Da repubblica del 23/10/1966 <<COME CAMBIANO I

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Da repubblica del 23/10/1966 <<COME CAMBIANO I
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FONDAZIONE INSIEME onlus.
Da repubblica del 23/10/1966 <<COME CAMBIANO I COMPORTAMENTI
FEMMINILI. PIÙ FELICE DA SOLA O MARITATA?>> di Marialivia Serini,
giornalista.
Per la lettura completa del pezzo si rinvia al quotidiano citato.
Aumentano le donne che non si sposano. Soprattutto se
professioniste, o se lavorano in posti di rilievo nelle industrie
o nell'editoria.
MILANO – Mi dice Brunella Gasperini, da venticinque anni
confidente ed oracolo attraverso la “piccola posta” di milioni di
donne italiane che le scrivono trecento lettere la settimana: «Il
mio archivio straripa di appelli di “nubili afflitte”, donne sole
che si lamentano della loro insoddisfazione, del vuoto che le
circonda, della paura del domani. Una si tormenta perché in
società deve cedere il passo alla maritata, l'altra mi confida che
in società non ci va perché si vergogna di non essere sposata.
E io a dargli contro, a ripetergli che dietro a loro preme un
esercito compatto di donne ugualmente sole, ma coscienti,
integrate. Queste però non mi scrivono.
I loro problemi se li sbrogliano da sole o con l'aiuto dello
psicanalista».
Nella sua casa un po' svizzera, il gatto persiano buttato come
un cuscino sulla scrivania minima, nella stanza piccolissima e
traboccante di raccolte di giornali, di taccuini d'appunti, di
casi patetici ordinatamente catalogati in mezzo ai gatti di
porcellana e ai cani di pezza, l'oracolo si arrabbia: «E ogni
giorno mi arrivano lettere di donne sposate come me, con due figli
come me, e la casa da mandare avanti e il lavoro che ti divora, e
l'urto continuo fra doveri familiari e impegni professionali, mai
un minuto per se stesse, che invidiano tutte, come a volte succede
anche a me, le donne sole».
Silvana Ottieri, ufficio stampa della Bompiani, sibilla
disputata dalla Milano bene, mi racconta: «Sapessi quante
telefonate...
Donne ricche e non ricche, apparentemente appagate dal
matrimonio o evidentemente scontente...
Il marito è distratto, i ragazzi crescono e hanno i loro amici.
Loro si sentono inutili, ibernate nelle abitudini.
S’inventano compiti assurdi, hobby deludenti.
Perdono la giornata a fare gli autisti ai figli.
Lavorare è l'evasione, ma lavorare è difficile quando non c'è
l'abitudine.
Crearsi una nuova pelle per una sera va bene, entrarci e viverci
costa fatica. Che sanno fare?
Niente. E anche quelle che da ragazze hanno lavorato l'hanno
fatto come pretesto, per un incontro più facile con l'uomo, per un
approccio più diretto».
Quante sono le mogli di quarant'anni che si chiedono “che cosa
farò da grande”?
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Si sa della moglie del clinico che si è messa a studiare
psicoterapia, di quella dell'industriale che fa la vendeuse, o
dell'altra che ha aperto un negozio d'antiquario.
Qualcuna s'impegna in una nuova maternità.
Altre ancora si
disperdono in un bovarismo frustrante.
E tutte ti confidano che vorrebbero essere l'altra, la libera,
la sciolta, quella che sa capire le esigenze d'un uomo perché sono
le sue, e discutere con lui su un piano di parità nel suo stesso
linguaggio.
Lo psicologo Mariella Loriga t'insegna che la donna sposata è
portata a rimuovere i problemi più della celibe (e di qui certe
crisi improvvise che in realtà maturavano da anni); che solo una
minoranza si lascia convincere a sottoporsi a un'analisi, perché
hanno paura (e lo confessano) di guardarsi dentro, paura di
scoprire la futilità di un'unione su cui hanno costruito tutto.
L'altra, la celibe, al contrario, l'analisi l'affronta, tanto da
perdere ha solo se stessa, ed ha più cura della sua psiche, come
del suo corpo, perché non ha altro su cui contare.
Vivere sola le consente un consuntivo meno distratto
un'introspezione priva di alibi.
