chimica, scienza e tecnologia dei materiali per la
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chimica, scienza e tecnologia dei materiali per la
UNIVERSITÀ DI NAPOLI SUOR ORSOLA BENINCASA CHIMICA, SCIENZA E TECNOLOGIA DEI MATERIALI PER LA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI EZIO MARTUSCELLI 'RFHQWHGL&KLPLFDSHUL%HQL&XOWXUDOL 8QLYHUVLWD¶6XRU2UVROD%HQLQFDVD1DSROL UNIVERSITÀ DI NAPOLI SUOR ORSOLA BENINCASA CHIMICA, SCIENZA E TECNOLOGIA DEI MATERIALI PER LA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI EZIO MARTUSCELLI 'RFHQWHGL&KLPLFDSHUL%HQL&XOWXUDOL 8QLYHUVLWD¶6XRU2UVROD%HQLQFDVD1DSROL INTRODUZIONE --- Il Concetto di Bene Culturale e di Conservazione Dopo la seconda guerra mondiale, che aveva causato la distruzione di edifici e opere di grande valore artistico, storico e culturale si avvertì l’esigenza di sviluppare politiche condivise affinché questa parte del passato della civiltà, che rappresenta un patrimonio per l’umanità, fosse salvaguardato per permettere anche alle prossime generazioni di fruirne. Nell’ambito della “Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato” (l’Aja-14, Maggio, 1954) si giunse alla seguente definizione di Bene Culturale: <…i beni mobili o immobili di grande rilevanza per il patrimonio culturale dei popoli, come i monumenti architettonici, di arte o di storia, religiosi o laici; le località archeologiche; i complessi di costruzione che, nel loro insieme, offrano un interesse storico o artistico; le opere d’arte, i manoscritti, i libri e altri oggetti d’interesse artistico, storico o archeologico, nonché le collezioni scientifiche e le collezioni importanti di libri o di archivi o di riproduzione dei beni sopra definiti…>. La differenza tra un bene comune a funzione d’uso, privo di contenuto artistico e storico e un prezioso manufatto in ceramica con valore di bene culturale è evidenziata attraverso la figura 1. I beni culturali, a causa della loro specifica composizione e reattività chimica dei materiali che li costituiscono, ineludibilmente subiscono processi di degradazione connessi a fattori intrinseci, di natura ambientale e/o ad attività antropiche. Questi processi attraverso trasformazioni chimiche, spesso molto complesse, ne pregiudicano le funzioni alterandone l’aspetto e le caratteristiche meccaniche e strutturali. Negli ultimi anni è stato possibile, mediante l’impiego di prodotti sviluppati dalla chimica moderna e utilizzando innovative tecniche di diagnostica strumentale, mettere a punto dei metodi di conservazione finalizzati da una parte a rimediare agli effetti delle trasformazioni chimiche indotte dai vari fattori di degradazione dall’altra a proteggere i manufatti al fine di prevenire, contrastare e limitare i processi chimici e fisici di deterioramento. La “Conservazione” dei beni culturali è essenzialmente basata sulle seguenti azioni: 1) Pulitura, Restauro e Protezione: interventi effettuati direttamente sul manufatto per stabilizzarlo, consolidarlo e proteggerlo; 2 ) Prevenzione e Manutenzione: procedure che tendono a realizzare condizioni ambientali idonee a evitare i danni causati da eventuali fattori chimici, fisici, biologici e antropici. In generale un trattamento di restauro conservativo deve soddisfare i seguenti requisiti (vedesi figura 2): Ÿ Efficienza: migliorare le proprietà fisiche del manufatto senza indurre variazioni chimiche, fisiche o cromatiche (figura-2a). 1 FIGURA 1: La differenza tra un comune bene di consumo, un vaso in terracotta per piante ornamentali (a sinistra) e un manufatto in ceramica (vaso ovale in ceramica di Caltagirone del XV secolo), considerato per le sue caratteristiche storiche e artistiche un bene culturale (a destra) [1-a)]. Ÿ Durabilità: conservare nel tempo l’efficacia del trattamento e quindi allungare i tempi di un successivo intervento (figura 2-b). Ÿ Reversibilità: la possibilità di rimuovere i prodotti usati al fine di poterli sostituire con altri più idonei e innovativi (figura 2-c). Un manufatto una volta restaurato, al fine di ridurre l’azione di ulteriori processi degradativi, dovrà essere tenuto in ambienti che soddisfino le raccomandazioni di prevenzione e mantenimento ottimale. FIGURA 2-a): Conservazione di un bene culturale: concetto di efficienza. 