversi episodi di resistenza civile, gruppi di persone o singoli che hanno manifestato il loro forte dissenso alla degenerazione di un sistema, alla violenza delirante, al fanatismo etnico. Aiutando o prestando soccorso ai potenziali nemici (così ritratti dalla propaganda), disobbedendo ai comandi militari o semplicemente scendendo in piazza sotto le bombe a protestare. Pagando anche con la propria vita: civili e militari. Si sono verificati casi di soldati che si sono opposti all’ordine di uccidere un proprio concittadino o di stuprare le donne o di persone comuni che fornivano aiuti ai detenuti dei campi di concentramento. Parliamo di tutti coloro che hanno rifiutato le semplificazioni etniche artificialmente create dal delirio nazionalista. Le schematizzazioni dei mass media certo non permettono tali approfondimenti, volenti o nolenti, e spesso la ricerca storica segue il triste percorso dell’ufficialità, della diplomazia (anche quando si è trattato dei “signori della guerra”) e del conteggio delle bombe. Svetlana Broz combattente ha riportato dell’Armata la vicenda bosniaca, che raccontata difendeva da un Sarajevo durante l’assedio dell’esercito serbo-bosniaco231. Le prime linee delle due fazioni distavano solo cinquanta metri l’una dall’altra, chiunque tirava fuori la testa poteva rimanere ucciso. “Una mattina – narra l’ex soldato - si udì una voce maschile che sorprese tutti quanti: ‘Ehi, ragazzi, giochiamo a calcio sul prato!’. Pensavamo fosse una provocazione ma ci rassicurarono con le parole: ‘Noi non vogliamo spararvi. Questa è una guerra 231 Svetlana Broz è cardiologa, direttrice dell’Ong “Gariwo” di Sarajevo e pubblicista. S.Broz, Partite di calcio, in Srebrenica, fine secolo (a cura di W.Bonapace e Maria Perino), Israt, Asti, 2005, pp.181-182. 244 insensata dove noi non vogliamo partecipare attivamente. Se avete paura dite soltanto che neanche voi ci sparerete e noi usciremo fuori dalla trincea’. Uscirono per primi”232. Giocarono quotidianamente con loro per due settimane. “Se qualcuno avesse potuto vederci quei giorni probabilmente avrebbe pensato che non eravamo normali. Oggi mi sembra invece che eravamo più normali della maggioranza”. Dopo quasi quindici giorni di partite di calcio, una sera i serbo-bosniaci comunicarono alla trincea nemica che alla mattina sarebbero ritornati a casa per due settimane e al loro posto sarebbe arrivato un altro gruppo di militari, provenienti dall’altra parte della Bosnia, avvertirono così gli altri dei rischi: “State attenti, loro probabilmente non vorranno giocare a calcio con voi ma spareranno. Se non starete attenti, con chi giocheremo a calcio tra due settimane?”. Appena se ne andarono, capitò tutto quello che avevano previsto. Nelle due settimane successive era impossibile tirar fuori la testa dalla trincea: i nuovi soldati sparavano in continuazione. Conclude, l’ex soldato dell’Armata BiH: “Sono stato ferito sei volte durante la guerra dalle schegge delle granate, ma non dimenticherò mai il gruppo di soldati con i quali abbiamo giocato a calcio per quasi un anno, due settimane al mese, mentre erano nella trincea nemica”. 232 Ibidem 245 5 L A GUERRA IN K OSOVO : 1989-1999 Il conflitto in Kosovo, apparentemente breve, non cominciò il 24 marzo del 1999 con il primo missile lanciato dalla Nato. La guerra era iniziata molti anni prima, almeno dieci233, e tuttora la situazione nella regione balcanica non è completamente pacificata. Il Kosovo234, come già scritto, è una provincia situata nel sud della Repubblica di Serbia con una superficie di 10.877 chilometri quadrati e una popolazione che fino al 1998 contava due milioni e centomila abitanti, in maggioranza albanese (circa l’87%), una minoranza serba che raggiunge il 10% (in forte diminuzione negli ultimi decenni passando dal 18,4% del 1971 al 10% del 1991), a cui si aggiunge un’esigua percentuale composta da turchi, macedoni e rom, 3%. Il Kosovo era, ed è, un’area arretrata rispetto alle altre repubbliche della ex Jugoslavia, una delle più povere della Federazione; proprio per questo, nel secondo dopoguerra fu al centro di piani di investimento e di aiuti federali che cercarono di valorizzare le materie prime e i giacimenti di piombo, magnesio e zinco, situati intorno all’area di Mitrovica. Il regime comunista di Tito coniugò una continua e attenta vigilanza poliziesca con significative aperture, sul piano politico e culturale, verso gli Albanesi. La loro lingua fu riconosciuta come una delle lingue nazionali della Jugoslavia. Nel 1974, la terza riforma della Costituzione jugoslava definì il Kosovo un territorio amministrativo autonomo all’interno della Repubblica Serba. “Era 233 E’ una guerra diluita nel tempo, cominciata anni prima diventando guerra “vera” solo nel 1999 come spiega Marco Ventura in Come nasce una guerra da A. Marzo Magno (a cura di), op.cit., p.285. 234 I serbi chiamano la regione “Kòsovo e Metohija” o Kosmet (dal greco metoh, bene ecclesiastico, riferito ai possedimenti dei monasteri serbo-ortodossi) e gli albanesi invece “Kosòva”. La versione italianizzata è Kossovo; il termine internazionale mutato dall’inglese, che utilizzo in queste pagine, è Kosovo. 246 ‘quasi’ una repubblica: aveva una propria costituzione e pari rappresentanza, come le altre repubbliche in tutte le strutture federali. L’unico diritto di cui era priva, poiché l’etnia albanese in Jugoslavia era considerata una minoranza e non un popolo costitutivo, era quello della secessione della Federazione”235. La situazione cambiò radicalmente dopo la morte di Tito. Prima scoppiarono le proteste degli studenti a Pristina nel 1981, che chiedevano migliori condizioni di vita, sedate nel sangue. Aumentarono, nel corso del decennio, le tensioni tra le due etnie principali. Gli jugo-albanesi migliorarono i rapporti con il governo di Tirana e in una parte degli abitanti si diffuse la convinzione secondo cui l’egualitarismo stalinista, imposto dal dittatore albanese Enver Hoxha, fosse assai più efficace e meno ingiusto delle differenze sociali ed economiche vissute in Jugoslavia. Era un falso mito che però esercitò una sensibile attrazione nelle aree più arretrate della provincia, consolidando quell’idea di “Grande Albania”236 che diventerà uno dei cavalli di battaglia del futuro esercito di liberazione Uck. I serbi del Kosovo avevano, invece, visto crollare, in parte per ragioni demografiche in parte a causa delle modifiche costituzionali, l’egemonia da loro esercitata fino a quel momento nel governo della regione. Lo scoprirsi minoranza in un’area ritenuta la culla storica della cultura serba e ortodossa costituì un vero shock, che si intrecciò con le voci, in parte vere e in parte false, di una volontà discriminatoria a loro danno da parte degli albanesi, interessati – secondo tale interpretazione – a favorire l’emigrazione della popolazione slava allo scopo di creare omogeneità etnica in Kosovo e rendere inevitabile la secessione. Slobodan Milošević si fece paladino dei serbi discriminati con una 235 236 G.Marcon, op.cit., p.26 L’unificazione degli albanesi in un unico stato. 247 campagna propagandistica, organizzando manifestazioni e costruendo su questa mobilitazione il suo consenso; è storico il suo furente e applaudito discorso, tenuto a Kosovo Poje (dove si svolse la battaglia di “Campo dei Merli”) nel giugno del 1989 per celebrare i seicento anni dalla famosa battaglia, sui possibili scontri armati che avrebbero coinvolto il popolo serbo. Era stata da poco revocata alla provincia la sua autonomia (insieme a quella della Vojvodina), eliminando così la necessità dell’assenso delle assemblee elettive delle province autonome su questioni che le riguardavano. L’approvazione del parlamento di Pristina (necessaria per l’ultima volta) fu ottenuta con brogli e violenze e con i carri armati fuori dall’aula. Vi furono violenti scontri che provocarono ventiquattro morti. La lingua albanese non fu più riconosciuta per gli atti ufficiali e furono varate leggi per favorire l’immigrazione di cittadini serbi nella regione. I delegati albanesi dell’Assemblea, istituzionale, si a cui venne riunirono fuori vietato dal l’ingresso palazzo nella sede approvando la risoluzione a favore di un Kosovo definito “entità paritaria e indipendente nell’ambito della federazione jugoslava”237. In risposta il parlamento serbo sciolse l’Assemblea e il governo del Kosovo, mantenendo solo un rappresentante fantoccio, come in Vojvodina. Il 7 settembre del 1990 i deputati albanesi approvarono la nuova costituzione del Kosovo, ma solo un anno dopo, in seguito ad un referendum clandestino per l’indipendenza della provincia, fu dichiarata la nascita della Repubblica del Kosovo. Nel maggio del 1992 un plebiscito incoronò Ibrahim Rugova, leader degli albanesi del Kosovo, a presidente della neo-nata repubblica, ovviamente non riconosciuta. Rugova, poeta, critico e storico della letteratura, era a capo della Lega Democratica Kosovara 237 M.Ventura in Come nasce una guerra da A. Marzo Magno (a cura di), op.cit., p.302. 248 (LdK), aveva invitato nei primi anni Novanta il suo popolo alla resistenza passiva contro la repressione poliziesca, organizzata dal governo nazionalista di Belgrado nei confronti della popolazione albanese. La scelta della nonviolenza, ai fini di evitare un bagno di sangue come successe in Bosnia, attraverso il boicottaggio delle istituzioni serbe, portò alla creazione di una vera e propria struttura albanese parallela ai poteri serbi: si designarono deputati, si istituirono scuole dalle elementari all'università. Gli albanesi all'estero incominciarono a fornire finanziamenti regolari. Intanto si svilupparono piccole imprese private, agricole e commerciali. Fino al ’95, il problema del Kosovo passò in secondo piano rispetto agli avvenimenti della guerra in Croazia e in BosniaErzegovina. Dopo gli accordi di Dayton, che avevano deluso le speranze degli albanesi di vedervi inserita qualche disposizione a loro favore e riacceso l’interesse serbo per il Kosovo, ripresero i disordini tra irredentisti albanesi e forze di polizia serbe. Il patto diplomatico, stipulato tra i responsabili del conflitto, premiava proprio costoro238. Tutto ciò aveva provocato profonde ripercussioni in Kosovo: le strategie della resistenza nonviolenta e dello “stato parallelo”, promosse dal presidente dell’autoproclamata repubblica del Kosovo Ibrahim Rugova sin dal 1991, furono presto messe in discussione. Nella notte tra il 20 e il 21 aprile 1996 uno studente, Armed Daci, fu ucciso da un serbo. Seguì una manifestazione spontanea di protesta, dettata dall’esasperazione di una popolazione sottoposta da anni alla repressione serba. Pochi giorni dopo scattarono attentati terroristici contro civili e militari serbi (cinque morti). Le azioni furono rivendicate da una formazione 238 Cfr. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.175. 249 fino allora sconosciuta l’Uck239 (Esercito di liberazione del Kosovo). Iniziò, allora, una strategia di guerra, da parte dell’Uck capeggiato da Hasim Thaci, che non mancò di colpire anche gli albanesi sospettati di atteggiamenti non pregiudizialmente antiserbi e divise la società kosovora tra chi ancora sosteneva il moderato Rugova e chi invece era deluso per gli scarsi frutti ottenuti dalla sua politica. Nello stesso tempo, si svolsero le elezioni in Bosnia dove il 14 settembre 1996 i partiti nazionalisti ottennero una vittoria schiacciante. A Zagabria, invece, Tudjman aveva bloccato l’elezione del sindaco dell’opposizione, benché avesse vinto alle amministrative, mentre calava il silenzio da parte dei paesi occidentali. Una situazione simile si verificò pure a Belgrado, dove Milošević non riconobbe la validità delle elezioni amministrative, che si erano svolte il 17 novembre e avevano sancito la vittoria della coalizione di opposizione “Zajedno”. Contro tutte le attese, dilagò una protesta di piazza e alla fine Milošević dovette accettare il risultato elettorale. In Montenegro fu eletto presidente della repubblica Djukanović, che entrò in contrasto con il presidente serbo. Nell’insieme, questi eventi causarono un indebolimento generale del potere di Milošević. In Bosnia, la clamorosa rottura nella Repubblica Srpska tra Bikjana Plausić e Radovan Karadžić portò ad elezioni anticipate e alla designazione di un premier non nazionalista; la conseguenza fu che si aprisse un timido dialogo tra le due parti del paese. 239 In albanese Ushtria Clirimtare e Kosoves. Nasce nel 1993, come braccio armato dell’Lpk, il Movimento popolare del Kosovo. Si differenzia da subito, dall’Ldk per la diversa percezione geopolitica di un Kosovo che comprende rispetto ai territori della provincia, aree del Montenegro, piccole zone della Serbia e altre della Macedonia; una sorta di “Grande Kosovo” da unire magari all’Albania. Tale movimento scrisse sulle proprie bandiere lo slogan “Kosovo indipendente” ma anche quello di “Grande Albania”. 250 Intanto l’azione, svolta dal Tribunale dell’Aja contro i crimini di guerra nella ex Jugoslavia, aveva incoraggiato le prime confessioni pubbliche di azione nefande commesse tanto dai serbi, quanto dai croati e, anche, dai musulmani. L’idea di una corresponsabilità da parte dei propri dirigenti nazionalisti negli orrori del conflitto provocò uno shock tra la popolazione civile, soprattutto tra i bosniaci e i croati, che portò a rafforzare le opposizioni240. Ma il clima cambiò precipitosamente. In Albania, lo Stato era al collasso e in seguito al fallimento delle “piramidi” finanziarie, il presidente Sali Berisha, nella primavera del ’97, si dovette dimettere. Ci fu un saccheggio dei depositi militari e molte armi penetrano in Kosovo, dove aumentarono gli attentati del gruppo paramilitare Uck e, di conseguenza, la repressione della forze di polizia serbe. Milošević tornò, allora, a far leva sul sentimento nazionalistico operando abilmente per dividere la coalizione d’opposizione. Fatos Nano, socialista e oppositore del governo Berisha, diventò il nuovo presidente dell’Albania. Nel meeting fra i paesi balcanici proposto dalla Grecia, ci fu un colloquio tra il presidente serbo e Nano, il quale chiese il rispetto dei diritti umani in Kosovo, riconoscendone però l’appartenenza alla Serbia. Nonostante la ripresa di positive relazioni diplomatiche la situazione peggiorò. In Kosovo si consumò uno scontro politico tra Rugova e Adem Demaqi, detto “il Mandela dei Balcani” (uscito dal carcere nel 1990): a separarli due diverse strategie da seguire, Demaqi era, infatti, favorevole alla lotta armata. L’Uck intanto cresceva politicamente e militarmente, attingendo dalla delusione verso la politica “attendista” di Rugova. 240 Cfr. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit. p.175. 251 Il 28 novembre 1997 è una data importante perché per la prima volta fanno la loro apparizione pubblica i guerriglieri dell’Uck, tra la folla dei funerali di Halit Gecaj, un insegnante ucciso da un poliziotto serbo. Avevano il volto coperto e l’uniforme, sulle loro tute mimetiche spuntò l’aquila nera a due teste su fondo rosso, lo stemma dell’Albania. Seguendo l’esempio dei guerriglieri dell’Ira, uno di loro giurò bandiere comparirono davanti alla tomba aperta. Sulle ben presto le scritte “Kosovo indipendente” e “Grande Albania”. Dalla metà del ’96 al febbraio ’98 l’Uck aveva provocato circa cento incidenti241 senza subire gravi perdite; la sua politica divenne sempre più aggressiva, soprattutto nella zona di Drenica (a nord-ovest di Pristina), dando ulteriore incremento all’endemica fuga dei serbi dal Kosovo che il regime di Milošević cercava di frenare fin dal 1989. La fuga si sommava alla pulizia etnica operata dai serbi nei confronti degli albanesi kosovari, che ingrandivano sempre più le fila dei profughi, già diverse decine di migliaia. Tra il 28 febbraio e il 5 marzo 1998 si svolse tragicamente la prima vera battaglia tra l’Uck e forze della polizia serba. Il primo marzo fu una data chiave per comprendere la guerra del Kosovo. La guerriglia dell’Uck uccise due poliziotti serbi e poco dopo, in risposta, i serbi uccisero una ventina di civili albanesi. Una settimana dopo, la polizia serba decise di attaccare il comune di Drenica, roccaforte dell’Uck: i morti furono oltre 80 (anche donne e bambini), tra cui Adem Jashari, uno dei capi storici dell’Esercito di liberazione del Kosovo. La spirale di violenza che si innescò fu drammatica, andò avanti per settimane in un’alternanza di repressione poliziesca e provocazioni dell’Uck, che ricevette aiuti dall’Albania, dove aveva 241 Cfr. J.Pirjevec, op.cit., p.563. 252 attivato dei campi di addestramento, e dai traffici illeciti (armi e droga in particolare). Il massacro di Drenica e i continui scontri in Kosovo sollevarono l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e sollecitarono l’intervento del “Gruppo di Contatto”, formato da Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Italia, che elaborò un primo piano di azione condannando la repressione della polizia serba e gli attentati, definiti terroristici, dell’Uck, intimando al governo serbo di allontanare le forze speciali dal territorio della provincia al più presto. Nella primavera in Kosovo ci furono le elezioni clandestine, tollerate da Belgrado ma boicottate dall’opposizione kosovara, che videro la nuova vittoria di Rugova, il quale continuava a condannare le azioni dell’Uck, riuscendo anche a costruire per breve tempo (era la prima volta che la sua politica prendeva risvolti esplicitamente militari) un movimento militare rivale (Fark), con il consenso degli Americani, che prendesse il comando della resistenza. Il tentativo fallì, perché il gruppo confluì presto nell’Uck, che in alcuni casi eliminò fisicamente i capi della Fark (Forze armate della Repubblica Kosovara). Belgrado indisse, invece, un referendum per chiedere alla popolazione se ritenesse necessarie mediazioni di paesi stranieri nelle faccende ovviamente, interne, contraria. come il Rinfrancato Kosovo. da un La risposta nuovo fu, appoggio popolare, Milošević inviò truppe fresche nella provincia, che permisero l’assalto della cittadina di Dečani, sede di uno dei più famosi monasteri serbi, e costrinse i kosovari, di etnia albanese, a darsi alla fuga nelle vicine Macedonia e Albania e in Montenegro, che al momento rivendicava un posizione critica nei 253 confronti del presidente serbo, che, ricordo, è di origine montenegrina. La preoccupazione internazionale per il Kosovo aumentò notevolmente e la pressione diplomatica costrinse il leader serbo ad intavolare un negoziato con Rugova, attraverso la mediazione dell’inviato americano Richard Holbrooke, uno degli artefici dell’accordo di Dayton, nonostante il recente referendum l’avesse proibito. Gli incontri di maggio non portano a nulla di risolutivo. Attraverso l’intervento della Russia, nazione tradizionalmente “amica” della Serbia, voluto dagli altri membri del Gruppo di contatto (che intanto avevano bloccato ogni volo aereo per Belgrado), Milošević, ad inizio estate, accettò l’ingresso di osservatori internazionale, che poterono verificare le costanti violazioni dei diritti umani nei confronti degli albanesi, e la riduzione dell’intervento delle forze serbe nei confronti dei guerriglieri dell’Uck. Questi ultimi, acquisivano sempre maggior ruolo politico, che presto fu riconosciuto dagli Stati Uniti (solo alcuni mesi prima li consideravano terroristi). Avviarono rapporti con la Nato e l'Onu e attraverso una propria propaganda (parlando anche di fosse comuni inesistenti) cercarono di far diventare il Kosovo una priorità mondiale. In un clima di guerra civile, settembre fu un mese di tragici scontri, in cui l’Uck si trovò in grave difficoltà e i profughi albanesi aumentarono esponenzialmente, cacciati dalle proprie case dalle truppe serbe; anche lo stesso Uck metteva in fuga la popolazione serba del Kosovo dai territori “liberati”. Il 23, il Consiglio di sicurezza dell’Onu chiese la cessazione delle ostilità, in caso contrario sarebbero state prese altre misure per ottenere la pace. Gli Usa incominciarono a mostrare il pugno duro verso il governo di Belgrado, soprattutto con il segretario di 254 stato, Madeleine Albright, una delle più accese sostenitrici del futuro attacco Nato alla Serbia. Dopo il coinvolgimento della Nato sul finire della guerra bosniaca, prese sempre più piede il progetto di riforma dell’Alleanza atlantica (in elaborazione fin dai primissimi anni novanta), che modificava il suo ruolo strategico a livello internazionale, oltrepassando se necessario le questioni relative al diritto internazionale e il parere del Consiglio di sicurezza. Dopo il crollo del muro di Berlino “la Nato deve trasformarsi in un’alleanza politica su basi militari”242 sosteneva Ivo H. Daalder, già consigliere della Casa Bianca per i Balcani, un’Alleanza che si confronti con i problemi di instabilità fuori dall’area degli aderenti al patto atlantico. Un progetto che metteva in reale crisi il ruolo dell’Onu, quasi delegittimata, dall’interventismo Nato, basato sulla dottrina dell’ “unipolarismo”243. A fine settembre, si aggravò il problema dei profughi kosovari, almeno 200 mila, a seguito delle repressioni della polizia serba (ormai un vero e proprio piccolo esercito), che culminarono nell’uccisione di venti albanesi a Gornje Obrinje. Le immagini di donne, uomini e bambini, costretti ad abbandonare le loro case, piombarono sui teleschermi di tutto il mondo. L’8 ottobre l’Uck dopo aver subito diverse sconfitte, annunciò una tregua unilaterale. Intanto, si profilò un probabile intervento militare della Nato (approvato dall’Alleanza già a metà ottobre) nei confronti della Serbia; un’intensa campagna mediatica negli Stati Uniti contro Milošević e i serbi ne preparò il terreno. Richard Holbrooke, in missione diplomatica per conto del Gruppo di contatto e in polemica con l’intransigente Albright, tentò 242 243 Ivi, cit., p.571 Ibidem 255 un’ultima mediazione con il “vožd” (condottiero) serbo, chiedendo la fine dell’offensiva nel Kosovo e il ritiro delle forze serbe (parziale), la libertà di accesso agli operatori internazionali, la cooperazione con il Tribunale dell’Aia, il ritorno dei fuggiaschi nelle proprie case e l’inizio di una soluzione negoziata secondo il piano Hill che prevedeva un’amministrazione trilaterale, serbaalbanese-internazionale, apparentemente accettò della l’accordo. provincia244. Milošević Il fu 13 ottobre dato l’annuncio dell’ingresso di duemila osservatori Osce, disarmati, in Kosovo. Nello stesso giorno la Nato emise l’Activation Order concedendo ai serbi quattro giorni per conformarsi alle decisioni in caso contrario sarebbero iniziati i raid aerei. L’intervento militare fu rimandato perché gli atti principali della trattativa, l’ingresso dei verificatori Osce (Ksm, Kosovo verification mission) e il ritiro delle truppe furono attuati. Anche se a dir la verità le forze serbe non furono mai ritirate completamente se non nel capoluogo Pristina, e neanche un mese e mezzo dopo cominciarono a rifluire militari serbi in Kosovo, in palese contraddizione rispetto gli accordi firmati con Holbrooke. Nei mesi d’autunno il rapporto tra Usa e Uck, ormai legittimato come fondamentale interlocutore, si fece più stretto. A metà dicembre, ripresero gli scontri tra le forze serbe (regolari e speciali) e l’Uck, che si distinse in azioni terroristiche contro i civili (come a Peć, sei giovani serbi uccisi in un attentato nei pressi di un bar) e militari serbi e, a volte, anche nei confronti di albanesi non allineati. L’esercito di liberazione, che non era stato coinvolto nell’accordo di ottobre, puntava “ad accentuare la situazione di tensione e di violenza nel paese e a provare la reazione serba”245 che non tardò ad arrivare, - sostiene Giulio 244 245 Ivi, cit. p.572-573. G.Marcon, op.cit., p.37. 256 Marcon – “ai fini di costringere la Nato e gli Usa a intervenire a loro fianco”246. Tutto ciò non faceva altro che far precipitare la situazione. Il 15 e il 16 gennaio 1999 segnarono una svolta nella storia del Kosovo. Si verificò il 15 nel comune di Račak, nel Kosovo centrale, un massacro di 45 albanesi, uccisi a colpi di mitra e poi mutilati, scoperto il giorno dopo. La strage, a tratti controversa per quanto riguardava gli autori, innescò il pilota automatico verso l’intervento militare. Non si fece scrupoli l’osservatore William Walker, voluto personalmente dalla Albright, impegnato già in precedenza in America Latina (dove fu anche ambasciatore per gli Usa a EL Salvador), in vicende piuttosto oscure come l’assassinio dell’arcivescovo Romero247. Walker, che guidava la missione Osce, senza aspettare l’esito delle indagini, accusò immediamente i serbi, che da parte loro sostennero invece l’idea che dietro alla strage di Racak ci fosse una messa in scena e che i 45 albanesi, presunti civili, non fossero altro che miliziani dell’Uck morti in combattimento. Nemmeno le analisi scientifiche sui corpi delle vittime, che subirono pressioni da ambo le parti, portarono ad una soluzione della tragedia. Walker, venne dichiarato “persona non grata” dal governo di Belgrado e invitato a lasciare la Serbia; grazie all’intercessione di alcuni mediatori, l’espulsione rientrò e fu sospesa. 