Sintesi di Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi. Autori opere

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Sintesi di Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi. Autori opere
Sintesi di Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi. Autori opere teorie 1895-1990, Milano, Mondadori, 1986.
1. Freud e Jung
Confrontandosi con Jung*, Freud lo sapeva bene, la psicoanalisi esce dal ghetto. Non solo da
quello, storico, della cultura ebraica mitteleuropea, ma anche da quello, metaforico, della terapia ambulatoriale: due ambienti che sapevano di chiuso e che, ormai, le andavano un po’
stretti.
Jung significa, infatti, prima di tutto «Burghölzli», un’istituzione psichiatrica di prestigio internazionale, una clinica universitaria di antiche tradizioni, il tutto a Zurigo, nel centro di
un’area culturale di lingua tedesca.
Ma, nonostante le aspettative di Freud, Zurigo non servirà solo da cassa di risonanza: lungi
dall’amplificare il discorso freudiano ne condurrà una critica serrata, cui farà seguito una riformulazione radicale. Jung non sarà un post-freudiano, ma un caposcuola, il fondatore di un
diverso campo teorico. I due autori non devono essere considerati in opposizione frontale
(come una certa tradizione ha sostenuto sino alla caricatura) ma non e neppure possibile procedere per cumulazione poiché, come vedremo, il progetto scientifico complessivo non è più
lo stesso, al di là delle singole differenze di contenuto.
Ci limiteremo pertanto, in questa sede, a ricostruire le trasformazioni che conducono un corpus teorico a riformularsi, attraverso torsioni che comportano una ridefinizione dell’oggetto,
del metodo, del programma di lavoro.
*
Carl Gustav Jung nacque nel 1875 in un piccolo villaggio della Turgovia, in Svizzera, dove morì nel 1961.
Figlio di un pastore protestante travagliato da un'incerta vocazione, trascorse un'infanzia non priva di crisi e di
conflitti interiori. Laureatosi in medicina, nel 1900 entrò a far parte del prestigioso ospedale psichiatrico Burghölzli
dove, sotto la guida di E. Bleuler, compì una brillante carriera. Nel 1902 si recò a Parigi per studiare con Janet.
Nel 1906 si incontrò con Freud con il quale strinse un rapporto di intensa comunicazioe (attestato dal carteggio
Lettere tra Freud e Jung, Boringhieri, Torino 1974) fíno alla rottura del 1913. Nel 1930 fu nominato presidente onorario della Società tedesca di Psicoterapia. Quando, nel 1933, Hitler conquistò il potere in Germania e la Società fu riorganizzata secondo i principi del nazionalsocialismo, Jung, contrariamente ad altri membri, non rassegnò le dimissioni, anzi ampliò l'associazione a livello internazionale, redasse un suo organo ufficiale, lo «Zentralblatt für Psychotherapie», affiancato da un cugino del famigerato dr. Goering, dal 1936 al 1940. Ciò valse a Jung
numerose accuse di filonazismo e di antisemitismo dalle quali si difese sostenendo di aver cercato di proteggere,
in tal modo, la psicoanalisi e gli analisti ebrei.
Una pagina buia in tempi oscuri. Dopo la guerra gli giunsero riconoscimenti da ogni del mondo. Nel 1948 fu fondato il C.G. Jung Institut, destinato all'insegnamento della teoria e dei metodi della psicologia analitica.
La sua vita non fu scandita da grandi avvenimenti esteriori, ma contraddistinta da una eccezionale intensità interiore, come trapela dal Diario di una segreta simmetria (Sabina Spielrein e Jung-Freud), a cura di A. Carotenuto,
Astrolabio, Roma 1980, e testimonia la sua stessa sterminata produzione. Le sue opere sono in corso di pubblicazione presso l'editore Boringhieri. Dei volumi previsti (in analogia alla edizione svizzera delle Gesammelte
Werke e a quella inglese e americana dei Collected Works) sono apparsi finora i primi undici, il dodicesimo (disponibile nella collana "Saggi"); il tredicesimo, il quattordicesimo (limitatamente al tomo 1), il quindicesimo, il sedicesimo e il diciassettesimo. I rimanenti due sono in corso di pubblicazione.
Per una visione complessiva dell'opera di Jung si rinvia alle seguenti rnonografie: J. Jacobi, Complesso, Archetipo, Simbolo nella psicologia di C. G. Jung (1957), trad. it. Boringhieri, Torino 1971; La psicologia di Jung, ivi,
1973; G. Adler, Psicologia analitica (1948), ivi, 1972; A. Carotenuto, Senso e contenuto della psicologia analitica,
ivi, 1977; M. L. von Franz, Il mito di Jung (1972), ivi, 1978; M. Trevi, Introduzione a C.G. Jung, Psicologia dell'inconscio, ivi, 1973; S. Montefoschi, C. G. Jung. Un pensiero in divenire, Garzanti, Milano 1985; C. Baudouin, L'opera di Jung (1963), ivi, 1978; C. S. Hall, V. J. Nordby, Jung e la psicologia analitica, trad. it. Laterza, Bari 1983;
B. Hannah, Vita e opere di C. G. Jung (1976), trad. it. Rusconi, Milano 1980; G. Wehr, Jung (1987), trad. it. Rizzoli, Milano 1987; L. Aurigernma, Prospettive junghiane, Torino, Boringhieri, Torino 1989; C. Trombetta (a cura
di), Psicologia analitica contemporanea, Bompiani, Milano 1989; A. Samuels, B. Schorter, F. Plant, Dizionario di
psicologia analitica (1986), trad. it. Cortina, Milano 1987; «Immediati dintorni. Un anno di psicologia analitica e
scienze umane», P. Lubrina, Bergamo 1989; P. Aite, A. Carotenuto, Itinerari del pensiero junghiano, Cortina, Milano 1989. Si segnala inoltre: Jung e le tensioni del simbolo, numero monografico di «Aut Aut», 229-230, gennaio-aprile 1989.
