Maquetación 1

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Maquetación 1
Stazio e Virgilio nel Purgatorio:
un incontro provvidenziale
CLAUDIA FERNÁNDEZ
Universidad de Buenos Aires
[email protected]
RIASSUNTO:
Nell’episodio dell’incontro di Dante e Virgilio con Stazio, si trova una terzina
particolarmente controversa: quella in cui Stazio, senza ancora sapere con chi
sta parlando, afferma che, pur di aver conosciuto Virgilio, sarebbe disposto a rimanere un altro anno in Purgatorio. Questa dichiarazione, che sembra contraddire
la libertà appena acquistata da Stazio, è stata diversamente interpretata dagli studiosi, sia come espressione iperbolica, sia come la volontà da parte di Stazio di
aver salvato Virgilio, sia infine come manifestazione dell’incompiuta purgazione
di uno spirito che non si è ancora sommerso nel Letè. Secondo l’ipotesi di questo
lavoro, nessuna di queste soluzioni risulta convincente: dopo un loro esame particolareggiato, si propone una spiegazione secondo cui Dio, nella sua infinita e
imprescrutabile giustizia, ha preparato quest’incontro, attraverso il quale Stazio
finirà la sua penitenza, Virgilio riceverà un omaggio che il Dante personaggio
non poteva offrirgli direttamente, Dante e il lettore riceveranno un magistero che
giustifica la liberazione di Stazio proprio in quel momento e in quel modo.
PAROLE CHIAVE: Virgilio, Stazio, incontro provvidenziale, giustizia imprescrutabile, omaggio.
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ABSTRACT:
The episode describing Dante and Virgil’s encounter with Statius contains a
particularly controversial tercet, in which Statius expresses that, having met Virgil, he would now be willing to remain in Purgatory for a year longer. This statement, in apparent contradiction to his newly acquired free status, has been
interpreted by several scholars either as a hyperbolic expression, or an instance
of Statius’ willingness to save Virgil, or a statement of affection comparable to
the state of a soul still unsubmerged in the Lethe. The aim of the present work is
to claim that none of these solutions is convincing enough and, after careful consideration, to propose an explanation according to which God, in His infinite and
fathomless justice, has prepared this encounter of Latin poets, through which
Statius is to complete his penitence, Virgil is to receive honours that the character
of Dante cannot offer him directly, and both Dante and the reader are to receive
a lesson that accounts for the time and manner of Statius’ liberation.
KEY WORDS: Virgil, Statius, providential meeting, unfathomable justice, tribute.
0. INTRODUZIONE
Il rapporto tra Dante e Virgilio, com’è noto, è uno degli elementi di
maggiore intensità dell’intero poema dantesco. Esso si arricchisce progressivamente durante il viaggio, dalla selva fino alla scomparsa del maestro nell’Eden. L’omaggio fatto dal Dante autore al poeta latino viene
ulteriormente nobilitato dall’episodio che narra l’incontro dei pellegrini
con Stazio, il quale dichiara di dovere a Virgilio (inizialmente senza sapere che sta parlando con lui) la sua condizione di poeta (Purgatorio XXI,
94-99), la propria salvezza attraverso il pentimento del peccato di prodigalità (Purgatorio XXII, 37-45) e infine la propria condizione di cristiano
(Purgatorio XXII, 64-73). Durante il suo svolgimento, inoltre, il «duca,
signore, piú che padre, magnanimo, dolcissimo patre» Virgilio riceve, da
parte di Stazio, una particolare gratitudine, quella che riguarda la propria
conversione, che il Dante personaggio non poteva dovergli per motivi
cronologici. È anche attraverso lo stesso episodio che il discepolo, e con
lui il lettore, inizia a prepararsi per il congedo dal maestro: da questo mo166
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mento, Dante condividerà gli insegnamenti di Virgilio con Stazio, il quale
camminerà fra i due fino all’ultimo rituale di purificazione (Purgatorio
XXVII, 46-48). Infine, il Dante scrittore si serve del personaggio di Stazio
per mostrare, con l’intenzione didattica che è caratteristica di tutto il Purgatorio, alcune regole di questo regno di tradizione relativamente breve:
in quale modo ha fine la purificazione di un’anima, come si percepisce la
libertà appena acquisita, quali rituali debbono ancora compiersi prima di
volare in Paradiso.
1. IL PROBLEMA DELLA CONDIZIONE DI STAZIO
È forse utile ricordare brevemente, prima di porre il problema critico
in questione, l’incontro tra i due poeti latini. Nel quinto girone purgatoriale, che ospita i penitenti macchiatisi di avarizia, un terremoto sorprende
Dante e Virgilio, i quali domandano a un’anima chiarimenti sulla sua
causa. Lo spirito spiega che il movimento della montagna santa è dovuto
al fatto che un’anima ha finito la sua penitenza, e «monda sentesi» per andare in Paradiso; in questo caso, aggiunge, si tratta di lui stesso. Quindi,
a richiesta di Virgilio, si presenta: è l’autore della Tebaide e dell’Achilleide, Stazio, il quale non sa con chi sta parlando e nient’affatto sobriamente dà inizio a un commovente elogio dell’Eneide, che gli fu «mamma
poetando», e senza il cui stimolo non avrebbe mai scritto nemmeno una
riga. Per enfatizzare l’amore e la gratitudine nei confronti del maestro,
Stazio conclude questo suo primo discorso con i versi che seguono:
E per esser vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
piú che non deggio al mio uscir di bando
(Purgatorio XXI, 100-102).