2 FIGURA 2-b): Conservazione dei beni culturali: concetto di durabilità. FIGURA 2-c): Conservazione dei beni culturali: concetto di reversibilità. --- I Materiali Costituenti i Beni Culturali Le principali difficoltà che s’incontrano nella conservazione delle opere d’arte dipendono essenzialmente dal fatto che: I) In molti casi essi sono costituiti da componenti diversi e/o con una struttura globale composita, interconnessa e quindi molto complessa (vedesi a titolo di esempio la figura 3). II) I processi di degradazione possono essere indotti da diversi tipi di agenti ambientali [5]. III) I danni esibiti e i sintomi apparenti sono la risultante delle specifiche risposte ai fattori di deterioramento da parte dei singoli costituenti. IV) In alcune circostanze i prodotti della degradazione chimica di un costituente agiscono da agenti interni di degrado per altri componenti. 3 4 3 2 1 FIGURA 3: La strutturazione a strati sovrapposti di un dipinto su tela (sezione normale al piano del dipinto). Nello schema sono, dal basso verso l’alto, indicati i seguenti elementi: La tela di supporto (1). Lo strato di preparazione (2). Le pellicole pittoriche (3) e lo strato di protezione (4) [4]. Essenzialmente i materiali che costituiscono i beni culturali possono essere catalogati sulla base di vari principi informatori. Una prima classificazione li suddivide in: Ɣ Inorganici e Ɣ Organici. Una seconda in: Ɣ Naturali, Ɣ Artificiali e Ɣ Sintetici. Inoltre, nel caso di un’ampia gamma di manufatti d’interesse culturale, può essere utile catalogare i materiali utilizzati a seconda che essi, riguardo allo stato di ottenimento primario: a) Siano stati sottoposti solo a lavorazioni di tipo meccanico. Vedesi il caso dei marmi e di lastre o blocchi di polimeri lavorati per asporto oppure per intaglio per la realizzazione di sculture (figura 4) [6,7,8]. b) Abbiano subito trasformazioni meccaniche e chimiche. E’ il caso delle ceramiche (vedesi figura 5) [9-18]. c) Siano stati ottenuti per colata del fuso oppure di soluzioni o prepolimeri liquidi a basso peso molecolare in stampi e successiva solidificazione. E’ il caso dei bronzi e di manufatti in plastica ottenuti attraverso un processo denominato “Casting” [19-22]. 4 FIGURA 4: Esempi di sculture ottenute solo per lavorazione meccanica del materiale di origine. Sinistra, ritratto di una donna, in calcare, roccia sedimentaria, costituita in prevalenza da calcite (CaCO3), da Palmira (Siria). 150-200 d.C. (Parigi, Louvre) [6]. 201 Destra, opera di Teobaldo da Vinci in polimetilmetacrilato. [www.delcampe.net]. FIGURA 5: Il Cratere miceneo rinvenuto a Salamina (XIII sec. a.C.). Esempio di manufatto in ceramica ottenuto attraverso procedimenti che prevedono trasformazioni chimiche del materiale di partenza che è l’argilla [10]. 5 La conoscenza della natura chimica (composizione, struttura, proprietà, reattività) e fisica dei materiali costituenti i manufatti d’interesse artistico, storico e culturale, insieme alla loro genesi, fonte e modalità di lavorazione e funzione, rappresenta il necessario e pregiudiziale elemento informativo alla base di ogni progetto di conservazione, di prevenzione e manutenzione. Infatti, la conoscenza di questi elementi permette di mettere in risalto da una parte i fattori che portano al degrado dei manufatti e dall’altra alla scelta di appropriate procedure chimiche di stabilizzazione e protezione. --- Il Ruolo della Chimica nella Conservazione dei Beni Culturali (BB.CC.) La chimica moderna attraverso l’applicazione d’innovative e sofisticate tecniche di analisi strumentali, con particolare riguardo a quelle non distruttive e trasportabili, e la messa a punto di nuovi materiali e metodiche d’impiego ha