Dal 1933 in poi ad Ascona, nel Canton Ticino, grandi studiosi raccolti intorno a Jung si incontrarono per confrontare annualmente le loro ricerche. Nascono così le «Giomate di Eranos» che continuano tuttora. Gli atti più significativi sono in corso di pubblicazione presso l'edítore Red di Como. Il primo è stato pubblicato con il titolo: E.
Neumann, K. Kerény, D. T. Suzuki, G. Tucci, La Terra madre e dea, sacralità della natura che ci fa vivere (19461953), trad. it., 1989.
1
Contrariamente a Freud, sempre timoroso ed ambivalente in proposito, Jung non ha dubbi: la
psicoanalisi è un metodo di cura, ma anche una scienza complessiva, un sistema del mondo,
dotato di un discorso forte, degno di interloquire con la più alta tradizione filosofica e, in senso lato, teorica.
In corrispondenza alle due funzioni dell’istituzione zurighese, quella medica e quella accademica, si delineano due ambiti scientifici, dotati di uno statuto epistemologico diverso, sebbene
tra loro dialetticamente connessi: quello clinico e quello sistematico.
In un primo tempo, in quanto psichiatra, Jung adotta il pensiero di Freud, lo utilizza con successo nella diagnosi e nella terapia delle psicosi. Riconoscerà sempre al maestro viennese di
aver operato una vera e propria rivoluzione nei confronti della psichiatria classica, tassonomica e descrittiva.
Ma è in quanto teorico della psicologia che Jung si distanzia progressivamente da Freud: il loro divario sorge dalla teoria e si estese solo successivamente alla clinica. Jung rifiuta di fare
della teoria il momento di estensione dell’esperienza terapeutica. La psicoterapia non è, per
lui, una psicologia generale. Si reintroduce così, sulla scena psicoanalitica, quella distinzione
tra salute e patologia che Freud aveva pervicacemente negato, a costo di estendere l’ombra
della malattia sull’umanità intera.
Jung, erede dell’idealismo tedesco, che si riconosce nell’autonomia lo spirito (Geist), non può
accettare un modello psicologico che si da su un concetto spurio, come quello di libido, energia psichica di natura sessuale, radicata nel corporeo, frammentata in pulsioni parziali, mai
completamente amministrabili. Ed è proprio la libido a costituire il perno attorno al quale
Jung fa ruotare, sino alla trasformazione, il pensiero freudiano.
Pensiero, a suo dire, riduttivo, impoverente, che privilegia la polarità biologica dell’uomo a
scapito di quella spirituale. Per ovviare al riduttivismo freudiano, Jung agisce su due piani distinti, benché ordinati.
L’uno, più immediato, costituisce la pars destruens: vi si opera infatti ridimensionamento della figura di Freud, una storicizzazione delle scoperte, una relativizzazione del suo pensiero;
l’altro, la pars destruens, innalza invece un grande edificio sistematico, una vera e propria teoria della cultura.
Consideriamo, innanzitutto, la prima delle due dimensioni, ove la psicoanalisi prende le distanze da se stessa, si guarda come un avvenimento culturale tra gli altri, esce, in un certo senso, dalla prospettiva religiosa con la quale Freud aveva vissuto la sua fondazione. Jung elabora, contro l’assolutismo di Freud e il dogmatismo della sua scuola, una teoria della conoscenza di grande interesse. La psicoanalisi, dice non può dire nulla di vero e di giusto sulla psiche,
ma solo qualcosa di veritiero, di inerente ad una esperienza soggettiva. Anche l’esperienza più
personale ed esclusiva possiede però un valore conoscitivo in quanto testimonianza. Ciò che è
stato vissuto, seppure da un solo uomo, ha una sua validità perché è accaduto ad un appartenente alla specie umana. In questo senso anche il soggetto è un dato oggettivo, una frazione
di mondo. L’obbiettività scientifica tuttavia si conquista solo con il metodo, con la correttezza
dell’autosservazione, con la veridicità dell’espressione comunicativa dei fenomeni osservati,
nonché con il riconoscimento della relatività di ogni apporto di sapere.
Il pensiero di Freud, dice Jung, è una testimonianza soggettiva che ha portato alla luce una
grande verità umana, benché espressa nelle forme storiche di un luogo e di un’epoca.