246 Ibidem La figura di Walker è descritta in A.Marzo Magno (a cura di), La guerra dei dieci anni (pag.339) e ulteriori informazioni possono essere ricavate in J.Pirjevec, Le guerre jugoslave, p.582. E’ uscito sull’autorevole rivista di geopolitica “Limes” all’interno del numero speciale Kosovo: l’Italia è in guerra (1999) un articolo dal titolo Come gli americani hanno sabotato la missione Osce, che oltre a ritrarre la figura del capomissione Walker esamina le varie vicende dei verificatori internazionali che avrebbero dovuto vegliare sull’applicazione dell’accordo Holbrooke-Milošević in Kosovo. “Americani e britannici - sostiene l’articolo hanno usato l’Osce a sostegno dell’Uck, emarginando italiani, francesi e tedeschi”. Al seguito della pubblicazione di tale articolo “anonimo” (uscito firmato dallo pseudonimo “Ulisse) la redazione di “Limes” è stata oggetto di una misteriosa incursione notturna durante la quale sono stati sottratti due hard disk dai computer della rivista. 247 257 Il “mistero” del massacro di Račak248 (dove tristemente persero la vite decine di persone), che non toglie certo le colpe ai serbi, fu usato come pretesto da parte degli americani per l’inizio dell’attacco aereo. Come ho già avuto modo di ricordare, la scoperta di fosse comuni (a Racak i corpi furono trovati ammassati l’uno all’altro) nelle guerre jugoslave e più in generale nei conflitti contemporanei attira particolarmente l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, “per cui l’attribuzione o la scoperta di una fossa comune – come nota Marco Deriu – rappresenta una partita ‘politica’ piuttosto importante”249. Così è stato anche per la strage di Račak utilizzata agli occhi dell’opinione pubblica per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica l’intervento Nato in Kosovo. Dopo la strage di Račak, l’accordo tra Milošević e Holbrooke era ormai senza valore. La maggior parte degli osservatori Osce venne ritirata e lasciò il Kosovo: si trattava di un chiaro segnale dell’imminente attacco Nato. La pressione statunitense andava in quella direzione. La mediazione e la pressione francese portarono alla convocazione da parte del Gruppo di contatto di un negoziato che si svolse, in due fasi, nel castello di Rambouillet nei pressi Parigi, tra il febbraio e il marzo del ‘99. Alcune novità sostanziali lo differenziavano dai negoziati precedenti: le trattative avvenivano attraverso colloqui diretti, sotto la conduzione, e non solo il patrocinio, della diplomazia occidentale, un po’ in “stile Dayton”. 248 La vicenda di Račak è riportata sulle pagine di La guerra dei dieci anni (p.331-33); in un capitolo dell’importante testo di Pirjevec Le guerre jugoslave (p.583 e 587) e nel libro inchiesta di Enrico Vigna Kosovo ‘liberato’ (La città del sole, 2003, Napoli). Se Pirjevec pende più per una responsabilità serba sulla strage, Vigna smonta questa tesi paragonando l’episodio Racak ai fasulli massacri di Timisoara, dei quali si è realmente e storicamente verificato il carattere fittizio e propagandistico. La messa in scena di Timisoara è raccontata ottimamente nelle pagine di Maschere per un massacro di P.Rumiz (p.51-60). 249 M.Deriu, op.cit., p.207. 258 Inoltre per la prima volta all’interno della delegazione kosovara albanese erano presenti esponenti dell’Uck, tra cui Hashim Thaci (Il serpente), insieme ad altri rappresentanti delle varie aree politiche dell’irredentismo kosovaro; c’era ovviamente Rugova, che però non era più l’unico leader del Kosovo, riconosciuto internazionalmente. La terza novità era la connessione diretta tra i risultati del negoziato e l’intervento della Nato: se la trattative fossero fallite a causa della Serbia, la Nato sarebbe intervenuta con la forza senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Un’anomalia fuori dal diritto internazionale: “Rambouillet si sarebbe di fatto dimostrato un ultimatum, più che un negoziato”250. All’interno del Gruppo di contatto c’erano posizioni diverse ma prevalse l’interventismo degli Usa, appoggiato dai britannici, fu scavalcata la proposta francese di chiedere l’autorizzazione al Consiglio di Sicurezza, poco ascoltati gli italiani e isolati i russi. Incominciò, invece, a prendere piede il concetto ambiguo di “nuovo umanitarismo militare”, secondo la formulazione di Ulriche Beck251 o di “guerra umanitaria”; concetto che è stato fortemente attaccato dal linguista Noam Chomsky, coscienza critica dell’America, che ha analizzato le ipocrisie dell’intervento nel recente saggio Il nuovo umanitarismo militare: lezioni dal Kosovo252 (edito da Asterios, Trieste, 2000). La prima sessione di lavori della Conferenza, aperta il 6 febbraio dal presidente francese Jacques Chirac, che si protrasse per tutto il mese, fallì. 250 G.Marcon, op.cit., p.39. Cfr. M.Ventura. op.cit., p.325. 252 Chomsky ricorda che l’America, così sensibile alla causa dei kosovari (salvo trovarsi dopo l’intervento di fronte a una catastrofe umanitaria peggiore di quella che voleva impedire), non mostra la stessa sensibilità nei confronti dei curdi e in passato non l’ha mostrata nelle aree in cui i mercenari e la polizia dei regimi non comunisti in America Latina hanno usato il terrorismo di stato contro oppositori, dissidenti e ribelli. 251 259 Il documento proposto dai mediatori presentava tre punti principali: il cessate il fuoco, un periodo transitorio di tre anni in cui il Kosovo, pur sempre soggetto alla sovranità jugoslava, sarebbe passato sotto la tutela Nato e avrebbe avuto la garanzia di un autogoverno. Dopodiché si sarebbe svolta una conferenza internazionale per stabilire lo status della provincia. Le due parti in trattativa si trovarono in disaccordo: da una parte i serbi non accettavano lo stanziamento di truppe Nato nel proprio territorio, continuando a considerare il Kosovo come una faccenda interna; dall’altra parte, gli albanesi non vedevano nel documento sufficienti garanzie per la futura indipendenza del Kosovo. Emersero anche differenze tra l’impostazione europea e americana. La strategia statunitense era “ di portare gli albanesi alla firma di un’intesa, i serbi al prevedibile rifiuto, e prenderne quindi atto per poter finalmente cominciare a bombardare i serbi”253. Se gli europei erano più propensi a cercare fino all’ultimo l’accordo con i serbi, gli americani miravano all’isolamento di Milošević e a stringere un accordo con l’Uck, che fino all’ultimo i diplomatici di Belgrado non riconoscevano come forza belligerante. Visto il fallimento di questa prima tornata di trattative, fu riconvocata un’ultima Conferenza il 15 marzo a Parigi. Nel tempo trascorso dalla conclusione dell’ultimo incontro (23 febbraio) il Dipartimento di Stato americano convocò gli esponenti dell’Uck a Washington per convincerli a firmare l’accordo. Dopo un serie di scambi epistolari e incontri, in cui si spese personalmente Madeleine Albright, i rappresentati dell’Uck furono persuasi ad accettare un testo che avrebbe permesso loro di avviare un percorso verso l’indipendenza, sulla base di un passaggio ambiguo riportato sul documento che definiva la soluzione finale 253 M.Ventura, op.cit.,p.336. 260 per il Kosovo “sulla base della volontà della popolazione”. Gli Usa fornivano garanzie all’Uck per l’organizzazione di un referendum futuro, mentre il Gruppo di contatto si atteneva all’impegno formale (stabilito a Rambouillet) di preservare l’integrità del territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia. Il 18 marzo Thaci firmò il documento, su cui era d’accordo anche il resto dei delegati albanesi, dopo che si assicurò che i serbi, presenti con il ministro degli esteri Milutinović, non avrebbero firmato. Nel testo era, infatti, presente il diritto della Nato di extraterritorialità in Serbia e Montenegro, che Belgrado non avrebbe mai potuto accettare; inoltre si decretava, oltre allo statuto di autonomia di tre anni per il Kosovo, una graduale smilitarizzazione dell’Uck, che però mirava principalmente all’indipendenza, come risultato sottointeso alla trattativa. Per gli Usa, la contrarietà dei serbi a sottoscrivere il trattato di Rambouillet costituì la prova che Milošević non intendesse mediare alcunché, costringendo così i partner europei a eliminare ogni remora all’avvio dei raid aerei. Pochi giorni dopo scoppiò la guerra in Kosovo, dopo che fallì anche l’ultimo tentativo di Holbrooke a Belgrado. Senza ottenere il consenso del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (a causa dell’opposizione della Russia, che non parteciperà nemmeno alla ratifica degli accordi a Parigi, e della Cina), il 24 marzo, la Nato iniziò i bombardamenti sulla Serbia. Javier Solana, segretario generale della Nato, aveva infatti autorizzato l’Operazione “Allied Force”. Con questa decisione l’Alleanza Atlantica, dopo un cinquantennio, si impegnò per la prima volta in un’azione offensiva, attaccando uno stato sovrano e violando al contempo la sua costituzione e la stessa “Carta” dell’Onu. Autorevoli 261 commentatori in Italia sostennero, sui due maggiori quotidiani, la legittimità di questo intervento militare254. Il governo di Belgrado aveva, nel frattempo, inviato dopo il fallimento delle trattative di Rambuillet e Parigi, 40 mila soldati in Kosovo. Oltre alla prima motivazione ufficiale, ovvero che Milošević non avesse firmato gli accordi, si affiancò un’altra giustificazione all’intervento militare: impedire la massiccia pulizia etnica che i serbi stavano perpetrando. In seguito, si aggiunse un altro obiettivo scalzare il leader serbo dal potere. I raid aerei della Nato scatenarono una violenta repressione dei serbi contro la popolazione albanese del Kosovo. E’ difficile pensare che i vertici Nato non sapessero che i bombardamenti avrebbero innescato una drammatica spirale di violenza. Molti analisti, tra cui Chomsky, affermano che questo era voluto per poter giustificare successivamente in modo più convincente l’intervento Nato. Che gli strateghi dell’Alleanza atlantica sapessero dei gravi rischi, che avrebbe causato l’intervento 254 Per Paolo Galimberti possedeva “una sua ragione etica fin dall’inizio” (“La Repubblica”, 5 giugno ‘99); Ennio Carretto l’aveva definito “prima e forse l’ultima mossa per un obbligo morale’ (“Corriere della Sera”, 11 giugno ’99); Adriano Sofri lo descrisse come “l’impiego di una forza internazionale a difesa delle vittime e del diritto” (“La Repubblica”, 4 giugno), derivante per Miriam Maffai “dall’impegno ad assumere come propria frontiera la difesa dei diritti umani, fino al rischio ed alla responsabilità della guerra” (“La Repubblica”, 23 giugno). Andrè Glucksman scrisse: “le forze della Nato manifestano la volontà occidentale”, ovvero una volontà “democratica, basata sul rifiuto del crimine di massa” (“La Repubblica”, 20 maggio 1999). Ernesto Galli Della Loggia, più cauto, aveva osservato che “è difficile pensare che esso sia motivato principalmente (sottolineo, principalmente) da ragioni umanitarie” (“Corriere della Sera”, 20 aprile). Piero Ostellino notò che se “il genocidio “selettivo”’ e ‘la “pulizia etnica”, “giustificano ampiamente l’intervento militare della Nato”, tuttavia, “da soli, non lo spiegano”, perché ci sono in gioco “corposi interessi geopolitici e geostrategici, non meno pressanti e legittimi della tutela del diritto umanitario” (“Corriere della Sera”, 6 aprile 1999). Angelo Panebianco, mosso da maggiore realismo, scrisse che sono “le percezioni dei leader occidentali” e “le complesse mediazioni all’interno del blocco euro-atlantico a decidere, di volta in volta, che cosa è nel suo interesse (e in quello del mondo) e che cosa no”, e sono proprio queste “percezioni” e queste “mediazioni” ad aver prodotto “la decisione di colpire Milošević una volta stabilito che non era nell’interesse dell’Occidente subire passivamente, dopo la Bosnia, una nuova pulizia etnica nel cuore dell’Europa” (“Corriere della Sera”, 24 maggio). Le seguenti dichiarazioni sono tratte dall’analisi di Raffaele Mastrolonardo Mastrolonardo E., Etica e geopolitica: confronto tra editorialisti, “Gli argomenti umani” (www.gliargomentiumani.com), agosto 2000. 262 militare, è un dato di fatto. Fu, infatti, una preoccupazione mossa dall’Italia255 durante le trattative in seno al Gruppo di contatto prima dell’attacco, che però nulla fece per opporsi all’intervento. Nei primi giorni di guerra gli aerei militari Nato (americani in maggioranza, poi inglesi, francesi, tedeschi, italiani e anche spagnoli) vennero impiegati in bombardamenti di strutture militari e contraeree serbe in Kosovo, in Serbia e nella lontana Vojvodina. La Rfj ruppe da subito le relazioni diplomatiche con i principali paesi della Nato (Italia esclusa). Contemporaneamente Milošević diede il via all’operazione “Ferro di cavallo” , intensificando la pulizia etnica. Iniziarono bombardamenti sistematici sui villaggi, deportazioni di massa, stragi sommarie, rastrellamenti ed espulsioni. Si formarono sulle strade del Kosovo colonne infinite di profughi in fuga verso la Macedonia e l’Albania. Un piano di violenta repressione ed aggressione, molto probabilmente già predisposto da diversi mesi, in continuità con la politica ultranazionalista di Milošević che per tutti gli anni Novanta aveva spinto ad un’emigrazione forzata della popolazione albanese del Kosovo. Si sviluppò così una guerra parallela a quella tecnologica combattuta dalla Nato, che si intrecciò e si sommò all’altra, più rudimentale, a terra: il tutto a danno dei civili. Tra i vertici della Nato, prima dei bombardamenti, era diffusa l’idea che l’intervento militare sarebbe stato risolto in pochi 255 Nel libro intervista a Chomsky Due ore di lucidità (Baldini&Castoldi, Milano, 2003) viene riportato che l’allora presidente del consiglio italiano Massimo D’Alema, recandosi a Washington (il 5 marzo), valutò il rischio di migliaia di profughi in caso di bombardamenti. Pose la domanda a Sandy Berger, consigliere per la sicurezza nazionale di Clinton, è raccontato nel libro di G.Marcon (op.cit., p.42): “State valutando lo scenario peggiore, cioè l’ipotesi che mentre noi lanciamo una campagna di bombardamenti i serbi scatenino una pulizia etnica senza precedenti?” chiese D’Alema; “Continueremo a bombardare” rispose Berger. 263 giorni, con una capitolazione veloce del governo di Belgrado, data l’enorme superiorità militare. Presto cominciarono a capire che il conflitto si sarebbe protratto più del previsto e che Milošević non si sarebbe arreso facilmente. Dopo una settimana di raid aerei la Nato passò alla fase che estese gli attacchi alla truppe serbe a terra e non solo alle attrezzature, ai mezzi e alle postazioni. Con l’intensificazione, aumentarono anche quelli che furono definiti con un pessimo eufemismo “danni collaterali”, ovvero le vittime civili dei raid aerei. Le cosiddette “bombe intelligenti” si rivelarono meno precise del previsto e tra l’altro furono solo il 35 per cento del munizionamento che fece spesso ricorso a bombe più convenzionali, che colpivano a caso. A terra intanto scoppiò la “bomba umana” dei profughi albanesi, incalzati dal terrore serbo. Scappavano verso i paesi vicini, moltissimi senza né cibo né acqua. L’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, dopo i primi dieci giorni di guerra stimò 260 mila sfollati all’interno del Kosovo, e 200 mila tra Albania e Macedonia. Un importante di esodo una dalle proporzioni popolazione europea vastissime, dal il più 1945, che riguarderà, alla fine della guerra, quasi un milione di persone. Sono immagini che fanno il giro del mondo, attraverso i network televisivi. L’esodo dei kosovari, diede anche origine a numerose critiche, all’indirizzo della Nato e in particolare degli Stati Uniti, accusati di aver peggiorato, e non migliorato, la situazione nei Balcani, causando una nuova e devastante pulizia etnica. In Italia e in Germania si formarono i maggiori movimenti pacifisti che chiedevano lo stop ai bombardamenti, anche nelle città serbe si crearono ampi gruppi di manifestanti per la pace. Ci vollero due settimane prima che la macchina delle organizzazioni 264 di volontariato si mettesse concretamente in moto, per affrontare la catastrofe umanitaria256. La gente scappava dalla pulizia etnica serba, ma anche dalle bombe della Nato. Le due diverse propagande, serba e occidentale, diedero più o meno importanza (fino alla negazione dei fatti), a seconda dei propri interessi strategici, alle feroci violenze contro gli albanesi del Kosovo (le tv di Belgrado) e alle stragi di civili causati dai bombardamenti dell’Alleanza atlantica (l’informazione, allineata, nei paesi Nato). Tutte e due forti di un “news management”: una strategia dell’informazione pianificata insieme ai vertici militari, studiata mesi prima per ottenere il consenso dell’opinione pubblica, di fronte ai vari interventi di guerra. Nei primi giorni d’aprile un missile Nato provocò 17 morti civili ad Aleksinac, cittadina serba; due giorni dopo, il 7 aprile, un altro colpì un’area residenziale di Priština uccidendo 12 persone. Il 12 aprile un aereo Nato fece 55 vittime su treno a Grdelica. Due giorni dopo, durante l’attacco di un ponte ferroviario nella Serbia meridionale, le bombe Nato colpirono un convoglio di profughi kosovari a Djakovica, 75 morti. Anche la città di Belgrado dal 3 aprile finì sotto i bombardamenti. Ad inizio aprile, Milošević aveva obbligato Rugova, del quale all’inizio delle ostilità si erano perse le tracce, ad incontrarlo a Belgrado, utilizzando a livello propagandistico l’accaduto. Gli chiese di registrare un messaggio per chiedere la cessazione dei raid aerei Nato, senza far riferimento alla pulizia etnica che colpiva il suo popolo. Come lui stesso affermerà successivamente agiva sotto la pressione del leader serbo. Ma ciò bastò perché si innescasse una polemica in campo kosovaro, probabilmente uno dei fini del “vožd” di Belgrado. L’Uck condannò le parole di 256 Cfr. J.Pirjevic, op.cit, p.612. 265 Rugova, escludendo qualche giorno dopo i rappresentanti del Ldk dal governo formato da Thaci. Il 5 maggio, Milošević permise a Rugova di raggiungere in aereo Roma. Qui l’esponente kosovaro cercò di riaffermare la sua leadership, dichiarando l’appoggio all’azione della Nato ma condannando l’Uck come gruppo terrorista257. Intanto l’Uck, che sosteneva fortemente le operazioni della Nato, seppur mal equipaggiata (ma ricevette rifornimenti dall’Alleanza), infliggeva attacchi a terra all’Armata jugoslava, che era affiancata dalle più crudeli truppe paramilitari, come le “Tigri” di Arkan, che si macchiarono di stupri, torture e massacri ai danni degli albanesi del Kosovo. La Rfj chiuse, nella seconda settimana di aprile, i valichi di frontiera tra il Kosovo e l’Albania, costringendo masse di profughi a tornare sui loro passi. Nei giorni successivi si verificarono scontri armati tra forze serbe e albanesi al confine. Il 17 aprile la Federazione jugoslava ruppe le relazioni diplomatiche con l’Albania. Oltre che in campo kosovaro c’erano contrasti “interni” anche in campo jugoslavo, con le dure critiche effettuate dal presidente montenegrino Djukanovic a Milošević, che marcava sempre più le differenze con la Serbia. La guerra proseguì con l'intensificarsi dei bombardamenti Nato, che toccarono i civili. In Europa occidentale intanto aumentava il “partito” di coloro che si dichiaravano contrari ai raid, chiedendo la cessazione immediata di una guerra definita ingiustamente “umanitaria”. La conferma di un portavoce dell’Alleanza, resa pubblica il 20 aprile, che alcune munizioni lanciate nel Kosovo contenevano uranio impoverito, uno scarto dell’industria nucleare 257 Ivi, cit., p.614. 266 fortemente tossico, suscitò ulteriori preoccupazioni258. La propaganda serba fece un uso accorto di queste informazioni. “Ciò rese piuttosto nervosi – scrive lo storico Jože Pirjevec - i manipolatori dell’opinione pubblica in seno alla Nato, che consideravano da tempo la loro bestia nera, la stazione televisiva di Belgrado”259. Per sbarazzarsi di una voce inopportuna fu organizzato un attacco contro il palazzo della tv di stato, nel centro di Belgrado, dove il 23 aprile, perirono sedici dipendenti dell’emittente, tra giornalisti e tecnici, in quel momento al lavoro260. Mentre i vertici della Nato discutevano sull’eventualità di un intervento da terra, parallelamente si muoveva l’azione diplomatica per risolvere il problema kosovaro, con in primo piano tedeschi e russi (che precedentemente gli Usa avevano sistematicamente tenuto fuori dalla crisi), che dal 14 aprile ebbero come rappresentante speciale nei Balcani, Viktor Černomyrdin. Oltre a colpire la residenza di Milošević, le maggiori infrastrutture (tra cui ponti e raffinerie, causando gravi blackout dell’elettricità) e alcuni palazzi di stato, le bombe Nato fecero fuoco sui civili, il primo maggio a Priština (47 morti) e il 7 maggio a Niš, colpito un ospedale e il mercato (20 morti). “Danni collaterali” si verificarono anche a Košari in un accampamento di profughi kosovari (87 morti). L’arma area, nonostante avesse distrutto l’economia jugoslava, non sembrava in grado di risolvere il conflitto; si fece strada la via diplomatica, più volte osteggiata dagli americani, promossa dai russi, tentata dal Vaticano e 258 L’uranio impoverito sospetto per la sua radioattività di essere la causa della “sindrome del Golfo” era già stato usato negli ultimi anni della guerra in Bosnia (Cfr. J.Pirjevec, op.ci.., p.626). 259 J.Pirjevec, op.cit., p.526. 260 L’attacco alla tv è raccontato nel documentario di Corrado Veneziano Sedicipersone: le parole negate del bombardamento della tv di Belgrado. 267 timidamente proposta dalla Germania e dall’Italia che il 16 maggio sostenne un’iniziativa in favore della sospensione dei bombardamenti, che però non fu accettata. Nelle città serbe e kosovare la normalità della vita era sconvolta: l’erogazione dell’energia elettrica e dell’acqua fu interrotta e aumentarono a dismisura i prezzi dei generi di prima necessità anche la disoccupazione crebbe radicalmente. La guerra si era trasformata in un’ingente catastrofe umanitaria. Il conflitto continuò fino ai primi di giugno del 1999, dopo 78 giorni di bombardamenti, con il picco di raid aerei raggiunto il 27 maggio261, lo stesso giorno in cui il Tribunale internazionale dell’Aja emise un mandato di comparizione contro Milošević, accusato di crimini di guerra contro l’umanità, insieme a quattro suoi collaboratori. Sotto l’incalzare delle bombe Nato che colpivano inesorabilmente bersagli civili e militari senza trovare ormai alcun tipo di opposizione, Milošević si decise, il 28 maggio attraverso la mediazione di Černomyrdin, ad accettare le proposte formulate dai Paesi membri del G8262. L’intesa prevedeva: il ritiro delle forze serbe dal Kosovo; la presenza di forze armate internazionali, sotto il mandato dell’Onu e con significativo ruolo della Nato; il ritorno dei profughi e l’amministrazione provvisoria del Kosovo; forme di autonomia e autogoverno della regione all’interno della Federazione jugoslava; la smilitarizzazione dell’Uck. L’accordo di pace fu stipulato solo nei primi di giugno, dopo ancora giorni di bombardamenti. Il 3 giugno, il parlamento serbo accettò il piano di pace, dopo la missione positiva dei mediatori 261 Cfr. J.Pirjevec, op.cit., p.633. Ivi, cit., p.637, I retroscena raccontano che uno dei motivi dell’accettazione da parte del leader serbo, era un accordo segreto con i russi per la riconquista di Pristina, che però non avvenne. 262 268 Černomyrdin e Martti Ahtisaari, diplomatico finlandese nominato dall’Unione Europea. Il 10 giugno fu il giorno del “cessate il fuoco” con la firma dell’accordo di pace tecnico-militare a Kumanovo in Macedonia. Venne poi votata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu una risoluzione che fissava i compiti della missione militare multinazionale in Kosovo, denominata Kfor (International Military Force in Kosovo), di cui facevano parte i paesi della Nato e la Russia. Il Kosovo fu diviso in cinque grandi aeree affidate alle varie componenti. Si concluse una guerra di difficile lettura, l’ultimo tragico conflitto del Novecento. Con un pesante bilancio di distruzione, morti e feriti, molti di più di quelli previsti per una guerra definita impropriamente umanitaria (sono duemila i morti tra i civili); notti e giorni di bombardamenti aerei Nato continui; scuole e ospedali distrutti; villaggi rasi al suolo; pulizia etnica da parte delle milizie di Milošević a terra che causò 900 mila profughi kosovari, la cui maggioranza tornò nelle case nei mesi successivi anche attraverso un piano di rientro profughi sotto l’egida Onu. Dicevamo, una guerra di difficile lettura, perché presenta delle novità rispetto ai conflitti del Novecento. La prima a fregiarsi del titolo di “guerra umanitaria”, una guerra per i diritti dell’uomo263. Attraverso questo “pretesto” morale, la Nato non si è sentita in dovere di ricevere un mandato dell’Onu, rivelando una prima illegittimità dal punto di vista del diritto internazionale264. Inoltre, 263 L’evento bellico del Kosovo “ha definitivamente consacrato la prassi dell’interventismo umanitario, assumendo nel modo più esplicito la motivazione umanitaria come justa causa belli. In questo caso la Nato ha ritenuto che l’uso della forza internazionale per motivazioni umanitarie fosse legittima non soltanto in opposizione al principio di non ingerenza nella domestic jurisdiction di uno Stato sovrano, ma anche in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. Nel frattempo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva creato ad hoc un Tribunale penale internazionale per la ex–Jugoslavia, dotato di primazia giurisdizionale rispetto ai Tribunali nazionali operanti nella regione” (Danilo Zolo, Diritto internazionale e “guerra umanitaria”, in Giano. Pace ambiente problemi globali, numero 37, gennaio-aprile 2001). 