Sotto il fascismo.
«Quante donne in italia» continua lo psicologo «hanno idee
politiche o religiose diverse dai mariti?
Quante hanno imparato a guardare con i propri occhi e non
attraverso quelli di lui?
Dopo cinque anni di matrimonio la donna non è più che il
riflesso intellettuale dell'uomo».
C'è il caso della ragazza che s'è sposata presto per sfuggire
alla famiglia, e non ha osato ammettere d'essersi sbagliata perché
le è mancato il tempo di formarsi, e poi per pigrizia o altro s'è
adattata all'immagine che il marito le ha predisposto.
C'è la trentenne che di fronte alla parola magica “matrimonio”
non ha saputo resistere, ma ci si è buttata dentro solo a metà, ed
ora da un lato smania di essere libera, dall'altro non ce la fa ad
esserlo, e punta i piedi e scalpita senza costrutto.
E c'è la mal maritata, l'abbandonata, l'adultera impenitente,
l'annoiata, la confusa che non sa tradurre in termini chiari
l'inquietudine che la mangia.
E c'è anche la donna che ha realizzato l'ideale della
togetherness prospettato alle mogli americane dopo il ritorno dei
mariti dalla guerra: l'intimità, il cameratismo, il sodalizio più
stretto in tutti i momenti della giornata, e s'è trovata in bocca
un sapore di cenere, il senso d'annoiarsi insieme in un'estenuante
reciproca dipendenza.
Di fronte a questo mondo di donne che psichiatri, sociologi,
giuristi e osservatori del costume sono d'accordo a descrivere
come «immerso in una confusione terribile», la donna sola che
lavora e basta a se stessa è un esempio esaltante.
Non più sospetta, non più minorata, accettata e cercata, con la
sua vita netta e senza compromessi, la coscienza di sé, la casa
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che s'è costruita insieme alla professione, i libri e i dischi che
la scaldano, la rubrica fitta di numeri telefonici, ha una sua
autonomia, e la contempla soddisfatta.
Tutta la sua “libido” l'ha investita nel lavoro, spesso con più
tenacia di chi l'ha investita nel matrimonio, e ne ha fatto un
successo che la consola di altre mancanze.
Le piace essere al centro dell'attenzione, si diverte ad essere
continuamente a contatto con gli altri, parla con disinvoltura
della sua condizione
«Ho bisogno d'una sensazione completa di libertà» dice la
pittrice Anna Salvatore: «Ho orrore di dipendere da qualcuno e non
sopporto l'idea che qualcuno dipenda da me». E la fotografa Chiara
Samugheo: «Qualsiasi legame non mi soddisfa che in parte e presto
ho bisogno di ritrovarmi sola. La coscienza della solitudine dà
una lucidità che permette d'affrontarsi, di sviscerarsi, di
risolversi».
Le statistiche non dicono quante sono in Italia le donne
“celibi” e non possono dirlo: molte nubili convivono con un uomo,
sono “mogli naturali”; molte maritate si sono contentate di una
separazione di fatto, non legalizzata.
L'unica statistica valida la si può ottenere compilando un “chi
è?” della donna arrivata.
Da questo elenco salta agli occhi che nove volte su dieci la
donna affermata è una donna “celibe” sciolta da ogni impegno di
convivenza.
Celibe è la Rubiolo della Fiat e la Migliavacca della Campari,
celibe Elisa Tofanelli amministratrice della Palazzi, e Franca
Maria Matricardi, motore della Rizzoli.
Nella letteratura, nell'arte, nel giornalismo, nella moda, fra
scienziate, giuriste, cantanti, ingegneri, fisiche, medici,
architetti, bibliofile, dirigenti aziendali, scenografe, registi,
i nomi confermano la regola. (E quelle bravissime ricercatissime
apprezzatissime che hanno un marito, ce l'hanno quasi sempre pro
forma, una specie di coda, un principe consorte di cui s'ignora il
cognome e ci si informa «ma è ancora vivo? Non l'ha ancora
lasciato?»).
Non è però un olimpo di matriarche e di suffragette.
«Le associazioni femminili» mi dice l'avvocato Giuliana Fuà,
accarezzando con le belle mani perfettamente curate il vestito di
cashemere azzurro che dona alla sua carnagione di bruna, «hanno
avuto una funzione nell'immediato dopoguerra, e alcune continuano
ad averla come veicolo educativo per i livelli sociali più bassi.
