PIETRO GIORGIO VIOTTO
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PIETRO GIORGIO VIOTTO
PIETRO GIORGIO VIOTTO Il forte e magico surrealismo alla Dalì ha fatto, nella cultura figurativa del secondo Novecento, pochi proseliti diretti, almeno in Italia. Per quanto il filone surrealista infatti sia fiorente, i linguaggi usati, sempre iperrealistici e volumetrici, sono però differenti. Ad un primo sguardo invece Giorgio Viotto sembra aver seguito fedelmente quelle orme, riconoscendo per contro di non aver avuto maestri in carne ed ossa nel suo lavoro, salvo una frequentazione dei pittori Pippo Ciarlo e Sandro Lobalzo. Di Dalì, la pittura di Viotto riprende infatti la suggestione atemporale degli spazi, la volumetria sinuosa delle forme, i colori sempre luminosi anche quando sono foschi ( e per ottenere tali effetti cromatici utilizza anche accorgimenti tecnici segreti). Poi, però, ci si ferma. Perché, a conoscere meglio Giorgio Viotto, si può capire come i racconti contenuti in ciascun quadro siano poi cosa ben sua e sotto certi aspetti quasi sorprendente. Non sveleremo qui le radici dei dipinti, dalle tematiche strettamente personali (come nel fortissimo dipinto "Natività", che gli è stato recentemente rubato) fino ai modi di dire, passando attraverso esperienze quotidiane allegorizzate, stati d'animo e d'umore, incontri, messaggi legati alla lettura di testi poetici… Tuttavia ogni quadro contiene una profonda indagine su persone e cose, una grande e umanissima, sebbene ben nascosta, partecipazione, una consapevolezza lucida: tutto ciò non si riflette però in una forma naturalistica, meditativa, bensì in un continuo parlare per simboli, in quella complessa maniera che per tutti i surrealisti venuti di poi ha trovato la sua radice in Bosch. Nella pittura di Viotto si riscontra, in armonia con quanto già rilevato, un carattere di ironia distaccata e bonaria, come d'altra parte è proprio dello spirito più autenticamente piemontese: anche per Giorgio Viotto, come per Gozzano, "a l'è question 'd nen piess-la", non nel senso di infischiarsene, ma nel senso di saper accogliere senza mostrare i segni di cedimento e di sofferenza che sarebbero naturali i colpi della sorte, i dolori e i turbamenti a volte apparentemente ingiusti che la vita ci riserva, e di saper dominare la segreta tempesta con un sovrano autocontrollo e a volte perfino un sorriso. In ultima analisi, forse, si tratta di pudore: quel pudore che spinge a rifuggire in ogni occasione dalle espressioni altisonanti, dai vezzeggiativi amorosi fino alle parole della sofferenza e del lutto. Talvolta si ha bisogno di sorridere su eventi quotidiani, come accade nel bel quadro dove un realistico cavolo campeggia fra oggetti simbolici diversi, o di sognare come nei dipinti nei quali leggeri corpi tondi aperti rivelano esseri sconosciuti o dove fantastiche figure di cavalieri-magi viaggiano verso paesi misteriosi… Donatella Taverna