264 Ugo Villani, ordinario di diritto, in La guerra del Kosovo e il c.d. diritto di “intervento umanitario”, capitolo di Se dici guerra umanitaria (a cura di Corrado Veneziano, e 269 nelle guerre del secolo appena passato, i meccanismi elementari delle operazioni belliche – attacco/difesa, azione/reazione, amico/nemico – erano sempre stati facilmente riconoscibili. In questo caso, invece, gli aerei della Nato bombardavano le città serbe senza incontrare resistenza e le truppe serbe, a loro volta, deportavano e uccidevano i civili albanesi. “Due scenari per la stessa guerra: quello del cielo, con i serbi esposti come vittime inermi alle bombe e ai missili che piovevano da una straripante macchina bellica, quello a terra, con gli albanesi vittime altrettanto inermi delle violenze serbe” 265 . Con l’entrata della forza multinazionale Kfor, il Kosovo è diventato di fatto un protettorato internazionale indipendente dalla Serbia. Punti importanti dell’accordo di pace non sono stati attuati, tra tutti il disarmo dell’Uck, sempre dilazionato e mai completato. L’Uck è stato trasformato in una sorta di guardia civile, Kosovo Corps266. La forza multinazionale di pace Kfor non è riuscita ad impedire la pulizia etnica al contrario, innescatasi appena dopo il cessate il fuoco, questa volta praticata dagli albanesi contro i serbi. Con i militari dell’Uck in testa, sono iniziate rappresaglie e violenze nei confronti dei civili serbi, continuate per anni. Secondo l’Osservatorio di Milano267, tra la metà di giugno e la fine di settembre 1999, sono fuggiti dal Kosovo 200 mila serbi, a cui si aggiungono in un drammatico bilancio oltre trecento morti serbi (vittime della rappresaglia albanese), numerose chiese e monasteri ortodossi distrutti; inoltre sono stati cacciati dalle loro abitazioni diverse migliaia di rom e altrettanti albanesi “collaborazionisti”, in totale altri 50 Domenico Gallo), Besa, Lecce, 2005, ricostruisce la creazione dell’ ”evento bellico”: le contraddizioni con la Carta dell’Onu, il tranello di Rambouillet, la tragica regressione di principi e patti di convivenza. 265 Giovanni.De Luna e altri, Codice storia, Paravia, Torino, 2000, p.398. 266 Cfr. G.Marcon, op.cit., p.45 267 “Il manifesto”, 30 settembre 1999 270 mila civili. Nei primi anni del duemila hanno continuato a vivere in Serbia circa quarantamila serbi268, per lo più protetti in enclavi dalla forza multinazionale. “La convivenza o comunque la binazionalità della comunità – scrive Giulio Marcon, già presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà - è stata definitivamente distrutta”269. Il ritrovamento di fosse comuni in Kosovo da parte del Kfor, arricchirono il faldone delle accuse a Milošević, che nell’aprile 2001 venne arrestato, dopo esser stato sfiduciato dalla chiesa serba ortodossa e aver perso le elezioni l’anno precedente. E’ comparso la prima davanti al Tribunale dell’Aja, a Scheveningen, nel febbraio 2002 imputato per i crimini di guerra e contro l’umanità in Bosnia, in Croazia e in Kosovo. Tra i capi di accusa anche la gravissima imputazione per genocidio in Bosnia (Srebrenica). Termina con la guerra in Kosovo, un conflitto su cui hanno influito significativi interessi internazionali di natura geopolitica ed economica, sia a livello internazionale sia locale270. La Nato ha recitato una parte di assoluta protagonista, scopo dell’azione militare era stato il futuro del suo stesso ruolo: “E per questo penso che la sorte della Nato sia la vera ragione del suo intervento”271 ha sostenuto lo storico inglese Hobsbawm. Una 268 Tommaso Di Francesco, Pulizia etnica infinita e boicottaggio, in “Il manifesto”, 23 ottobre, 2004. Un interessante reportage sulla condizione della popolazione serba in Kosovo dopo la guerra, dal titolo Serbi in gabbia, è uscito sul supplemento di La Repubblica, D, 16 ottobre 2004. 269 G.Marcon, op.cit., p.45. A proposito di “binazionalità” e non completa convivenza, propongo ciò che ha scritto lo stesso Marcon (op.cit., p.27) ; spesso molti hanno tracciato un parallelo tra la situazione della Bosnia Erzegovina e quella del Kosovo: “tale paragone può limitarsi agli effetti devastanti della guerra e all’origine – nazionalista ed etnicista del conflitto. Non può sicuramente riferirsi alla situazione di convivenza e di mescolanza: questa esisteva tra le popolazioni bosniache, mentre mancava largamente tra la popolazione albanese e quella serba”. Mentre in Bosnia la mescolanza tra etnie era più che assoldata (esisteva inoltre un’identità nazionale “bosniaca” che durante la guerra è stata negata, sia dagli ultranazionalisti serbi e croati, sia dagli studi poco approfonditi sul conflitto), in Kosovo erano molto rari i matrimoni misti. 270 Cfr. G.Marcon, op.cit., p.46 271 Eric J. Hobsbawm, Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Bari, 1999, p.p.21. 271 guerra definita dall’Alleanza atlantica una “vittoria”; ma così non è stata, poiché non ha fatto altro che incrementare violenza in un territorio già ampiamente provato. L’intervento voluto fortemente dagli Stati Uniti, ha rafforzato l’egemonia americana a livello internazionale; gli Usa non hanno insistito sulla via diplomatica quando essa ancora era praticabile, come nella “messa in scena” di Rambouillet. Per quali motivi c’era “l’urgenza” di questa guerra? Per ragioni “morali” o “umanitarie” diceva la Nato. Sia Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde Diplomatique, sia Noam Chomsky272, sostengono che di fronte ad apparenti buoni propositi si celano marcate ipocrisie. Non vi sarebbero altrettante ragioni “morali” per intervenire, per esempio, nel Kurdistan, dove il governo di Ankara ha praticato un’intensa pulizia etnica e messo in atto una guerra con decine di migliaia di morti? Le ragioni non sono state morali, ma politiche ed economiche. Il conflitto in Kosovo si è inserito in un ampio piano strategico dell’Alleanza, che ha ridisegnato il proprio ruolo a livello mondiale e nello specifico caso del Kosovo si proponeva di affermare la presenza Nato nell’area balcanica e nell’Europa centro-orientale, a livello economico e militare, con gli Stati Uniti in posizione di supremazia politica rispetto all’Europa e alla Russia, allargando così la comunità delle “nazioni democratiche” e il mercato globalizzato occidentale. La Serbia, al di là del suo violento ultranazionalismo, è stata intesa come un ostacolo perché rifiutava di adottare il modello neoliberista imposto dalla globalizzazione, a differenza della Turchia o di Israele273. 272 Nel suo libro Il nuovo umanitarismo militare, cit., Chomsky si pone una domanda iniziale se “quest'umanitarismo è guidato da interessi di potere o da reali preoccupazioni umanitarie?” L’autore smonta attraverso un’articolata analisi le “ragioni umanitarie” della guerra. 273 Ignacio Ramonet, Guerra nei Balcani: lo scempio, in “Le monde diplomatique”, maggio, 1999. 272 Con la fine del conflitto in Kosovo, si chiudono in una situazione comunque ancora instabile le guerre che per dieci anni hanno investito e distrutto l’ex Jugoslavia, che per tanti fattori, benché avessero alcune similarità con conflitti del passato, sono state individuate da paradigmatico Mary di Kaldor “nuove come guerre”274, caso anche emblematico per i e fattori “identitari” che le hanno segnate. Un’ultima propaggine di conflitto si è verificata in Macedonia, nel 2001 con scontri tra l’esercito macedone e gli albanesi dell’Uck locale. 274 Mary Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Roma, 2001. 273 PARTE TERZA EMIR KUSTURICA E LA STORIA DELL’ EX JUGOSLAVIA UNDERGROUND “Con Underground credo di aver accettato tutte le sfide possibili (formali, umane, storiche, politiche) al punto da sentirmi fisicamente sull’orlo di un baratro”275. Così, dopo l’uscita del film nelle sale, Emir Kusturica (Sarajevo, 1954) si rivolge al critico francese Michel Ciment, che ha raccolto la testimonianza del regista sulla rivista di cinema “Positif”. Underground è, infatti, un film complesso anche controverso, il cui testo si correla, più che mai, al contesto storico e sociale: divincolandosi da un approccio mimetico, ripiomba nella fragile situazione politica dell’ex Jugoslavia della metà degli anni Novanta. E’ un’opera dal carattere metalinguistico che pone in discussione la messa in scena della storia e investe l’attualità incandescente della guerra dei Balcani, con le vittime civili, i bombardamenti indiscriminati, l’interesse/disinteresse dell’Occidente, i trafficanti d’armi e gli speculatori. La pellicola si struttura come una metafora totale, riflessione – di volta in volta eccessiva, disperata viscerale, - che abbraccia cinquant’anni di storia jugoslava (dal 1941 al 1991), ricreando attraverso il sotterraneo del film, in cui vive rifugiato un nutrito gruppo di persone, l’ “inganno titoista” che sottrasse per decenni un paese dal flusso della storia, con il pretesto del pericolo di un’aggressione sia 275 Cfr. AA.VV., Emir Kusturica, “Garage”, n.14, Paravia /Scriptorium, Torino, 1999, p.12. 274 dell’Occidente capitalista che dell’Unione Sovietica e attraverso la continua manipolazione della realtà e dell’informazione. Ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes, il 28 maggio del 1995, lo stesso giorno in cui i serbi di Kraijna abbattono l’elicottero del ministro degli Esteri bosniaco Irfan Ljujiancik e pochi giorni dalla strage di Tuzla (26 maggio) in Bosnia, dove una granata serbo-bosniaca ha ucciso più di settanta giovani, che si trovavano nella piazza centrale della città. In un clima surriscaldato dalle fiamme della guerra, Underground è accolto dalle letture più disparate, suscitando un’accesa polemica che si è protratta per mesi sui media europei e spesso ha rischiato di prevalere sul valore del film. Il quinto lungometraggio di Kusturica affronta diverse problematiche, oggetto di questa ricerca, in particolare la rappresentazione della guerra e della storia nel cinema. Di notevole interesse e non di semplice analisi, per la stratificazione semantica e simbolica che acquisiscono, è l’uso delle categorie realtà e finzione, ridefinite e contaminate nella fantasmagoria surrealista dell’immaginario di Kusturica. Il soggetto del film prende spunto da un dramma di Dusan Kovačević (diventato pièce teatrale), scritto una ventina di anni prima, nel quale un gruppo di persone vengono costrette a vivere in una cantina da un personaggio, che nasconde i cambiamenti avvenuti in superficie. “Vent’anni fa scrissi la storia di un uomo che era riuscito a tenere nascosti per molti anni nello scantinato di casa alcuni suoi familiari dicendo loro che la guerra non era ancora finita”. Racconta lo sceneggiatore e drammaturgo serbo Kovacević, nato a Sabac nel 1948. Kusturica, in collaborazione con lo stesso Kovacević, stravolge il soggetto originale (del dramma rimase solo la situazione 275 iniziale), sviluppando una sceneggiatura complessa e stratificata, la cui stesura si protrae per tutta la lavorazione, durata quasi quindici mesi (dal 5 novembre 1993 al 31 gennaio 1995). Il film nel corso delle riprese, svolte tra Praga, Belgrado e Sofia, vede aumentare le previsioni di budget e il numero delle case produttrici impegnate nel progetto: la tedesca Pandora Film (che aveva acquistato i diritti della storia di Kovacevic), la francese Ciby 2000, l’ungherese Novo Film, le serbe Komuna e Ptc, la ceca Mediarex/Etic e la bulgara Tchapline Films. Un progetto, sviluppatosi come un Apocalypse Now all’europea, in cui le possenti dimensioni della macchina-cinema hanno portato la messa in scena a superare ambiguamente la “finzione” per giungere ad una perversa ri-creazione della realtà: la realtà della guerra passata e presente. Le riprese procedono tra alti e bassi, attorno alle imponenti scenografie di Miljen Kljavović (trentamila metri quadri di set), con momenti drammatici che a tratti sembrano riflettere il caos protagonista del film: litigi tra attori, scimmie riottose, depressioni continue dell’autore, negativi che spariscono, zingari che minacciano di fuggire appena ottenuta la paga, senza dimenticare il tragico “fuoricampo” della realtà, con il precipitare della situazione in Bosnia. Quattro giorni dopo l’inizio delle riprese i croati distruggono il ponte di Mostar, il 5 febbraio del 1994, 68 civili muoiono nella prima strage al mercato di Sarajevo; il 10 maggio dello stesso anno a Washington vengono firmati gli accordi per la creazione della federazione croatamusulmana in Bosnia Erzegovina, contraltare della Repubblica Serba di Bosnia; nei mesi successivi si susseguono le tensioni tra serbi e macedoni e tra quest’ultimi e la popolazione albanese, residente nei pressi di Skopje. 276 Il materiale sovrabbondante girato da Kusturica confluisce nel primo montaggio di 5 ore e 40 minuti, che, scremato, verrà ridotto alle 3 ore e 12 della copia di Cannes e alle 2 ore e 47 dell’edizione uscita sugli schermi di tutto il mondo (la versione discussa in queste pagine). Underground è diviso in tre parti più il prologo, pilastri di un intricato intreccio narrativo. Prologo. Belgrado, 6 aprile 1941. Marko Dren e il suo amico Nero festeggiano l’ammissione al partito di quest’ultimo, inseguiti da una banda zigana. Prima Parte: La guerra. All’alba, mentre il fratello di Marko, Ivan, sta dando da mangiare agli animali dello zoo, incomincia il bombardamento nazista su Belgrado. Marko impegnato con una prostituta sembra eccitarsi per l’insolito evento. Nel frattempo Nero fa colazione inveendo conto i “porci fascisti figli di troia”, fino a quando un elefante fuggito dallo zoo arpiona con la proboscide le sue scarpe dalla finestra. Nero, tra le proteste della moglie, esce di casa per raggiungere l’amante Natalija. Inizia, in questo momento l’irresistibile ascesa di Marko Dren, ambiguo poeta comunista, che nasconde nella cantina della casa paterna diversi rifugiati politici, ai quali si aggiunge Ivan con in braccio lo scimpanzé Soni. Nel sotterraneo Vera, moglie di Nero, muore dando alla luce un bambino, Jovan. Tre anni dopo, Marko e Nero, che nel frattempo portano avanti attività politiche e criminose, festeggiano il compleanno di Jovan. Vanno poi insieme a teatro, dove recita Natalija, ora amante di Franz ufficiale tedesco. I due irrompono sul palcoscenico: Nero spara a Franz e rapisce Natalija. Insieme si nascondono su un battello ancorato al Danubio, dove Marko approfitta della temporanea assenza di Nero per corteggiare Natalija. Franz, salvato dal giubbotto anti- 277 proiettili fa circondare il battello, arresta Nero e si riprende Natalija, mentre Marko riesce a fuggire. Nero resiste alle torture dei tedeschi e viene liberato da Marko, travestitosi da medico. Nella fuga Nero viene ferito dallo scoppio di una bomba a mano e poi ricoverato da Marko nel sotterraneo. Pasqua 1944: dopo i duri bombardamenti tedeschi, Belgrado subisce quelli degli alleati. Poi finalmente arriva la pace. Marko, che intanto ha sposato Natalija, è festeggiato come un eroe nazionale. Seconda parte: Guerra Fredda. Siamo nel 1961. Marko e Natalija inaugurano il monumento a Nero (dato per morto). A Nero e a tutti gli altri nascosti nel sotterraneo (dove il tempo è ritardato artificiosamente) Marko ha fatto credere che la guerra in superficie non sia finita, così da far continuare la fabbricazione delle armi, con le quali accresce la sua fortuna. Jovan, figlio del Nero, che ha ormai vent’anni, si sposa. Durante il matrimonio, tra i rimorsi di Natalija e i progetti di “resistenza” di Nero, lo scimpanzé Soni entra nel carro armato costruito dai rifugiati e fa partire alcuni colpi di cannone che aprono una breccia nelle pareti. Nero e Jovan ritornano in superficie conviti a combattere i tedeschi e piombano nel bel mezzo delle riprese di un film sulle gesta del Nero e di Marko, durante la Resistenza jugoslava. Pensando di essere al centro della guerriglia vera, Nero spara all’impazzata seminando il panico tra la troupe. Fuggono lungo il Danubio, dove Jovan annega nelle acque raggiungendo la moglie, suicidatasi nel pozzo del sotterraneo. Nel 1980 Tito muore. Terza parte: La Guerra. Siamo nel 1991. Ivan, internato in un ospedale psichiatrico di Berlino, fugge dall’Istituto attraverso i sotterranei che collegano le città europee ed arriva in Jugoslavia, proprio nel bel mezzo del conflitto che sta dilaniando l’ex repubblica degli slavi del sud. Apprende l’inganno di suo fratello 278 e ritrovatolo, nella veste di trafficante d’armi, lo bastona e poi si impicca. Nero si trova alla testa di un commando serbo ed ordina (senza conoscere il nome delle vittime) l’uccisione di Marko e Natalija, quando scopre l’identità segue la sorte del figlio annegandosi. Nero si ritroverà insieme a tutti personaggi sulla riva di un fiume a festeggiare le nozze di Jovan. La terra sotto i loro piedi si allontana dalla riva e parte galleggiando nella corrente. 1 A NALISI DEL FILM Concepito come una grande allegoria, il film è diviso in tre atti come un’opera teatrale, ognuno scandito da una guerra: la seconda guerra mondiale, la guerra fredda e la recente guerra balcanica. Le tre parti non hanno pari lunghezza ed eguale tono; la prima, preceduta dal prologo, è la più lunga e surreale, mentre l’ultima, quella relativa alla cosiddetta “guerra dei Balcani”, si allontana dalla “cronaca” con immagini di alto valore simbolico (il crocefisso rovesciato, il fuoco dappertutto, la chiesa semidistrutta e l’accesso ai sotterranei delle menzogne europee proprio accanto al Reichstag berlinese). La metafora della storia dell’ex-Jugoslavia e delle sue colossali bugie, rappresentata dal sotterraneo, è l’architettura del film, che mescola realismo e surrealismo, in dosi differenti e senza pretese di scientificità storica. Sulla scia di questo meccanismo ogni situazione diegetica viene spinta sopra le righe. Kusturica, che si appropria del registro del grottesco, dichiara, nel libro scritto sul film da lui e da Serge Grünberg, che ha scelto la chiave ironica proprio per proteggersi “dalla trappola di un 279 umanesimo di parte”276, sottolineando in altra occasione che ci teneva a non essere implicato politicamente nel conflitto, volendo mantenere distanza e obiettività. Non spetta a noi definire la credibilità di queste affermazioni; del risvolto politico del film, materia spinosa, e delle polemiche successive, se ne discuterà in un altro paragrafo. Schematizzando, il film parla del grande inganno mediante il quale Tito aveva sottratto dal flusso della storia un intero paese, controllandolo ed insieme ostacolandone la crescita socioculturale. La sua strategia era consistita, da un lato, nel tenerlo sotto la costante minaccia di una guerra mai finita, della possibilità di aggressione da parte sia dell’Occidente capitalista che dell’Oriente comunista; dall’altro, nell’indottrinarlo ideologicamente, con la manipolazione della realtà attraverso l’informazione (e il cinema); in sostanza, con un universo fittizio, accettato come l’unico possibile dai “sudditi”. La metafora di Kusturica potrebbe essere allargata ad allegoria di tutto il socialismo reale, seppur lo stesso regista precisi che Tito era “uno stalinista che per sopravvivere era diventato antistalinista”277. Nella terza parte di Underground la struttura simbolica si espande all’Occidente, proprio prima dell’epilogo (dove uno scampolo di terra, dalla forma simile alla Jugoslavia, si allontana dalla riva con sopra tutti i personaggi del film), chiama in causa, attraverso il sotterraneo groviglio di comunicazione, le connivenze Est-Ovest, da Yalta in poi. Queste hanno innervato una sorta di consociativismo ante litteram, tanto più forte quanto più la propaganda di ciascuna parte tendeva a rimarcare differenze e contrapposizioni. 276 277 Kusturica E., Grünberg S., C’era una volta Underground, Il Castoro, Milano, 1995. P. Vecchi, Emir Kusturica, Roma, Gremese, 1999, p.92. 280 Kusturica esibisce un pessimismo cosmico insieme astorico e legato a contingenti tragedie nazionali. In questa struttura colossale e barocca, quale è il film, la mistificazione passa attraverso i mezzi efficaci e “volgari” del cinema, l’arte di nodale importanza nei totalitarismi del Novecento. Il sotterraneo è progettato da Marko come un set di film, una messa in scena creata da un regista “sadico” per sottrarre il tempo storico ai reclusi e sfruttarli per scopi personali. Il cinema diventa simbolo, diretto e indiretto, della manipolazione del reale anche all’esterno, con il set, tanto decantato da Marko e Natalija, sulle gesta di Nero, trasformato come un martire, eroe della seconda guerra mondiale. Anche i filmati d’epoca, dai quali i protagonisti del film entrano ed escono (sovrimpressioni ottiche), sono usati come mezzo per significare la manipolazione storica: mettono essi stessi in evidenza la loro natura di trucco, sono colorati e storicamente impossibili. I rapporti tra “realtà e finzione”, uno dei punti di questa ricerca, verranno approfonditi in seguito. L’opera di Kusturica, come abbiamo sottolineato ha una cornice storica, che va dalla seconda guerra mondiale, con i partigiani comunisti Nero e Marko, fino alla recente guerra civile; il film ha, però, prima di tutto un’importante logica interna, in cui i fatti storici non sono numerosi. Essa si struttura sugli ultimi cinquant’anni jugoslavi e riporta in luce, nell’ultima parte, le contraddizioni di una società con la guerra interetnica degli anni Novanta. Lo fa con un approccio venato da alcune sfumature autorazzistiche, “come a sostenere che le genti balcaniche siano una genia a parte, incapace di vivere senza massacrarsi, truffare e tradire”278. Posizione, certamente comoda all’Occidente, criticata e sollevata da due intellettuali acuti e profondi come 278 Cfr. U.Rossi, “Presente e Passato”, “Segnocinema”, numero 74, 1995, p.63. 281 Slavoj Žižek, filosofo sloveno, e Dina Iordanova, storica del cinema ed esperta di cultura e media dei Balcani. Il film, nella poetica “dell’eccesso della messa in scena, definita da una recitazione sopra le righe e da un dinamismo insistente della macchina da presa, riesce a porsi come un’imponente rappresentazione genealogica ed escatologica di una nazione che fu e che ora non è più”279. Underground è un film sulla realtà e sulle illusioni spaziotemporali di un Paese. In ogni atto il meccanismo narrativo e visivo appare quello della sovrapposizione di spazi, persone e interessi. Inoltre è un’articolata riflessione sulle vicende dell’exJugoslava e sui rapporti tra cinema e storia, ma da una posizione assolutamente personale, ecco perché possiamo definirla anche un’autoriflessione culturale, cinematografica e kusturiciana. Dal casting alle musiche, dai riferimenti cinematografici al cameo del regista, dalle levitazioni di personaggi ai voli delle oche, Kusturica parla della sua Jugoslavia e del suo cinema preferito, ma non per vanità o autocontemplazione, perché come riportato qualche riga sopra rispetto alla scelta della “chiave ironica”, Kusturica, sballottato da forti pressioni politiche perché prendesse una posizione nazionalista (lui si è definito “un regista jugoslavo di Sarajevo”280), ha preferito una via personale, sicuramente controversa, ma la propria. Lo spiazzamento creato dal confine labile tra realtà, finzione e fantasia che pervade il film, lo si avverte fin dall’inizio. Underground si apre con una dedica e inizia come una fiaba moderna: “Ai nostri padri e ai loro figli. C’era una volta un paese…e la sua capitale era Belgrado. 6 aprile 1941…”. 279 Il critico Giorgio Bertellini definisce in modo preciso la poetica di Underground (Emir Kustirica, Il Castoro, Milano 1996, p.91). 280 Ivi, cit., p.11. 282 E come nella fiaba i personaggi hanno caratteristiche archetipiche, spesso sono individuazioni di comunità sociali o etniche. Kusturica con spirito “bachtiniano” ha parlato della storia dell’ex-Jugoslavia come di un carnevale nero, “in cui Caino prova a fare il Demiurgo, manipolando e sorvegliando Abele per mezzo secolo”281; in cui lo stato di guerra non si è mai interrotto per meglio controllare il popolo slavo. Il progetto filmico del regista bosniaco si avvicina molto alla definizione di carnevale data dal teorico russo Michail Bachtin: “una forma di spettacolo sincretistica” (che unifica e sintetizza componenti diverse ed eterogenee); “una forma molto, complessa e polimorfa”282, che usa un suo linguaggio particolare, insieme simbolico e concreto. Tra registri stilistici e codici linguistici diversi, il grottesco è sicuramente uno dei predominanti nella poetica kusturiciana. L’avvicinamento tra comico e drammatico, con l’utilizzo della parodia e dell’ironia, è proprio di quell’approccio che caratterizzò il teatro del primo Novecento e fu, indirettamente, oggetto del saggio di Pirandello sull’Umorismo (1908), con il concetto di “sentimento del contrario”, proprio dell’umorismo, che ci spinge a trovare nel comico il tragico, attraverso la riflessione. Umorismo e grottesco possiamo infatti considerarli sinonimi, non essendo al tempo di Pirandello ancora diffuso il termine “grottesco”283. Questa commistione stilistica, che contraddistigue tutto il testo filmico, è già percepibile nelle prime due sequenze. Il film, come sopra spiegato, si apre con tre didascalie (”C’era una volta un paese…Belgrado. 6 aprile 1941”) introducendo lo spettatore in un universo quasi fantastico, in cui ben presto la Storia si contaminerà con il Mito, la farsa con la tragedia. Scorrono i titoli 281 Ivi, cit., p.91. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968. 283 Cfr. G.Livio, Storia del Teatro e dello Spettacolo, Torino, Paravia, 1995. 