L’affetto così dichiarato, che supera in qualche modo la volontá naturale delle anime di congiungersi con Dio, espresso da un personaggio che
ha già finito di purgare i propri peccati, risulta evidentemente problematico dal punto di vista teologico. Già nel XIV secolo, l’autore dell’Ottimo
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Commento avverte implicitamente il problema, e giustifica il discorso di
Stazio considerandolo formato da «parole poetiche».1 Sarà questa la soluzione tradizionalmente adottata dall’esegesi dantesca nei suoi diversi
periodi, come risposta esplicita al problema teologico rilevato durante secoli attraverso la caratterizzazione di questi versi come «spropositi»
(Pompeo Venturi), «vera impietà» (Manfredi Porena), «poco ortodosse»
(Natalino Sapegno): coincidono nell’attribuire alle parole di Stazio un valore solo metaforico, più precisamente di iperbole o adynaton, i commenti
di Andreoli, Bianchi, Poletto, Mattalia, Bosco. Secondo alcuni di loro,
l’adynaton sarebbe indicativo di un atteggiamento umanistico di Dante:
Daniele Mattalia afferma che la terzina contiene «un’espressione felicissima di un desiderio umanissimo: e tanto più efficace in quanto l’irrealtà
dell’ipotesi urta d’impatto contro la realtà delle cose: che quel Virgilio è
lì, davanti a lui!»; Giuseppe Giacalone dichiara che si tratta di «ipotesi irrealizzabile, ed esprime, perciò, piú che un’idea eretica, un sentimento
profondamente umano spinto all’estremo limite: un argomento assurdo,
per dire sino a qual punto amava l’autore dell’Eneide»; e Anna Maria
Chiavacci Leonardi osserva che «questa dichiarazione, del tutto iperbolica, che, se presa alla lettera, sembrerebbe empietà, ha valore affettivo e
simbolico, come le iperboli del parlar comune (che io possa morire,
se...)».2 Quest’ipotesi a me sembra poco convincente: oltre ad attribuire
alla figura retorica proposta un ruolo eccezionalmente problematico all’interno del poema (dove di solito le risorse espressive accompagnano e arricchiscono semanticamente i valori simbolici), essa elimina di fatto la
drammaticità dei versi in questione. Se si trattasse infatti di un’iperbole,
«un sole», vale a dire ‘un anno’, non sarebbe riduttivo? D’altronde,
un’iperbole che intaccasse il naturale desiderio di un’anima di riunirsi
con Dio risulterebbe particolarmente rischiosa per il Dante pellegrino,
che sta appunto purgando i suoi difetti terreni. È bene ricordare che Stazio,
nel pronunciare queste parole, non sa di star parlando con lo stesso Virgilio che così commossamente sta lodando: il valore pragmatico di un
elogio in seconda persona, la quale potrebbe in qualche modo giustificarne gli eccessi, perde ogni senso di fronte al carattere anonimo del de168
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stinatario. Né va dimenticato che la terzina in questione si trova in un
contesto in cui Stazio sta presentando se stesso, in seguito al discorso sul
terremoto e sulla sua recentissima condizione («pur mo sentii / libera volontà di miglior soglia»; Purgatorio XXI, 68-69): la sconvolgente affermazione è fortemente legata all’identità del personaggio, che ha appena
sentito il suo «voler, tutto libero a mutar convento», e che senza sapere
con chi sta parlando prova il bisogno di ricordare il grande maestro, cui
deve la sua condizione di poeta e, come si saprà dopo, di cristiano e di salvato. Il carattere letterale dell’affermazione di Stazio, inoltre, sembra essere confermato da un’osservazione del Dante personaggio, che dopo aver
indicato a Forese Donati che Stazio è «quell’ombra / per cui scosse dianzi
ogne pendice / lo vostro regno, che da sé lo sgombra» (Purgatorio XXIII,
131-133), gli fa notare che «ella sen va sù forse più tarda / che non farebbe, per altrui cagione» (Purgatorio XXIV, 8-9). L’eccezionale lentezza
di Stazio, il quale ritarda la sua ascesa all’Eden pur di parlare con Virgilio
(e forse anche per rispettare il ritmo impostogli dal corpo di Dante), contrasta con la celerità propria sia di Dante che degli altri penitenti, che è un
topos dell’intero Purgatorio, e che viene ricordata nei versi immediatamente precedenti quelli riportati: «né ’l dir l’andar, n’e l’andar lui piú
lento / facea; ma ragionando, andavam forte, / sì come nave pinta da buon
vento» (Purgatorio XXIV, 1-3). È quindi evidente che la dichiarazione
riguardante un desiderio di conoscere Virgilio che supera l’anelito naturale di volare in Paradiso si manifesta nel resto dell’episodio come volontà
di prolungare il piú possibile la conversazione con lui, desiderio che Virgilio ricambia (credo anche in questo caso in senso letterale) quando dichiara che il suo affetto verso Stazio è tale «sì ch’or mi parran corte queste
scale» (Purgatorio XXII, 18).
Tra gli studiosi che accettano il valore letterale delle parole di Stazio,
ci sono quelli che cercano di risolvere il loro problema teologico considerandole anche loro, ma da un altro punto di vista, manifestazione di un
atteggiamento umanistico del Dante autore. Sono di quest’opinione, tra gli
altri, Enrico Mestica («L’umano trionfa qui sul divino»), Isidoro del
Lungo («l’entusiasmo virgiliano di Stazio scusa ciò che di men religioso
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possa sembrar d’avere la dichiarazione del cristiano spirito»), Luigi Pietrobono, che addirittura si identifica con i sentimenti umani di Stazio:
«che non daremmo noi, perché ci fosse concesso di veder Dante in persona e udirlo?», Manfredi Porena, che vede nell’episodio «uno di quei
luoghi in cui Dante si abbandona a un sentimento tutto umano, e lo comunica al suo personaggio» per cui «fa cadere quest’anima in una vera empietà»; Giovanni Getto, che caratterizza la scena come «una situazione
umanissima (anche se teologicamente inconcepibile allo stato del Purgatorio), che si accorda al tono fondamentale della seconda cantica».
A mio avviso, l’attribuzione al Dante scrittore di sentimenti umanistici
che giustificherebbero ciò che è teologicamente inaccettabile aiuta, piuttosto che a risolvere il problema, ad aggirarlo. È particolamente difficile
accettare quest’abbandonarsi a una passione che il Dante autore avrebbe
condiviso con il personaggio di Stazio, proprio in rapporto con la funzione
esemplare che quest’ultimo svolge per ciò che riguarda le regole del Purgatorio: regno in cui, secondo le sue proprie parole, «cosa non è che sanza
/ ordine senta la religione / de la montagna, o che sia fuor d’usanza» (Purgatorio XXI, 40-42). Ed è bene ricordare che proprio Stazio, quale unico
penitente incontrato dai pellegrini che ha già finito la sua purificazione,
non è soltanto colui che spiegherà una parte sostanziale delle regole del
Purgatorio (che Virgilio apparentemente non conosce), ma è anche colui
che esporrà a Dante un argomento teologico (la genesi dell’uomo e la
creazione dell’anima, in Purgatorio XXV, 31-108) la cui importanza permette di desumere la compatta credibilità del personaggio cui la spiegazione viene affidata.