assunto un ruolo di grande rilevanza nel campo della conservazione attiva e passiva dei BB. CC. contribuendo quindi in maniera sostanziale all’allungamento della durata del ciclo di vita di un manufatto [23,24]. In particolare una serie di metodologie chimiche innovative è di grande utilità nei sotto elencati campi operativi: Ɣ Determinazione della composizione, struttura, fonte e funzione dei materiali costitutivi del substrato da restaurare e delle tecnologie di lavorazione usate all’epoca della sua realizzazione. Ɣ Conoscenza dei fattori che portano al degrado dei manufatti. Ɣ Valutazione dello stato di conservazione e dei processi di degradazione in corso. Ɣ Sviluppo di appropriate e affidabili procedure di pulitura, consolidamento e protezione. Ɣ Stima e valutazione dell'efficacia degli interventi di conservazione e della loro durata nel tempo. RIFERIMENTI 1) a)[www.verdicchiomacchine.it/verdicchio/vasi%20i;www.guidasicilia.it/foto/prodotti/prd_41632_0., (2008) ]. b) http://www.geologi.emilia-romagna.it/rivista/2006-23_DelMonte.pdf . 2) E. Martuscelli, F. Tolve, < Works on paper: prevention of degradation >, edited by CNRMediterranean and Middle East (PAPERTEH-PROJET-6FP-EU). 3) http://www.museum.qu.se/digitalAssets/809865_Jacob_Thomas_appendix_A1.pdf. 4) V. Massa, Scicolone, G. Scicolone, < Le vernici per il restauro >, Nardini Editore, Firenze (1998). 5) venus.unive.it/miche/cicli_ecosis/statua.gif 6) www.anthaus.it/files/products/664. 7) www.bovere.it/images/LEDA_fin.JP 8) J. Gordon Cook, < Your guide to plastics >, Merrow Publishing, England (1964). 9) E. Martuscelli, < La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei >, a cura dell’Istituto per l’arte e per il restauro Palazzo Spinelli, PAIDEIA-Firenze (2007). http://www.treccani.it/enciclopedia/polistirene/ http://members.xoom.it/alberto_chim/AROMATICI.htm 10) Archeo, Anno XVII numero 5 (195) Maggio (2001). 11) E. Martuscelli, < Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics >, Istituto per l’arte e per il restauro Palazzo Spinelli, PAIDEIA-Firenze (2012). 12) www.sculptor-sculpture.com 6 13) http://www.istitutofermiverona.it/LEZIONI/Fillosilicati.htm 14) Antonio Licciulli, < Scienza e tecnologia dei materiali >, http://www.antonio.licciulli.unisalento.it/didattica_2005/silice_e_silicati.pdf 15) Università degli studi di Modena e Reggio Emilia facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali corso di laurea in scienze geologiche v.o. dipartimento di scienze della terra. < Comportamento dilatometrico e trasformazioni ad alta temperatura delle ceramiche >. Tesi di laurea di Ilaria Zitano. Relatore: Alessandro Gualtieri, anno accademico 2003-2004. G. Cruciani, < Corso di Mineralogia Sistematica: Fillosilicati >, pdf. 16) < Uomini e fornaci, le città della ceramica >, MedioEvo, n.8 (43), Agosto (2000). 17) B. Fabri, C. Ravanelli Guidotti, < Il restauro della ceramica >, Nardini Editore, Firenze (1998). 18) G.P. Emiliani, F. Corbara, Tecnologia Ceramica “Le Tipologie”, vol.3, Faenza, Gruppo Editoriale Faenza Editrice S.p.A., Aprile (2001). 19) http://www.gipsoteca.net/statueinbronzo/seneca_busto_in_bronzo.htm 20) http://www.statueinbronzo.com/pieta_rondanini_statua_in_bronzo.htm 21) http://it.wikipedia.org/wiki/Cera_persa 22) http://www.liceomanara.it/sites/default/files/allegati1/fusione_a_cera_persa.pdf 23) http://www.geologi.emilia-romagna.it/rivista/2006-23_DelMonte.pdf 24) http://www.mirorestauro.it/gallery2.php?id=0&page=2&lang=it#user_image/dipinto_finito2.jpg 7 PARTE-PRIMA I MATERIALI COSTITUENTI I BENI CULTURALI: Origine, Composizione Chimica, Struttura, Funzione e Stabilita’ A) MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE ESEGUITE PER LAVORAZIONE MECCANICA DI ROCCE NATURALI Capitolo –A.1): Le rocce naturali: composizione, struttura e genesi Da molte delle rocce presenti sulla crosta terrestre l’uomo, fin da tempi remoti, è stato capace di estrarre materiali lavorabili e durevoli con i quali ha realizzato oggetti di grande valore artistico [1,2,3]. I manufatti lapidei, esposti all’azione di agenti chimici, fisici e biologici presenti nell’ambiente subiscono inevitabilmente dei processi di degradazione (vedonsi esempi in figura 1). Pertanto, al fine di preservare testimonianze fondamentali per la conoscenza della storia artistica, civile e culturale dell’umanità, è necessario procedere alla loro conservazione. Per fare ciò è essenziale: 1) Determinare la composizione chimica e mineralogica, le caratteristiche fisiche, la struttura e morfologia delle rocce da cui i materiali costituenti sono stati estratti. 