282 283 di testa, il proemio inizia con un carrello a precedere su una banda zigana, la musica, una delle componenti diegetiche fondamentali del testo, diventa subito protagonista; nella seconda inquadratura, l’ombra su un muro di un calesse seguito dalla banda musicale, fornisce qualche informazione in più sulla situazione iniziale. A bordo del calesse ci sono due amici Marko Dren e Peter Popara detto “il Nero”, che festeggiano, allegri e ubriachi, l’ammissione di quest’ultimo al partito comunista. Fra banconote e bottiglie di brandy gettate in aria, risa isteriche i due tornano a casa. Il primo piano di Nero capovolto si alterna all’immagine della banda e del suo incedere obbligato dietro al calesse; partono colpi dalla pistola del Nero verso più punti, persino verso la fanfara. Entrano in una porta di Belgrado mentre la cinepresa li segue con un carrello laterale. Stacco di montaggio, un movimento di macchina sposta, sfruttando la trasparenza di una finestra, il punto di vista dall’esterno all’interno dove una radio diffonde il notiziario del mattino di “Radio Belgrado”. Il vivace corteo passa davanti allo zoo gestito da Ivan, il fratello zoppo e balbuziente di Marko, fino ad arrivare sotto la casa di Nero. La musica si interrompe, esce dall’abitazione Vera, la moglie di Nero, arrabbiata con il marito per l’ora tarda del suo ritorno, rimprovera Marko per aver iscritto Nero al partito. La banda procede al via di Marko che, dopo aver accompagnato l’amico, si dirige verso una piazzetta sempre al ritmo incessante di “Kalasnjikov” (brano composta da Goran Bregovic, autore delle musiche) suonato dalla fanfara zigana. Qui incontra una prostituta e scappa a casa con lei. Nel proemio avvertiamo già la compresenza di poli opposti: vita e morte, allegria e spasimo; e qualche primo segnale dell’interessante rapporto tra Storia e Mito. 284 La sequenza iniziale del primo atto, ispirata ad un fatto storico il bombardamento tedesco di Belgrado, il 7 aprile del 1941, è caratterizzata da una complessità formale, da un ben congegnato ritmo dell’intreccio narrativo e da un’articolata commistione di registri stilistici. Dopo la didascalia “La guerra”, troviamo Marko, nel suo boudoir, intento a calibrare l’angolazione dello specchio, un raccordo di sguardo lega l’immagine a quella della prostituta, conosciuta nella nottata, che si lava nella vasca da bagno, frammenti che sembrano tratti da un film di Fellini. E’ l’alba e Ivan, da buon guardiano dello zoo, seguito dalla macchina da presa con un carrello laterale (che sottolinea la complessiva dinamicità della messa in scena), sta incominciando a servire la colazione agli animali. Ma c’è qualcosa di strano nell’ambiente, tigri, orsi, uccelli e scimmie sembrano nervosi. Sono i primi avvertimenti che sta per succedere qualcosa di tragico. Anche Ivan è sempre più teso; attraverso un primo piano del giovane, con angolazione dal basso verso l’alto, si scorge, sopra il volto spaventato di Ivan, l’arrivo dei primi aerei dell’aviazione nazista. Lo zoo si trasforma presto in una giungla; immagini documentarie dei bombardamenti si alternano a quelle degli animali che scappano o vengono uccisi dalle bombe. Un’oca punzecchia una tigre che, provocata, l’azzanna; lo spettatore conosce i danni umani e le distruzioni di un attacco ad una città attraverso la morte di una scimmia: la mamma di Soni (la scimmietta che accompagnerà Ivan per tutto il film), a cui Ivan, disperato, chiude gli occhi tristi e insanguinati. La costruzione drammatica della prima parte della sequenza è stratificata: quella che sembrerebbe una mattina come le altre si rivela presto diversa e tragica, i primi sintomi arrivano dagli animali: dalla tigre in gabbia, dagli uccelli che volano come 285 impazziti nella voliera, dagli ululati che si propagano per lo zoo; l’avvertimento quindi è prima sonoro poi visivo (sia i comportamenti nervosi degli animali, sia il volto spaventato di Ivan). Ma il tono tragico dell’evento non dura molto. Marko, che avevamo lasciato in compagnia della prostituta incomincia ad eccitarsi solo all’arrivo dei bombardamenti, mentre lei vorrebbe scappare. Egualmente beffarda è la reazione di Nero che, seduto a tavola, continua a mangiare nonostante le deflagrazioni, si alza solo quando un elefante dello zoo che vaga per la città gli ruba le scarpe lasciate sul davanzale e quando il lampadario gli piomba nel piatto. Uscirà poi di casa per “andare a difendere il suo Paese dai criminali nazisti” o, meglio, come gli rimprovera la moglie a trovare l’amante, l’attrice Natalija. All’esterno vagano liberi gli animali dello zoo, Nero viene incluso otticamente in filmati di repertorio. In tutta la sequenza due dimensioni si intrecciano: da un lato, ci sono la violenza e la brutalità del reale (le bombe che cadono dal cielo, le case distrutte, gli animali agonizzanti), dall’altro l’ironia e il gioco della surreale invasione degli animali nella città. E’ una sorta di carta d’identità dell’opera, con la sua particolare commistione di registri stilistici diversi. Troviamo, infatti, immagini documentarie (gli Heinkel 111 che sganciano il loro carico di morte su Belgrado) e immagini di finzione, commedia (Vera che accusa Nero di tradirla) e dramma (Ivan in lacrime per la morte degli animali), sesso (Marko con la prostituta) e slapstick (il Nero che taglia il filo elettrico con i denti)284. L’apice del tono luttuoso, ma anche farsesco viene raggiunto nelle ultime scene; nella replica mitizzata del matrimonio di 284 Cfr. G.Alonge, Lo schermo bugiardo. Intorno alla rappresentazione della Storia in Underground, in AA.VV. Emir Kusturica, “Garage” n.14, Torino, Paravia /Scriptorium, 1999, p.132. 286 Jovan all’aperto, ai bordi del Danubio dove si realizza l’eterno ritorno della Storia. A un pubblico occidentale, Underground mostra innanzitutto la propria diversità culturale: un paganesimo beffardo delle azioni e dei sentimenti ritmato per tre ore dalle cadenze dionisiache della musica zigana. Molti personaggi, riprendendo Serge Grünberg285, presentano una psicologia etologica, come se fossero mossi unicamente da istinti e passioni. Questa caratteristica, il trasporto emotivo (stereotipicamente montenegrino) è propria di Nero e segna la principale differenza tra il suo personaggio e quello di Marko, cinico e manipolatore. Nero ha un approccio fideistico all’ideologia marxista, l’ideologia diventa religione primitiva riassumibile nel motto, più volte scandito da Petar Popara, “Porci fascisti figli di troia”; di fronte alla doppiezza dell’amico, ha la scusante di un’animalità incontrollata. Marko incarna quella generazione di dirigenti politici jugoslavi, antitetici all’idea di democrazia. Il rapporto tra Nero e Marko, straordinariamente interpretati da Miki Manojlovic e Lazar Ristovski, è stretto e dipendente: Nero è il signore del sottosuolo, ma su di lui regna l’amico crudele. Entrambi necessitano l’uno dell’altro, per mantenere viva la loro autorità286. Nei due personaggi vivono le due anime dell’emotività balcanica, quella truffata e quella imbrogliona. Marko, non è solo l’orribile tiranno che tiene in pugno il sotterraneo, è anche un grande seduttore, con alcuni tratti goffi ed esilaranti. Nero, il peggiore dei genitori possibili, è reso grande e innocente dai suoi tre amori disperati, perduti: la Jugoslavia, la bella Natalija e il figlio Jovan. 285 286 E. Kusuturica, S. Grünberg, op.cit. Cfr. il testo di G. Bertellini, op cit., p.97. 287 Natalija, amante e fonte di litigio furibondo tra i due amici, è un personaggio meno definibile: assomiglia forse al potere, nelle sue finzioni codificate (fa l’attrice teatrale sotto qualsiasi regime politico), nei rimandi sovietici (declama in russo durante il banchetto matrimoniale), nella sua ambiguità complessiva dai risvolti perversi (giochi erotici sadomasochistici con Marko), caparbi e imprevedibili. Ivan è l’unico personaggio in un certo senso positivo, incarna l’idiota dostoevskijano. Non compie gesti eroici, tenta più volte il suicidio, rimane onesto e umanamente vulnerabile. La sua esistenza va di pari passo con quella della scimmia Soni; subisce per decenni le angherie e gli inganni del fratello Marko, che alla fine del film uccide a bastonate nel tragico episodio ispirato alla guerra recente. Nel surreale finale sull’isola, Ivan, guarito dalla balbuzie e dalla zoppìa, pronuncia le parole di speranza su cui si chiude il film ma non la storia: “In questo posto abbiamo costruito nuove case con i tetti rossi, e dei comignoli su cui faranno il nido le cicogne, con le porte sempre aperte agli ospiti, e saremo grati alla nuova terra che ci nutre, e al sole che ci riscalda, e ai campi fioriti che ci ricordano cilim (tappeti, nda) colorati della nostra patria. Con dolore, con tristezza e con gioia ricorderemo la nostra terra, quando racconteremo ai nostri figli storie che cominciano come fiabe: c’era una volta un paese…”. Underground si sviluppa su un tessuto intertestuale ricco di riferimenti e citazioni, che abbraccia arti e media, cultura alta e popolare. Il sotterraneo dove Marko rinchiude le persone evoca illustri precedenti letterari, Dostoevskij (Le memorie del sottosuolo) e Kafka (La tana), e cinematografici, Metropolis (1926) di Fritz Lang, citato esplicitamente nel vecchio che sposta le lancette dell’orologio, anche se il finale conciliatorio proposto da Thea von Harbou, moglie di Lang, non appartiene al bagaglio 288 “filosofico” di Kusturica. La costruzione del “sotterraneo”, come elemento metaforico cardine, richiama anche – come ha scritto Slavoj Zizek287 - il vecchio tema fiabesco dei nani diligenti (in genere controllati da un mago malvagio), che di notte quando la gente dorme riemergono dal loro nascondiglio ed eseguono i propri compiti, come per esempio rimettere in ordine le case delle persone o preparare da mangiare, così la gente troverà il lavoro magicamente già fatto al risveglio. Marko è in un certo senso il “padrone”, il grande manipolatore di coloro che sono rinchiusi nella cantina di suo nonno, resi schiavi ed isolati dal mondo per produrre armi. Lui è l’unico mediatore tra il sotterraneo e il mondo pubblico. Il “sotterraneo” di Kusturica è l’ultima incarnazione di questo tema fiabesco che si tramanda fino a noi a partire da L’oro del Reno di Richard Wagner (i Nibelunghi che lavorano nelle miniere sotterranee guidate dal loro crudele signore, il nano Alberich) fino a Metropolis di Fritz Lang, dove gli operai schiavizzati vivono e lavorano nelle profondità, sotto la superficie della terra. Troviamo nel testo filmico altri rimandi cinematografici, per esempio a Vigo di L’Atalante (nelle sequenze subacquee, come in quella dell’incontro nelle acque del Danubio tra Jovan e la giovane moglie), regista a cui Kusturica si sente particolarmente vicino. Scorriamo nelle immagini del film, la sensibilità e lo stile felliniano nell’ambientazione surreal-popolare, i riferimenti a Tarkovskij nell’uso dell’acqua e del fuoco o del cavallo bianco e del volo delle oche ad enfatizzare il culmine della tragedia, e a Chaplin nel Marko che corre. Collegamenti intertestuali più sottili sono invece a Werner Herzog per Ballata di Stroszek (1977): la carrozzella in fiamme che gira intorno al Cristo capovolto ricorda il finale dell’opera di Herzog; alla concezione d’arte totale di 287 S.Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma, 2004, p.94. 289 Luchino Visconti, Gesamtkunstwerk; e, come ci fa notare il critico Paolo Vecchi, due similitudini interessanti, con il Lubitsch di Vogliamo Vivere (1942), per la commedia applicata ad un tema serio e con il Kubrick del Dottor Stranamore (1964) “per il piglio rabelaisiano con cui affronta la tragedia”288. Ai soggetti della pittura di Chagal (in particolare le spose) Kusturica si avvicina nella sequenza del matrimonio di Jovan, quando la sposa Jelena entra in scena sospesa in aria, “volante”. Nella sequenza del bombardamento dello zoo le figurazioni simboliche di Hyeronimus Bosch paiono intrecciarsi con la limpidezza dello sguardo di un documentarista come Humphrey Jennings, e in particolare con The Eighty Days del 1944 sui bombardamenti tedeschi, dove il regista inglese arriva all’autonomia dell’immagine dalle parole, unico elemento sonoro che si concede sono i rumori d’ambiente. Come già accennato, sono numerose anche le citazioni letterarie, oltre a Dostoevskij e Kafka, La macchina del tempo di Herbert G. Wells, uno dei capolavori della letteratura di fantascienza scritto nel 1895 dove i Morlock, una delle due strane popolazioni che abitano il mondo del futuro, allevano e ghermiscono gli aggraziati e flebili Eloi, divorandoli. E se Jovan assomiglia molto al Ciaula pirandelliano (Novelle per un anno - 1922), tutta la situazione richiama il Mito della caverna, che introduce il settimo libro della Repubblica di Platone. Si è anche scritto che fa pensare a Alice nel paese delle meraviglie, riscritto da Kafka con Bosch, come scenografo, e Francis Bacon, direttore della fotografia; altri rimandi pertinenti sono al realismo fantastico della narrativa latino-americana, come nei romanzi di Garcìa Marquez. Kusturica, in un incontro pubblico coordinato dal critico cinematografico Tullio Masoni, svoltosi il 6 febbraio 1999, al 288 P.Vecchi, Emir Kusturica, cit., p.96. 290 teatro Valli di Reggio Emilia, ha spiegato: “L’obiettivo più significativo che ho raggiunto nelle mie opere è il gioco che intrattengo con una sorta di realismo magico, però partendo sempre dal neorealismo”289. Molto deve all’opera e al pensiero di Ivo Andrić (1892-1975), autore bosniaco di fama mondiale (premio Nobel per la letteratura nel 1961) a cui Kusturica si lega per l’ampia struttura narrativa, per la coralità dell’impianto, per i richiami all’epica e per una concezione dell’esistenza con profonde radici pagane290. Il complesso sottotesto di Underground è composto anche da uno stretto rapporto intermediale: l’uso dei cinegiornali, di materiale d’epoca e la voce della radio, da dove venne diffusa quasi per caso il 18 agosto 1941, Lili Marleen che nel film viene proposta in diversi momenti. Il brano Lili Marleen, musicato da Norbert Shultze nel 1937, fu un fenomeno non solo musicale, ma anche un simbolo della fragile vita del soldato, che segnò profondamente il corso della seconda guerra mondiale. Trasmessa da Radio Belgrado, la stazione radiofonica messa in piedi dai nazisti nella Jugoslavia occupata, fece il giro del mondo e venne tradotta in quasi tutte le lingue dei paesi in guerra. Il testo pieno di nostalgia, che era stato scritto dal poeta Hans Leip nel 1915, mentre era in procinto di partire per il fronte dei Carpazi (prima guerra mondiale), aveva infastidito Goebbels, il ministro nazista della propaganda. 289 “Incontro con il regista” (a cura di Sandra Campanini) in AA.VV., Emir Kusturica, Garage n.14, Torino, Paravia /Scriptorium, 1999, p.21. 290 I due artisti sono uniti dalla considerazione degli “elementi primordiali di acqua e fuoco, dalla rapsodia (o dalla sarabanda) come struttura portante della narrazione, dall’imponenza della visione storica, dalle motivazioni etologiche prima che psicologiche nel comportamento dei singoli personaggi, da un (ir)realismo in cui sono frequenti le intrusioni del magico accettate come parte integrante del quotidiano”. P.Vecchi, Emir Kusturica, cit., p.9. 291 Lo riteneva inadatto a mantenere alto il morale della popolazione tedesca e delle truppe al fronte. Malinconica, poco marziale, la canzone mal si sposava con le volontà belliche del Terzo Reich. La versione diffusa da Radio Belgrado era quella registrata l'anno precedente in Germania dalla canzonettista Lale Andersen e accolta con freddezza dal pubblico tedesco. Proprio il boicottaggio nazista diventò la fortuna del brano. Il destino delle scorte invendute della produzione discografica tedesca era, infatti, quello di alimentare le emittenti radiofoniche degli stati occupati dai nazisti o di arricchire i pacchi dono per gli ufficiali impegnati al fronte. Lili Marlene, insieme ad altri dischi invenduti in Germania, era così finita a Radio Belgrado, una delle più potenti stazioni radiofoniche dell'epoca, per questo motivo caratterizza le scene principali del film Underground. La voce di Lale Andersen arrivò così ovunque, conquistando il cuore dei soldati di tutte le bandiere, che passarono gli anni della loro giovinezza tra violenze e stenti. Ritornando al carattere intermediale del testo filmico, il complesso degli elementi-media utilizzati sfugge alla semplice esigenza di contestualizzazione. Ci troviamo di fronte alla manipolazione del reale che il regime applica e Kusturica ripropone in chiave metalinguistica, quando per esempio i personaggi, attraverso ad una particolare strategia dello spiazzamento, “entrano” letteralmente negli spezzoni, con un procedimento che chiama in causa Forrest Gump di Robert Zemeckis, uscito in sala l’anno precedente ad Underground. Nella sequenza dei funerali di Tito (costruita interamente con filmati di repertorio) è ancora più incisiva, su un piano di riflessione storico-politica, la “manipolazione” effettuata da Kusturica. 292 Se, forse, in parte può richiamare Uccellacci e uccellini di Pasolini (1966) e Sovversivi (1967) dei fratelli Taviani, dove venivano utilizzate le immagini dei funerali di Palmiro Togliatti, Underground si distanzia, attraverso la colonna sonora, dalla ritualità di un passaggio epocale, come quello rappresentato dai tre autori italiani. In Kusturica Lili Marleen, che aveva accompagnato l’ingresso delle truppe tedesche nei Balcani, fa da sottofondo irriverente ai funerali del presidente jugoslavo, portando in analogia i regimi totalitari del Novecento e il loro carattere manipolatorio nei confronti della realtà. Fenomeno e processo manipolativo messo alla berlina da Kusturica e al contempo esaltato ironicamente nel film, come analizzato negli esempi citati o in altri “raddoppi della finzione”, come le intrusioni di Nero nel set a lui dedicato (intitolato La primavera arriva su un cavallo bianco) dove viene sbeffeggiato con tono parodistico il regista di regime Veljko Bulajic e il suo “verismo” ipocrita. La menzogna diventata realtà storica (di cui Marko è uno dei massimi artefici) viene scambiata per tale da Nero, rinchiuso per decenni nel sotterraneo e appena ricomparso in superficie, che uccide l’attore che fa la parte di Franz. In Underground, oltre a riferimenti e citazioni, più o meno espliciti, c’è anche lo stesso Kusturica che parla dei suoi film passati: nei pesci freccia, nelle ossessioni ipnotiche del socialismo e in quelle autoipnotiche della solitudine e della diversità, nei bianchi veli nuziali, nei tentativi di autoimpiccagione di Ivan che ricordano quelli di Ankitza (Papà è in viaggio d’affari), Pehran (Il tempo dei gitani) e Grace (Arizona Dream). Nel film, non casualmente, compaiono alcuni attori fondamentali della filmografia del regista bosniaco, partendo da Predrag Miki Manojlović (Marko), che già avevamo visto in Papà è in viaggio 293 d’affari e rivedremo in Gatto nero gatto bianco; e poi troviamo Slavko Štimac, che interpreta Ivan, già Dino in Ti ricordi di Dolly Bell?; Mirjana Karanović (Vera), Sena in Papà è in viaggio d’affari; Bora Torodović, Golub il capobanda, che nel Tempo dei gitani incarnava Ahmed Dzida; Davor Dujmović (Bata, il fratello paralitico di Natalija), Perhan protagonista del Tempo dei gitani. Sul finire entra in scena lo stesso Kusturica, con il cameo del contrabbandiere d’armi e droga che rimprovera a Marko di non capire più il linguaggio slavo della guerra, per essere stato troppo a lungo all’estero (riferimento autobiografico). Il discorso storico già retroscena delle esperienze individuali in Ti ricordi di Dolly Bell? (1981) e Papà è in viaggio d’affari (1985) viene qui perfezionato. Il cinema di Kusturica abbandona quell’equilibrio tra commedia e dramma tipico del Tempo dei gitani, o meglio trascende l’esperienza precedente, verso un epos straniante, non canonico, ironico e kusturiciano. L’autore affronta di petto il genere grottesco ed esaspera il cinema provocatorio di altri registi dell’ex-Jugoslavia, da Jakubisko a Dusan Makaveiev. Il suo stile è riconoscibile, basta pensare all’incipit di Il tempo dei gitani (1989), per ritrovarvi il nucleo espressivo di Underground. Kusturica è riuscito a rimanere se stesso, come nota Ermanno Comuzio su Cineforum, nonostante “un’operazione colossale e cosmopolita, formula che di solito partorisce creature più deformi che portentose”291. In tutta la filmografia di Kusturica, disseminata di sogni e sognatori, la dimensione onirica va di pari passo con la vita attiva e la veglia dei personaggi. Realtà e sogno sono contigui e spesso si contaminano nello spazio filmico, in modo difficilmente districabile. 291 Comuzio E., Underground, “Cineforum”, n.351, gennaio/febbraio 1996. 294 Il sogno, come ha detto Kusturica, “veste la vita”292. I suoi personaggi sembrano vivere in un mondo sospeso, galleggiando tra i confini labili e indistinguibili tra ciò che realmente è sogno e ciò che non è, come il re Prospero de La tempesta di Shakespeare. E come abbiamo accennato prima, rimanda ai personaggi della pittura di Chagall, avvolti in una atmosfera onirica. I due artisti, il regista di Sarajevo e il pittore ebreo di Vitebsk, condividono l’affinità e l’attenzione al mondo popolare, “semplice e persino infantile nelle sue espressioni, un mondo in cui la componente etnica è molto forte, e da cui l’artista si sente sradicato fisicamente, ma a cui è saldamente ancorato attraverso il ricordo e la memoria”293. Costruiscono i loro sogni portando negli occhi e nel cuore le immagini e i colori della loro terra, una terra ancora una volta sognata e non pienamente vissuta. La messa in scena di Kusturica prende forma in uno spettacolo “surrealpopolare”294 in cui gli esseri umani, gli animali, le feste e il cielo convivono vivacemente. Uomini e animali condividono la sfera onirica e la realtà, vivono quasi in simbiosi; il rapporto più stretto è quello tra Ivan e i suoi animali, tra cui Soni la scimmia. Nello zoo patiscono l’odio umano, morendo tragicamente sotto le bombe e sono allegoria della condizione umana, imprigionata dalla guerra. Gli animali sono testimoni muti del degrado e del disordine esistenziale in cui vivono i personaggi; simboleggiano l’alternarsi tra vita e morte, un elemento della poetica di Kusturica. 292 “Il sogno è ciò che preserva la vita. Si possono cercare delle spiegazioni storiche, sociologiche, psicologiche alle questioni fondamentali dell’uomo, non si troveranno mai delle risposte definitive. Perché non esistono risposte definitive. Siamo spinti a razionalizzare ogni cosa, ma sono i sogni che vestono le nostre vite”. Afferma Emir Kusturica nel Castoro, a lui dedicato, di Giorgio Bertellini. 293 Con queste parole Mariolina Diana descrive un parallelo tra i due artisti in Uno spettacolo surrealpopolare, saggio raccolto in AA.VV., Emir Kusturica, cit., p.57. 294 Ibidem 295 Anche il volo, in cielo o in acqua, è sempre presente nei suoi film. Il volo è spesso una continuazione della vita. La morte viene vissuta non come fine, ma come cambiamento; spiccare il volo significa lasciare la pesantezza terrena per acquistare una diversa e liberatoria leggerezza. Nella pellicola il volo dei personaggi avviene in acqua. La sposa di Jovan, defunta, nuota e sembra rivivere, in cammino verso un'altra dimensione, verso un’isola felice. Come Jean Vigo in L’Atalante (1934), l’autore bosniaco mette la sua sposa in acqua per dar forma al suo sogno e alla sua utopia: un amore felice e sereno, lontano dai conflitti e dall’asperità dell’esistenza quotidiana. La levitazione è una concezione di cinema per Kusturica: “Il cinema deve sollevarci, strapparci alla pesantezza della Terra”. E aggiunge: “la levitazione è una bella metafora della spiritualità, dell’arte e del modo in cui bisogna trattare il proprio pubblico”295. I quadri di Chagall e un film come Andrei Rublev (1966) di Tarkovskij, per prendere in considerazione due riferimenti cardine dell’arte di Kusturica, sono pieni di voli. Il volo viene infatti considerato una delle metafore più frequenti nella cultura russa. Accanto alle nozze e ai voli ci compaiono frequentemente feste, spettacoli popolari e banchetti nuziali. Nel banchetto allestito nel sotterraneo per celebrare le nozze di Jovan, l’atmosfera festosa, nel momento in cui le verità recondite vengono svelate, diventa concitata e drammatica. Al contrario nel festa finale sull’isola, che si stacca dalla terra, i personaggi, che si trovavano nella realtà impegnati in guerre fratricide e odi personali, festeggiano gioiosamente la pace (apparente) raggiunta. Sono frequenti nel cinema di Kusturica inquadrature stracolme di oggetti e di personaggi, in una messa in scena che si basa 295 G. Bertellini, op.cit., p.17. 