Ma le nostre battaglie vanno combattute a fianco degli uomini».
La società italiana è fatta per l'uomo, e l'uomo non aiuta.
Pochi sono abbastanza maturi da accettare senza sospetto una
donna cosciente. Eppure l'antagonismo con l'uomo, che le ha
stimolate a scegliersi una vita indipendente, si sente poco nei
discorsi delle “celibi” riuscite.
E non c'è risentimento.
Anzi, «io sono convinta che la donna
oggi è più libera dell'uomo perché può incarnare diversi
personaggi ed ha una gamma più vasta su cui suonare» sostiene
Laura Conti, medico sociologo, scrittore, consigliere provinciale
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di Milano: «c'è un'altra cosa, un altro privilegio femminile.
Ha notato come invecchiando una donna possa scegliersi un ruolo
materno verso i giovani? Se sa rappresentarlo bene, ha conquistato
un delizioso modo d'invecchiare. Ma provi a immaginare un uomo
che invecchiando diventi paterno: guardi come cade facilmente nel
lubrico.
Diventare materna significa acquistare humour, diventare paterno
significa perderne».
«La vecchiaia» continua Laura Conti «è la svolta in cui la donna
conquista i maggiori privilegi. Anche se generalmente si crede il
contrario.
La donna non ne ha mai un riscontro fisico,
immediato e incontestabile. Per l'uomo invecchiare è una realtà
obiettiva.
Per la donna invece è tutto opinabile: il problema
non è “se può”, ma “se è desiderabile”, e quindi non è assoluto ma
relativo; per qualcuno sarà pure desiderabile ancora, ci sarà in
qualche parte del bel mondo qualcuno che potrebbe ancora
desiderarla se la incontrasse... Non c'è mai un triste momento a
partire dal quale le cose sono cambiate: tutto è fluido, sfumato,
graduale».
Constatare questi privilegi naturali, apprezzarli e metterli in
conto per puntare senza paura sulla carta del celibato non è da
tutte.
Ma nella generazione delle donne che oggi hanno passato i
quarant'anni (e sempre più in quelle che s'avvicinano alla
trentina) la coscienza o almeno l'intuizione d'un destino
femminile indipendente è più diffusa di quanto non si pensi, a
tutti i livelli sociali.
È uno dei tanti acquisti del viaggio verso una condizione di
donna moderna, intrapreso di slancio dopo la caduta del fascismo.
«Ma pensi» mi dice sempre Laura Conti «alla strada che noi donne
abbiamo fatto. Sotto il fascismo la nostra parte nella società era
concepita come rigidamente determinata dalla “natura”,
strettamente segregata in un destino fisiologico. Ci dissero che
eravamo le custodi del genio della stirpe, le sacerdotesse della
propagazione della specie, il “trastullo del guerriero”; e ci
derisero se studiavamo. E ci tolsero l'esonero dalle tasse
scolastiche e le borse di studio. Nello stesso tempo, ci vestirono
di mantelli neri, ci diedero i gradi di caposquadra, capomanipolo,
capocenturia, e ci istruirono a comandare le evoluzioni sulle
piazze.
L'esperienza della nostra generazione nasce fra l'osceno
e il farsesco. Sotto il fascismo noi donne abbiamo perduto tutto,
perché tutto era labile e informe. Non abbiamo ereditato niente: né
la coscienza borghese, suffragista, della parità fra i sessi, né
una coscienza socialista.
Ma col passare del tempo abbiamo
imparato. Le ragazze d'oggi tanto più lucide di noi in altri campi,
su quello politico sono meno sicure, e questo spiega perché adesso
entrano meno donne in Parlamento e nei partiti politici. Siamo
sempre noi, le quarantenni, a coprire i ruoli di prima linea.
E
la nostra femminilità ci conferisce una sicurezza, che in
quest'epoca di curiosa transazione l'uomo non ha».
La sicurezza è un denominatore comune, con uno slancio e un
dinamismo che è meno facile trovare nelle donne sposate.
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Tutte le celibi che ho incontrato parlano con competenza di
musica, di politica, di problemi sociali.