2) Definire i principali fattori (piogge acide, contaminanti chimici di varia natura, fluttuazioni termiche, cicli gelo/disgelo e secco/umido, ecc.) che hanno determinato il danno insieme ai relativi processi e meccanismi. Solo in base ai risultati e alle conoscenze derivanti dai punti 1) e 2) è possibile procedere alla scelta dei materiali e delle procedure atte alla pulitura, consolidamento e alla protezione dei manufatti, con l’obiettivo di prolungarne la vita. FIGURA 1: Manufatti in pietra con chiare evidenze di degrado indotto da fattori ambientali di natura chimica, fisica e biologica. Sinistra, struttura scultoria in pietra, Amman, Giordania (II. secolo a.C.). Destra, busto sulla facciata del Palazzo dei Rettori, Belluno [4,5]. 9 Formazione e classificazione delle rocce Le rocce che si trovano sulla crosta terrestre sono la risultante di un complesso processo di aggregazione di minerali (sostanze naturali, inorganiche, generalmente cristalline, caratterizzate da: una ben definita composizione chimica; una distinta forma cristallografica e specifiche proprietà fisiche). Le rocce, sulla base della loro origine, sono opportunamente classificate nei seguenti tre gruppi: Magmatiche o Ignee Sedimentarie Metamorfiche --- Rocce Magmatiche Le rocce di tipo magmatico, generatesi a seguito del raffreddamento, solidificazione e cristallizzazione di magma (un materiale fuso ad alta temperatura che si trova sotto la crosta terrestre), si suddividono in due categorie. “Intrusive”- Si sono generate a seguito di un lento raffreddamento di sotto la crosta terrestre, dando luogo alla formazione di strutture costituite da cristalli regolari e spesso di grosse dimensioni, (vedesi figura 2) [6]. “Effusive”- Formatesi a seguito di un rapido raffreddamento in superficie. Si caratterizzano per la presenza di cristalli piccoli e irregolari e di eventuali fasi amorfo vetrose [6]. FIGURA 2: micrografia ottica di una superficie levigata di una roccia magmatica di tipo intrusiva con una tipica struttura granulare. Vedesi testo [6]. 10 FIGURA 3: Micrografie ottiche di superfici levigate di roccia granitica (destra, nicols incrociati; sinistra, nicols paralleli) [7]. . Fanno parte della famiglia delle rocce intrusive i Graniti (figura 3) [7]. I graniti e di si caratterizzano per: --- Struttura granulare; --- Buona resistenza agli agenti atmosferici e alla corrosione chimica ambientale; --- Alta coesione (indice di porosità tra 0,4-1,5%), elevata durezza e alta resistenza alla compressione; --- Basso coefficiente d’imbibizione 2,75‰ e bassa gelività; --- Lucidezza e alta resistenza all’abrasione; --- Difficile lavorabilità. I Porfidi, equivalenti effusivi dei graniti, si distinguono per la loro durezza, resistenza all'usura, alla compressione e all'urto. Il porfido presenta un’elevata resistenza all’azione degradativa dei vari fattori ambientali quali la pioggia acida, i cicli gelo/disgelo e caldo/freddo. --- Rocce Sedimentarie Si formano a una certa profondità della crosta terrestre per compattazione e cementazione di sedimenti originati da: --- Frammenti o detriti di rocce preesistenti (sedimentazione meccanica) (Rocce-Sedimentarie clastiche o detritiche). Fanno parte di questa famiglia le rocce arenarie, i tufi e le argille. --- Sostanze insolubili sul fondo di bacini sedimentari marini o continentali (Rocce-Sedimentarie di origine chimica); --- Frammenti provenienti dai resti di organismi acquatici o dai prodotti delle loro attività (precipitazione di materiali organici mineralizzati presenti in strutture viventi; gusci, scheletri o altre sostanze biologiche) (Rocce-Sedimentarie di origine organica). 