Jung ridimensiona Freud sino a considerarlo un residuo storico, l’ultimo frutto dell’epoca vittoriana, il suo definitivo distruttore. Se la sua opera illuministica, di svelamento della falsa coscienza borghese di tradizione ottocentesca, fu meritoria, non dobbiamo dimenticare, avverte
Jung, che egli rimase impigliato nel suo stesso atteggiamento critico, demolitore, negativista:
«Da tutto il pensiero di Freud» scrive «ridonda dunque su di noi un terribile, pessimistico
“niente altro che”. In esso non si apre mai uno spiraglio liberatorio su forze soccorritrici, risanatrici, che l’inconscio faccia giungere a beneficio del malato. Ogni posizìone viene scalzata
mediante la critica psicologica che riduce ogni cosa ai suoi elementi sfavorevoli e dubbi, o
2
almeno insinua che tali elementi esistano. Simile posizione eminentemente negativa è peraltro
indubbiamente giustificata di fronte alle inadeguatezze che la nevrosi origina in abbondanza...
Il metodo psicologico di Freud è sempre stato un farmaco per materiale guasto e degenerato
quale si trova soprattutto nei nevrotici. È strumento da maneggiarsi dal medico e diventa pericoloso e distruttivo, e nel migliore dei casi inservibile, se applicato a manifestazioni e necessità vitali naturali»1.
Queste poche righe tratte, significativamente, dal necrologio che Jung scrisse per la morte di
Freud, ci danno la misura dell’impresa, definita pars destruens, con la quale si salda un debito
e si fa spazio alla fondazione di un nuovo campo del sapere.
Tuttavia il medesimo testo si conclude in modo oracolare ma estremamente significativo.
Jung insinua che Freud, attraversato dalla parola dello spirito, l’ha fatta propria, vi ha aderito
sino alla nevrosi, senza capire che le nostre idee non sono prodotte da noi ma ci producono.
«Almeno una volta» implora «ci si dovrebbe chiedere: perché quel pensiero è entrato in me in
tal modo? Che cosa significa in rapporto a me stesso?» Freud ha eluso questo interrogativo e
di conseguenza si è comportato come un posseduto dagli spiriti. «In realtà soltanto lo “spirito”
può scacciare gli “spiriti”, non l’intelletto...»2. Mentre Jung infligge il colpo di grazia al maestro, usando tutte le armi in suo possesso, prepara, nel vuoto lasciato da quella figura, il grande scenario di una psicologia hegeliana, molto lontana ormai dal criticismo razionalista, di
stampo kantiano, del fondatore.
Per sintetizzare la originalità della posizione junghiana osserviamo, ancora una volta, come
essa proceda contemporaneamente su due binari: Freud ha messo a punto una tecnica ed una
teoria per la terapia delle affezioni psichiche e, nel far questo, ha denunciato gli aspetti più
clamorosamente repressivi della società del XIX secolo. Ma non solo: quasi a sua insaputa, ha
formulato delle verità, senza tuttavia riuscire a collocarle nella giusta dimensione. «Le idee
che conquistano, le idee cosiddette vere, hanno in sé un che di particolare: sorgono da una regione atemporale, da un essere-sempre-esistente, da un terreno psichico primordiale su cui lo
spirito effimero del singolo individuo cresce come una pianta che porta fiori, frutti e semi, appassisce e muore. Le idee provengono da qualcosa che è più grande della persona singola.
Non siamo noi a produrre le idee, sono piuttosto le idee che formano noi»3. Jung distingue un
inconscio personale ed uno collettivo. Quest’ultimo ha una dimensione asoggettiva che va oltre l’impersonalità dell’inconscio freudiano, il quale è trasversale rispetto ai singoli individui,
ma non esiste al di fuori di essi. Il mondo delle idee junghiano, invece, sembra godere di una
totale autonomia rispetto ai soggetti attraverso i quali si manifesta, qualche cosa di analogo
alla scissione platonica tra idee e divenire materiale. Notiamo, a margine, che sul crinale di
questi problemi andrà collocato l’inconscio lacaniano, nel suo statuto discorsivo e nella sua
radicale e ostile alterità rispetto al soggetto.
Il pensiero di Jung appare saldamente radicato nella realtà storica, del suo tempo, consonante
con le esigenze ideologiche della società tedesca impegnata nello sforzo di superamento della
crisi degli anni Venti: esse erano contraddistinte dalla ricerca di una immagine positiva della
civiltà occidentale, dal recupero della tradizione pre-illuminista dalla nostalgia per la dimensione «eroica» dell’uomo. Una prospettiva radicalmente in contrasto con la cultura della crisi
e con il pessimismo borghese di Freud.
2. Una psicologia «risanata»
«Postulato della teoria iunghiana» come ben sintetizza Aurigemma «è un’immagine
dell’uomo come natura fondamentalmente sana, complesso di forze in espansione, contraddittorie e tensionali e quindi di difficile armonizzazione, e tuttavia costituzionalmente portatore
di capacità di compensazione e di riequilibrio implicita nella sua inconscia»4.
1
C. G. JUNG, Sigmund Freud. Necrologio (1939), in Il contrasto tra Freud e Jung, p. IX.
Ibid. pp. 255-6.
3
Ibid., p. 209.
4
Ibid., p. IX.