Discutono il celibato con franchezza, insistendo a definirlo
«una vocazione», «una unica scelta» (che nasconde in molti casi
una allergia al matrimonio).
Dice Lina Vergottini, parrucchiera di successo: «Un uomo non
basta a una donna, o è troppo.
E le donne, dal canto loro,
chiedono troppo all'amore: contano sull'amore per risolvere tutti
i loro problemi essenziali, vogliono che l'amore le liberi
dall'angoscia, soddisfi il loro bisogno d'assoluto, di
comunicazione erotica, di dedizione e conquista. La vita in due
m'è sempre sembrata una limitazione, mi fa pensare al dramma
biologico del paguro e dell'attinia costretti a coabitare per
sopravvivere».
Il gatto di casa.
Dal suo osservatorio di via Montenapoleone, nell'atelier di
parrucchiere più attuale di Milano, passano e sostano ogni giorno
donne: il campione più progredito, la punta economica e sociale
più avanzata della più moderna città italiana.
Ragazze e donne
che lavorano e nel caschetto liscio, nella testa minuscola e
disadorna, geometrica e essenziale, trovano una conferma del loro
modo di muoversi, delle giornate rigidamente scandite da
appuntamenti, impegni, progettazioni, bilanci.
Eppure alla domanda: «Sono veramente più autonome le donne
d'oggi?
Sono veramente libere come insistono d'essere?», Lina
Vergottini si fa cauta: «Come stabilire quando la condizione di
“scapolo” è voluta e quando involontaria?
C'è un condizionamento
che viene dall'abitudine, dall'egoismo, dal timore d'esporsi e di
sbagliare.
Più che soluzioni sono indicazioni, e come queste
valide».
Germana Marucelli, che da quarant'anni veste milanesi e romane,
è più critica: «La donna autonoma non realizza se stessa che in
parte; e si snatura.
Non esiste mestiere più bello di quello
d'una compagna, d'una moglie, d'una alleata dell'uomo. Sono poche a
riuscirci; le altre si consolano come me vendendo stracci. Ma in
fondo abbracciare il lavoro come una mistica non è vivere. Sono
certa che se la donna italiana sapesse maturarsi anche nel
rapporto con l'uomo, l'uomo la stimerebbe di più».
La contraddice Mariella Loriga: «La donna matura non accetta più
un rapporto protettivo, non cerca nell'uomo un periscopio, la
finestra sul mondo. Troppo spesso nell'uomo medio italiano è
radicata l'idea che se anche la donna lavora e produce è solo un
gioco che lui le concede, come al bambino quando è bravo si
concede un giocattolo.
Per questo molte ragazze, anche quelle che
non hanno bisogno di lavorare, si staccano dalla famiglia.
Rifiutano un aiuto, per diventare veramente adulte; e una
volta adulte non se la sentono più di legarsi.
Costruirsi una
casa prima del matrimonio rende più difficile il matrimonio.
E la donna cosciente, che ha pagato ogni giorno lo sforzo
d'essere tale, vuole essere accettata per quello che è, e non per
quello che l'uomo immagina, suppone, o inventa che possa
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rappresentargli».
Non di rado l'indipendenza conquistata la porta a prendere
atteggiamenti da dittatrice, a dominare su tutti quelli che la
circondano, mamma, dipendenti, nipoti.
L'uomo rischia di diventare il gatto di casa, l'oggetto su cui
si scarica il suo bisogno di maternità deluso.
«Gli uomini deboli non m'interessano, gli altri hanno paura di
me», dice Mariuccia Mandelli.
È giovane, bella, calda, partecipe delle cose degli altri, ha
una tenerezza pudica, una simpatia che contagia.
È la donna arrivata che in pochi anni ha costruito un'azienda in
cui lavorano 180 operaie, l'autrice d'un prêt-à-porter che fa
concorrenza a Chloè, a Dior e a Cardin.
Ha una casa impeccabile, una cucina allettante, amici che se la
contendono per il cocktail, il pranzo, il night. Felice? No.
Contenta? Così.
Soddisfatta? A volte.
«Il lavoro per una donna è sempre un'affermazione, più per sé
che per gli altri. Ma il rischio d'indurirsi è costante. Poi il
lavoro ti prende la mano, non è più uno scopo ma un
condizionamento, qualcosa che t'ingoia la vita e non ti lascia
tempo per altro.