11 --- deposizione dei materiali lanciati dai vulcani nel corso di eruzioni (lapilli, ceneri, polveri) (Rocce-Sedimentarie piroclastiche) [6,9]. Tra le rocce sedimentarie grande interesse rivestono le arenarie, i tufi, le argille e quelle di origine calcarea (travertini, calcari, dolomiti, gesso e alabastri ). Le pietre arenarie sono costituite da granuli di piccole dimensioni (granulometria compresa tra 0,06 e 2 mm) prodotti dalla disgregazione di rocce silicee. I granuli sono trasformati in roccia attraverso l’azione di un collante che a sua volta può essere costituito da silice, carbonato di calcio oppure ossido di ferro. Questo collante se è cristallino prende il nome di cemento, mentre si chiama matrice se è amorfo. Una tipica strutturazione di roccia sedimentaria è mostrata nella figura 4. Le pietre arenarie, a seconda della natura chimica del cemento vengono classificate in: arenarie a cemento silicico; arenarie a cemento carbonatico e arenarie a cemento ematitico [9]. FIGURA 4: La tipica struttura di una roccia sedimentaria, di tipo conglomerato, con grani lenticolari ( § 2mm ) dispersi in una matrice che può essere amorfa o cristallina. Le proprietà delle pietre arenarie e i processi di degradazione, dipendono fortemente dalla composizione chimica del cemento e dalla natura e dimensione dei granuli. --- Rocce Metamorfiche Il metamorfismo consiste nella riorganizzazione mineralogica e strutturale allo stato solido di rocce pre-esistenti in una con caratteristiche diverse. Attraverso un processo metamorfico una roccia caratterizzata da una specifica associazione di 12 minerali (ad esempio, A+B+C+D+E) si trasforma in un nuovo insieme di minerali (V+N+M+Z) che vanno a costituire una roccia con una nuova composizione mineralogica. Le rocce metamorfiche si formano a seguito di trasformazioni, che avvengono in profondità (fino a 20–25 km), connesse a cambiamenti delle condizioni ambientali in particolare la temperatura (200– 800 °C) e la pressione (fino a molte migliaia di atmosfere). Un esempio di processo metamorfico è rappresentato dalla trasformazione delle rocce di quarzo e calcaree in rocce di wollastonite (un silicato di calcio) con rilascio di anidride carbonica secondo la seguente reazione chimica: SiO2(quarzo) + CaCO3(calcare) = CaSiO3(wollastonite) + CO2(anidride carbonica) Tra le rocce metamorfiche rientrano i marmi, materiali lapidei da sempre utilizzati nell’arte statuaria. I Marmi, il cui costituente principale è il carbonato di calcio (CaCO3), minerale che prende il nome di calcite, derivano dal metamorfismo delle rocce calcaree. In natura si trovano marmi monocromi; famoso è il marmo bianco, senza venature e costituito essenzialmente da sola calcite, fino al 99,9%, che si estrae dalle cave Apuane (nell'Appennino toscano, Italia) molto usato per la sua purezza, il colore abbagliante e la facilità di lavorazione specialmente nell’arte scultoria. FIGURA 5: Ragusa, Cattedrale, un altare di marmi policromi [12]. Il colore e la strutturazione dei marmi dipendono fortemente dalla loro composizione chimica. 13 Marmi colorati e con caratteristici fenomeni di policromia sono anche molto comuni. Il tipo di colorazione è indotto dalla presenza di altri minerali quali il quarzo, la grafite, la pirite, etc. I marmi gialli contengono la limonite (Fe2O3.nH2O), quelli rossi l’ematite (Fe2O3), quelli grigioazzurri particelle carboniose. Un esempio di marmo di varia colorazione e venatura è mostrato in figura 5 [12]. Esempi di Opere D’arte in Pietra Naturale Molte rocce naturali sono la fonte di materiali con i quali l’uomo fin da tempi remoti ha realizzato manufatti di grande interesse artistico storico e culturale (vedonsi figure 6 e 7) . FIGURA 6, sinistra: Il sarcofago di