2
3
Si tratta di un uomo che ha a sua disposizione non già un’energia, difficilmente domabile e
trasformabile, ma un’energia generale che è anche sessuale. L’introduzione di un’unica forza,
simile all’élan vital di Bergson, sembra a Jung un avvenimento scientifico analogo a quello
rappresentato, per la fisica, dalla teoria di Robert Mayer sulla conservazione dell’energia.
Nulla più di un’ipotesi, ma necessaria al costituirsi di un campo scientifico dotato di omogeneità e regolarità. Nella natura, la libido compare come pulsione di vita che, attraverso la conservazione dell’individuo, tende ad assicurare la continuità della specie; nel vissuto soggettivo, si manifesta invece come volontà, nel senso proposto da Schopenhauer.
La libido junghiana è un concetto essenzialmente dinamico, che spiega sia la possibilità di
evoluzione (stadi libidici) sia quella di regressione (nevrosi).
La nevrosi non è causata tanto dagli avvenimenti della prima infanzia, quanto dal conflitto attuale, cioè dall’incapacità dell’individuo di adattarsi alle richieste del suo ambiente o di trasformarlo in base alle sue esigenze evolutive. Quando il conflitto appare insuperabile, la libido ad esso applicata regredisce a forme più arcaiche di funzionamento. In questo suo movimento a ritroso incontra il complesso edipico (una costellazione di rappresentazioni connotate
affettivamente) e lo investe, riattualizzandolo. Non vi è quindi alcun nucleo patogeno, alcun
conflitto edipico, fino a che un movimento regressivo non venga a sollecitare ricordi latenti,
funzionanti secondo modalità infantili, più fantastiche che razionali. La ricerca delle cause
della nevrosi non si rivolge, allora, esclusivamente al passato, bensì al presente ed al futuro
del soggetto, al suo progetto vitale. Incontrando un viandante, si suole raccontare, un freudiano chiederà: «Da dove vieni?», uno junghiano: «Dove vai?».
In senso metapsicologico, la malattia psichica rappresenta la vittoria della pigrizia e
dell’inerzia, componenti particolarmente intense nei bambini, nei primitivi, negli animali. In
questi casi prevale l’elemento mitologico, espressione, dice Jung, di una «mente collettiva» da
cui si evolve quella individuale. Tracce di elementi mitologici si trovano anche nella psicosi e
nel sogno. L’obiettivo che si propone Jung è allora «una filogenesi dello spirito», che, analogamente alla struttura somatica, ha raggiunto dopo molte trasformazioni la sua forma attuale.
Come l’uomo primitivo, sostiene Jung, riuscì a strapparsi allo stadio primordiale con l’aiuto
dei simboli religiosi e filosofici, così anche il nevrotico può sottrarsi, per questa via, alla sua
malattia. Il simbolo ha una funzione di mediazione tra coscienza ed inconscio e, come tale,
può operare come agente trasformatore. In un certo senso tutto può essere utilizzato come
simbolo di qualche cosa d’altro, vi sono tuttavia simboli che hanno una esistenza oggettiva,
indipendentemente da chi li guarda. In questo caso ciò che si manifesta è l’archetipo.
Una prima espressione della teoria archetipa risale a Simboli della trasformazione (1912), ma
essa trova piena attuazione solo in Psicologia dell’inconscio (1917-43) e soprattutto in Archetipi dell’inconscio collettivo (1934-54) e in Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche
(1947-54). [La seconda data indica l’edizione definitiva rivista dall’Autore.]
Gli archetipi sono immagini originarie che partecipano dell’istinto, del sentimento e del pensiero, pur conservando una loro autonomia; esse costituiscono la memoria dell’umanità che
permane nell’inconscio. Si tratta però di un inconscio collettivo, una matrice comune a tutti i
popoli, senza distinzioni di tempo e di luogo, un’immagine virtuale del mondo che si trasmette per eredità genetica.
Componenti strutturali dell’inconscio collettivo, gli archetipi sono da intendersi come potenzialità espressive, forme vuote, nel senso gestaltistico del termine. Da un punto di vista funzionale, agiscono come impulsi naturali, istintuali, oppure come idee generali che preformano
l’esperienza. Jung tende costantemente a sottolineare gli aspetti formali, strutturali degli archetipi, a scapito di quelli contenutistici. Individua, tuttavia, tra gli archetipi più importanti,
rintracciabili nei miti, nelle favole, nel sogno, nella mente patologica (la rappresentazione archetipa è tanto più catturante quanto più è scissa dalla coscienza): il Vecchio, la Grande Madre, il Bambino, il Mandala, la Ruota, le Stelle, l’Animale.
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Tuttavia l’analisi non incontra mai, nei vissuti soggettivi, gli archetipi, bensì l’immaginario
interiore, cioè quei contenuti psichici, organati in complessi, nei quali le forme archetipe si
storicizzano, come Jung dimostra in L’Io e l’inconscio (1916-1928).
Paradossalmente si può affermare che se l’inconscio freudiano è una tipografia, quello junghiano è una biblioteca. Il primo infatti produce i suoi contenuti, il secondo li contiene. Mentre i contenuti dell’inconscio collettivo sono diacronici, quelli dell’inconscio individuale sono
sincronici. L’inconscio individuale rappresenta un compromesso tra la determinazione degli
archetipi e le scelte personali.