296 spesso su un principio di accumulazione, disordinato e tipico del popolo gitano, soprattutto nei riti e nelle cerimonie dal carattere surreale. In Underground moltiplica i centri di interesse nel quadro filmico, come già facevano in pittura Bruguel e Bosch o altri esponenti riempimento della dello pittura spazio si naive. In alcuni contrappone la momenti al desolazione ambientale, come nell’ultima parte del film, dove i personaggi si ritrovano all’inizio degli anni novanta in uno spazio distrutto dalla guerra in corso, in un’atmosfera tragica e funebre. Underground è anche l’ultimo film di Kusturica in collaborazione con il musicista e compositore Goran Bregović, e seppur nelle varie vicissitudini e incomprensioni, segna uno dei momenti più alti del loro sodalizio. Goran Bregović, bosniaco figlio di padre croato e madre serba (un vero jugoslavo, potremmo dire), nasce a Sarajevo nel 1950, quattro anni prima di Kusturica. I due autori appartengono, dunque, alla stessa generazione e provengono dallo stesso ambiente culturale; la loro collaborazione occupa un posto di primo piano nella carriera di Kusturica e riguarda tre film: il Tempo dei gitani (1989), Arizona Dream (1993) e Underground (1995). Sono tre opere che hanno avuto un ottimo successo internazionale, di critica e di pubblico, e oltre alle affinità artistiche tra Kusturica e Bregovic e la passione per il rock, sono importanti per la ricerca sviluppata nel rapporto tra immagini e musica. Bregović abbandona giovanissimo il conservatorio “liberando” la sua spiccata sensibilità rock, con i “Bejelo Dugme” (Bottone bianco) diventerà, nel periodo tardo comunista (dalla metà degli anni Settanta in poi) la più grande rock star jugoslava, infondendo nelle giovani generazioni uno stile di vita alternativo. L’incontro con Kusturica avverrà durante la metà degli anni 297 Ottanta, anche se si erano già conosciuti in età giovanile quando Emir suonava il basso in un gruppo punk. Da quel momento Bregović si occupò di musiche da film, da autodidatta ma curioso come sempre in pochi anni divenne uno dei più apprezzati e originali autori di colonne sonore. Il suo stile è ormai un tratto caratteristico della musica e del cinema balcanici, una miscela di rock, musica classica, folk balcanico, musica religiosa e cultura gitana. L’originalità di Bregovic è quella di aver saputo attualizzare e modernizzare la musica balcanica, portandola al successo internazionale attraverso la trilogia cinematografica con Kusturica. Ma veniamo ad Underground, Bregović si è affidato nella registrazione delle musiche zigane a due orchestre la “Slobadan Salijević Orchestra” (l’orchestra gitana che segue ovunque i protagonisti) e la “Boban Marković Orchestra” (quella che suona nel caffè-biliardo, ritrovo della mala). Si tratta di musica diegetica, che entra nel racconto, non solo musicalmente, come quando il capobanda spara all’impazzata all’arrivo sul battello dei tedeschi e uccide uno dei suoi. Le musiche della fanfara zigana, sono tra le protagoniste indiscusse del film. Si tratta di frenetici balli tradizionali della regione del Cocek, polke e tanghi dai precisi ritmi asimettrici, che hanno stretti legami con la cultura orientale e sono considerate le danze per eccellenza dei gitani296. La musica prende vita nelle emozioni dei personaggi, nessuno la può fermare, come lo scorrere degli eventi e l’incedere del carro iniziale con Marko e Nero, inseguiti dalla fanfara che suona il brano Kalasnjkov, una marcetta velocissima e ossessiva composta da Bregovic, ripetuta diverse volte nel film; “proviene da un tema ungherese per tromba sul quale ho inventato la 296 Cfr. D. De Gaetano, La musica per matrimoni e funerali di Goran Bregovic” in AA.VV., Emir Kusturica, cit., pp.67-73. 298 melodia della strofa e del ritornello e un testo ironico sull’uso delle armi”297 afferma il compositore. Come sopra riportato, nella scena del battello, dove si celebra il matrimonio di Natalija e Nero, la musica ha un ruolo di primo piano, non ci sono invitati oltre ai musicisti che suonano ininterrottamente per quasi venti minuti. La “Slobadan Salijevic Orchestra” esegue Mesecina, di cui lo stesso Kusturica ha scritto il testo, danza di riconciliazione e simbolo dell’amicizia tra Nero, Marko e Natalija. All’interno della cabina ubriachi e felici, i tre si abbracciano e cantano di un mondo capovolto (“la luna a mezzogiorno” e “il sole a mezzanotte”), mentre dagli oblò si vedono i musicisti suonare a testa in giù. Ma la felicità è solo illusoria e viene sorpresa dalla catastrofe: la barca viene circondata dai tedeschi, Natalija fugge e Nero viene arrestato. Mesecina viene riproposta nella sequenza del matrimonio di Jovan, quando i tre amici, Nero, Natalija e Marko, si ritrovano abbracciati a cantare (il regista ricompone la stessa inquadratura della scena del battello). La fanfara, oltre a rincorrere i due protagonisti nel corso del film, è intimamente legata alla comunità reclusa nel sottosuolo; l’orchestra segue, infatti, gli abitanti fin sotto terra diventando fonte di intrattenimento ed essenza della tradizione slava. In superficie, dove il tempo scorre più veloce, all’insaputa della comunità che vive nello scantinato del nonno di Marko, l’unica musica possibile proviene dai giradischi e dalla radio e quando tutti escono dal sotterraneo e si immergono nei rumori frastornanti del quotidiano e della guerra la fanfara smette di suonare. “In una terra così devastata, ha ancora senso – si chiede Domenico De Gaetano, autore di un saggio sulla relazione tra la musica di Bregović e i film di Kusturica – una musica che è 297 Ibidem 299 paziente fusione di secoli di stili e culture diverse?”298. Solo nell’epilogo surreale del film i musicisti tornano a suonare, sull’isola al matrimonio di Jovan. Underground segna la fine del sodalizio artistico tra i due autori bosniaci, anche a causa di una polemica sulla reale titolarità della colonna sonora del lungometraggio. Kusturica ha insistito che la colonna sonora è stata composta da brani di musica tradizionale, selezionati da lui e da Dusa Kovacevic, e arrangiati da Bregović; mentre il musicista ha ribadito più volte la propria autonomia di compositore, anche quando ha riscritto o orchestrato brani tradizionali. 2 R ECONSTRUCTION : C INEMA E S TORIA IN U NDER GROUND Nel corso della sua carriera artistica Kusturica quasi non muta il suo rapporto viscerale con il senso e la forza dell’immagine cinematografica. Non l’ha mai intesa come fedele e naturale rappresentazione della realtà, “ma come ironica, invettiva talvolta, amara esplorazione di scontri storico-culturali”299. Anche in Underground mantiene lo stesso approccio poetico alla materia, che qui è rappresentata dalla Storia sul grande schermo. Riprendendo le teorie di Marc Ferro, storico degli Annales, in “Cinéma et Histoire”, che analizzano le diverse tipologia di scrittura filmica della storia (considerando il cinema come uno 298 299 Ibidem G.Bertellini, op. cit., p. 102. 300 dei perni del sistema di rappresentazioni del mondo), possiamo ricondurre Underground alla categoria di reconstruction, ovvero la rielaborazione creativa magari scorretta della realtà dei fatti, capace di elaborare un discorso penetrante degli stessi. Diversa dalla reconstruction è la reconstitution, la semplice rievocazione filologicamente corretta di un avvenimento storico, ciò che soddisfarebbe una qualunque critica positivista, “ma – sottolinea Ferro – sarebbe un sacrilegio proporre tale critica di un’opera d’arte”300. Osservando come la finzione cinematografica e romanzesca siano modi di far storia, Ferro sostiene che in tale approccio sia “relativamente più facile esprimersi senza falsificare, tuttavia trascrivendo la storia attraverso la narrazione, il cineasta procede allo stesso modo di altri romanzieri dello scritto, non del cinema. La parte specificatamente filmica dell’approccio storico resta sempre la stessa, poiché la trama del racconto filmico, la diegesi, è sempre non filmica”301. L’analisi di Ferro permette di affrontare con maggiore cognizione di causa il tema della rappresentazione della Storia in Underground. “Il film di Kusturica – sostiene Giaime Alonge in un saggio su tale argomento – si presenta come un testo complesso e composito, che oscilla tra Storia e Mito, tra dramma e fiaba, un testo che mette in scena la Storia e che al contempo ragiona sulle modalità di questa messinscena” 302. Il regista bosniaco nel raccontare cinquant’anni di storia jugoslava ha scelto una rappresentazione metaforica, grottesca, mitica, dai tratti a volte pantagruelici e fiabeschi, rifiutando la 300 M. Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980. Cfr. M. Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 159. 302 Cfr. G. Alonge, Lo schermo bugiardo. Intorno alla rappresentazione della Storia in Underground, cit., p.131. 301 301 mimesi del reale, rielaborando la storia, secondo l’idea di reconstruction, quasi come se fosse una favola. Nel sotterraneo, dai richiami platonici (la caverna della Repubblica), la Storia si sviluppa davanti agli occhi dei reclusi in modo menzognero. Come nella Jugoslavia di Tito, coloro che vivono sotto terra, sono immersi in un mondo apparente e falso, che nel film viene creato, o meglio messo in scena, da Marko, il demiurgo malvagio e regista della finzione creata nella cantina del nonno. Addirittura per convincerli che la guerra con i nazisti sia ancora in corso diffonde nei locali del sotterraneo una colonna sonora che raccoglie la voce di Hitler, Lili Marleen e rumori “classici” della guerra, come la sirena della difesa anti-aerea. Il discorso qui si fa metacinematografico, denunciando come il cinema sia stato il maggior strumento della propaganda dei regimi del Novecento. Se il progetto di Marko, all’atto pratico, richiama intellettualmente la messa in scena cinematografica (audiovisiva), nella sequenza della lavorazione del film il riferimento diventa, invece, esplicito. Un film di regime sul cui set piombano Marko e Jovan riemersi dal sotterraneo, un’opera che cerca apparentemente la mimesi ma non fa altro che ampliare la falsificazione ideologica del regime comunista. Kusturica sottolinea falsificazione della simulazione”303. “la verità centralità attraverso della la questione duplicazione della e la Nel film sulle gesta di Nero, che si struttura come una parodia delle opere cinematografiche “naturalistiche” del regime titoista, gli attori che interpretano i personaggi della resistenza slava sono identici a quelli reali, ma la diegesi è completamente diversa dal reale svolgimento dei fatti. Anche Marko rimane in dubbio sulla somiglianza degli attori e a proposito dell’ufficiale nazista Franz, chiede: “Lui è il vero Franz 303 Ivi, cit. pp. 132-133. 302 o soltanto un attore?”. Il cinema perciò non si limita a registrare la Storia, ma ne è parte attiva, contribuendo alla sua falsificazione. Un altro esempio di lettura metacinematografica lo troviamo in una delle discese nel sotterraneo di Marko, mentre i reclusi sono impegnati a guardare un cinegiornale, credendo che la guerra non sia ancora finita. In tale caso, spiega Giaime Alonge, sono il montaggio (elemento cardine del linguaggio cinematografico) e il commento “over” a ordinare le immagini del ripiegamento dell’esercito russo di fronte all’avanzata tedesca, fornendo loro un senso. Marko, il “metteur en scène” ossessionato dal controllo sugli altri, si presenta come l’archetipo dell’intellettuale di un regime totalitario del Novecento; anche la componente sadomasochistica della sessualità di Marko, nei rapporti con Natalija, accentua la descrizione del personaggio, caratterizzato da un’intrinseca violenza. Nella sequenza del bombardamento di Belgrado Marko è a letto con una prostituta, ma si eccita solo all’arrivo dell’aviazione nazista. Con l’inserimento dei protagonisti, nelle sequenze di cinegiornali e di repertorio e in espliciti errori di montaggio, Kusturica svela ulteriormente la manipolazione attraverso il più importante mezzo di comunicazione di massa del novecento, appunto il cinema. Le sovrimpressioni ottiche di immagini sono chiaramente artificiali: Marko, Natalija e Nero sono “veri” nell’universo diegetico del film, ma allo stesso, entrando nelle “immagini storiche”, mettono in evidenza la loro natura di trucco. La grammatica cinematografica viene ignorata, per evidenziarne la falsità, quando Marko e Natalija ballano accanto a Tito: il movimento della coppia da sinistra a destra è ripetuto due volte. 303 Come fece l’“Onda Nera”, l’avanguardia cinematografica dei primi anni sessanta guidata da Makavejev, Pavlovic e Djordevic, che sviluppò un movimento antidogmatico di rappresentazione del reale, in contrapposizione propagandistico del al cinema realismo precedente, ideologico anche e Kusturica sottolinea come il cinema, anche quello del vero, è sempre una rielaborazione di un dato fenomenico: Cultura anziché Natura. Nell’analisi del film, sottolineando il carattere intermediale di Underground, si segnala la sequenza dei funerali di Tito. In questo particolare passo si fa accesa, e anche a tratti beffarda, la riflessione storico-critica di Kusturica sul passato jugoslavo. La strategia dello spiazzamento, che l’autore rende propria quando i personaggi entrano nelle sequenze di repertorio, raggiunge l’acme emotivo in questa scena; i funerali del presidente della Repubblica federativa di Jugoslavia sono accompagnati da un sonoro extradiegetico: la stessa Lili Marleen che ha illustrato l’avanzata delle truppe tedesche lungo la penisola balcanica. Le due sequenze del film, seppur di contenuto diverso, hanno una costruzione stilistica simile: rappresentano un viaggio e soprattutto hanno lo stesso motivo musicale. Kusturica cercando e creando, attraverso un’analogia tra le un’operazione formale e linguistica, due sequenze pone in uguaglianza i totalitarismi del Novecento, nonostante le nette differenze ideologiche. manipolatorie Allo del stesso tempo montaggio mostra audiovisivo le che potenzialità determina il significato delle immagini. Un parallelo è d’obbligo con una celebre sequenza del cinema italiano i cui significati però sono antitetici a quella di Kusturica. In Uccellacci Uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini le immagini documentarie dei funerali di Togliatti sono un omaggio commosso al movimento operaio italiano e al partito comunista 304 italiano, il più grande dell’occidente e nel suo corso storico anche il più indipendente dall’Unione Sovietica. Le scene di repertorio del funerale di Tito, nel maggio del 1980, in Underground sono cariche di un’ironia graffiante, fin dalla didascalia iniziale che afferma “Con la misteriosa scomparsa di Marko Dren, sembra svanire anche la formula segreta della Jugoslavia di Tito. Lo stesso Tito, addolorato per la scomparsa dell’amico, si ammala gravemente e venti anni più tardi muore”. La commistione tra realtà e fiction è spiazzante, opposta a qualsiasi approccio mimetico del reale, anzi come spesso si è ribadito sceglie una via personale e metaforica, un’interpretazione e riflessione sulla storia, non storicistica ma estetica. Racconta Kusturica: “Questa storia è nata nella mia sofferenza personale. Sono stato una vittima del comunismo, e so che le uniche cose buone che c’erano nel comunismo erano i suoi stessi sbagli. I quali furono numerosi: dal calcio al cinema. Convivendo con questi errori, sono stato ingannato perché non ho compreso l’evoluzione della Storia. Una Storia senza logica, perché non c’è nessuna logica nel fatto che un Paese si distrugga quando l’Europa marcia verso l’integrazione. Stampati sulla mia pelle ho i segni di questo film che ormai incarna la mia integrità. Io stesso sono stato vittima della propaganda. […] Durante le riprese ho perso il padre e la mia casa di Sarajevo è stata distrutta. […] Tutto ciò mi ha molto segnato, e questo fu un peso troppo grave per le mie spalle. Ma gli slavi, me compreso, hanno la capacità di rispondere alla sofferenza con un’energia inattesa. Ho spesso anche pensato che la via più facile non è sempre quella da prendere. E’ per questo che i miei film sono quello che sono. Non si inseriscono come Forrest Gump, nella storia dell’edonismo. Se avessi voluto essere più popolare avrei potuto sventolare la bandiera della nuova Bosnia. Ho preferito, invece, seguire una 305 via mia, personale. Ed è per questo che non posso tornare nel mio Paese, dove sono considerato un nemico”304. Durante la primitivismo guerre Jugoslave, poetico” di Emir tra il 1991 Kusturica, e il 1999, sostiene “il Giorgio Bertellini, si è fatto “osceno”. Il regista di Sarajevo ha messo a fuoco alcune inedite articolazioni tra figura e sfondo, ovvero il rapporto controverso di alcuni personaggi con la Storia che cambia. “Kusturica è ossessionato dalle situazioni di (dis)adattamento, personale o etnico, in cui un personaggio, fisicamente o generazionalmente in transito, è opposto ad un contesto sociale e culturale estraneo, ostile e mistificante”305. La vera “attrazione” sono i personaggi e gli animali, ecco il perché della quasi totale assenza di effetti speciali. Nel grottesco kusturiciano, i protagonisti animano un’etnia pagana e “premoderna”, costituita da cerimonie e riti collettivi come matrimoni e banchetti, ossessionata dal valore di realtà dei sogni e dal contatto diretto con la morte, cercata nei vari tentativi di suicidio (Ivan in Underground), ricca di emozioni opposte e comicità diffusa. Far volare spose per aria o sott’acqua non è solo una pagana passione cinefila, “è anche un discorso sull’uomo, sul suo corpo e sull’unità culturale del suo essere”306. Kusturica in Underground, come in Ti ricordi di Dolly Bell? o in Arizona Dream passando per il Tempo dei Gitani e Papà e in viaggio d’affari, sceglie dei personaggi che rivelano tutto di se stessi attraverso una corporeità istintuale e impudica. Secondo Bertellini, tale posizione, troppo umana, in tempo di guerra è divenuta ideologicamente inattuale, tatticamente indifendibile e, persino, perversa. 304 Cfr. G. Bertellini, op. cit, pp. 16-17. Ivi, cit. p. 102. 306 Ibidem 305 306 Il critico si riferisce ovviamente alle polemiche che hanno accolto e seguito la lavorazione del film (vedi paragrafo successivo). Il testo filmico di Kusturica si inserisce infatti in un contesto convulso come quello della guerra dei Balcani, che viene rappresentata nella terza parte del film. Come se la guerra in Jugoslavia non fosse mai finita, ci troviamo all’inizio dell’ultimo atto a Berlino nel 1992, dove Ivan (dato per morto dal 1941) spera di trovare la sua scimmia Soni. Lo psichiatra che lo ha in cura rivela ad Ivan che Marko e la moglie sono ricercati dall’Interpol. Ivan, disperato, decide di tornare in Jugoslavia, un paese che però si sta sfaldando. Attraversa i sotterranei e le gallerie che collegano l’Europa partendo dal Reichstag, il parlamento tedesco. E’ la prima immagine simbolica di un capitolo per nulla cronachistico. Ivan trova la via per arrivare in Bosnia, ma non in Jugoslavia che come gli rivela un casco blu, ridendo, “non esiste più”. Tra le gallerie ritrova Soni. Uscito da un pozzo, sbuca in un villaggio della Slavonia, regione della Croazia, una delle prime zone colpite dalla guerra. Il paese è assediato dall’esercito privato di Nero; case e chiese son distrutte e i commercianti d’armi paiono protetti dall’esercito delle Nazione Unite. Ivan, il vettore narrativo della prima parte del terzo atto, scopre Marko sulla sedia a rotelle a trattare con un faccendiere locale, interpretato da Emir Kusturica in uno dei suoi classici “cameo”. Ivan, riconosciutolo, lo insulta e in uno scenario apocalittico (dove il crocefisso è rovesciato), lo ferisce a morte. Ivan si impicca. Nero e i suoi soldati entrano in paese e uccidono i prigionieri (ustacia, cetnici e caschi blu) e poi Marko e Natalija. La guerra balcanica pare un caos che ha rapito coloro che poco tempo prima convivevano vicino e ora si trovano su fronti opposti. Alle domande di un comandante dell’Onu, che chiede informazioni su comandi e gerarchie “chiare e distinte”, 307 Nero risponde con pugni e insulti e fugge nel sotterraneo all’insperabile ricerca del figlio Jovan. La terza parte del film evita un approccio strettamente legato alla cronaca, Kusturica sceglie una rappresentazione fortemente simbolica della contemporanea situazione jugoslava, con personaggi quasi stereotipici, inseriti in una spazialità tragica ed allegorica. Nel continuum guerresco che pervade il film l’autore evidenzia, implicitamente, le analogie tra la seconda guerra mondiale e le guerre jugoslave degli anni Novanta: le zone di maggior conflitto sono simili (la Bosnia), nonché alcune motivazioni che portarono alla guerra (il nazionalismo). Quella di Kusturica è, inoltre, un’interpretazione della storia dei Balcani con tratti mitici; forse, una lacuna del film è quella di non indagare le vere cause del recente conflitto ma di restituirle ad una visione fatalistica dei Balcani: una terra in cui, ciclicamente, le guerre si scatenano con forme quasi “tribali”. Underground si presenta come una riflessione sul cinema e sul rapporto che la settima arte ha con la Storia, ragionando sulle possibilità di rappresentazione e messa in scena di quest’ultima. “Il giudizio che ne emerge è pesante: lungi dall’essere una finestra aperta sul mondo, il film è un dispositivo di mistificazione, uno strumento di inganno in mano ai dittatori, uno specchio magico che ci mostra delle ombre che, in virtù della loro sorprendente rassomiglianza con la realtà, siamo portati a scambiare per entità concrete”307. 307 Cfr. G. Alonge, Lo schermo bugiardo. Intorno alla rappresentazione della Storia in Underground, cit., p. 136. 308 3 T RA MITO E REALTÀ La grande metafora che struttura il film intreccia Mito e Storia, attingendo dall’immaginario jugoslavo, creando un testo polisemico, con la capacità di parlare lingue diverse a pubblici diversi. E’ una caratteristica del discorso epico che, come rivela Luca Rastello308 (autore del libro La guerra in casa), Kusturica utilizza in Underground in connessione con il registro dell’ironia. Il film offre, dunque, un significato alla comunità entro cui nasce (jugoslava) e a cui in prima istanza si rivolge, e un significato totalmente diverso, a volte persino contraddittorio con il primo, all’esterno. Le polemiche, successive alla vittoria a Cannes nel 1995, furono aspre e le reazioni degli spettatori di lingua serbocroata, sicuramente più emotive (vista la guerra in corso) e in grado di interpretare più facilmente il lato mitico-letterario del film, molto differenti da quelle del pubblico occidentale, che mise maggiormente l’accento sull’ironia dell’opera. Immaginario collettivo, tradizioni locali, narrazioni orali e codici linguistici millenari dei popoli balcanici costituiscono la traccia culturale che sottende il racconto filmico di Marko e Nero. Nel lungometraggio sono svariati i riferimenti alla letteratura, alla tradizione e alla mitologia degli slavi del sud. In greco “mythos” significava racconto, in questa accezione il termine era usato nei poemi omerici; in seguito con il sorgere del pensiero filosofico ebbe una sfumatura spregiativa. Il mito non sarebbe che una favola, capace di distogliere l’uomo dalla conoscenza razionale. Ma già lo stesso Platone, pur critico, lo usò, affidandogli la funzione di comunicare, tramite un racconto allusivo, la verità. Inoltre, il mito si dimostra in grado di proporre 308 Cfr. Luca Rastello, “Che cosa mi stai facendo amico?” A proposito di Underground in AA.VV, Emir Kusturica, cit. p.123. 309 in forma immaginosa i grandi temi della vita umana, a cui ci si può accostare per immagini, metafore e simboli. In pratica, anche oggi ci interroga sulla nostra identità. La scelta di Kusturica è di “ballare” col mito. Una posizione coerente con l’eredità epica della grande letteratura serba, ricca di narrazioni orali e canti popolari. Però c’è un particolare da non sottovalutare: durante la lavorazione e l’uscita del film, ci troviamo in un contesto complesso e drammatico, quello delle guerre degli anni Novanta: “di questi tempi il mito è il mito nazionale e l’epos è arma politica”309. La firma degli accordi di Dayton (per quanto controversi), ratificati a Parigi notevolmente, il anche 14 dicembre positivamente, del 1995, sulla ha influito cinematografia balcanica. Underground, un affresco ricco sia dal punto di vista narrativo che visuale, “indefinibile sia sul piano politico che ideologico”310, fu premiato a Cannes lo stesso anno della firma di Dayton. Questo film, sostiene Nevena Daković docente di Teoria del film all’Università di Belgrado, codifica due caratteristiche importanti di questo nuovo genere cinematografico: l’utilizzo di una serie di riferimenti mitologici, fatalistici, antropologici e nazionali sulla natura e le cause del conflitto; la strutturazione narrativa attraverso un dialogo continuo tra il presente ed il passato. Il rapporto con i miti slavi è molto profondo nella poetica di Kusturica, fin dagli anni Ottanta quando fu fondatore del movimento teatrale dei new primitives, straordinaria fucina di talenti grotteschi. L’idea dei neoprimitivi era quello di creare personaggi stereotipici fino ad esasperarli a caricature 309 Ivi, cit, p.124. L’affermazione è inserita in un interessante articolo di Nevena Daković, La guerra sul grande schermo: filmografia della disgregazione jugoslava, per il settimanale belgradese “Vreme”, pubblicato da “Il Corriere dei Balcani” (10 aprile 2004) e tradotto anche dall’Osservatorio sui Balcani il 16 aprile del 2004. 310 310 intollerabili, che individuassero i tic, le sfumature, l’ideologia che i nuovi movimenti nazionalisti jugoslavi propagandavano e andavano definendo. Nella bizzarra compagnia teatrale dei Top Lista Nadrealista (L’hit parade dei surrealisti) che metteva in scena, sotto i fuochi della guerra, la farsa politica sottesa alla carneficina, Kusturica, figlio di musulmani, aveva scelto la macchietta del serbo nazionalista, con barbone e coccarda, mettendo in quell’avventura nacquero resistenza ridicolo creativa, esperienze di i quanti, nuovi paladini innervata artistiche negli di capaci anni di del popolo. sarcasmo di dare guerra, e Da ironia, nerbo alla rifiutavano l’omologazione ad un credo religioso o ad un’identità nazionale. Venendo ad Underground ed analizzando i personaggi protagonisti notiamo che Petar il “Nero” e Marko non sono in effetti individui, ma archetipi di un’intera comunità, secondo i canoni dell’epica popolare e delle sue tracce nella letteratura colta serba. Il soprannome di Petar Popara, “Nero”, ricorda Karadjordje (kara in turco significa nero), “Giorgio il Nero” (1762-1817), il contadino che si fece re e guidò l’insurrezione contro i turchi, incarnando la rinascita nazionale e la ritrovata dignità collettiva della gente serba. “I due caratteri maschili su cui si appoggia l’intera vicenda rappresentano limpidamente due exempla dell’immagine eroica depositata nei secoli dai cantari di gesta e riesumata con vigore dalla nuova onda di opere letterarie di taglio epico che hanno accompagnato negli anni Ottanta la rinascita dello spirito nazionalista serbo”311. Si tratta di opere come Il libro di Milutin di Banko Popovic, che fu adottato da Slobodan Miloŝević come bandiera culturale, o i romanzi di Pavić, Cosić, Drasković. 