Federico II nella Cattedrale di Palermo in porfido rosso. FIGURA 7, destra: Parte del fregio del Partenone ( Atene - Grecia ), bassorilievo in marmo scolpito in situ da Fidia ( 442-438 a.C.). Marmi costituiti da carbonato doppio di calcio e magnesio, CaMg(CO3)2, denominati “Dolomie” sono stati anche utilizzati per realizzare sculture antiche (è il caso delle statue delle cinque matrone romane della Loggia dei Lanzi, Firenze, Italia, figura 8). Una sesta statua, raffigurante una schiava, è in marmo calcitico. La tecnica della diffrazione dei raggi X permette di distinguere tra le due tipologie di marmo che a prima vista sembrano essere indistinguibili. Infatti, come si evince dalla figura 8, i due materiali presentano picchi di diffrazione in corrispondenza di differenti valori dell’angolo di diffrazione a dimostrazione del fatto che la loro struttura cristallina è diversa. 14 FIGURA 8: Le statue di marmo della Loggia dei Lanzi, Firenze, Italia. Sopra, le statue delle matrone romane in marmo dolomitico (a fianco lo spettro RX del carbonato doppio di calcio e magnesio, CaMg(CO3)2). Sotto, la statua della schiava Thusnelda di marmo calcitico con relativo spettro di diffrazione dei raggi-X della calcite (CaCO3) [13]. 15 RIFERIMENTI 1) Cursi e la sua pietra, http://www.salentofoto.it/cursi-e-la-sua-pietra/419.php 2) http://it.123rf.com/photo_14404210_vienna--statua-mitologia-del-fiume-drava-da-palm-casa.html 3) http://it.123rf.com/photo_9390435_statua-romana-di-dio-fiume-nilo-roma-i-secolo-d-c.html 4) http://www.bellunopress.it/2012/07/16/agostino-da-mula-perde-la-faccia-il-busto-del-podesta-ecapitano-di-belluno-nel500-sulla-facciata-della-prefettura-si-sbriciola/ Sunday, 17 March 2013 - 12:58, Bellunopress – news dalle Dolomiti. 5) http://www.lamiaaria.it/tutto-su/gli-effetti-sui-materiali/gli-effetti-sui-materiali-lapidei.aspx 6) R. Bugini L. Folli, < Lezioni di petrografia applicata >, 2008 http://www.icvbc.cnr.it/didattica/petrografia/4.htm 7) http://it.wikipedia.org/wiki/Granito 8) http://www.scienzeascuola.it/joomla/le-lezioni/2-lezioni/31-le-rocce-ignee-o-magmatiche 9) < Classificazione delle rocce >, www.superandyweb.it 10) http://it.wikipedia.org/wiki/Arenaria_(roccia) 11) http://www.istitutomaserati.it/Radar_2004/Geologia/Metamorfiche.htm 12) http://fotoalbum.virgilio.it/lefotodibetta1/dalmazia2005/img1964.html 13) www.isc.mlib.cnr.it/.../images/tasos.jpg 14) www.yacht-volant.org/Cruises/Northwest2005/ph. 16 Capitolo –A.2): La struttura e la composizione chimica dei minerali, costituenti le rocce I Minerali sono dei composti solidi, generalmente cristallini, con una composizione chimica esprimibile attraverso un’univoca formula chimica. Gli atomi o ioni si dispongono nello spazio in una struttura regolare chiamata reticolo cristallino [1,2,3,4]. Nella figura 1 è riportata, a titolo esemplificativo, la fotografia di alcuni cristalli di ametista (varietà del quarzo) dalla quale si evince la loro geometrica regolarità e crescita [3]. FIGURA 1: Cristalli di Ametista (varietà del quarzo) [3]. Secondo la loro composizione chimica i minerali presenti nelle rocce naturali sono classificati nelle seguenti famiglie. --- Elementi nativi Minerali che in natura si trovano allo stato puro (rame, oro, argento, carbone, grafite, diamante, zinco, zolfo, mercurio, platino, arsenico). --- Solfuri e Solfati I principali solfuri sono: il cinabro (HgS), la calcopirite (CuFeS), la galena (PbS) e la pirite (FeS2) I più comuni solfati sono: il gesso (CaSO42H2O), la barite (BaSO4), l’argentina (PbSO4) e la celestina (SrSO4). --- Alogenuri I principali sono il salgemma (NaCl) e la fluorite (CaF2). 