Un’altra soluzione proposta consiste nell’attribuire a Stazio il desiderio
di essere riuscito a convertire Virgilio in vita. Secondo quest’ipotesi, la dichiarazione di Stazio esprimerebbe la sua generosità, e significherebbe
‘sarei disposto a dare un altro anno di Purgatorio, pur di aver conosciuto
Virgilio in vita, ed averlo illuminato circa la fede cristiana’. In appoggio
di quest’opinione, Scartazzini riporta le parole di san Paolo sul proprio sacrificio in favore dell’altrui salvezza, «Optabam ego ipse anathema esse
a Christo pro fratribus meis» (ad Rom. c. IX, 3), e aggiunge che «nel no170
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stro caso, è vero, non si tratta né di bene comune, né di salute eterna; ma
appunto per questo anche il desiderio espresso da Stazio è appena paragonabile a quel di san Paolo, o di Moisè che prega: «Aut dimitte eis hanc
noxam, aut si non facis, dele me de libro tuo!» (Exod. XXXII, 31, 32)».3
Come avverte lo stesso studioso, le intenzioni di Paolo e di Stazio non
sembrano tuttavia facilmente assimilabili: mentre il primo si dichiara disposto al proprio sacrificio per la salvezza dei suoi fratelli, il protagonista
di questa scena si riferisce a un proprio desiderio. È invece evidente che
l’espressione di Stazio «quando visse Virgilio» sembra più di identificare
il periodo cui appartiene l’Eneide che a quello di lui stesso, cioè un’epoca
in cui neanche lui, secondo quanto che emerge dal racconto sulla propria
conversione (Purgatorio XXII, 76-93), si sarebbe salvato. Credo pertanto
che sia fuorviante assegnare all’espressione di Stazio il riferimento a un
periodo in particolare: essa sembra piuttosto significare ‘per essere vissuto
nello stesso periodo in cui visse Virgilio’, senza considerare il periodo in
sé. Se invece si accettasse l’ipotesi circa la volontà di Stazio di sacrificarsi
per la salvezza del maestro, l’anno di Purgatorio che egli sarebbe disposto
ad offrire risulta alquanto limitata per non dire avara; e si ricordi che
siamo di fronte a un’anima che è caratterizzata, semmai, dal peccato opposto, cioè dalla prodigalità.
Infine, un gruppo di studiosi sostiene che le parole pronunciate da Stazio si giustificano considerando che egli non ha ancora finito di purgarsi.
Più precisamente, Baldassare Lombardi si riferisce al fatto che Stazio non
è ancora stato immerso nel Leté.4 Neanche questa risposta appare convincente: nonostante all’anima di Stazio manchino alcuni pochi rituali di
purificazione, nel testo non solo si ribadisce più volte l’innocenza da lui
appena acquisita, ma anche ci si dilunga per l’appunto nel chiarire che la
nuova condizione si manifesta in modo diretto, attraverso la propria percezione della libertà. Stazio infatti afferma che il monte trema quando
un’anima «monda sentesi» (Purgatorio XXI, 58-59), ed enfatizza questo
sentimento con l’aggiunta che «de la mondizia sol voler fa prova / che,
tutto libero a mutar convento, / l’alma sorprende, e di voler le giova» (vv.
61-63); come se la novità (e la bellezza) dell’idea richiedessero ulteriori
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chiarimenti, Stazio continua a spiegare, a mio avviso prodigamente, che
prima di questa liberazione l’anelito naturale di vedere Dio è condizionato
da una volontà relativa di purgazione, analoga al peccato che lo aveva
condizionato in vita: «Prima vuol ben, ma non lascia il talento / che divina
giustizia, contravoglia, / come fu al peccar, pone al tormento» (vv. 6466); e per ciò che lo riguarda in prima persona, aggiunge che lui stesso
«pur mo» ha appena sentito «libera volontà di miglior soglia» (v. 69).
Non sembra d’altronde possibile che l’immersione nel Leté includa tra
le sue funzioni quella di cancellare un affetto quale quello che Stazio
prova per Virgilio. Le sue acque lavano, com’è noto, la memoria dei peccati commessi. È così che Beatrice, quando spingerà Dante a confessare
tutte le sue colpe, farà appunto riferimento al suo ricordo: «ché le memorie triste / in te non sono ancor da l’acqua offense» (Purgatorio XXXI
11-12). Per specificare il problema teologico del passaggio qui esaminato,
bisogna dunque chiedersi quale peccato implichi l’amore di Stazio per
Virgilio, la cui memoria dovrebbe essere cancellata dal fiume santo. Credo
sia evidente, in questo senso, che quest’amore non abbia, in sé, nulla di
peccaminoso; anzi, questo sembra di essere stato, contemporaneamente,
causa ed effetto non solo della vocazione poetica di Stazio, ma anche della
sua fede e la sua salvezza. Come si potrebbe allora pensare che il Letè laverà quest’affetto? Ricordiamo in proposito che Matelda esprime chiaramente il carattere selettivo del fiume: «Questo e altre cose / dette li son
per me; e son sicura / che l’acque di Letè non gliel nascose» (Purgatorio
XXXIII, 121-124). E tra le «altre cose» che la donna aveva detto a Dante,
Virgilio e Stazio, si trova niente meno che il chiarimento circa il significato cristiano del mito pagano dell’Età dell’oro: «quelli ch’anticamente
poetaro / l’età de l’oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro» (Purgatorio XXVIII, 139-141). Il sorriso con cui i poeti latini ricevono queste parole è senz’altro incompatibile con la tristezza dei ricordi
che cancella il Letè, e con il pianto che esso richiede; pianto che, significativamente, solo verrà imposto a Dante: «Alto fato di Dio sarebbe rotto,
/ se Letè si passasse e tal vivanda / fosse gustata sanza alcuno scotto / di
pentimento che lagrime spanda» (Purgatorio XXX, 142-145). Si capisce
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che Stazio, che si immergerà anche lui nel Letè, ha già pagato il suo
‘scotto’ durante i secoli che ha ‘pianto’ nel Purgatorio.