311 Cfr. Luca Rastello, Che cosa mi stai facendo amico?” A proposito di Underground., cit., p.125. 311 Scrittori che hanno padri nobili come Ivo Andrić (scrittore che Kusturica sente molto vicino), nobel per la letteratura nel 1961 e autore de Il ponte sulla Drina, o Milos Crnjanski di Migrazioni, dei quali però tendono a ridurne la complessità per accostarsi ai canti orali dei villaggi. I protagonisti di questa letteratura sono eroi imperfetti, violenti ma teneri, votati alla sconfitta ma dalla grande passione nazionalistica, che incarnano lo spirito di un popolo. Sono pronti a morire e a uccidere in nome della sacra amicizia maschile, come Nero e Marko che nelle prime battute del prologo scambiano le seguenti battute: “Ti ammazzo amico”, dice Nero, “Cosa fai amico?” domanda Marko, “Ti ammazzo, vi ammazzo tutti” risponde Nero, ubriaco sul calesse. Rappresentano due figure classiche del popolo serbo: quella cosmopolita e corrotta (Marko) e quella pura e perdente (Nero). La sconfitta è un elemento organico, quindi non casuale per Petar, nell’eroe serbo; un archetipico le cui radici affondando nel mito politico della battaglia del Campo dei Merli, combattuta il 28 giugno del 1389, il giorno di San Vito, che nella storia jugoslava riveste un posto decisivo e centrale: l’attentato di Sarajevo, che scatena l’inizio della prima guerra mondiale, avviene, infatti, il 28 giugno del 1914. In quel particolare giorno del 1389, attorno al quale si sviluppa l’importante ciclo epico del Kosovo, i Turchi travolsero le armate cristiane del principe serbo Lazar e stabilirono il proprio dominio sulla regione del Kosovo per circa mezzo millennio. Un destino tragico per i Serbi, che come narra la leggenda scelsero la sconfitta per ergersi a martiri in difesa del cristianesimo. Il mito fu ripreso strumentalmente dal nazionalista serbo Slobodan Miloŝević contro la popolazione kosovara, indicando il Campo dei Merli come luogo sacro dell’identità nazionale. 312 In Petar Popara, mito nazionale (maschile e maschilista) rivivono i miti di Lazar e di Karadjordje, il “Nero” appunto; Petar impersonifica colui che è “vincitore di tutte le guerre e sconfitto di tutte le paci”, riprendendo la celebre frase di uno scrittore tutt’altro che eccelso, come Dobrica Cosic, che nel 1992 divenne presidente della Federazione Serbo-Montenegrina. L’acqua nel film è l’elemento simbolico in cui si compie il passaggio tra morte e vita, alludendo alla rinascita ultraterrena del popolo celeste (topos ricorrente nelle Migrazioni di Milos Crnjanski). “Kusturica non allude: enuncia i cardini del bagaglio mitico, a lui ben noto, su cui si fonda la tradizione letteraria serba, e solo in seconda battuta, la subcultura nazionalista. E’ questo ancora e prima ancora delle indicazioni esplicite di simpatia verso una parte in conflitto, a suscitare le reazioni degli spettatori jugoslavi. Entusiasti i serbi, inorriditi i bosniaci, gli albanesi, molti croati. Ma tutti per la stessa ragione”312. La vena mitopoietica, improbabile, della Jugoslavia di Tito viene messa in scena dal regista bosniaco sia nell’orazione di Marko per l’inaugurazione del monumento dedicato a Nero, spacciato per defunto, sia nella sequenza di “cinema nel cinema”, in cui viene ricreato un set per il film sulle gesta di Nero. Gli attori in questa scena recitano più parti creando una babele di linguaggi e metalinguaggi. La verità storica sbandierata sul set del film non è altro che artificiale e si intreccia con miti solo apparenti. Nel finale dell’opera, le parole e i ruoli si confondono, piombano pure sulla scena, tra soldati cetnici, trafficanti d’armi come Marko e caschi blu, i partigiani: come se il conflitto in Croazia (19911992) fosse identico alla lotta di liberazione del 1945. Ma le immagini crude, nella cacofonia di voci, sono macigni per un 312 Ivi., p.127. 313 pubblico in grado di decifrarle (per esempio, per appartenenza alla stessa comunità del regista). Nell’epilogo possiamo chiarire meglio il valore polisemico dell’epos, uno dei registri principali di Underground, che, come spiegato, permette diverse interpretazioni e più significati di un testo filmico, in base al contesto in cui viviamo e al nostro background culturale. Nero si getta nel pozzo incontrando sott’acqua gli altri personaggi, compresa la banda musicale. L’acqua restituisce vita ai morti e su un’isola che si stacca dalla terraferma la vita riprende come un tempo, ma con maggiore felicità. Una lettura “dall’interno” evidenzia come un paese ritrovi la sua purezza separandosi dalla terra-madre, facendosi isola dopo l’inganno di un’unità imposta e fasulla. “Metafora limpidissima di una nazione che si stacca da un agglomerato artificiale per ritrovare se stessa”,313 così è interpretata dal pubblico ex-jugoslavo. Per gli spettatori occidentali (tra i quali ha ottenuto spesso riscontri entusiastici) il film viene a volte letto come un canto nostalgico rivolto alla grande Jugoslavia, in cui vivono genti, che ci sembrano lontane, ancora un po’ selvagge, ma molto vitali. Come abbiamo visto, possono sfuggirci, nel corso del racconto cinematografico, dettagli che il pubblico ex-jugoslavo coglie, come la figura di Mustafa, l’unico musulmano del film (altra individuazione smascherato di e comunità), preso a calci ritratto dai come due un trafficante, protagonisti serbi; sicuramente non un elemento conciliante in un periodo di guerra (il 1995 è l’anno dell’orrore di Srebrenica e Zepa). La complessità del film e il suo carattere epico viene colto dal critico Ermanno Comuzio che lo definisce come una “rapsodia”, nella sua doppia significazione di poema epico (“cucitura di canti” 313 Ivi, cit., p.129. 314 nell’etimo) e di composizione musicale di forma libera, di carattere virtuosistico e brillante, fondata su pagine di origine popolare. “Kusturica firma una commedia epica di lunghezza fluviale, anzi rappresentativa, danubiana, e abbracciando di soverchiante cinquant’anni ricchezza di vita e preoccupandosi meno della coerenza dei passaggi che della vivacità immediata delirante e racconto”314. del visionario, che opera Un per film magmatico, addizione nel caos ragionato, visivo e sonoro, che crea. Comuzio riscontra una vicinanza alla forma del circo, ci sono sia animali che clowns, infatti lo stesso Kusturica spesso ha considerato il cinema più vicino ad un brano musicale o uno spettacolo circense, che ad un’opera letteraria. Una posizione che lo accomuna a Federico Fellini, che considerava il cinema molto somigliante al circo, che il regista italiano definiva come un miscuglio di tecnica, di precisione e d'improvvisazione. Proprio mentre si svolge lo spettacolo già provato e riprovato, si rischia veramente qualcosa; cioè vale a dire che, nello stesso tempo, si vive. 4 R EALTÀ E FINZIONE : TRA SURREALISMO , DOPPIO , VERO E MANIPOLAZIONE Il confine indefinito tra le dimensioni del sogno e della realtà è un elemento chiave della letteratura serba, nonché un tratto distintivo della poetica di Kusturica. Nel contesto linguistico stratificato del film si mescolano le categorie realtà e finzione, 314 E.Comuzio, Underground, “Cineforum”, n.351, gennaio – febbraio 1996, p.53. 315 storia e fantastico. Possiamo affermare, sulla base degli ultimi studi di semiologia degli audiovisivi315, che finzione e realtà, campi spesso indagati distintamente dai teorici, sono ben lungi dall’essere “continenti separati da oceani”. Si cercherà di affrontare il rapporto tra realtà e finzione soprattutto attraverso la sequenza in cui Nero e Jovan irrompono sul set del film-omaggio alla Resistenza partigiana, all’interno della quale le due dimensioni si intrecciano in un contesto assolutamente surreale. E’ una relazione, allo stesso tempo articolata e sottile, che, come affermato poco sopra, coinvolge diverse categorie e altrettante tematiche: il doppio, il vero, la manipolazione mediatica, la falsificazione storica e la dimensione ludica. Seppure Underground non sia riconducibile all’idea classica di film storico il rapporto tra cinema e realtà storica è sicuramente uno dei più interessanti nello studio dell’opera. Come spiegato in un paragrafo precedente, la complessità del testo filmico è definita anche dalla continua oscillazione tra Storia e Mito, dramma e fiaba; le prime didascalie ci immergono in un universo fantastico che mantiene però ambivalenti relazioni con la Storia. In una pellicola, opera di finzione, non tutto è fittizio: una cospicua quantità di informazioni rimandano al mondo in cui viviamo e nello specifico caso di Underground alla storia della exJugoslavia. Il critico letterario e semiologo francese Gèrard Genette oppone nel racconto di finzione, il fattuale e il fittizio316, dividendo ciò che dipende dall’invenzione da ciò che si riferisce a luoghi e fatti reali, distinzione che non pregiudica la difficoltà che si può trovare, talvolta, a distinguerli uno dall’altro. 315 In riferimento al recente ed interessante saggio di F.Jost, Realtà/Finzione. L’impero del falso, Milano, Il Castoro, 2003. 316 G.Genette, Finzione e dizione, Pratiche, Parma, 1994. 316 Alcune sequenze prima della scena che prenderemo in esame, in cui Nero assiste e invade il film che ritrae le sue gesta (scambiandolo per la realtà), vi è un episodio che introduce la lavorazione del film dal titolo enfatico La primavera arriva su un cavallo bianco. Una sera Marko e Natalja, divenuti nel fattempo “eroi nazionali” visitano il set del film ispirato alle vicende della Resistenza, mitizzate e spesso inventate. L’incontro con gli attori che interpretano loro stessi al tempo del conflitto, identici ai due originali (sono infatti gli stessi attori, solo ringiovaniti nell’aspetto), provoca spaesamento nella coppia e un ulteriore livello di finzione nel film. Marko è costretto ad inscenare un sentito abbraccio con l’attore-sosia che impersona Nero, diventato a sua insaputa eroe e martire della guerra contro il nazismo. La simulazione di Marko è perfetta: come se realmente vedesse l’amico, che tutti credono scomparso anni prima. La vicenda rappresentata dal film di regime non è corrispondente al vero, è un falso; l’inganno protrattosi per troppo tempo è divenuto ormai realtà storica. La pretesa mimetica della messa in scena pretende però che gli attori siano uguali ai personaggi che avrebbero dovuta viverla. Gli stessi Natalija e Marko rimangono in dubbio di fronte agli intepreti: “Franz – si chiede Marko – è il vero o soltanto l’attore?”. Questo esempio esemplifica il tema del doppio che, come nota Giaime Alonge, insieme a quello della mise en abîme “ritornano in tutto il testo, dalla scena del teatro, all’iterazione delle stesse battute (“Dico quello che sta dicendo tutta la città”, affermano prima Vera e poi Natalija), delle stesse situazioni (il Nero che scopre Marko e Natalija intenti a flirtare, Natalija legata alla schiena del Nero; Ivan che si impicca), degli stessi gesti (Marko che si sfila l’orologio)”317. 317 Cfr. G. Alonge, op.cit., p. 133. 317 La sequenza della concitata intrusione sul set di Nero inizia con un long take, sviluppato attraverso un complesso movimento di macchina con la gru, che segue le riprese del film di regime. Il regista sul set introduce la scena: “Siamo arrivati allo storico momento in cui, nel lontano anno 1944, i criminali nazisti assassinarono vigliaccamente il nostro eroe nazionale Petar Popara, detto il Nero”. Kusturica con un montaggio alternato ci porta a seguire Jovan e Nero che da poco riaffiorati in superficie si trovano a navigare un fiume e poi sbarcare ai bordi del set cinematografico. Padre e figlio inquadrati in primo piano, tra gli arbusti, sgranano gli occhi di fronte alle immagini “di guerra” che hanno davanti: per Nero il conflitto non sembra mai finito (“In quindici anni non è cambiato niente” dice al figlio), per Jovan la realtà che si trova davanti è una novità prorompente, allo stesso tempo entusiasmante e traumatica, che però non riesce a decodificare (scambia la luna per il sole e un cervo per un cavallo), dopo aver vissuto per tutta la vita in quella sorta di “caverna platonica” che era il sotterraneo del nonno di Marko. Si avvicinano al set a carponi, mentre udiamo la voce off del regista, incensante e retorico, che, oltre a pretendere la massima verità dal film che sta girando, richiede agli attori naturalezza e totale immedesimazione. Inizia la ripresa della fucilazione di Petar Popara con accanto l’ufficiale Franz. Nero, che assiste alla scena con Jovan, non riconosce la finzione cinematografica e additando, come collaborazionista il regista, spara al tenente Franz–attore (scambiandolo per il vero), uccidendolo. Il regista non si accorge di quello che capita sul set o forse si lascia trascinare dalla potente iniezione di “realismo” apportata dal “vero” Nero nel suo film ed esclama, entusiasta per la caduta e morte “fuori copione” di Franz, a Nero-attore di continuare così, sempre più naturale. L’attore inneggia al Partito Comunista 318 Jugoslavo. Irrompono sulla scena, a bordo di un’automobile, Nero e Jovan, che sparano all’impazzata, creando panico e caos, facendo fuggire a gambe levate attori e tecnici. La sequenza propone quella commistione di diversi registri stilistici che avevamo già colto nell’analisi della scena del bombardamento dello zoo di Belgrado, si contaminano dramma e commedia, grottesco e slapstick (l’attore-Nero che fugge, legato ad un palo, in mare). La scena è ricca di spunti utili alla nostra ricerca, perché le relazioni di corrispondenza tra realtà e finzione sono stratificate e si confondono in una dimensione propriamente surreale che, tra i fumi, le nebbie e le luci del set e della notte, ricorda alcuni momenti delle opere di Fellini (8 e mezzo, Amarcord, Il Casanova di Fellini). La dimensione surreale agisce da collante, creando un unicum tra realtà e finzione, storia e sogno. Underground si sviluppa attorno ad una struttura finzionale, che ha una sua coerenza interna ed intreccia elementi fattuali e fittizi. Il “film nel film”, con marcate credenziali “realiste”, ci spinge a mettere in discussione le realtà e le finzioni rappresentate nel complesso. La primavera arriva su un cavallo bianco, nella sua esibizione “realista”, vuole rappresentare il vero, illustrandolo. Ma i fatti trattati si sono svolti in modo completamente diverso. La finzione, nella messa in scena dell’inganno storico, si raddoppia. Tale finzione cinematografica viene però percepita da Nero, rimasto chiuso per vent’anni (“ridotti” a quindici per gli abitanti del sotterraneo), come la realtà. L’impostura subita per due decenni, “assorbendolo come lector in fabula , gli impedisce di riconoscere le insopportabili e improbabili drammaturgie 319 “naturaliste” dei registi di genere”318. Pensa realmente di combattere l’infinita guerra con i nazisti. Non solo Nero, ma tutti i personaggi del film rincorrono la realtà o credono di viverla; sono solo marionette di una rappresentazione, che ha smarrito la sua essenza. La storia vissuta dai personaggi in superficie o nel sotterraneo, seppur discordante, è manipolata mediaticamente dal regime. Il “processo manipolativo” viene messo all’indice da Kusturica nel film, attraverso l’ironia. Registro linguistico che chiama in causa alcune interessanti riflessioni di Francois Jost, studioso di cinema e televisione, riportate nel saggio Realtà/Finzione. L’impero del falso. Citando Genette, Jost afferma che l’ironia agisce come “un’antifrasi fattuale”, il falso prende l’aspetto del vero mettendo in gioco uno di quei procedimenti che si presta ad ulteriori fraintendimenti319. L’utilizzo dell’ironia riguarda quella che Jost definisce la dimensione ludica del “mondo della finzione”, un mondo che non è opposto ma in continua relazione con la realtà. Attraverso l’ironia (e l’antifrasi) Kusturica smonta la falsificazione storica operata dal regime titoista e la manipolazione operata dai mezzi di comunicazione di massa, come il cinema, nel Novecento. La falsificazione storica, all’interno della diegesi e soprattutto nella sequenza del set cinematografico, è evidente, percettibile come d’altronde i trucchi utilizzati per realizzare le entrate e le uscite di Marko e Nero dai filmati d’epoca, nella prima parte del film. Le sovrimpressioni ottiche, molto contrastate a livello di colorazione fotografica, mettono in chiara luce la loro evidenza di trucco, questi ulteriori “raddoppi della finzione” sono “veri” nell’universo diegetico del film, ma storicamente impossibili. 318 319 Cfr. Giorgio Bertellini, op.cit., p.95. F.Jost, Realtà/Finzione. L’impero del falso, Milano, Il Castoro, 2003, p.65. 320 Ritorniamo alla sequenza che abbiamo analizzato, “il film nel film” è per un’accesa critica di Kusturica al cinema di regime che, decenni, trasfigurata ha e propagandato un passato in Jugoslavia mitizzato, come una nel realtà kolossal fantastorico e celebrativo La primavera arriva su un cavallo bianco, dal titolo parodico e sferzante. “Sono stato allevato con questo tipo di film e vi esprimo il mio odio per quelli che li hanno realizzati”320 spiega senza diplomazia Kusturica. Il “metteur en scène” di regime è ispirato ad uno dei cineasti dell’epoca di Tito, Veljko (Grande) Bulajic, riconoscibile nell’omino con basco, sciarpa ed occhiali che va istericamente alla ricerca del vero più vero. Bulajic (1923), il regista sbeffeggiato da Kusturica, studiò in Italia durante la stagione neorealista, fece l’assistente di De Sica e, tornato in patria, ossessionò il cinema jugoslavo con i suoi drammi “veri”, “semplici” e “popolari”, come Raz (La guerra, 1960), Kozara (Kozara, l’ultimo comandante, 1962) e Bitka na Neretvi (La Battaglia della Neretva, 1969). Il rapporto tra realtà e finzione, come abbiamo cercato di sostenere, è un nodo tematico fondamentale nell’analisi del film di Kusturica. consideriamo Scostandoci anche la dalla lunga finzione lavorazione, cinematografica le imponenti scenografie di Miljen Kljavović e l’aumento esponenziale del budget del film: Underground si è sviluppato come un Apocalypse Now all’europea. Come ha notato Giorgio Bertellini le possenti dimensioni della macchina-cinema hanno reso quasi letterale l’esercizio della rappresentazione cinematografica come “produzione di realtà”, e non solo come metafora artistica321. 320 321 P.Vecchi, Emir Kusturica., cit. p.95. Cfr. G.Bertellini, op.cit., p.84. 321 Sfogliando i numeri dell’impegno produttivo coinvolto, Underground supera ambiguamente la “finzione” della messa in scena per giungere a una perversa ri-creazione della realtà e della guerra. 5 L E P OLEMICHE Dopo la vittoria della Palma d’oro nella quarantottesima edizione del Festival di Cannes, si scatenarono polemiche molto accese intorno al film. Per mesi sui giornali europei, soprattutto in Francia e in Bosnia e in seconda battuta in Italia, si alternarono opinionisti d’ogni genere a commentare Underground, con interventi che spesso esulavano dal testo filmico. La maggior parte, volenti o nolenti, ad esprimere una lettura ideologica del film, tacciandolo di essere un esempio artistico di propaganda filo-serba. Una polemica spesso pretestuosa e poco analitica, che a tratti prevalse sul valore indiscutibile dell’opera. Come anticipato nell’introduzione di capitolo, la vittoria a Cannes e l’uscita del film in sala, si inseriscono in una situazione sociopolitica molto convulsa. Il lungometraggio trionfa al Festival, il 28 maggio del 1995. Da circa un mese si è fatta più serrata la lotta per il controllo della Krajina tra Serbi e Croati. Poco più a sud il conflitto in BosniaErzegovina diventa molto tragico: il 26 maggio è il giorno del massacro di Tuzla; tiri di artiglieria serba centrano un nutrito gruppo di giovani, facendo 73 morti, dai 3 ai 31 anni. A Cannes, la giuria guidata da Jeanne Moreau, e composta tra gli altri da Gianni Amelio, spinta anche da una lettura politica ed emozionale del film tributò il massimo premio al lavoro di 322 Kusturica, per l’importante valore estetico e civile. Presto scaturirono le polemiche che si protrassero per mesi in parallelo agli sviluppi della guerra in ex Jugoslavia. Il primo ad intervenire fu il filosofo Alain Finkielkraut in prima pagina su “Le Monde”, del 2 giugno 1995322, con un articolo dal titolo L’impostura Kusturica. Finkielkraut è un intellettuale pubblico molto noto, oltre che per i suoi interventi sulla carta stampata anche per le frequenti apparizioni radio-televisive. L’intellettuale francese sintetizzò Underground come un’opera filoserba, che riscriveva la Storia dei Balcani da un punto di vista analogo a quello dei nazionalisti di Miloŝević. Definì il film come la “versione post-moderna, scapigliata, intrigante, americanizzata e girata a Belgrado della propaganda serba più bugiarda. Il diavolo stesso non avrebbe potuto concepire un oltraggio altrettanto crudele alla Bosnia né un epilogo altrettanto grottesco alla frivolezza e all’incompetenza occidentali”323. Finkielkraut, seppur lo commentasse, non aveva visto il film, probabilmente considerando la visione qualcosa di superfluo; e non era l’unico tra gli editorialisti che affrontarono il “caso” Kusturica. Implicitamente, nell’articolo, il filosofo parigino aveva messo a confronto due forme un po’ banali di nazionalismo, nella sua schematizzazione manichea, uno buono e uno cattivo. Quello positivo che definisce un’identità nazionale insieme alle “alterità” circostanti (Sloveni costruisce un e valore Croati), nazionale quello contro negativo le che invece “alterità” vicine, aggredendole (la Serbia). Si accodò a Finkielkraut un altro “noveau philosophe” Bernard Henry-Lèvy, autore sull’argomento del documentario Bosna! (1994). Dalle colonne del settimanale “Le Point” azzardò un 322 323 G.Rinaldi, Il film e le polemiche, “Cineforum” 351, gennaio – febbraio 1996, p.55. G. Bertellini, op.cit., p. 6. 323 parallelo tra Kusturica e Céline. “La storia della letteratura è piena di scrittori antisemiti, fascisti, stalinisti che ciò nonostante erano anche grandi artisti. Nell’incoronare questo autore (Kusturica nda) la giuria avrebbe dovuto sapere di trovarsi nelle stessa situazione di chi nel 1938 avesse incoronato, poniamo Céline”324. I giornalisti, inviati in quel periodo a Sarajevo, non dimenticarono mai tra i loro pezzi uno sul caso “Kusturica”: qualcuno si rammaricava che il regista non avesse voluto, essere nel suo esilio volontario, uno dei massimi difensori di Sarajevo, assediata dai Serbi di Bosnia; altri rimproverarono il solito millantato filoserbismo. Per filologia, dobbiamo ricordare che i servizi e i commenti provenivano tutti dalla zona bosniaca di Sarajevo, che in quei lunghi mesi era divisa in due, e non da quella serba, dove forse le interpretazioni potevano essere opposte. Anche in Italia la situazione non fu molto diversa, Enzo Bettiza, riprendendo l’accusa contro il film tratteggiata da Finkielkraut, firmò su “La Stampa” un duro attacco contro Kusturica. Bettiza premise di non aver visto il film, ma di saperne abbastanza dalle recensioni e dai racconti di coloro che l’avevano visto e dalle conferenze stampa del regista. Si sentì di poter concludere che “Kusturica è un gemello estetico del Quisling bosniaco Fikrit Abdić, che combattè a fianco dei serbi contro i bosniaci nella sacca di Bihac”325. Un altro elemento di polemica fu quello relativo ai finanziamenti del film. Underground, una coproduzione maggioritaria francese, sembra abbia beneficiato del sostegno della televisione serba e di 324 325 un’altra società serba, in violazione dei regolamenti G.Rinaldi, Il film e le polemiche, cit, p.55. G.Bertellini, op.cit., p. 7. 324 internazionali, e in particolare dell’embargo cui era sottoposta la Serbia. Zlatko Dizdarević, scrittore e giornalista di Oslobodjenje (l’eroico quotidiano pubblicato nella Sarajevo assediata), in un intervento su “La Repubblica”, che non entrava nel merito del film, accusò Kusturica di aver accettato capitali serbi per la produzione del lungometraggio. Rimproverava al regista “di essersene andato da Sarajevo e di non aver speso una sola parola per la causa dei musulmani”326, di non aver mai smesso di collaborare con il festival di Belgrado e di aver rilasciato interviste pro Miloŝević. Sui quotidiani italiani solo Roberto Silvestri de “Il manifesto”, Lietta Tornabuoni de “La Stampa” e Gianluigi Melega de “L’Unità” denunciarono la faziosità e la gratuità degli interventi. Più interessanti altre prese di posizione “interne” da parte di intellettuali dell’ex-jugoslavi, avevano visto e analizzato, che effettivamente il film lo come Stanko Cerović collaboratore di “Monitor”, il settimanale radicale anti Miloŝević stampato in Montenegro. L’articolo pubblicato sulla rivista slava il 12 giugno del 1995 fu riportato, leggermente ampliato, sul periodico anglossassone “Bosnia Report”. L’intervento si distinse dal recente fumo polemico per serietà critica e chiarezza. Cerović (tra l’altro affiliato alla radio francese RFI), pur non essendo un critico o uno storico di cinema, metteva in luce alcuni aspetti della costruzione narrativa e stilistica altrimenti invisibili a un pubblico non balcanico. Delineò alcune precise osservazioni: “Se Kusturica non è vittima di un’ispirazione estetica sbagliata, perché mette a capo della rivoluzione la tipica coppia di eroi popolari belgradesi, cioè un serbo e un montenegrino, che – nel mito e nell’orgoglio nazionalista serbo – fanno a pugni e 326 P. Vecchi, Emir Kusturica, cit. p.101. 