3. La realizzazione del Sé
Il movimento dell’analisi si configura allora come una progressiva espansione: da un massimo
di soggettività ad un massimo di obiettività. Risale, infatti, dal sintomo al complesso, dal
complesso al simbolo, dal simbolo all’archetipo. Oggetto della psicologia junghiana risulta
l’inconscio collettivo mentre quello individuale viene attraversato e trasceso.
Fine della terapia è l’integrazione dei contenuti inconsci nella la realizzazione del Sé (Selbst),
archetipo dell’unità, ideale dei processi di maturazione. Le tappe della terapia ricalcano le linee dello sviluppo normale inteso come un progressivo emergere dall’inconscio collettivo per
guadagnare la coscienza, il predominio dell’Io.
Esso non va tuttavia inteso come autoaccentramento narcisistico. È infatti frutto di due dinamiche assai differenti: la prima consiste nella attivizzazione dell’Io, la seconda nel recupero
delle immagini archetipe. Ciò comporta un processo molto complesso che prevede il riconoscimento di una dimensione archetipa inconoscibile, extrapsicologica, la rivisitazione delle
immagini archetipe che attraversano l’inconscio senza coincidere con la sua dimensione individuale, l’organizzazione della loro pluralità dispersa in forme strutturate, la trascrizione dei
loro effetti nella nostra storia. La psicosi si configura, in questa prospettiva, come l’irruzione
destrutturata delle immagini archetipe in tutta la loro incandescenza [(cfr. la paziente con il
serpente Kundalini nel ventre, in Jung parla, cit., p. 403].. Occorre invece, secondo Jung, lasciarsi invadere dall’inconscio non per perdersi nella sua infinitezza, ma per allargare i confini
della nostra psiche ad un divenire continuo. Divenire che realizza la consistenza dei contrari
che ci dividono: razionalità ed irrazionalità, estroversione, introversione. In ogni caso non è
l’eliminazione dell’oscuro, dell’irrazionale il fine dell’analisi, quanto la sua armonica integrazione. Una integrazione che è, al tempo stesso, educazione e che si avvale dell’apporto decisivo dell’analizzato. Prima di tutto, sostiene Jung, nella nevrosi stessa sono già insite delle indicazioni terapeutiche; in un certo senso, il sintomo è già un tentativo di adattamento.
Si tratta, allora, nella cura, di assecondare le tendenze vitali del paziente, seguendolo per i
sentieri, talvolta tortuosi, della sua autorealizzazione. In questo compito l’analista non è un testimone distaccato, bensì compartecipe, con il suo stesso inconscio, del processo d’analisi.
Ed è proprio dallo spazio interattivo del transfert che sorgono le produzioni immaginarie (di
cui è prototipo il sogno) nelle quali l’inconscio collettivo si rivela. Perciò l’analista non è tanto colui che detiene un sapere, quanto una guida che ha già sperimentato, nel corso della sua
stessa analisi, l’esistenza di un luogo extra-individuale nel quale convergono i fini ultimi del
nostro destino.(Si veda, in proposito, C. G. Jung, Psicologia della traslazione, 1946, e Mysterium coniunctionis, 1955-56.)
La terapia junghiana non è, come quella freudiana, rigidamente codificata. Ogni fase della vita, tipo di personalità, sistema di bisogni, richiede una particolare impostazione terapeutica
(C.G. Jung, Che cos’è la psicoterapia?, 1935). Il transfert non è indispensabile, è soltanto la
«proiezione di contenuti inconsci sull’analista». Il paziente, poi, è più attivo nell’analizzarsi e
nel prendere contatto con il proprio materiale inconscio, che non è tanto il rimosso, quanto,
ricordiamo ancora, la dimensione archetipa. Il processo di integrazione dell’inconscio, che si
attua nell’analisi, coincide con il compito ultimo dell’uomo, la realizzazione del Sé, un concetto non intellettuale ma numinoso che si rivela sotto forma di mandala o di forma quaternaria.
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Il Sé rappresenta, nella teoria junghiana, un vertice ideale cui conducono diversi assi cristallografici. Rappresenta, infatti, il telos della maturazione psicologica, così come quello della
terapia, lo scopo ultimo della educazione e della socializzazione.
Da un punto di vista psicologico, costituisce il momento di sintesi di coppie di opposti: pensiero e sensazione, sentimento e intuizione, maschile e femminile, introversione ed estroversione. Elementi con i quali Jung costruisce una tipologia volta a dimostrare che il tratto caratterizzante ciascun individuo non esclude il suo opposto, che rimane psicologicamente attivo,
benché eclissato. Con l’opera Tipi psicologici del 1921, Jung paga il suo debito alla tradizione
tassonomica della pschiatria per superarla. Ogni particolarità, infatti, lungi dall’essere considerata una necessità naturale, è vista come una unilateralità impoverente che reclama un processo di integrazione della parte complementare. La via salutis, la strada che conduce alla totalità del Sé, passa perciò attraverso una serie di integrazioni della personalità originariamente
frammentata. Non solo gli atteggiamenti estroversi ed introversi dovranno completarsi a vicenda ma andranno iscritte, nella unità di una psiche interamente pacificata nella sintesi dei
suoi opposti, la Persona (la maschera sociale), l’Ombra (il suo negativo rimosso), l’Anima
(potenzialità sessuale maschile che domina l’inconscio della donna), l’Anima (la potenzialità
sessuale femminile che regna nell’inconscio dell’uomo).