Credo sia chiaro, a questo punto, che il problema teologico ora affrontato non consista nell’individuazione, nelle parole di Stazio, di un peccato
che debba ancora essere lavato, ma nella volontà ancora condizionata di
vedere Dio, espressa, come si è osservato, in contiguità con la spiegazione
che la libertà appena raggiunta consiste, appunto, nel suo non condizionamento. L’affetto di Stazio verso Virgilio non ha niente di peccaminoso
in sé: esso è vincolato alla sua salvezza, ed è anche ricambiato dal grande
maestro: «mia benvoglienza inverso te fu quale / più strinse mai di non
vista persona, / sì ch’or mi parran corte queste scale» (Purgatorio XXII,
16-18). Come si può notare, l’affermazione di Virgilio non solo include
l’affetto per Stazio, ma anche un esplicito riferimento all’incontro fra entrambi, di segno analogo ed opposto alla dichiarazione anteriore di Stazio:
così come egli avrebbe dato un altro anno di Purgatorio per conoscerlo,
a Virgilio sembrerà breve il percorso che li unirà durante la salita. Inoltre,
come si vedrà più avanti, Virgilio introduce, nel riferirsi ai sentimenti che
lo uniscono a Stazio, una precisazione lessicale che ‘traduce’ l’«amore»
espresso da lui come «benvoglienza inverso» di lui.
È dunque evidente che l’elemento problematico della terzina esaminata
è l’imperfezione o incompletezza della libertà che prova Stazio nel momento stesso in cui sta esprimendo la sua nuova condizione: sono appena
finiti i secoli di desiderata sofferenza, il monte ha appena tremato per la liberazione della sua anima, e Stazio, senza sapere con chi sta parlando,
esprime un desiderio (che in vita non avrebbe avuto nulla di riprovevole)
per cui sarebbe ancora disposto a ritardare il suo ingresso nella beatitudine.
Non penso che sia minore, in questo senso, il vincolo che le parole di
Stazio esprimono tra l’affetto e la purgazione: ancora commosso dalla recente liberazione, egli sembra di riconoscere che non tutti i suoi desideri
mondani sono stati cancellati dalla secolare penitenza. È lo stesso Stazio
ad affermare, nella sua spiegazione sulla generazione dell’uomo e la creazione dell’anima, che l’aspetto dei penitenti golosi dipende appunti dai
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loro affetti o desideri: «Secondo che ci affliggono i disiri / e li altri affetti,
l’ombra si figura» (Purgatorio XXV, 196-198). Come si vede, in questo
contesto i desideri e gli affetti affliggono i penitenti, tra i quali significativamente Stazio, attraverso la prima persona plurale, include se stesso.
2. UNA PROPOSTA: LA PROVVIDENZIALITÀ DELL’INCONTRO DI STAZIO,
VIRGILIO E DANTE
Può essere di utilità, per comprendere il problema, associare l’episodio
studiato con la «divina giustizia» cui Stazio fa riferimento al verso 65,
quando spiega a Dante e Virgilio la condizione delle anime il cui anelito
naturale è ancora condizionato dal desiderio di purgarsi. Secondo la mia
ipotesi, l’imprescrutabile giustizia di Dio permetterà eccezionalmente a
Stazio di finire la sua penitenza, che altrimenti sarebbe dovuta durare un
altro anno, attraverso l’incontro reale con l’anima di Virgilio nel Purgatorio.
La giustizia divina, come il Dante personaggio e il lettore sanno nel
momento dell’incontro con Stazio, ammette nella sua ineffabile infinitezza la riduzione del tempo di penitenza per mezzo dei suffragi. Come
Virgilio ha spiegato a Dante, «cima di giudicio non s’avvalla / perché
foco d’amor compia in un punto / ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla»
(Purgatorio VI, 37-39). È centrale nell’esposizione di Virgilio il «foco
d’amor», che può applicarsi in questo caso al commovente dialogo che
avrà luogo tra i poeti latini; dialogo in cui l’amore non soltanto si manifesterà in «un punto», ma in piú momenti della lunga scena: oltre all’amore che Stazio manifesta per l’Eneide e il suo autore anche prima di
sapere con chi sta parlando, esso si esplicita ancora quando l’identità di
Virgilio è già stata rivelata («Or puoi la quantitate / comprender de l’amor
ch’a te mi scalda»; Purgatorio XXI, 133-134); e significativamente, enfatizzando la specificità del sentimento di Stazio, quest’amore è ricambiato da Virgilio in termini diversi: «mia benvoglienza inverso te fu quale
/ piú strinse mai di non vista persona» (Purgatorio XXII, 16-17). Come
si vedrà, queste parole di Virgilio possono essere considerate una corre174
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Stazio e Virgilio nel Purgatorio
zione del sentimento di Stazio; basti per ora ricordare in proposito che le
infinite risorse di Dio affinché le anime paghino il loro debito sono parte
della giustizia divina, e com’essa insondabili; per ciò, di fronte al dubbio
di Dante circa la giustezza della condanna di coloro che vissero prima o
lontani da Cristo e quindi ignari della sua esistenza, Beatrice risponde,
per l’edificazione di Dante e dei lettori: «Or tu chi se’ che vuo’ sedere a
scranna / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una
spanna?» (Paradiso XIX, 79-81).
La verificazione di quest’ipotesi richiede in primo luogo il compito di
stabilire in quale senso il desiderio di Stazio di aver conosciuto Virgilio
nel mondo, per cui dichiara di essere disposto a passare un altro anno in
Purgatorio, può considerarsi purgato o ‘corretto’ dall’incontro provvidenzialmente preparato da Dio. In secondo luogo, è lecito domandarsi quali
sono le conseguenze di quest’incontro nella formazione del Dante personaggio e, attraverso di lui, del lettore: esse dovrebbero giustificare la
scelta divina di compensare l’anno di Purgatorio che Stazio, secondo le
sue parole, sembra ancora di dover scontare, con questo incontro provvidenziale, mediante il quale non solamente egli finirà la sua penitenza, ma
anche l’apprendimento del pellegrino si arricchirà notevolmente.