325 all’amore meglio montenegrino di sostenne altro?”327. chiunque che i Il protagonisti giornalista del film rappresentassero lo stereotipo dell’eroe serbo e incarnassero quell’instancabile “vitalismo genetico”, che contraddistingueva la loro superiorità, in un certo senso, etnica. “Perché – si domandò ancora Cerović – i due trafficanti impostori devono proprio essere un musulmano e un croato? E perché, fra i filmati di repertorio, insieme a quelli che denunciano Zagabria e Maribor (e non Maburgo come riportato dall’edizione italiana), Kusturica non inserisce le riprese della distruzione di Vukovar o quelle in cui Belgrado saluta trionfalmente i carri armati in partenza per la Slovenia e la Croazia nell’estate del 1991?”. Nell’articolo si interroga ancora come mai il regista bosniaco di Sarajevo parli della guerra come un “terremoto etnico e sociale”, quando – secondo Cerović – lui sapeva che fu preparata nei dettagli dai generali di Belgrado, e infine, si chiede perché Kusturica si faccia fotografare in compagnia del direttore della televisione di Belgrado, Milorad Vukelić, noto manipolatore della propaganda nazionalista serba. Se le riflessioni di Cerović possono esser considerate legittime e analitiche, bisogna comunque notare che lo scrittore non entra nel merito della architettura del film, ovvero l’estesa metafora del comunismo come sotterraneo o caverna, volta anche ad indagare le cause del conflitto degli anni Novanta, né riconosca l’humour nerissimo di Kusturica. Inoltre, se è indiscutibile che la Jugoslavia “mitica” di Kusturica sia, per lo più, popolata da individui che ballano e bevono al suono della musica zigana, è necessario sottolineare che sia Marko che Nero non sono propriamente eroi; sono rappresentati anche come truffatori, donnaioli e non così patriottici. 327 G. Bertellini, op.cit., p.8. 326 “La follia carnevalesca e bachtiniana dei loro bagordi, infatti, non li riscatta come figure da ammirare: i due forsennati sono moralmente indifferenti e apatici”328, precisa Giorgio Bertellini portando come esempio la figura di Nero: se sorridiamo quando si fa scoppiare una bomba addosso, possiamo solo compiangere il suo destino di padre alla ricerca perenne del figlio, lasciato distrattamente annegare trent’anni prima. La goffaggine dei protagonisti di Underground li rende spaventevoli per il potere che esercitano sopra e sotto terra. Mentre continuano le polemiche, la precaria situazione nell’exJugoslavia si evolve. A luglio, avviene il massacro di Srebrenica, enclave musulmana, ad opera dei serbi di Bosnia guidati dal presidente Karaždić e dal generale Mladić; si conteranno diverse migliaia di vittime in uno dei peggiori crimini del Novecento. Nell’agosto del 1995 i croati riconquistano la regione della Krajina, qualche settimana dopo ha tristemente luogo la seconda strage del mercato di Sarajevo. A fine agosto, la Nato dà il via all’operazione “Deliberate Force” bombardando posizioni serbe in Bosnia. Il 21 novembre con la mediazione degli Stati Uniti viene firmato l’accordo di Dayton, una base militare nell’Ohio. Un accordo tra Bosnia, Croazia e Serbia di cessazione di ostilità, ratificato a Parigi il 14 dicembre seguente. L’accordo di Dayton non ha comunque costituito una risposta risolutiva al conflitto, perché principalmente “incerto fra primato della cittadinanza e primato dell’etnia”329; la Bosnia – Erzegovina, in cui convivevano tre etnie, fu divisa in due entità con fortissime autonomie: la Federazione di Bosnia-Erzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Srpska). 328 329 Ivi, cit., p. 93. S.Bianchini, La questione jugoslava, cit., p.174. 327 Col passare del tempo (il film uscì in Italia nell’inverno del 1995) le analisi si fecero relativamente più distese, anche se nessuno dei prestigiosi intellettuali intervenuti a caldo corresse il tiro delle accuse. Kusturica, che non aveva immediatamente risposto alle polemiche, scrisse in ottobre una lettera, pubblicata da “Le Monde”, in cui affrontò con marcato sarcasmo le critiche mosse in primis dal filosofo Finkielkraut. Più pacatamente aveva espresso sulle colonne dell’”International Herald Tribune” la sua posizione politico-emotiva il 6-7 maggio del 1995, prima della presentazione del film. “La Jugoslavia multietnica – affermò - è stata distrutta per fare una Bosnia multietinica. E’ una cosa priva di senso per chiunque ami la Jugoslavia come paese multiculturale. Sono vissuto in un paese dove i miei film preferiti erano croati e i miei libri preferiti erano serbi. I miei film sono nati nell’atmosfera di una Sarajevo realmente multietnica. Ora debbo diventare qualcuno il cui cuore batte unicamente per la Bosnia o l’Erzegovina. Non ho niente contro, ma non mi sento di poterlo diventare perché sono profondamente jugoslavo dentro”330. E’ una visione panjugoslava, multietnica affine a quella che Ivo Andrić impresse nelle pagine del romanzo Il ponte sulla Drina. Dichiararsi jugoslavo in una fase di complessi e intricati odi etnici tra i popoli e nei momenti in cui la sua Bosnia è rimasta assediata dalle forze militari dell’ex-armata di Tito è una posizione assolutamente scomoda, che per alcuni è stata letta ambiguamente come una presa di posizione filoserba, quando gli stessi serbi, con l’ansia della Grande Serbia, sono stati i fautori di uno dei più intensi nazionalismi sviluppatisi negli anni Ottanta. L’ultima sequenza in cui un lembo di terra, con la forma della 330 G.Rinaldi, Il film e le polemiche, cit., p.56. 328 Jugoslavia, si stacca dalla terraferma, è un riferimento al suo Paese che non c’è più; più che un sentimento di nostalgia è quasi un manifesto funebre. Nelle dichiarazioni riportate sul “Castoro” dedicato al regista si legge, infatti, “Il fatto di aver vissuto in un Paese e di accorgersi che non esiste più, rappresenta per me una perdita irreparabile. Underground non è un film nostalgico, è un necrologio. Sono io ad essere nostalgico! Non ho più sentimenti nazionali. Prima ero jugoslavo e mi trovavo bene tra le nostre differenze religiose e culturali. Sono come i gitani del mio film. Non mi resta che il cinema. Come diceva Marilyn Monroe: io abito nei miei film”331. Kusturica, amareggiato dalle polemiche, non ci stette ad essere accomunato alla figura di Miloŝević, anzi dichiarò di essere contro il suo sistema. Su “Liberation”, il 25 ottobre dello stesso anno, intervenne: “Nessuno evidentemente può giustificare quello che i Serbi hanno fatto in Bosnia: questo è un primo piano, come in un film. Ma questo è troppo fragoroso perché non si debba guardare lo sfondo, cioè la storia. La Bosnia multietnica è il mio massimo desiderio: ma i serbi non vogliono, e neppure i croati e i musulmani. Non mi identifico più con niente. Mi posso solo definire jugoslavo, il che costituisce ancora uno dei miei atteggiamenti non politicamente corretti”332. Nelle sue enunciazioni condannò inoltre la criminalizzazione mediatica, acritica, dei Serbi, con una posizione non lontana da quella sostenuta dallo scrittore drammaturgo austriaco Peter Handke (in Un viaggio d’inverno ovvero giustizia per la Serbia, Einaudi, 1996), spiegando anche che, caso strano, furono proprio gli 331 La dichiarazione di Kusturica è raccolta, tra altre, nel primo capitolo (pag. 19) del Castoro a lui dedicato, curato da Bertellini, a proposito del rapporto “cinema e nazionalità”. 332 G.Rinaldi, Il film e le polemiche, cit., p.56. 329 estremisti di quell’etnia ad attaccarlo dopo Papà è in viaggio d’affari. A bordo di un traghetto, da Corfù a Otranto, di ritorno da un concerto improvvisato con la sua band “No-smoking”, Kusturica raccontò a Paolo Rumiz, inviato speciale de “La Repubblica”: “In troppi pretendono che io sia ideologicamente contro qualcuno e qualche cosa. Ma io mi rifiuto di essere unilaterale. Non sono contro nessuno; nemmeno contro l’America che ha bombardato il mio paese. Io dò risposte complesse perché questa guerra, se si vuole essere onesti è complessa. La colpa non sta da una parte sola; certe cause partono da molto lontano. Ma quando lo dico, subito mi saltano addosso, dicono che sono per Miloŝević. E’ pazzesco l’Occidente sta diventando manicheo come il vecchio comunismo”333. Il regista rivendicò la sua libertà intellettuale, poetica, e la distanza dall’attualità politica, che non è il centro del film, occupato invece da una visionaria metafora degli ultimi cinquant’anni di storia jugoslava. Una Jugoslavia privata per decenni di libertà e di verità storica, impegnata in una continua lotta contro il nazismo e il fascismo anche quando erano già stati sconfitti; un paese sommerso pronto a riaffiorare in superficie per riesplodere con tutte le sue contraddizioni. Jacques Almaric , editorialista di “Liberation”, lodò Kusturica per “una formidabile autopsia” del socialismo reale. Giorgio Rinaldi su “Cineforum”334 notò, criticando le pretestuose polemiche, come la scelta del lirismo (uno dei registri del film) potesse condurre ad alcune semplificazioni: l’attribuzione della resistenza contro i nazifascismi solo ai Serbi, l’identificazione dei 333 L’intervento di Kusturica è riportato all’interno di Maschere per un massacro di Paolo Rumiz (Editori Riuniti, 2000), giornalista e scrittore triestino, nel capitolo Le bombe celesti. 334 G.Rinaldi, Il film e le polemiche, cit., p.57 330 tedeschi del 1941 con quelli che hanno unificato la Germania e il sospetto che dietro i Caschi blu si nascondano trafficanti d’armi. “Ma si tratta di osservazioni marginali e non esclusive della propaganda serba. Come non è propaganda serba la nostalgia di una Jugoslavia multietnica che impregna il film. Il cui limite principale politicamente parlando e nel mostrare la guerra come il risultato della follia dei popoli e, forse, nella fredda distanza di fronte alla sofferenza che si traduce in un rifiuto, quasi in un’incapacità di compassione”335. Per completezza riportiamo due giudizi su Kusturica da parte di suoi concittadini e, forse, ex-amici. Abdulah Sidran, sceneggiatore di Papà è in viaggio d’affari, definì l’atteggiamento di Kusturica, “un suicidio politico”336, perché i bosniaci lo ritenevano un rinnegato, un ribelle, come Knut Hansun al quale il popolo aveva restituito i libri da lui scritti perché collaborò con i nazisti. Lo scrittore e saggista Marko Veŝović lo dipinse come “uno studente modello che ha superato tutti gli esami da vero serbo con il massimo dei voti” salvo poi concludere “che era un uomo straordinariamente onesto. E veramente intelligente anche se un po’ alla contadina, nonostante fosse un sarajevese nato”337. Sono, invece, più articolate alcune interpretazioni dall’”interno”. Dina Iordanova, storica del cinema esperta dei Balcani, analizza il film nel suo saggio Cinema of Flames mettendo in luce gli elementi propagandistici dell’opera e le diverse letture a cui si presta, dall’esterno e dall’interno dell’ex-Jugoslavia; inoltre, sostiene che l’amoralità dei suoi personaggi supporta 335 Ibidem P.Vecchi, Emir Kusturica, cit., p.102 337 Lo scrittore e saggista Marko Veŝović nel racconto Un uomo onesto, inserito in Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo (Sperling&Kupfer, 1996) parla di Emir Kusturica senza mai citarlo espressamente, scrivendo che il nome della persona a cui si riferisce “potrebbe benissimo essere usato per indicare quella sottospecie di peste che oggigiorno ha attaccato il popolo serbo”. 336 331 “l’argomento primordialista”338 dell’immoralità o del primitivismo innato dei Balcani. Su questa tematica si sofferma anche il filosofo e sociologo sloveno Slavoj Žižek: “I Balcani sono l'inconscio più segreto dell'Europa. Da qui nasce la questione da me più volte affrontata: dove cominciano i Balcani. La risposta è sempre la stessa: nel giardino del vicino. Per i Serbi iniziano in Albania e così via fino ad arrivare alla perfetta Gran Bretagna per la quale i Balcani sono l'intero continente europeo. Kusturica con Underground lo conferma. Il film non presenta i Balcani, ma la loro immagine fantasmatica, un luogo dove la gente beve, fa sesso, mangia, uccide; è la ‘fantasia’ occidentale dei Balcani. Kusturica soddisfa la richiesta di ‘primitivismo’ dello spettatore occidentale. Atteggiamento che ritroviamo, generalizzato, tra gli stessi serbi, bosniaci e anche sloveni. Anche il nazionalismo serbo sembra uno show teatrale. Il sociologo tedesco Ulrich Beck lo definirebbe ‘nazionalismo riflessivo’. L'occidente "civilizzato" si è ostinato per anni a prendere sul serio la stupida storia delle passioni etniche; mostrandosi così incapace di capire cos'era veramente in atto nei Balcani: un processo politico, un conflitto di potere”339. In un capitolo del suo libro L’epidemia dell’immaginario, intitolato “La poesia della pulizia etnica”, Žižek spiega che attraverso il particolare auto-distanziamento attuato nel film, in chiave ironica, si sviluppi quella cinica ideologia postmoderna, che lo porta, involontariamente, a rappresentare il fantasmatico retroscena “apolitico” della pulizia etnica (in particolare dei serbi, sostiene) e della crudeltà in guerra in exJugoslavia340. 338 Cfr. D.Iordanova, Cinema of Flames, balcan film, culture and the media,cit., p.111. Elisabetta D’Erme, L’underground della politica, intervista al filosofo Žižek, il Manifesto, 10 aprile 2001. 340 Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma, 2004, pp.94-96. 339 332 La docente universitaria belgradese Nevena Daković descrive, invece, Underground come “un affresco ricco sia dal punto di vista narrativo che visuale, indefinibile sia dal punto di vista politico che ideologico”341, dall’alto valore estetico e che condensa i due poli della filmografia di guerra balcanica: il mito e la realtà. Al di fuori dalle polemiche non bisogna dimenticare l’importanza artistica di Underground, un film visionario che rimane un’opera di fantasia ma guarda alla Storia e al presente, in termini estetici e metaforici. Underground è, come abbiamo compreso, un’opera politicamente controversa. In ogni analisi non si dovrebbe mai smarrire l’attenzione al testo filmico, trascurata invece in molte delle polemiche. L’interesse del film non riguarda solo l’exJugoslavia, ma nell’affrontare “la manipolazione dei popoli”342 tocca una problematica, purtroppo, universale, che va oltre i confini della Serbia o della Bosnia. 341 La breve analisi è tratta dall’articolo di Nevena Daković dal titolo La guerra sul grande schermo: filmografia della disgregazione jugoslava, cit. 342 G.Rinaldi, I film e le polemiche, cit, p.57. 333 Scheda film Regia: Emir Kusturica; soggetto: Dusan Kovačević; Sceneggiatura: Dusan Kovačević, Emir Kusturica; fotografia: Vilko Filać; musica: Goran Bregović; montaggio: Branka Čeperac; scenografia: Miljen Kliaković ”Kreka”; costumi Nebojsa Lipanović; suono: Marko Rodić; effetti speciali: Petar Živković, Roman Tudžaroff, Martin Kilhanek, Jaroslav Štolba. Interpreti: Predrag Miki Manojlović (Marko), Lazar Ristovski (Petar Popara detto “Nero”), Mirjana Joković (Natalija), Slavko Štimac (Ivan), Ernst Stötzner (Franz), Srdan Todorović (Jovan), Mirjana Karanović (Vera), Milena Pavlović (Jelena), Bata Stojković (Deda), Bora Todorović (Golub), Davor Dujmović (Bata), Dragan Nikolić (il regista), Emir Kusturica (un trafficante d’armi). Produzione: Mediarex/ETIC (Praga), Komuna Ciby e 2000 PTC (ex (Parigi), Jugoslavia), Pandora Film (Francoforte), Novo Film (Budapest), Tchapline Films (Bulgaria). Produttore associato: Karl Baumgartner. Produttore esecutivo: Pierre Spengler, Distribuzione: Cecchi Gori Group. Origine: Ex Jugoslavia - Repubblica Ceca- Francia – Germania –Ungheria – Bulgaria, 1995. Durata: 175’ (nell’origine 192’). Palma d’oro al Festival di Cannes. Nello stesso anno, “Riminicinema” assegna a Emir Kusturica il premio Federico Fellini. 334 BILBIOGRAFIA 1 - C INEMA , S TORIA E S OCIETÀ Aa.Av., Guerra e Pace, Celid, Torino, 2002. Aa.Vv., Dossier cinema e storia, “La Valle dell’Eden” (quadrimestrale di cinema e audiovisivi), nn. 12-13, Carocci, 2004. Aa.Vv., Print the legend: cinema e giornalismo, Il Castoro, Milano, 2005. Alonge G., Cinema e guerra, Utet, Torino, 2001. Benjamin W. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2000. 1996 Brancato S., Sociologia del Cinema, Sossella, Roma, 2001. Camaiti Hostert A., Metix: cinema globale e cultura visuale, Meltemi, Roma, 2004. Casadio G., La guerra al cinema: i film di guerra nel cinema italiano dal 1944 al 1997, Longo, Ravenna, 1998 Casetti F., L’occhio del Novecento, Bompiani, Milano, 2005. Ferro M., Cinema e Storia, Feltrinelli, Milano, 1980. Jost F., Realtà/Finzione: l’impero del falso, Il Castoro, Milano, 2003. Kracauer S., Cinema tedesco “Dal dottor Caligari a Hitler”, Lindau, Torino, 2001. Menarini R., Moretti M., Alonge G., Il cinema di guerra americano 1968-1999, Le Mani, Genova, 1999. Ortoleva P., Cinema e Storia, Loescher, Torino, 1991. 335 Ortoleva P., Mediastoria, Pratiche, Parma, 1995. Rosenstone R., Visions of the Past: The Challenge of Film to Our Idea of History, Harvard University Press, Cambridge, 1995. Rosenstone R., The Future of the Past: Film and Beginnings of Postmodern History, in Vivian Sobchack (a cura di), The Persistance of History: Cinema; Television, and the Modern Event, Routledge, London e New York, 1998. Rosenstone R. (a cura di), A History of What Has Not Yet Happened , “Rethinking History”, vol.4, n.2, 2000. Sorlin P., Sociologia del Cinema, Garzanti, Milano, 1979. Sorlin P., Cinema e identità europea, La Nuova Italia, Firenze,2001. Sorlin P., L’immagine e l’evento, Paravia Scriptorium, Torino, 1999. Virilio P., Guerra e Cinema, Lindau, Torino, 1996. 2 - F ILM E R EGISTI – guerre jugoslave A.a.V.v., Iugoslavia: il cinema dell’autogestione, Marsilio, Venezia, 1982. A.a.V.v., Emir Kusturica, “Garage”, n.14, Paravia Scriptorium, Torino, 1999. A.a.V.v. Theo Angelopoulos, “Cinemalibero”, I quaderni del battello ebbro, Bologna, 2000. Bertellini G., Emir Kusturica, Il Castoro, Milano, 1996. Bocchi G., Curà A., Riva L., Nema Problema, Manni, Lecce, 2004 336 Brunetta G.P., Storia del Cinema Mondiale, vol.3: L’Europa – Le cinematografie nazionali, Einaudi, Torino, 2000. Bussi G.E., Leech P., Schermi della dispersione. Cinema, storia e identità nazionale, Lindau, Torino, 2004. Daković N., Cinematic Balkan/Bakan Genre, “Nexus Project”, Sofia, 2002-2003. Farassino A., Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano, 2002. Germani S.G. (a cura di), La meticcia di fuoco. Oltre il continente Balcani, Lindau, Torino, 2000. Iordanova D., Cinema of Flames: Balkan Film, Culture and the Media, Bfi, London, 2001. Kusturica E., Grunberg S., C’era una volta Underground, Il Castoro, Milano, 1995. Vecchi P., Emir Kusturica, Gremese, Roma, 1999. Žižek S., L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma, 2004. 2.1 - S AGGI BREVI , ARTICOLI , RECENSIONI Aa.Vv., Ciò che resta dopo che il furore passa, “Duel”, n.104, maggio 2003. Aa.Vv., Immagini del reale figure della non-fiction, “Close-Up”, n.16, Revolver, Bologna, 2004. Bekar M., Tempo d’amare e Il Disertore. Il nazionalismo è la percezione distorta, “7 Val” (suppl. di “Primorske Novice”), 11 marzo 1994. Berardinelli J., Pretty Village, Pretty Flame, “Reel Views” (moviereviews.colossus.net), 1997. 337 Bignardi I., Benvenuti a Sarajevo, “La Repubblica”, 9 novembre 1997. Bignardi I., Napoli di Martone è un teatro di guerra, “La Repubblica”, 1 maggio 1998. Boracchi C., Tempo lineare e circolarità: a proposito di ‘Prima della pioggia’ di M. Manchewski, “Comunicazione filosofica”, n.13, aprile 2004. Bruno M.W., L’infofiction di guerra, “Close-Up”, n.16, settembre 2004. Canova G., Coco A., Lo sguardo di Ulisse, “SegnoCinema”, n. 77, gennaio/febbraio 1996. Canova G., Costa F. (a cura di), Vedere la guerra con occhi diversi, in “Letture”, agosto-settembre 2004. Ciment M., “Aujourd’hui, plus que jamais, le réalisme m’ennuie”: entretien avec Emir Kusturica, “Positif“, n.417, novembre, 1995. Ciment M., Entretien avec Emir Kusturica – “Les couleurs, la texture, l’espace, les sentiments profonds“, n.452, ottobre, 1998. Colombo F., La guerra contro l’immagine?, “Duel”, n. 97, giugno/luglio 2002. Comuzio E., Underground, “Cineforum”, n.351, gennaio/febbraio 1996. Cremonini G., Cocktail micidiale per parlare d’altro (Sesso & Potere), aprile 1998. Crespi A., Prima della pioggia, “Cineforum”, n.338, ottobre 1994. Crespi A., Soffia un duro ‘Vento di Terra’ nell’ottimo film di Marra, “L’Unità”, 22 settembre 2004. 338 Crespi A., Soldato Ryan, tuo padre è Griffith, “L’Unità”, 16 ottobre 2005. Daković N., Yugoslav Wars: beetween myth and reality, “Media, Performance, and Identity Research Circle” (http://polyglot.lss.wisc.edu/mpi/index.htm), marzo 2002. Daković N., La guerra sul grande schermo: filmografia della disgregazione jugoslava, “Corriere dei Balcani/Vreme”, aprile 2004. Daković N., Documentaries from post-Yugoslavia Serbian war discourse, “Afterimage”, gennaio 2001. Daković N., The Threeshold of Europe: Imagining Yugoslavia in film, “Space of Identity” (www.spacesofidentity.net), vol. 1, ottobre 2001. Danesi E., Beautiful People, “Duel”, n.78, marzo 2000. Doncheva G., Antiheroes in films about Vietnam, Chechnya, Afghanistan, and former Yugoslavia, “Media Development”, vol.50 n.2, 2003. D’Erme Elisabetta, L’underground della politica (intervista al filosofo Zizek), “Il manifesto”, 10 aprile 2001. Drobilovic L., Il cinema serbo-croato: considerazioni sociologiche, “Fucine Mute” (www.fucine.com), gennaio 1999. Drobilovic L., Il diverso e il nuovo del cinema balcanico I e II, “Fucine Mute” (www.fucine.com), agosto e settembre 2000. Escobar R., No man’s land, “Il sole 24 ore”, 10 ottobre 2001. Falkowska Janina, National cinemas in postwar east-central Europe, “Canadian Slavonic Papers”, marzo/giugno 2000. 339 Falcinella N., Intervista con Pjer Zalica, regista di Gori Vatra, in “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 21 agosto 2003. Falcinella N., Kusturica: la vita è un miracolo, “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 15 giugno 2004. Fusco M.P., La mia Serbia disperata, “La Repubblica”, 7 gennaio 2005. Gallozzi G., Nessun problema, è solo la guerra dei Balcani, in “L’Unità”, 7 maggio 2004. Gnoli A., Dall’arte al cinema al potere dei media. Immagini: hanno occupato il mondo e trasformato le nostre vite, “La Repubblica”, domenica 3 ottobre 2004. Guidetti N., Lunga vita al piccolo Caos, “Cineforum”, n.394, maggio 2000. Iordanova D., War in Bosnia, Moving Images, “Media Development”, vol.46 n.4, 1999. Iordanova D., Balkan Cinema in 90s: an Overview, “Afterimage”, gennaio 2001. Kezich T., Prima della Pioggia, “Il Corriere della Sera”, 27 Ottobre 1994. Leonardi M., 11 settembre 2001, “Duel”, n.100 Levantesi A., Prima della Pioggia, “La Stampa”, 29 Ottobre 1994. Marangi M., La morte in diretta assurda e grottesca, “Cineforum”, n.409, novembre 2001. Marangi M., Lontano da New York, “Cineforum”, n.419, novembre 2002. 340 Martini E., Chi scrive la storia controlla il presente, “Cineforum” – 348 Mazzacurati C., Appunti di viaggio per il Toro, “Cineforum”, n.346, luglio/agosto 1995. Monda A., Susan Sontag. Le immagini di guerra tra sdegno e dolore, “La Repubblica”, lunedì 31 marzo 2003. Nepoti R., No man’s land, “La Repubblica”, 1 ottobre 2001. Pellizzari L., Fra scene e vicoli le tragedie del tempo, “Cineforum”, n.374, maggio 1998. Pellizzari L., Lo sguardo di Ulisse, “Cineforum”, n.350, dicembre 1995. Pellizzer V., Sjecas li se - Do you remember - Ti ricordi Sarajevo?, in “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 2 aprile 2002. Petrillo E.R., Il Kosovo in un film, “Peacereporter” (www.peacereporter.net), 30 agosto 2005. Piccino C., “E’ la mia guerra nei Balcani”, “Il manifesto”, 15 maggio 2004. Porcelli T., Vedere è Potere, “Close-Up”, n.16, settembre 2004. Porro M., Benvenuti a Sarajevo, “Corriere della Sera”, 8 novembre 1997. Preziosi A., Underground, “SegnoCinema”, n.78, marzo/aprile 1996. Rinaldi G., Il film e le polemiche, “Cineforum”, n.351, gennaio/febbraio 1996. Rinaldi G., Benvenuti a Sarajevo, “Cineforum”, n.369, novembre 1997. 341 Rossi U., Presente e Passato, “SegnoCinema”, n.74, luglio/agosto 1995. Rossi U., Serbia: schermi di guerra senza tentazioni “eroiche”, “Cineforum”, n.343. Salvi D., Teatri di guerra napoletani, “Cineforum”, n.374, maggio 1998. Schivardi M., Kosovo: vivere chiusi tra due check point, “Duel”, n. 97, giugno/luglio 2002. Silvestri R., Peacemaker, “Il manifesto”, 31 ottobre 1997. Silvestri R., In compagnia di un asino, “Il manifesto”, 15 maggio 2004. Silvestri S., Le parole perdute della tv di Belgrado, “Alias” (Il manifesto), 14 maggio 2005. Silvestri S., Cecchini della verità, in “Il manifesto”, 27 aprile 2004. Sofri A., Grande intrigo a Sarajevo, in “L’Espresso”, 7 maggio 2004. Taggi P., Prima della Pioggia, in “Segnocinema”, n.71, gennaio/febbraio, 1995. Tassin C., Bosnia: l’orrore della normalità, “Duel”, n. 97, giugno/luglio 2002. Tornabuoni L., Benvenuti a Sarajevo, La Stampa, 24 Novembre 1997. Vecchi P., Masoni T., Speciale “Il Toro”, “Cineforum”, n.338, ottobre 1994. Vecchi P., C’era una volta il cinema Jugoslavo, “Cineforum”, n.371, gennaio/febbraio 1998. 