Un itinerario assai complesso e tormentato che Jung descrive anche .termini di autorealizzazione: «Diventa chi tu sei». Il bambino, come pure il primitivo, vivono in uno stato di anonimia, di fusione con gli archetipi. Solo con l’emergere della coscienza dalla collettività delle
forme perenni, si attua l’individuazione, intesa come capacità di scelta, di autodeterminazìone,
di storia. In questo senso le vicende dell’individuo e quelle delle dell’umanità seguono un unico itinerario, ontogenesi e filogenesi procedono appaiate. Nel Problema spirituale
dell’uomo moderno (1928-32), Jung ricostruisce la storia della nostra immagine d’uomo partire dalla sua nascita, che identifica nel momento di transizione d Medioevo al Rinascimento.
Nel Medioevo l’uomo è tutto immerso in un ordine istituzionale che lo governa e lo rappresenta. Partecipa, con una congiunzione mistica, della chiesa, l’ecclesia mater, una collettività
in cui l’archetipo eterno della madre si storicizza. Questa appartenenza comporta che l’uomo
medioevale realizzi prevalentemente il lato femminile della personalità (passività, obbedienza,
conservatorismo), a scapito di quello maschile. Nell’ambito della cultura medioevale coesistono però contraddizioni (come la contrapposizione tra l’appartenenza alla collettività ed il
prevalere dell’anima individuale) che sfoceranno nel suo superamento, cioè nella figura
dell’uomo moderno, dominato dal lato maschile, inquieto, attivo, ribelle all’autorità. Un passaggio che, in altri termini, può essere descritto come abbandono della concezione teocentrica
a favore di una antropocentrica dell’universo, e che trova il suo punto focale nel conflitto tra
fede e conoscenza (che aveva costituito la tema principale degli eretici e degli gnostici) ed il
suo protagonista in Paracelso (Jung, Paracelso come fenomeno spirituale, 1942). L’uomo
contemporaneo, quindi, rappresenta la massima espressione del processo di individuazione,
con la conseguente ipertrofia della coscienza maschile a scapito delle femminili componenti
inconsce. Poiché lo stacco dalle fonti istintuali e naturali provoca l’inaridirsi delle capacità
creative, che sappiamo espressione non tanto della psiche individuale quanto dell’inconscio
collettivo, l’analisi si configura innanzitutto come integrazione. Il suo compito, nei confronti
della cultura, è quello di recuperare la dimensione collettiva perduta nel corso del processo
storico di individuazione.
Il fine terapeutico dell’analisi consiste nell’iscrivere l’Io personale nell’inconscio collettivo
che gli è matrice. Paradossalmente, come scrive G. Adler, ci si propone di passare da
un’anonimia inconscia (quale quella del bambino e del «primitivo» descritto da Lévy-Bruhl)
ad un’anonimia conscia, corrispondente alla consapevolezza ed alla accettazione delle surdeterminazioni extra-individuali. Si tratta di riconoscere che una realtà del mondo interiore ci
preesiste, così come quella del mondo esteriore. Si prefigura qui un progetto di vasta portata
che supera la cultura occidentale, assunta come un momento importante ma non esclusivo né
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definitivo della storia dell’uomo. Con le opere La psicologia della traslazione (1946), Mysterium coniunctionis (1955-56), Risposta a Giobbe (1952) e Aión (1951), Jung dimostra
l’attualità del processo di identificazione considerato come l’unica possibilità di contrastare le
dominanti tendenze alla massificazione e reificazione dell’uomo.
4. Psicologia analitica e cultura
In queste ultime opere, fondamentali esegesi della simbologia orientale, cristiana ed alchemica, la psicoanalisi trascende il suo oggetto tradizionale, si fa teoria della cultura. Una teoria
dirompente che apre l’universo eurocentrico freudiano agli apporti del diverso, a ciò che sta
prima o altrove rispetto all’umanesimo scientista. La psicologia analitica (così Jung denominerà la sua disciplina) fuoriesce dalle coordinate culturali del positivismo. Meno influenzata
dal darwinismo, si ricongiunge alle fonti originarie della psichiatria romantica mentre si colloca nell’ambito dello storicismo tedesco, di cui fa propria la contrapposizione tra scienze della natura e scienze dello spirito, teorizzata da Dilthey5.
Jung è saldamente un uomo del suo tempo, pienamente inserito nella cultura tedesca ma, contemporaneamente, la sua avversione per ogni riduttivismo ed il suo stesso progetto scientifico,
lo portano all’assimilazione dei materiali culturali più eterogenei. Abbiamo già citato il suo
interesse per la cultura medioevale: nell’alchimia, Jung individua un precedente della psicologia analitica, una sua metafora anticipatoria. L’alchimia, infatti, avrebbe perseguito il medesimo fine di integrazione ed amplificazione del Sé, con la differenza di proiettare però
sull’esterno, sulla materia, ciò che invece era un processo tutto interiore. L’alchimia esprime,
analogamente ai miti, contenuti archetipi, che altrimenti resterebbero inconsci. Si rivelano, è
vero, nei sogni, ma in modo sporadico, frammentario, tale da richiedere una interpretazione.