2.1. IL PECCATO DI STAZIO E L’INTERVENTO DI VIRGILIO
2.1.1. LA PRODIGALITÀ DEL PENITENTE E LE CORREZIONI DEL MAESTRO
Per risolvere il primo problema è bene ricordare che l’ultimo peccato
che Stazio ha purgato (oppure sta purgando) è quello della prodigalità:
«Or sappi ch’avarizia fu partita / troppo da me, e questa dismisura / migliaia di lunari hanno punita» (Purgatorio XXII, 34-36); e ancora: «però,
s’io son tra quella gente stato / che piange l’avarizia, per purgarmi, / per
lo contrario suo m’è incontrato» (vv. 52-54). Fra le due esplicitazioni,
Stazio si sofferma sulla propria coscienza del peccato: è stata appunto la
lettura dell’Eneide ciò che gli ha permesso di riconoscerlo e pentirsene
(vv. 37-45). E nel leggere il lungo discorso di Stazio si ha infatti l’impressione, precisamente, che la prodigalità continui a far parte della sua
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psiche. Essa si manifesta fin dalla prima risposta che egli ha dato ai pellegrini: Virgilio pone una domanda sulla causa del terremoto e del grido
che egli e Dante hanno appena udito («Ma dimmi, se tu sai, perché tai
crolli / diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una / parve gridare infino a’
suoi piè molli»; Purgatorio XXI, 34-36); Stazio dà una risposta lunga
trentatré versi, eccedendo di gran lunga la richiesta di Virgilio: spiega che
la montagna è libera da ogni alterazione meteorologica (vv. 41-45); dà
ben nove esempi di queste (non purgatoriali) alterazioni (vv. 46-54); aggiunge un corollario sulla condizione dell’Antipurgatorio (vv. 54-56); dà
in una sola terzina la risposta specifica alla domanda di Virgilio, la cui
esauriente sintesi suggerisce il carattere superfluo di tutto il resto («Tremaci quando alcuna anima monda / sentesi, sí che surga o che si mova /
per salir sú; e tal grido seconda»; 58-60); dà la spiegazione su come
l’anima sa di essersi liberata e su come si sentiva prima (vv. 61-66); aggiunge che, in questo caso, si tratta della sua propria liberazione (vv. 6769); ripete infine la causa del terremoto che hanno appena sentito Dante
e Virgilio (vv. 70-72).5 Ed è interessante notare come Isidoro di Siviglia
associ precisamente la prodigalità con l’eccesso nel compito docente:
«Nonnumquam largitas diuitum prodiga, non ad utilitatem, sed ad elationem effunditur: comparati hypocritis qui non ad aedificationem docent
audientium, sed ad suae gloriae exagerandum cothurnum» (Sententarium
III, LX, 19). Per poi aggiungere: «Dispensator non debet esse prodigus,
sed discretus; largire enim debet quantum oportet, ut, tenendo in uno mensuram, sufficiat plurimis» (ivi, 21).
Se l’eccessiva generosità del personaggio può essere avvertita in questo
caso in termini quantitativi, evidenziata dall’esplicita e sintetica risposta
di Virgilio («Omai veggio la rete / che qui v’impliglia e come si scalappia,
/ perché ci trema, e di che congaudete»; vv. 76-78), la sua seconda risposta
risulta emblematica anche sul piano qualitativo. Quando Virgilio lo interroga sulla sua identità e i suoi peccati («Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
/ e perché tanti secoli giaciuto / qui se’, ne le parole tue mi cappia»; vv. 7881), Stazio si presenta come autore della Tebaide e dell’Achilleide (vv.
82-93) per immediatamente attribuire la sua condizione di poeta al176
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Stazio e Virgilio nel Purgatorio
l’Eneide, cui non soltanto allude attraverso la perifrasi «la divina fiamma
/ onde sono allumati piú di mille», ma che sente il bisogno di nominare
in un contesto che esplicita, senza che ve ne sia necessità, quanto già
detto: «de l’Eneida dico» (vv. 94-99). Alla fine della stessa risposta, probabilmente con l’intenzione di riferirsi dopo al proprio peccato (come gli
è stato chiesto da Virgilio), egli aggiunge i problematici versi ora presi in
esame. Nel caso di questo lungo discorso, la prodigalità di Stazio emerge
non soltanto in termini quantitativi, ma anche nell’attribuzione della sua
propria gloria poetica a Virgilio; enfatizzando la generosità di quest’atteggiamento, nel canto successivo Stazio gli attribuirà, com’è stato detto, sia
la consapevolezza del peccato sia la propria salvezza, attraverso la bellissima figura dei versi 67-69: «Facesti come quei che va di notte, / che porta
il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte». Se nella
scena precedente, come ho cercato di mostrare, il maestro aveva suggerito
la prodigalità logorroica di Stazio mediante una ricapitolazione sintetica
delle aggiunte a quanto era stato richiesto, questa nuova manifestazione
verrà esplicitamente corretta da Virgilio, il quale inizialmente cerca di nascondere la propria identità (forse per pudore davanti a tali elogi) e poi riconduce la virtù di Stazio al merito di quest’ultimo: «come poté trovar
dentro al tuo seno / loco avarizia, tra cotanto senno / di quanto per tua
cura fosti pieno» (Purgatorio XXII, 22-24; la sottilineatura è ovviamente
mia). Queste parole palesano la perplessità di Virgilio, il quale ha sicuramente avvertito la generosità di Stazio, di fronte al fatto di averlo incontrato tra gli avari. È evidente che il peccato di prodigalità, sebbene come
esprime lo stesso Stazio sia equivalente, nella giustizia di Dio, a quello
dell’avarizia in quanto entrambi si allontanto dal giusto mezzo, è nella
coscienza dei pellegrini (e attraverso loro, in quella del lettore) valorizzato
meno negativamente che il suo contrario. Non sembra casuale, in questo
senso, che il sintagma «tra cotanto senno» rimandi puntualmente al
gruppo di poeti tra cui Dante fu sesto (Inferno IV, 102): a Virgilio l’avarizia pare incompatibile con la virtù che caratterizza gli spiriti magni del
Limbo che ha presentato a Dante come maestri da seguire, e forse con la
condizione stessa di poeta.