342 Vecchi P., Belgrado, viaggio al termine della notte, “Cineforum”, n.384, maggio 1999. Vecchi P., Strategia visionaria per un’epica a perdere (Kusturica), “Cineforum”, n.385, giugno 1999. Vecchi P., Un percorso coerente per passione e rigore (Paskaljevic), “Cineforum”, n.387, settembre 1999. Vecchi P., It’s only rock’n’roll but I like, “Cineforum”, n.405, giugno 2001. Vecchi P., Conversazione con Emir, “Cineforum”, n.405, giugno 2001. Zagarrio V., “Una polveriera” – il cinema contemporaneo e la storia, “Passato e Presente”, n.50, 2000. 3 - S TORIA DELLA J UGOSLAVIA E L ETTERATURA Aa.Vv., Nazioni e nazionalismi, Asterios, Trieste, 1999. Andrić, Racconti di Sarajevo, Newton-Compton, Roma, 1993. Andrić I., Racconti di Bosnia, Newton-Compton, Roma, 1995. Andrić I. Il ponte sulla Drina, Mondadori, Milano, 1999. Bianchini S. Sarajevo le radici dell’odio, Edizioni Associate, Roma, 1996. Bianchini S., La questione jugoslava, Giunti, Firenze, 1999. Bonapace W., Perino M. (a cura di), Srebrenica e fine secolo, Israt, Asti, 2005. Castellan G., Storia dei Balcani, Argo, Lecce, 1999. Ceola P., Il Labirinto, Liguori, Napoli, 2002. 343 Civic C., Rifare i Balcani, Il Mulino, Bologna, 1993. Chomsky N., Due ore di lucidità, Baldini Castoldi – 2003. Chomsky N., Il nuovo umanitarismo militare ( lezioni dal Kosovo), Asterios, Trieste, 2000. Conte F., Gli Slavi, Einaudi, Torino, 1991. Del Giudice P., Krstanovic D., Kovacevic M., Sarajevo!, Nicoldi, Trento, 2001. Deriu M., Dizionario critico delle nuove guerre, Emi, Bologna 2005. Di Francesco T. (a cura), Jugoslavia perché, Gamberetti, Roma, 1995. Dizdarevic Z., Giornale di guerra. Cronaca di Sarajevo assediata, Sellerio, Palermo, 1994. Dizdarević, Lettere da Sarajevo, Feltrinelli Milano, 1998. Dizdarević Z., Riva G., L’Onu è morta a Sarajevo, Il Saggiatore – 1996. Dogo M., Storie balcaniche, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 1999. Drakulić S., Balkan Express, Il Saggiatore, Milano, 1993. Hobsbawm E.J., Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Bari, 1999. Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997. Iveković R., La balcanizzazione della ragione, Manifestolibri, Roma, 1995. Kaldor M., Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Roma, 2001. 344 Krulic, Storia della Jugoslavia, Bompiani, Milano, 1997. Janigro N., L’esplosione delle nazioni. Il caso Jugoslavo, Feltrinelli, Milano, 1993. Marcon G., Dopo il Kosovo, Asterios, Trieste, 2000. Martelli, La guerra in Bosnia, Mulino, 1997. Marzo Magno A. (a cura di), La guerra dei dieci anni, Il Saggiatore, Milano, 2001. Matvejević P. (a cura di), I signori della guerra, Garzanti, Milano, 1999. Morin E., I Fratricidi – Jugoslavia, Bosnia 1991-1995, Meltemi, Roma, 1997. Pirjevec J., Le guerre Jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino, 2002. Prevelakis, I Balcani, Il Mulino, Bologna, 1997. Rastello L., La guerra in casa, Einaudi 1998. Rumiz P., La linea dei mirtilli, Editori Riuniti, Roma, 2000. Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma, 2000. Scotti G., Croazia, Operazione Tempesta, Gamberetti, Roma, 1996. Todorova M., Immaginando i Balcani, Argo, Lecce, 2002. Tommasi U., Cataldo M., Kosovo – Buco nero d’Europa, Achab, Verona, 2004. Vesovic M., Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo, Sperling&Kupfer, Milano, 1996. Vigna E., Kosovo “liberato”, La città del sole, Napoli, 2003. 345 3.1 - A RTICOLI TRATTI DA P ERIODICI E Q UOTIDIANI Aa.Vv., La guerra in Europa, “Limes”, vol. 1-2, 1993, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso. Aa.Vv., Kosovo: l’Italia in guerra, Quaderni speciali di “Limes”, 1999, Roma, , Gruppo editoriale L’Espresso. Aa.Vv., Dopo la guerra, “Limes”, vol. 2, 1999, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso. Aa.Vv., I Balcani non sono lontani, Quaderni speciali di “Limes”, 2005, Gruppo editoriale L’Espresso. Bergamini O., Media e “War on Terror”, “L’Impegno” rivista di storia contemporanea, a.XXII, nuova serie, n.1, 2 giugno 2002. Badurina I., “Quel mostro ci ha tolto tutto. Figli, nuora, nipote, terra, casa”, “La Stampa”, martedì 12 febbraio 2002. Badurina I., Ex Jugoslavia. La diretta su tutte le reti tv, “La Stampa”, mercoledì 13 febbraio 2003. Bettiza E., La volpe e lo sciacallo, “La Stampa”, mercoledì 13 febbraio 2003. Bonini C., D’Avanzo G., Le carte segrete di Slobo, così incassò 500 miliardi, “La Repubblica”, venerdì 4 luglio 2003. Bonini C., D’Avanzo G., Milosevic anticipa l’affare che a Roma troppi non sanno, “La Repubblica”, venerdì 5 luglio 2003. Bos E., Memoria senza futuro, “Alias” (Il manifesto), 2 luglio 2005. Buden B., L’Urbanità come alibi, tr.it. (www.ecn.org/balkan), Transeuropéennes, n. 10, 1997. 346 Caprile R., Skopje, il silenzio della paura, tutti a casa a vedere la guerra, “La Repubblica”, lunedì 26 marzo 2001. Caprile R., Srebrenica, funerale di massa a dieci anni dal massacro, “La Repubblica”, lunedì 11 luglio 2005. Caprile R., “Srebrenica, la nostra vergogna”. Il mea culpa dell’Occidente, “La Repubblica”, martedì 12 luglio 2005. Cassese A., Uno smacco per il Palazzo di vetro, “La Repubblica”, sabato 9 luglio 2005. Chemillier-Gendreau M., Il diritto come controllo della forza, “Le monde diplomatique”, tr.it., maggio 1999. Chiclet C., Alle origini dell’Esercito di liberazione del Kosovo, “Le monde diplomatique”, tr.it., maggio, 1999. Chiesa G., “Non vorrei che ‘suicidassero’ mio fratello”, “La Stampa”, martedì 12 febbraio 2002. Chomsky N., La Nato padrona del mondo, “Le monde diplomatique”, tr.it., maggio 1999. Chomsky N., Ma è stata una vittoria?, “Internazionale”, n.288, 18/24 giugno. Draskulić S., Un maestro nell’arte serba di recitare il ruolo di vittima, “La Stampa”, mercoledì 13 febbraio 2003. De La Gorce P., Storia segreta dei negoziati di Rambouillet , “Le monde diplomatique”, tr.it., maggio 1999. Dérens J., Destabilizzazioni a catena, “Le monde diplomatique”, tr.it., maggio 1999. Dérens J., La memoria spezzata del Kosovo, “Le monde diplomatique”, tr.it., luglio 2005. 347 Di Francesco T., Del Ponte: “Andrò fino in fondo, voglio tutta la verità”, “Il manifesto”, sabato 10 luglio 2004. Di Francesco T., Quei poveri serbi del Kosovo, razza in estinzione, “Il Manifesto”, sabato 23 ottobre 2004. Di Francesco T., Pulizia etnica infinita e boicottaggio, “Il manifesto”, 23 ottobre, 2004. Di Francesco T., Srebrenica, dieci anni dopo, “Il manifesto”, martedì 12 luglio 2005. Di Francesco T., Scotti G., Sessant’anni di “pulizie etniche”, “Le monde diplomatique”, tr.it., maggio, 1999. Giordana E., Sarajevo, viaggio nei Balcani che guardano all’Europa, “Il manifesto”, sabato 29 maggio 2004. Kapuscinski R., In guerra con Erodoto, “La Repubblica”, sabato 26 aprile 2003. Latouche S., Sul fanatismo identitario, “Le monde diplomatique”, tr.it., maggio, 1999. Lekic M., Balcani due anniversari, “Il Manifesto”, venerdì 28 ottobre 2005. Marcon G., Srebrenica, una vergogna inaccettabile, “Il manifesto”, domenica 10 luglio 2005. Martin L., Srebrenica dieci anni dopo, “Internazionale”, n.598, 8/14 luglio 2005. Mastrolonardo E., Etica e geopolitica: confronto tra editorialisti, “Gli argomenti umani”, agosto 2000. Matvejević P., Quando Tito fece ombra a Stalin, “Il manifesto”, domenica 14 novembre 2004. 348 Matvejević P.; Ponti: quando le guerre distruggono la civiltà, “La Repubblica”, sabato 17 luglio 2005. Milella L., “Il vostro tribunale è illegittimo”, “La Repubblica”, giovedì 14 febbraio 2002. Nemo E., Srebrenica: schock a Belgrado per il filmato. Altri video in arrivo, “Il manifesto”, sabato 4 giugno 2005. Ramonet I., Guerra nei Balcani: lo scempio, “Le monde diplomatique”, tr.it., maggio, 1999. Rampoldi G., L’Occidente trovò la sua missione quell’intervento fu una svolta storica, La Repubblica. Remondino E., I dieci anni che non pacificarono i Balcani, “Liberazione”, domenica 23 ottobre 2005. Rossini A., Serbi in gabbia, “La Repubblica delle Donne” (supplemento de “La Repubblica”), 16 ottobre 2004. Rossini A., Srebrenica dieci anni dopo, “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 30 marzo 2005. Rumiz P., Mostar, il nuovo ponte non sana le ferite della guerra, “La Repubblica”, domenica 2 novembre 2003. Rumiz P., Srebrenica: cronaca di un massacro che nessuno vuol ricordare, “La Repubblica”, sabato 9 luglio 2005. Rumiz P., Ma la città è ancora divisa, “La Repubblica”, sabato 17 luglio 2005. Scarduelli P., Il nazionalismo in una prospettiva antropologica, “L’Impegno” rivista di storia contemporanea, a.XXII, nuova serie, n.1, 2 giugno 2002. Scotti G., Una croce sul calvario di Mostar, “Il manifesto”, sabato 29 maggio 2004. 349 Sofri A., Dialoghi e guerre tra due sponde, “La Repubblica”, sabato 17 luglio 2005 Speranza A., La costruzione del mito serbo del Kosovo, “Balkan” (www.ecn.org/balkan), febbraio 2000. Srbljanoivić B., Belgrado processa Legija il boia di Milosevic, “La Repubblica”, martedì 11 maggio 2004. Veronese P., Macedonia l’ultima battaglia, “La Repubblica”, lunedì 26 marzo 2001. Veronese P., Quel sorriso sul volto di Slobodan ecco la lunga notte dell’orrore, mercoledì 13 febbraio 2002. Veronese P., Lo sguardo gelido del dittatore sulle immagini dell’orrore, “La Repubblica”, giovedì 14 febbraio 2002. Veronese P., Vini, musica e nostalgia Tito riconquista la Jugoslavia, “La Repubblica”, giovedì 15 luglio 2004. Zaccaria G., Dieci anni di guerre. Oggi Milosevic alla sbarra in Olanda, “La Stampa”, martedì 12 febbraio 2002. Zaccaria G., Milosevic minaccia: oggi parlo al mondo, “La Stampa”, mercoledì 13 febbraio 2003. Zaccaria G., “Una carneficina in nome del potere personale”, “La Stampa”, mercoledì 13 febbraio 2003. Zanoni L., Srebrenica la memoria del presente, “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 31 marzo 2005. Zanoni L., Rossini A., Srebrenica, oltre il trauma, “Osservatorio dei Balcani” (www.osservatoriobalcani.org), 20 aprile 2005. Žižek S., Nato, the left hand of God, “Arkzin”, giugno 1999. Zolo D., Diritto internazionale e “guerra umanitaria”, “Giano. Pace ambiente problemi globali”, n. 37, gennaio-aprile 2001. 350 4 - M EDIA E G UERRA Baudrillard J., Il delitto perfetto, Cortina, 1996. Baudrillard J, Lo spirito del terrorismo, Milano, Cortina, 2002 Candito M., I reporter di guerra, Baldini & Castoldi, Milano, 2002. Cicognetti L., Servetti, Sorlin P. (a cura di), La guerra in televisione, Marsilio, Venezia, 2003. Cummings B., Guerra e televisione. IL ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra, Baskerville, Bologna, 1993. Fiorentino G., L’occhio che uccide, Meltemi, Roma, 2004. Giacopini V., Una guerra di carta, Elèuthera, Milano, 2000. Guidi M., La sconfitta dei media, Baskerville, Bologna, 1993. Lalli P. (a cura di), Guerra e media, Ombre Corte, Verona, 2003 Mirzoeff N., Guardare la guerra, Meltemi, Roma, 2004. Moore H., Galloway J, Eravamo giovani in Vietnam, Piemme, Casale Monferrato, 2002. Ortoleva P., Ottaviano C., Guerra e Mass media, Liguori, Napoli, 1994. Ponsonby A., Falsehood in Wartime: Propaganda Lies of the First World War, Bloomfield Books, London, 1991. Perez-Reverte A., Territorio Comanche, Tropea, Milano, 1999. Remondino E., La televisione va alla guerra, Sperling & Kupfer 2002 Scurati A., Televisioni di guerra, Ombre Corte, Verona, 2003. 351 Scurati A., Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale, Donzelli, Roma, 2003. Sontag S., Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano, 2003. Veneziano C., Gallo D., Se dici guerra umanitaria, Besa, Lecce, 2005. Žižek S.. Benvenuto nel deserto del reale, Meltemi, Roma, 2004. 5 – Altri Volumi Aa.Vv., A proposito del film documentario (Annali 1998), Archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico, Roma,1998. Aumont J., Marie M., L’analisi del Film, Bulzoni, Roma, 1996. Bachtin M., Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino, 1968. Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1992. Breschand J., Il documentario, Lindau, Torino, 2005. Cometa M. (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 1994. De Luna G., La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, La Nuova Italia, Firenze, 2001. Keegan J., Il volto della battaglia, Mondatori, Milano, 1978. Kruman K., Le nuove teorie del mondo contemporaneo, Einaudi, Torino, 2000. McLuhan, Gli strumenti del Comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1995. 352 Mignemi A., Lo sguardo e l’immagine, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. Virilio P., Lo schermo e l’oblio, Anabasi, Milano, 1994. Wolf M., Gli effetti sociali dei media, Bompiani, Milano, 1992. FILMOGRAFIA Film lungometraggi BEAUTIFUL PEOPLE, Jasmin Dizdar (Gran Bretagna, 1999) BETWEEN HEAVEN AND HEARTH Milos Radivojević (Ni na nebu ni na zemlji, Jugoslavia 1994) BENVENUTI A SARAJEVO, Michael Winterbottom (Welcome Sarajevo, 1997) BENVENUTO MR.PRESIDENT, Pjer Žalica, (Gori Vatra, Bosnia, 2003) BURLESQUE TRAGEDY, Goran Marković (Urnebesna tragedija, Jugoslavia/Francia/Bulgaria, 1995) IL CARNIERE, Maurizio Zaccaro (Italia, 1997) IL CERCHIO PERFETTO, Ademir Kenović (Savrseni Krug, Bosnia/Francia, 1996) IL DISERTORE, Živojin Pavlović (Dezerter, 1992, Jugoslavia) CETVORORED, Jakov Sedlar (Croazia, 1999) DELO OSVOBAJA, Damian Kozole (Slovenia, 2005) DUST, Milco Mancevski, (Macedonia, 2001) FOREVER MOZART Jean-Luc Godard (Francia/Svizzera, 1996) GO WEST, Ahmed Imamovic (Bosnia, 2005) GRAVEHOPPING, Jan Cvitković (Odgrobadogroba, Slovenia, 2005) HARRISON’S FLOWERS, Elie Chouraqui, (Francia, 2000) HEROES, François Lunel, (Bosnia/Francia, 1998) 353 HOW I KILLED A SAINT, Teona S. Mitevska, (Macedonia/Slovenia/Francia 2004) HOW THE WAR STARTED ON MY LITTLE ISLAND, Vinko Bresan (Kako je poceo rat na mom otoku, Croazia, 1996) JAGODA: FRAGOLE AL SUPERMARKET, Dusan Milić (Jagoda u supermarketu Germania/Italia/Serbia e Montenegro, 2003) KUKUMI, Isa Qosja, (Kosovo/Croazia, 2005) LJETO U ZLATNOJ DOLINI, Srdjan Vuletić (Bosnia, 2003) MARBLE ASS, Želimir Žilnik (Dupe od mramora, Jugoslavia, 1995) MARSHAL TITO, Vinko Bresan (Marsal, Croazia, 1999) MILKY WAY, Faruk Sokolović, (Mljecni put, Bosnia, 2001) NEMA PROBLEMA, Giancarlo Bocchi (Italia, 2004) NO MAN'S LAND, Danis Tanović (Bosnia/Slovenia/Francia/Belgio/Gran Bretagna/Italia, 2001). NOTRE MUSIQUE, Jean-Luc Godard (Francia/Svizzera, 2004) OLTRE AL CONFINE, Rolando Colla (Italia/Svizzera, 2002) PANE E LATTE, Jan Cvitković (Kruh in Meklo, Slovenia, 2001) PEACEMAKER, Mimi Leder (Usa, 1997) PRETTY VILLAGE, PRETTY FLAME, Srdjan Dragojević (Lepa sela lepo gore, Jugoslavia, 1996) LA POLVERIERA, Goran Paskaljević, (Bure Baruta, Jugoslavia/Francia, 1998) PRIMA DELLA PIOGGIA, Milcho Manchevski (Pred dozhdot/Before the rain, Macedonia/Francia/Gran Bretagna, 1994) PREMEDITATED MURDER, Gorcin Stojanović (Ubistvo s predumisljajem, Jugoslavia, 1995) RADIO WEST, Alessandro Valori (Italia, 2004) REMAKE, Dino Mustafić, (Bosnia, 2002) REZERVNI DELI, Damian Kozole in (Slovenia, 2003) SAVIOR, Pedrag Antonijević (Usa, 1998) SGUARDI D'AMORE, Sdrjan Karanović (Sjaj u ocima, Gran Bretagna/Serbia e Montenegro, 2003) 354 LO SGUARDO DI ULISSE, Theo Angelopoulos, 1995 (To vlemma tou Odyssea/Ulysses’Gaze, Grecia/Francia/Italia, 1995) SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZO INVERNO, Goran Paskaljević (San zimske noci, Serbia e Montenegro/Monaco/Spagna, 2004) SOLDATI DI PACE, Claudio Bonivento (film-tv, Italia, 2003) TEATRO DI GUERRA, Mario Martone (Italia, 1998) I TESTIMONI, Vinko Bresan (Svjedoci, Croazia, 2003) TEMPO D'AMARE, Oja Kodar, (Vrijeme za..., Croazia, 1993) IL TEMPORALE-NEVRIJEME, Gian Vittorio Baldi (Italia, 2002) TERRITORIO COMANCHE, Gerardo Herrero (Spagna/Germania/Francia/ Argentina, 1997) TI RICORDI DI DOLLY BELL?, Emir Kusturica (Sjecas li se Dolly Bell?, Jugoslavia, 1981) IL TORO, Carlo Mazzacurati, (Italia, 1994) THE TUNNEL, Faruk Sokolović, (Tunel, Bosnia, 1999) UNDERGROUND, Emir Kusturica (Francia/Gernania/Ungheria, 1995) 11 SETTEMBRE 2001, Aa.Vv., (Francia, 2002) UNSPECTED WALK, François Lunel, (Neocekivana setnja, Bosnia 1997) VENTO DI TERRA, Vincenzo Marra (Italia, 2004) LA VITA È UN MIRACOLO, Emir Kusturica, (Zivod je cudo, Francia/Serbia e Montenegro, 2004) VUKOVAR IS COMING HOME, Branko Schmidt (Vukovar se vraca kuci, Croazia, 1994) VUKOVAR POSTE RESTANTE, Bora Drasković (Vukovar – jedna prica, Usa/Cipro/Jugoslavia, 1994). WHY DID YOU LEAVE ME?, Oleg Novković (Kazi zasto me, Jugoslavia, 1993) THE WOUNDS, Srdjan Dragojević (Rane, Jugoslavia, 1998) ZEMLJA ISTINE, LJUBAVI I SLOBODE, Milutin Petrović (Jugoslavia, 2000) 355 Documentari ANATOMIJA BOLA, Janko Baljak (Jugoslavia, 2000) BEOGRAD-BAR, Vuk Janić, (Olanda, 2003) BOSSA!, Bernard-Henri Lévy e Alain Ferrari (Francia, 1994) LA CADUTA DI MILOSEVIC, Aa.Vv. Bbc (Gran Bretagna, 2002) CALLING THE GHOSTS, Mandy Jacobson e Karmen Jelincić (Usa, 1996) I CANI DI SARAJEVO, Adriano Sofri (Italia, 1995) IL CIELO SOPRA SREBRENICA, Marco Della Croce e Ciro Cortellessa (Italia, 2005) A CRY FROM THE GRAVE, Leslie Woodhead (Gran Bretagna, 1999) I DANNATI DEL KOSOVO, M.Collon V.Stojiković (2003, Italia) DECA FËMIJËT/CHILDREN KOSOVO 2000, Ferenc Moldovanyi (Ungheria, 2002) 10 ANNI DOPO: BOSNIA: LA VERGOGNA D’EUROPA, Mimmo Lombezzi, (Italia, 2005) DIARIO DA UN ASSEDIO, Giancarlo Bocchi (Italia, 1996) DOPO L’ASSEDIO Roberta Ferrati e Massimo Sciacca (Italia, 2003) DOPO SREBRENICA: LA MEMORIA, IL PRESENTE, Andrea Rossini (Italia, 2005) DO YOU REMEMBER SARAJEVO?, Sead e Nihad Kresevjaković, Nedim Alikadic, (Bosnia, 2002) EUROPA, SREBRENICA, Andrea Rossini (Italia, 1999) EXILE IN SARAJEVO, Tahir Cambis e Alma Sahbaz (Australia, 1997) FUGA DAL KOSOVO, Giancarlo Bocchi (Italia, 1999) GHETTO, Mladen Maticević e Ivan Markov (GETO, JUGOSLAVIA, 1995) HOLE IN THE SOUL, Dušan Makavejev (Gran Bretagna, 1994) KILLING MEMORY, Andreas Riedlmayer (Usa, 1994) KOSOVO ANNO ZERO, Giancarlo Bocchi (Italia, 1999) KOSOVO NASCITA E MORTE DI UNA NAZIONE, Giancarlo Bocchi (Italia, 2001) LEAVING TUZLA, Evan Friedman (Usa/Bosnia, 2001) 356 LINEA DI CONFINE, Davide Ferrario, (Italia, 2000) MACEDONIA: THE NEXT BOSNIA?, Julian Chomet (Usa, 1995) MGM – SARAJEVO: COVJEK, BOG, MONSTRUM, A.a.V.v. Saga (Bosnia, 1992/4) MILLE GIORNI A SARAJEVO, Giancarlo Bocchi (Italia, 1995) MORTE DI UN PACIFISTA, Giancarlo Bocchi (Italia, 1996) LA PRIMAVERA DI SARAJEVO, Adriano Sofri (Italia, 1995) PICTURE ME AN ENEMY, Nathalie Applewhite (Usa, 2003) RAJA SARAJEVO, Erik Gandini (Svezia, 1995) REALITIES KOSOVO/A, Eva Ciuk (Italia, 2005) UN SABATO A SARAJEVO, Adriano Sofri (Italia, 1995) SARAJEVO: GROUND ZERO, A.a.V.v. Saga (Bosnia ,1993) SARAJEVO TERZO MILLENNIO, Giancarlo Bocchi (Italia, 1994) SEDICIPERSONE - LE PAROLE NEGATE DEL BOMBARDAMENTO DELLA TV DI BELGRADO, Corrado Veneziano (Italia, 2003) SERBIA ANNO ZERO, Goran Marković (Serbie, année zéro, Francia/Jugoslavia, 2001) SREBRENICA, VOCI DALL’OBLIO, Luca Rosini, Alberto Bougleux e Roberta Biagiarelli (Italia, 2005) SUPER8 STORIES, Emir Kusturica (Francia/Italia, 2001) THANK YOU PEOPLE OF JAPAN, Luca Rosini e Alberto Bougleux (Italia, 2002) IL TRAMONTO DEL SECOLO/TESTAMENTO, Lordan Zafranović, (Decline of the Century: Testament of L.Z., Rep.Ceca/Austri/Croazia, 1995) The URBICIDE: A SARAJEVO DIARY, Dom Rotheroe (Gran Bretagna, 1993) VEILLEES D'ARMES: HISTOIRE DU JOURNALISME EN TEMPS DE GUERRE, Marcel Ophuls (Francia/Germania/Gran Bretagna, 1994) LES 20 HEURES DANS LES CAMPS, Chris Marker (Francia, 1993) LES VIVANTS ET LETS MORT DE SARAJEVO, Radovan Tadić (Francia, 1993) WAR ART, Nedzad Begović (Bosnia, 1994) 357 WHAT ABOUT MACEDONIA, Bob Gliner (Usa, 1994) YUGOSLAVIA: DEATH OF A NATION, Angus McQueen e Paul Mitchell (Usa/Gran Bretragna/Francia, 1995) ZOMBIETOWN, Mark J. Hawker (Gran Bretagna/Jugoslavia, 1995) Cortometraggi (A)TORZIJA, Stefan Arsenijević (Slovenia, 2002) BLACK KITES, Jo Andres (Usa, 1996) COLUMBA URBICA, Goran Radovanović (Jugoslavia, 1995) CRVENE GUMENE CIZME, Jasmila Žbanić (Bosnia, 2000) 10 MINUTA, Ahmed Imamović, (Bosnia, 2003) MY COUNTRY, Milos Radović (Moja domovina, Jugoslavia, 1997), NOC JE, MI SVIJETLIMO, Jasmila Žbanić (Bosnia, 1998) NO WAR, Svetlana Cvetko,(Jugoslavia/Usa, 2001) PRIMA ESPERIENZA DI MORTE, Aida Begic (Prvno smrtno iskustvo, Italia/Bosnia, 2001) RACCONTO DI GUERRA, Marco Amura (2003 Italia) VETA, Teona Strugar Mitevska, (Macedonia/Usa, 2000) SITOGRAFIA CINEMA Festival e case di produzione Alpe Adria Cinema (Trieste film festival) http://www.alpeadriacinema.it Animafest http://www.animafest.hr Belgrade Film Festival http://www.fest.org.yu 358 Documè http://www.docume.org Fama international http://www.Famainternational.com International Media Production http://www.impfilm.info Manaki Brothers – Film Camera Festival http://www.manaki.com.mk Ljubljana film festival http://www.ljubljanafilmfestival.org Palic International Film Festival http://www.palicfilmfestival.com Pula Film Festival http://www.pulafilmfestival.hr Sarajevo Film Festival http://www.sff.ba Saga film http://www.sagafilm.com Thessaloniki Film Festival http://www.filmfestival.gr Unità Cooperazione Creativa http://www.uccvideo.org Zagreb Film Festival http://www.zagrebfilmfestival.com Film e registi Benvenuto Mr.President (Gori Vatra) http://www.refresh.ba/gorivatra/ Do you remember Sarajevo? http://www.sanmarinosarajevo.sm/doyouremembersarajevo/home. htm Harrison Flowers 359 http://www.harrisons-flowers.com Kukumi http://www.kukumi.com Emir Kusturica http://www.kustu.com E.Kusturica & No Smoking Orchestra http://www.thenosmokingorchestra.com Milcho Manchevski http://www.manchevski.com.mk Nemaproblema http://www.nemaproblema.info No Man’s Land http://www.nomansland-der-film.de Goran Paskaljevic http://www.paskaljevic.com Perfect Circle http://www.guerilla.u-net.com/pc/pc.htm Picture Me an Enemy http://www.visavisproductions.com/index.html The Secret Tunnel (a documentary film project) http://www.hadzic.org/secret-tunnel Sedicipersone http://www.sedicipersone.com Srebrenica: A Cry from the Grave http://www.pbs.org/wnet/cryfromthegrave Il temporale – Newrijeme http://www.iltemporale.com La vita è un miracolo http://www.lifeisamiracle-themovie.com Zelmir Zilnik http://www.zelimirzilnik.net 360 Riviste Afterimage http://www.vsw.org/afterimage/index.html Close-Up http://www.close-up.it Cinematografo http://www.cinematografo.it Fucine Mute http://www.fucine.com Hideout http://www.hideout.it Historical Journal of Film, Radio and Television http://www.iamhist.org/journal/index.html Kinoeye http://www.kinoeye.org/ Media Development http://www.wacc.org.uk/wacc/publications/media_development ReelViews http://movie-reviews.colossus.net/ Sentieri Selvaggi http://www.sentieriselvaggi.it Sight & Sound http://www.bfi.org.uk/sightandsound MEDIA Ansa Balcani http://www.ansa.it/balcani B92 http://www.b92.net Balkan http://www.ecn.org/balkan/index.html 361 Maurizio Bekar http://www.bekar.net Central Europe Review http://www.ce-review.org Noam Chomsky http://www.chomsky.info Contrasto http://www.contrasto.it Information Safety and Freedom http://www.italian.it/isf/index.html Internazionale http://internazionale.it Le Courrier des Balkans http://www.balkans.eu.org Limes http://limesonline.com Le Monde Diplomatique (in italiano) http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo Notizie est http://www.notizie-est.com Oslobodjenje http://www.oslobodjenje.ba Osservatorio dei Balcani http://www.osservatoriobalcani.org PeaceReporter http:/ww.peacereporter.net Radio Free Europe http://www.rferl.org Report www.report.rai.it Slavic Review http://www.econ.uiuc.edu/~slavrev/frames.html 362 Space of Identity http://www.spacesofidentity.net Transisions Online http://www.tol.cz Transeuropéennes http://transeuropeennes.org Vreme http://www.vreme.com WarNews http://www.warnews.it STORIA, ISTITUTI, ASSOCIAZIONI American Association for the Advancement of Slavic Studies http://www.fas.harvard.edu/~aaass Ivo Andrić http://www.ivoandric.org.yu Archivio Noam Chomsky http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/index.html Associazione Ambasciata Democrazia Locale a Zavidovici http://www.lda-zavidovici.it Balcani 2005 http://www.balcani2005.it Bulgaria – Italia http://www.bulgaria-italia.com Casa della poesia (Sarajevo) http://www.casadellapoesia.org/cdp.html Centre for Advanced Study Sofia http://www.cas.bg The Centre for SouthEast European Studies http://www.csees.net/index.php Diario da Belgrado (di B.Srbljanovic) 363 http://xenu.com-it.net/kosovo/index.htm Famu http://www.amu.cz Fondazione Lucchetta http://www.fondazioneluchetta.org Institute for War and Peace Reporting http://www.iwpr.net International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia http://www.un.org/icty/index.html Istituto Europa Centro Orientale Balcanica http://www2.spfo.unibo.it/balkans/eurobalk.html Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia http://www.irsml.it/balcani.html Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea di Asti http://www.israt.it Il Labirinto del Kosovo (Insmli) http//:www.quipo.it/novecento/attori.html Alex Langer http://www.alexanderlanger.org Media, Performance and Identity Research Circle http://polyglot.lss.wisc.edu/mpi/index.htm Progetto Sarajevo http://www.progettosarajevo.com Saraj http://www.saraj.org Livio Senigaliesi http://www.liviosenigalliesi.com Studi per la pace http://www.studiperlapace.it Trieste Contemporanea 364 http://www.tscont.ts.it University of Arts in Belgrade http://www.arts.bg.ac.yu Yugoslav Film Archive http://www.kinoteka.org.yu Zagreb Film http://www.zagrebfilm.hr Slavoj Žižek http://www.lacan.com/frameziz.htm 365
Documenti analoghi
Università degli Studi di Roma Tre Dipartimento di Scienze Politiche
due, macedoni e montenegrini, assunsero lo status di nazioni costituenti della Jugoslavia.
La Bosnia-Erzegovina fu costituita come l’unica Repubblica multinazionale, nella quale
serbi, croati e mus...