17 Nella figura 2 è mostrata la cella elementare del cloruro di sodio o del salgemma. Da questa figura si evince la disposizione degli ioni Na+ e Cl-. Inoltre sono facilmente riconoscibili i punti nodali, i filari e i piani reticolari che caratterizzano la struttura cristallina di questo minerale [5]. --- Ossidi Gli ossidi sono sostanze che derivano dalla combinazione dell’ossigeno con elementi metallici (ferro, alluminio, cromo, ecc.). I principali ossidi sono: la cuprite (Cu2O), il corindone, il rubino, lo zaffiro (Al2O3), l’ematite (Fe2O3), lo spinello (MgAl2O4), e il Quarzo (SiO2). --- Carbonati I carbonati si caratterizzano per la presenza dello ione carbonato (CO3-2). I minerali più comuni di questa classe sono la calcite (CaCO3), la dolomite (CaMg(CO3)2), la malachite (Cu2(OH)2CO3), ecc. La disposizione dei vari atomi (ioni) nella cella elementare della calcite è mostrata nella figura 3. FIGURA 2: Struttura del salgemma. La posizione nello spazio degli ioni Na+ e Cl- è raffigurata da sfere che occupano i vertici di cubi ideali, alternandosi regolarmente lungo i filari. A sinistra, le sfere rappresentano le corrette dimensioni relative dei due tipi di ioni (1 Å, Angström = 10-10 m). (Il tratteggio rende evidente i filari ideali lungo i quali gli atomi si allineano con regolarità) [5]. --- Fosfati Sono minerali che contengono lo ione fosfato, il quale ultimo, si caratterizza per una struttura tetraedrica con al centro un atomo di fosforo e ai vertici 4 atomi di ossigeno [4]. L’apatite, un fosfato di calcio e il turchese, un fosfato contenente rame e alluminio, sono tipici minerali appartenenti a questa classe di composti [4]. --- Silicati Una particolare attenzione deve essere riservata ai Silicati (i minerali più diffusi sulla crosta terrestre), che si diversificano per struttura e composizione chimica. 18 I silicati sono i costituenti essenziali delle rocce eruttive e in parte anche di quelle sedimentarie e metamorfiche. Da studi condotti mediante la diffrazione dei raggi X è stato possibile ricavare che nei reticoli cristallini dei silicati ciascun atomo di silicio coordina sempre 4 atomi di ossigeno posti ai vertici di un tetraedro regolare al cui centro si colloca l’atomo di silicio (figura 4). Le varie famiglie di silicati naturali si differenziano in base ai modi secondo cui i tetraedri elementari si collegano tra di loro per formare strutture cristalline ordinate, caratterizzate, spesso anche dalla presenza di cationi di varia natura, aventi caratteristiche chimiche e fisiche molto diverse tra loro [6]. FIGURA 3: Cella elementare della calcite (CaCO3). In bianco gli ioni Ca++, in nero gli atomi di carbonio cui sono legati gli ossigeni del raggruppamento planare degli ioni CO3-2. [http://skywalker.cochise.edu/wellerr/mineral/calcite/molecule1.htm]. I silicati sono convenientemente suddivisi e classificati nelle seguenti famiglie. Ɣ Silicati a tetraedri isolati (nesosilicati): In questi minerali i tetraedri sono tenuti insieme da cationi che vanno a neutralizzare le cariche negative degli ossigeni non condivisi [7]. Appartengono a questa famiglia di silicati l’olivina [(Mg, Fe)2 SiO4] e gli zirconi [Zr SiO4]. La struttura di questa famiglia di silicati è schematicamente illustrata nella figura 5, in alto a sinistra. 19 FIGURA 4: L’unità fondamentale costitutiva dei silicati è il tetraedro SiO4, dove il silicio è al centro e gli ossigeni ai vertici. Ɣ Silicati a catena singola Sono formati da catene di lunghezza indefinita caratterizzate dal fatto che ogni tetraedro condivide due vertici con quelli adiacenti (vedesi struttura in figura 5, in alto al centro) [7]. Nei silicati a catena singola sono presenti ioni metallici che legano mediante legami ionici le catene tra loro. Queste catene si aggregano in uno stato ordinato cristallino dando luogo a morfologie fibrose. Un classico esempio di questo tipo di silicato è costituito dall’amianto [8]. Ɣ Silicati a catena doppia In questi silicati, vedesi schema della struttura in figura 5, in alto a destra, alcuni tetraedri condividono solo due vertici altri ne condividono tre. Si formano due catene parallele; la struttura si caratterizza per la sequenza di ampi spazi esagonali nei quali trovano posto cationi (K+ e Na+) [7]. Ɣ Silicati a struttura lamellare-stratiforme La struttura lamellare-stratiforme (figura 5, in