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Oltre alle ‘correzioni’ verbali, un’altra sembra particolarmente significativa, giacché riguarda l’amore stesso di Stazio per Virgilio. Come viene
a sapere che è di fronte al grande maestro, e probabilmente prima che il
Dante personaggio finisca di parlare, Stazio «già s’inchinava ad abbracciar li piedi / al mio dottor» (Purgatorio XXI, 130-131), e viene interrotto
da Virgilio in questi termini: «Frate, / non far, ché tu se’ ombra e ombra
vedi» (vv. 131-132). In primo luogo, il maestro corregge l’inclinazione fisica di Stazio, attraverso un imperativo (non far) e il vocativo «frate» che,
mettendo entrambi sullo stesso piano, ricorda il suo uso analogo in circostanze vicine: «Drizza le gambe, levati su, frate» (Purgatorio XIX, 133).
In questo caso, diversamente da quanto accade nei casi di vocativi simili,
si tratta di una fratellanza tra un’anima destinata alla salvezza e un’anima
eternamente esiliata: la fratellanza riguarda evidentemente la comune condizione di morti (e aventi pertanto corpi apparenti). In secondo luogo,
come ammette immediatamente Stazio, Virgilio corregge la modalità
dell’affetto, che nelle condizioni in cui avviene l’incontro non ammette
l’abbraccio; un abbraccio che implica inoltre un’inclinazione di Stazio
verso il basso che appare opposta alla direzione che dovrebbe caratterizzare il percorso di un’anima che si avvia, ormai senza ostacoli, verso Dio.
La risposta di Stazio manifesta per l’appunto la sua confusione; vedendo
realizzato di fatto un desiderio che riteneva impossibile, e che palesava
l’imperfezione della sua penitenza, egli ha dimenticato che l’incontro bramato ha luogo nel Purgatorio, e si slancia in una manifestazione corporea
del suo amore, tipica degli affetti del mondo, che il maestro non permette.
La stessa risposta di Stazio manifesta, come causa del suo errore, la quantità dell’amore che prova per Virgilio:
Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda.
178
(Purgatorio XXI, 133-136).
Claudia FERNÁNDEZ
Stazio e Virgilio nel Purgatorio
È evidente che quest’amore di Stazio per Virgilio, che aveva generato
un desiderio contrario a quello del subito arrivo in Paradiso, contiene
qualche elemento almeno iperbolico che il penitente deve ancora cancellare. Ulteriore prova di ciò è, come si è accennato, la distinzione terminologica operata dal Dante autore attraverso la voce dei due personaggi.
All’«amore» espresso da Stazio, Virgilio oppone «la tua affezion» (Purgatorio XXII, 15, in riferimento all’affetto di Stazio nei suoi confronti) e
la «mia benvoglienza inverso te» (v. 16, in riferimento al proprio affetto
nei confronti di Stazio). E per ricambiare gli eccessi di Stazio, il maestro
qualifica il suo sentimento come quello che «più strinse mai di non vista
persona» (v. 17). In questo modo, Vigilio suggerisce che anche l’affetto
di Stazio, che forse a causa della sua prodigalità egli nomina «amore»,
dovrebbe appartenere alla classe di quelli suscitati da persone che non si
sono mai viste. È possibile che in vita, quest’amore per Virgilio sia stato
parte di un’anima incline ad eccedere nell’amore verso colui che lo aveva
reso poeta e cristiano, un’anima che continua a tendere, nel punto estremo
della sua penitenza, a misconoscere, nel suo prodigo amore, i limiti della
funzione di Virgilio come mezzo della sua salvezza, e con esso la forza
della propria libertà e responsabilità: nel Purgatorio, nel modo piú perfetto, è appunto l’oggetto di quest’amore colui che lo corregge, e pone
termine al magistero che ha cominciato nella vita attraverso la letteratura.
2. 1. 2. LA PROVA ORALE DI STAZIO
Mostrando ancora una volta la ricchezza delle sue risorse docenti, Virgilio chiede a Stazio di dare a Dante una lezione sulla capacità delle anime
di soffrire sensorialmente la mancanza di alimenti (Purgatorio XXV, 2833). Prima di esprimere la sua richiesta, Virgilio afferma che la presenza
di Stazio in quel luogo e in quel momento («ecco qui Stazio») è provvidenziale per la formazione di Dante («perché dentro a tuo voler t’adage»).
Ma inoltre, se si accetta la mia ipotesi, Virgilio mostra così a Stazio in
quale misura egli stesso lo consideri indipendente dal maestro, prodotto
della propria «cura». L’efficacia di quest’insegnamento si deve al fatto
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Tenzone 13
2012
che è lo stesso Virgilio colui che, per il bene di Dante, delega il compito:
la stessa missione provvidenziale, che assegna ora a Stazio un ruolo specifico, riconduce l’amore di Stazio per Virgilio alla sua vera dimensione.
Oltre all’importante magistero che il pellegrino riceve allora, è interessante notare come, nel discorso di Stazio, non appare ormai alcuna traccia
della prodigalità logorroica che caratterizza i suoi primi interventi.
Con la nuova responsabilità che il maestro gli assegna, quella di essere
momentaneamente maestro, Stazio si sofferma senza eccessi nella complessa questione dell’origine dell’anima (vv. 37-60), anticipa un possibile
dubbio di Dante (vv. 61-78), spiega la condizione dell’anima dopo la
prima morte (vv. 79-102) per avvicinarsi al centro del problema (vv. 103107) e raggiunge definitivamente la risoluzione del problema posto da
Dante: «e quest’è la cagion di che tu miri». La lunghezza della spiegazione si giustifica, in questo caso, per l’importanza e la difficoltà dell’argomento: non vi compaiono esempi innecessari, né digressioni, né
ridondanze; il discorso si avvia verso la sua meta in modo ricco ma ordinato e prevedibile dal lettore. Nelle ultime parole che il personaggio pronuncia nella Commedia, Stazio mostra di essere in grado di affrontare,
con la sobria idoneità che caratterizza i discorsi di Virgilio, un argomento
di enorme utilità per l’educazione del pellegrino. Nel resto del suo percorso purgatoriale, egli accompagnerà Dante senza che il lettore lo ‘senta’,
fino alla sua immersione nell’Eunoè insieme al pellegrino (Purgatorio
XXXIII, 133-135).