Nell’interpretazione dei sogni, Jung utilizza, più che la storia personale dell’analizzato, discipline affini alla psicologia del profondo, quali la storia delle religioni, l’etnologia,
l’antropologia, capaci di amplificare l’inconscio personale, di inscrivere le frasi del sogno in
un piano metatestuale. Quanto alle fonti della sua formazione personale, è doveroso citare, oltre ai testi biblici, la grande filosofia tedesca, Fichte e Schiller in particolare, le opere di Goethe (il Faust), tra i contemporanei il romanziere Hermann Hesse, al quale lo avvicina una
straordinaria affinità di temi.
Altre fonti culturali sono il già citato Nietzsche, Cassirer della Filosofìa delle forme simboliche (1923), i teologi protestanti, la cultura Psichiatrica in tutta la sua estensione con una particolare propensione per Janet.
L’utilizzazione dei miti, poi, si inscrive in un dibattito particolarente acceso nell’area culturale
di lingua tedesca tra i filologi classici, rappresentati da Wilamowitz, assertori della necessità
di ricostruire e spiegare i miti, e coloro che aderivano invece ad una prospettiva più antropologica, quali Creuzer, Bachofen, Burckhardt, portatori di una più complessa esigenza di comprensione del materiale mitologico. Jung si schiererà, naturalmente, a favore di questi ultimi,
convinto, secondo quanto proposto da Dilthey e Rickert, che le scienze della cultura debbano
tendere alla comprensione anziché alla spiegazione. L’interesse per culture lontane da quella
occidentale, e perciò capaci di integrarla delle componenti sapienziali distrutte dallo scientismo, lo avvicinarono ai testi filosofici dell’India, del Tibet, della Cina, del mondo arabo. Dal
simbolismo dello yoga tantra trasse materiale comparativo per lo studio degli archetipi. Dalla
cultura cinese mediò, invece, suggerimenti per il superamento della causalità lineare, che collega avvenimenti in una rigida concatenazione di causa-effetto, a favore un suggestivo rimando di coincidenze, di significative contemporaneità. Le fonti culturali di Jung sono però così
estese e complesse che una esauriente esposizione è senz’altro impossibile, al di fuori di uno
studio specialistico.
Tuttavia quello che ci interessa rilevare è l’effetto di una così imponente ed eterogenea costruzione, in cui si compattano i prodotti culturali più lontani nel tempo e nello spazio: quello
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Cfr. in proposito: P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, Einaudi, 1966. Si veda anche A. Marini, Alle origini della filosofia contemporanea: W. Dilthey, Firenze, La Nuova Italia, 1984.
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di rendere sincronico ciò che è diacronico, omogeneo l’eterogeneo, prossimo il distante, di
organizzare insomma quel tessuto connettivo che è l’inconscio collettivo. Una dimensione,
quella dell’inconscio collettivo, che richiede, per diventare esperienza, l’analisi, ma che non
sarà mai immobilizzata in un dato di fatto, in una cosa. Come tale non è completamente assimilabile dalla cultura, dove funziona però come esigenza, come indifferenza di fronte ad ogni
chiusura dello psichico alle dimensioni dell’individuale. In un certo senso, l’ideale di realizzazione del Sé risponde ad una sentita esigenza dell’uomo moderno che rivolge alla psicologia i quesiti esistenziali posti, un tempo, alla religione. La terapia junghiana infatti, mentre
tiene conto delle concrete esigenze del paziente (che deve comunque vivere in una determinata situazione sociale, accettandone, in una certa misura, i limiti e le impossibilità), cerca di
trascendere questa strategia difensiva, proponendo un ideale positivo di perfezionamento, una
meta che si colloca «al di là» della normalità borghese, al di fuori dei limiti angusti
dell’ambulatorio e del rapporto interpersonale. Ne emerge un’immagine di uomo in cui il
massimo della individualità consiste, non già nell’essere per se stesso, ma nella consapevolezza della sua iscrizione in una dimensione altra, che lo trascende e lo rappresenta ad un tempo.
5. Dopo Jung
Un’antropologia idealistica, direbbe Freud, consolatoria, volta a negare le inguaribili ferite inferte all’immagine narcisistica dell’uomo, contrapponendole la possibilità di una ricomposizione totale6. In Jung il senso drammatico della condizione umana, dilaniata dall’insanabile
conflittualità tra le esigenze pulsionali e le richieste sociali, viene sostituito da una visione eroica dell’uomo e del suo destino. Il tentativo di Freud di coniugare la concretezza del corporeo con la materialità del sociale, in una trama che tenga conto della reciproca contaminazione, viene superato da Jung con l’adozione di uno schema hegeliano che prevede il superamento dialettico dei contrasti in una sintesi pacificatrice.
Una sintesi che permette alla psicologia di recuperare le istanze religiose, sottoposte da Freud
ad una critica positivistica, di formulare una religione senza teologia, capace però di far proprie le esigenze di sacralità e di immortalità attribuite ad una insopprimibile «natura umana».