E l'uomo che nel lavoro ha imparato a stimare
la donna che sa farsi stimare, appena sente che qualcosa cambia,
che un nuovo rapporto si apre, scappa».
Le più serene sono quelle uscite da un'esperienza matrimoniale,
come l'architetto Gae Aulenti, la giornalista Grazia Livi,
l'antiquaria Liliana dal Pozzo, la poetessa Maria Luisa Spaziani.
Non c'è in loro il minimo risentimento contro la “condizione di
donna” (che si trova del resto solo nelle più anziane), né la
spregiudicatezza, il bisogno di “épater” di una Laura Betti, la
donna-maschio.
Sono emerse con saggezza da un fallimento coniugale, hanno
trovato nella solitudine equilibrio e consistenza.
Banco di prova.
Evelyne Sullerot, esperta di comunicazioni di massa e docente
all'Institut de Presse dell'università di Parigi, sostiene che una
differenza anatomica e fisiologica come quella fra uomo e donna
non può limitare la parte e lo stato sociale della donna, e
neppure creare una differenza psicologica.
Il suo libro Domani le donne, che in questi giorni, tradotto in
italiano, è al centro di dibattiti e polemiche, prevede
addirittura l'abolizione della gravidanza, con la rimozione
dell'embrione alla quarta settimana e la “nascita in provetta”.
E sulla base della maternità, ridotta come la paternità a un
rapporto biologico brevissimo, configura una società in cui la
psicologia, lo stato sociale, l'apporto culturale femminile
saranno radicalmente mutati.
«Non dico», scrive la Sullerot, «che in futuro le donne
cercheranno di somigliare agli uomini, né lo penso...
Semplicemente esse torneranno a porsi all'infinito, con
esasperante perseveranza la domanda: “Che cos'è la donna?”.
Un
tempo erano gli uomini a chiedersi con aria solenne: “Eva, chi
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sei? Conosci a fondo la tua natura?”.
Perché allora la donna era ancora il “loro” mistero, la “loro”
enigmatica proprietà.
D'ora in poi saranno le donne a porsi la
domanda, senza mai rinunciare a rispondere...
Ciascuna porrà domande diverse e si risponderà in modo diverso.
In breve si avranno tante osservazioni, definizioni, voci e
studi critici che l'immagine della donna-donna finirà con l'essere
solo un ammasso di macerie.
Non ci sarà più un modello, ma un'infinità di modelli,
un'infinità di teorie, di esperienze che si susseguiranno,
un'infinità di destini perfettamente chiariti, una infinità di
precedenti.
La grande comunicazione di cui ci si preoccupa tanto avrà tutto
da guadagnare al livello delle coppie».
Nel nostro paese, queste righe sembrano tolte da un romanzo di
fantascienza. Eppure, malgrado le strutture sociali decrepite, i
tabù, il loro stato di eterne minorenni e la doppia morale che
ancora le mette in difficoltà, le donne italiane si sono fatte.
Il femminismo da noi, nato in ritardo rispetto al femminismo
anglosassone, è in anticipo rispetto alle trasformazioni
strutturali della nostra società.
Il lavoro femminile non è un fenomeno nuovo per l'Italia.
Al
censimento del 1871 le donne già costituivano il 35 per cento
della popolazione attiva: oggi, solo a Milano, contro 350.000
casalinghe ci sono 223.000 donne che lavorano.
Sono per la
maggior parte impiegate e operaie, “esecutrici”; ma anche
professioniste, artiste, dirigenti d'azienda.
Sulle rubriche di 90 periodici femminili si leggono sempre meno
consigli alla rassegnazione e sempre più inviti a una franca
tattica di battaglia: il lavoro viene proposto come banco di prova
per smitizzare le disoneste, le piagnucolose, le vittime di
professione.
Per ora sono state soprattutto le “celibi” a farsi avanti.
Sono loro le temute dall'uomo, quell'uomo che gli psicologi
descrivono «disponibile a tutto, instabile, non più ancorato al
mito della rispettabilità, angosciato di invecchiare».
Ma dovrebbe, per essere coerente, avere un po' paura di tutte.