2.2. STAZIO E LA FORMAZIONE DI DANTE PELLEGRINO
L’episodio studiato, come si è osservato, svolge molteplici funzioni
nell’economia del poema. Grande parte dell’informazione che in esso si
presenta si sarebbe ottenuta indipendentemente dal problema qui esaminato: sarebbe stato infatti sufficiente che Stazio finisse la sua purificazione
nel momento in cui i pellegrini visitano il quinto girone affinché il Dante
autore si servisse di questo personaggio per mostrare l’ultimo percorso
delle anime. Si tratta ora di domandarsi quali insegnamenti derivino dal
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Claudia FERNÁNDEZ
Stazio e Virgilio nel Purgatorio
commovente incontro tra Stazio e Virgilio, e dalla tensione tra gli affetti
terreni e la brama di unirsi a Dio che vi si manifesta. In altri termini, quali
effetti derivino dalla decisione, da parte del Dante scrittore, che Stazio
incontri Virgilio in uno stato della propria penitenza che gli permette di
accompagnare i pellegrini ma lo costringe ancora a completarla.
Come si è accennato, il Dante scrittore, attraverso quest’episodio, rende
un ulteriore e specifico omaggio al suo maestro, che per motivi di verosimiglianza il suo personaggio non poteva assumere. La scelta dell’autore
di assegnare a Stazio questo compito fu probabilmente motivata dalle ultime parole della Tebaide: «vive, precor; nec tu divinam Aeneida tempta,
/ sed longe sequere, et vestigia semper adora» (XII, 816-817). L’aggettivo
«divinam» e il periodo in cui visse Stazio suggerirono forse a Dante la sua
conversione al cristianesimo, che pur senza attestazioni poteva essere verosimile, per il lettore contemporaneo, come conseguenza della lettura
dell’opera virgiliana. Ma la compagnia di questo personaggio durante il
resto del viaggio permette inoltre allo scrittore, da un lato, di presentare
ancora una volta la nobiltà con cui Virgilio riconosce i propri limiti e delega un insegnamento a uno spirito che, formatosi grazie a lui come poeta,
lo supera in quanto è salvo (Purgatorio XXV, 22-30); da un altro lato,
credo che Dante come narratore, a partire dall’episodio dell’incontro, cominci a preparare il lettore all’assenza di Virgilio: è come si è detto da
quel momento che il Dante pellegrino perde l’esclusività del suo rapporto
con il maestro. Ed è significativo che Stazio cammini, da allora in poi, dietro Virgilio, e quindi lo allontani di fatto da Dante. È evidente come
quest’alterazione della solita vicinanza di maestro e discepolo, che continuava fin dalla selva oscura, acquisti un significato profondo grazie alla
scena in cui si manifesta l’amore di Stazio per Virgilio, senza la quale
perderebbe parte della sua suggestione anche la conversazione che i due
poeti latini mantengono e che Dante, inseguendoli «soletto / di retro, […]
a poetar mi davano intelletto» (Purgatorio XXII, 127-129), sicché «l’andar facean di nullo costo» (Purgatorio XXIII, 9). In questo come in tanti
altri vuoti del testo che il lettore della Commedia è invitato a completare,
le parole che Stazio e Virgilio scambiano durante l’ascesa assume un va181
Tenzone 13
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lore religioso proprio a causa della condizione di relativa immaturità di
Stazio: il fatto che queste parole diano al Dante personaggio, che al ritorno
del suo viaggio dovrà scrivere il poema sacro, «intelletto a poetar» sembra
confermare la sacralità della sua missione, in funzione della quale hanno
luogo tutti gli eventi visti e vissuti nei tre regni visitati. Si può addirittura
immaginare che questa conversazione completi, nella formazione poetica
del pellegrino, quella che egli ha ottenuto essendo «sesto tra cotanto
senno»: «parlando cose che ’l tacere è bello, / sì com’era ’l parlar così
dov’era» (Inferno IV, 104-105).
2.3. STAZIO E LA SCOMPARSA DI VIRGILIO
Nonostante Stazio non faccia più sentire la sua voce ai lettori dal canto
XXV in poi, la sua presenza è ricordata dal narratore in piú occasioni:
essa prepara, secondo la mia ipotesi, almeno tre scene particolarmente significative della fine del Purgatorio, il cui valore drammatico ed emotivo
risiede appunto nella separazione dei pellegrini destinati alla salvezza dall’amato maestro che tornerà nel Limbo.
La prima scena cui mi riferisco è quella del passaggio attraverso la barriera di fuoco, rituale che anche il Dante personaggio deve compiere. Virgilio, com’è noto, dopo aver convinto il discepolo ad entrare nel fuoco
avendo dovuto usare tutte le sue risorse, domanda a Stazio «che venisse
retro, / che pria per lunga strada ci divise» (Purgatorio XXVII, 47-48).
Questo nuovo incontro di Dante con il suo maestro, in una situazione di
enorme sofferenza fisica, è particolarmente commovente: «lo dolce padre
mio, per confortarmi, / pur di Beatrice ragionando andava, / dicendo: gli
occhi suoi già veder parmi» (vv. 52-54). Qui Virgilio, riavvicinandosi al
discepolo da cui si congederà tra poco, fa riferimento, in prima persona,
alla visione degli occhi di Beatrice, che da ciò che vide nel Limbo «lucevan piú che la stella», e che secondo annuncerà a Dante, egli vedrà «lieti»:
non così Virgilio, che li vide «lagrimando», e che se ne andrà senza rivederli. Questa bellissima unione tra Dante e Virgilio nel fuoco, in cui il
maestro consola il discepolo ricorrendo a una visione che non gioverà a
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Claudia FERNÁNDEZ
Stazio e Virgilio nel Purgatorio
lui stesso, esclude ovviamente Stazio: la sua esplicita distanza nobilita e
intensifica l’imminente congedo.