Come si vede, la psicologia analitica di Jung rappresenta una sintesi potente, che attende ancora di essere adeguatamente elaborata dalla cultura europea, ripensata al di fuori della polemica, ormai datata, con la scuola freudiana.
Notevole è stata l’influenza in campi lontani dalla terapia; cfr. almeno gli scritti di G. Bachelard. Tra i principali junghiani si segnalano E. Neumann e J. Hillman, il quale ultimo ha compiuto una revisione della psicologia torcendola verso una teoria della cultura, negando addirittura la nozione di inconscio per sostituirlo con la nozione di memoria mitica e capacità mitopoietica: il telos della psicologia archetipica si configura dunque come passaggio
dall’intelletto alla fantasia e come infinita realizzazione dell’anima (cfr. P. Giacobbe, Psicopatologia come mito. Introduzione a J. Hillman, Milano, Giuffrè, 1986 e P. Barone, Léthe,
simbolo e immaginale: tra Jung e Hillman, “aut aut”, 225, maggio-giugno 1988). In questi autori, secondo la Vegetti Finzi, l’inquadramento storico dei contenuti culturali è sempre più
lasso, mentre in ambito italiano si è optato per il mantenimento della conflittualità e della problematizzazione (Moreno, Tedeschi, Montefoschi, Carotenuto, Trevi). Nella Montefoschi si
attua una convergenza con il materialismo storico in una critica dell’ideologia secondo cui
l’autorealizzazione deve attuarsi al di fuori delle concrezioni sociali egoriferite (famiglia,
classe, partito, nazione) che precludono l’individuazione. Un impiego filosofico del pensiero
di Jung è in Trevi e nel suo allievo Galimberti, il quale ricollegandosi a Nietzsche ha individuato in Platone il momento nel quale si opera la dicotomia corpo-anima e la loro contrapposizione; Galimberti ha perseguito la ricomposizione nel tentativo di restituire al corpo la funzione simbolica di cui è stato espropriato; negli Equivoci dell’anima egli ha ricostruito la storia della cultura come progressiva interiorizzazione del mondo. Secondo la Vegetti Finzi la
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Una dura condanna di Jung è formulata da Freud in Per la storia del movimento psicoanalitico (1914), in Opere,
7, pp. 416 sgg. Vedi infra.
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psicoanalisi junghiana si è imposta con autorevolezza alla fine degli anni ottanta (ne è testimonianza la proliferazione delle riviste: la “Rivista di Psicologia analitica”, fondata da Aldo
Carotenuto, il “Giornale storico di psicologia analitica”, “La Pratica analitica”, il “Giornale
storico di Psicologia Dinamica”, “Metaxù”, “Immediati dintorni”).
La condanna di Freud:
“Non ero piú giovane, vedevo un lungo cammino da percorrere e sentivo come un peso la responsabilità di guidare un movimento in età cosi tarda. Ritenevo però che un capo dovesse esserci. Sapevo fin troppo bene quali errori attendevano chiunque affrontasse i problemi
dell’analisi e speravo che si sarebbe riusciti a evitarne molti erigendo un’autorità disposta a
istruire e vigilare. In un primo tempo tale autorità era toccata a me in virtú dell’incolmabile
vantaggio di quindici anni circa di esperienza. Mi stava perciò a cuore che quest’autorità fosse
trasferita a un uomo piú giovane, che dopo la mia scomparsa prendesse naturalmente il mio
posto. Questi non poteva essere che C. C. Jung, dal momento che Bleuler era mio coetaneo; in
favore di Jung parlavano inoltre il suo eccezionale talento, i contributi che egli aveva già portato all’analisi, la sua posizione indipendente e l’impressione di sicura energia che emanava
dalla sua persona. Egli pareva peraltro pronto ad allacciare rapporti amichevoli con me e a rinunciare per amor mio ai pregiudizi razziali che fino a quell’epoca si era consentito. A quel
tempo non immaginavo che la scelta era assai infelice a dispetto di tutti questi vantaggi, che
essa si era appuntata su una persona la quale, incapace di tollerare l’altrui autorità, era ancor
meno incline a crearsene una propria e devolveva tutte le sue energie nel perseguire senza
scrupoli i propri personali interessi. [...] Nel settembre 1913, [ci fu il] quarto Congresso, del
quale tutti i partecipanti conservano ancora fresco il ricordo. Fu diretto da Jung in maniera
scortese e scorretta; i relatori avevano il tempo limitato; le discussioni soffocavano le comunicazioni. Per un perfido capriccio del caso quello spirito maligno di Hoche aveva eletto a suo
domicilio la stessa casa in cui gli analisti tenevano le loro riunioni. Facilmente Hoche avrebbe
potuto rendersi conto fino a che limiti di assurdità gli analisti corrispondano alla descrizione
che egli stesso ne ha dato come di una setta fanatica che segue il proprio capo con cieca devozione. Faticose e spiacevoli trattative portarono alla rielezione di Jung a presidente
dell’Associaziore psicoanalitica internazionale, titolo che egli accettò sebbene due quinti dei
presenti gli negassero la propria fiducia. Ci si accomiatò senza alcuna voglia di rivedersi”.
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