La seconda scena è negli ultimi versi del canto successivo; lì Matelda,
dopo aver mostrato ai tre pellegrini i fiumi edenici, aggiunge un corollario
per i poeti latini:
Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice.
(Purgatorio XXVIII, 139-144).
L’analogia tra l’Età dell’oro pagana e l’Eden cristiano, che Matelda
espone a Virgilio e Stazio, svolge una funzione analoga all’interpretazione
provvidenziale dell’Egloga IV cui Stazio si era riferito prima: mediante
entrambe, Virgilio riceve una conoscenza la cui completa rivelazione non
avrà mai, ma che gli permette di comprendere la funzione provvidenziale
della propria cultura. Inoltre in questo caso, dato che gli ultimi versi riportati hanno una palese fonte nel primo libro delle Metamofosi, possiamo immaginare che Virgilio, quando tornerà nel Limbo, condividerà con Ovidio
questo suo nuovo sapere. L’elemento comunque piú significativo, per ciò
che riguarda la nostra analisi, si trova nella reazione dei due poeti latini:
Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso
udito avean l’ultimo costrutto;
poi a la bella donna torna’ il viso
(Purgatorio XXVIII, 145-148).
La delicatezza e l’intensità di questo sorriso si debbono, in grande misura, al particolare rapporto tra Stazio e Virgilio: uniti nel verso dal possessivo («miei poeti»), nonostante la loro opposta condizione eterna,
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entrambi sorridono con complicità di fronte all’insondabile Provvidenza
che li scelse come parti complementarie del Suo disegno.
Infine, la commovente scena in cui il Dante personaggio scopre l’assenza di Virgilio acquista, a causa della presenza di Stazio e del suo vincolo con il maestro, un carattere plurale che può includere il lettore. Infatti
nei versi in cui il lettore viene a sapere che Virgilio se ne è andato, la presenza di un pronome di prima persona plurale (‘ne’) è dovuta alla compagnia di Stazio; sono lui e Dante coloro che si vedono privati dal
maestro: «ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé» (Purgatorio XXX,
49-50). La drammaticità della perdita, accentuata dall’enjambement che
fa sentire anche metricamente la mancanza del maestro, comprende tutto
l’amore e la gratitudine di Dante nei confronti del «dolcissimo patre»;
sentimenti che in questi versi possono essere almeno in parte condivisi da
Stazio proprio perché almeno in parte Virgilio svolse, verso di lui, la stessa
funzione che svolse verso Dante, quella di condurlo fino alla salvezza.
Ma anche, dato il profondo affetto che lo unisce al personaggio di Virgilio,
è inevitabile che anche il lettore provi il dolore di quest’assenza definitiva:
il ‘ne’ che giustifica il suo significato esclusivo per il referente ‘io (Dante)
e Stazio’, suggerisce un valore comprendente il lettore, anch’esso appena
privatosi di Virgilio: quel Virgilio che ci ha accompagnati, che ha salvato
Dante e Stazio, quella parte della nostra anima, ci ha lasciati.
3. CONCLUSIONI
Tra le tante funzioni che svolge all’interno del poema l’episodio di Stazio, vi è quella di mostrare come la divina Provvidenza possa preparare
un incontro che, nello stesso tempo, permette di rendere omaggio a Virgilio, trasmettere importanti insegnamenti al Dante personaggio e al lettore, finire in un modo eccezionale la penitenza di un’anima che, quasi
exemplum di tutte le anime del Purgatorio, si trova ancora tra la Terra e il
Cielo. Per Stazio il fatto di conoscere Virgilio era, al momento del viaggio
di Dante, un sogno incompiuto. Per il pellegrino, e per l’umanità, era importante che egli lo vedesse: senza la circostanza eccezionale del viaggio
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Stazio e Virgilio nel Purgatorio
di Dante, forse Stazio sarebbe stato un altro anno in Purgatorio; forse addirittura, nell’imprescrutabile piano divino, lo stesso desiderio di Stazio
di conoscere Virgilio era previsto in funzione del loro eccezionale incontro in Purgatorio: attraverso di esso, egli può esprimere direttamente il
suo amore al maestro, può ricevere insegnamenti da parte sua e condividere con lui altri insegnamenti, riesce a superare seppur circostanzialmente il suo ruolo di discepolo, finisce di saziare nel modo piú bello il suo
più nobile desiderio mondano: quello di rendere eterna nella Commedia
la gratitudine verso colui che lo fece poeta e cristiano in vita, e interamente puro nell’aldilà.
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NOTE
1. Tutti i commenti citati, compresi quelli piú avanti indicati attraverso la
sola menzione dell’autore, sono reperibili nel sito www.dante.dartmouth.edu.
2. Ma la stessa studiosa aggiunge che il suo significato non va sottovalutato:
«l’amore del poeta per l’altro poeta, che gli è maestro e padre (come fu Virgilio per Dante), passa anche oltre le regole “ufficiali” dell’aldilà».
3. Condividono questa posizione, nei loro commenti al poema, Ernesto Trucchi (1936), Robert Hollander (200’-2007), Nicola Fosca (2003-2006).
4. «A me però sembrerebbe la più spedita di rispondere, che suppone Dante
essere quest’anime ancor soggette a passioni ed errori, e tal perdurare fin che
non sieno eccitate al pentimento, e lavate nel fiume Lete». Cfr. anche André Pézard, «Rencontre d{e} Dante et de Stace», in Mélanges Aug. Rénaudet, Genova,
1952, pp. 10-28. Aderisce alla stessa idea, nel suo commento, anche Giuseppe
Giacalone (1968).
5. Si osservi inoltre che il Dante poeta, nell’esprimere le sue impressioni nei
confronti di questa spiegazione, include un termine quale è prode, che forse lo
scrittore riconduceva etimologicamente proprio alla prodigalità che sembra caratterizzarla: «così ne disse; e però ch’el si gode / tanto del ber quant’è grande la
sete / non saprei dir quant’el mi fece prode» (vv. 73-75).
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