basso a sinistra) si contraddistingue per il fatto che ogni tetraedro condivide 3 atomi di ossigeno con i tetraedri contigui. Si formano strati, dove i tetraedri si dispongono ai vertici di esagoni regolari che si estendono in maniera illimitata. L’ossigeno non condiviso è sempre situato dalla stessa parte rispetto al piano degli ossigeni condivisi. Gli ossigeni non di collegamento recano una carica negativa che deve essere neutralizzata da cationi di varia natura. Tra i silicati lamellari rientrano le argille (questi ultimi minerali saranno trattati in un capitolo a parte essendo i componenti principali delle ceramiche) [7,8,9,10,11]. Ɣ Silicati a struttura a reticolo tridimensionale Sono silicati dove tutti gli ossigeni dei tetraedri sono condivisi da tetraedri adiacenti. Ne consegue che ogni ossigeno è legato a due atomi di silicio (figura 5, in basso a destra). Appartengono a questa famiglia i feldspati, il quarzo e le zeoliti [8,9]. La silice pura cristallina (quarzo, tridimite, e cristobalite) monominerale a formula bruta SiO2 rappresenta una forma limite di silicato a struttura tridimensionale, dove nel reticolo cristallino tutti i silicio sono collegati tra loro attraverso ponti di atomi di ossigeno [7,8,9,10,11]. 20 INOSILICATI NESOSILICATI Silicati a struttura foliata(fillosilicati) (esempio:mica, argille) Tectosilicati (esempio:quarzo) FIGURA 5: Possibili strutture dei silicati (vedesi testo). [http://www.gpeano.org/oreggia/files/05_minerali.pdf] [http://qauednrovruitlae.blogspot.it/] 21 RIFERIMENTI 1) S. Dalla Chiara, G. Scarpa, <Dal magma: rocce e minerali>, http://www.terranea.it/gsndarwin/attivita/mineralogia/minerali01.htm 2) R. Bugini, L. Folli <Lezioni di petrografia applicata, i minerali>, (2008). http://www.icvbc.cnr.it/didattica/petrografia/2.htm 3) http://www.thais.it/mineralogia/Schede/Sch0001.htm 4) http://infomineralogia.jimdo.com/introduzione/classificazione/ 5) http://ebook.scuola.zanichelli.it/lupiagloboblu/volume-minerali-e-rocce-vulcani-terremoti/la-crostaterrestre-minerali-e-rocce/i-minerali/la-struttura-cristallina-dei-minerali#21 6) Enciclopedia Europea, Garzanti, Italia (1979). 7) http://www.mfn.unipmn.it/~rinaudo/courses/CRISTALLOCHIMICA.pdf, (2008). 8) -b) L. H. Van Vlack, <Tecnologia dei Materiali>, EST, Mondatori, Milano (1976). 9) A. Licciulli, <Corso di scienza e tecnologia dei materiali ceramici>, http://www.antonio.licciulli.unile.it/didattica_2005/silice_e_silicati.pdf, (2008). 10) Dosso dei Cristalli – Coll. F.Grazioli – Foto G.Scherini. www.ivmminerals.org/.../scheda.asp?idproduct=308, (2008). 11) http://www.skuola.net/appunti/geologia/silicati.html 22 Capitolo –A.3): Le proprietà fisiche e strutturali delle rocce Le possibilità di applicazione delle rocce nella realizzazione di manufatti d’interesse storico e artistico sono da mettere in relazione ad alcune delle loro caratteristiche fisiche. In particolare di grande rilevanza nel contesto di cui sopra sono le proprietà qui di seguito descritte. a) Durezza La durezza di un materiale solido, correlabile alla forza dei legami interatomici o intermolecolari, è valutata determinando la resistenza che lo stesso materiale oppone alla penetrazione o scalfittura [1]. Il mineralogista F. Mohs nel lontano 1924 individuò 10 minerali che ordinati per durezza crescente costituirono la scala di durezza di Mohs (vedesi tabella 1). I dieci elementi si susseguono in maniera tale che, a partire dal diamante, ciascuno dei termini è capace di scalfire quello che lo segue ed essere scalfito da quello che lo precede. In tabella è riportata anche la composizione chimica dei singoli minerali elencati. La durezza è in generale una proprietà anisotropa che pertanto dipende dalla direzione secondo cui agisce la forza. TABELLA 1: Minerali ordinati secondo la scala di Mohs [2]. DUREZZA 1)TALCO [Mg3Si4O10(OH)2] 2) GESSO [CaSO4 2H2O ] 3) CALCITE [CaCO3 ] 4) FLUORITE [CaF2 ] 5) APATITE [Ca5 (PO4)3] 6) ORTOCLASIO [KAlSi3O8] 7) QUARZO [SiO2] 8) TOPAZIO [Al2(OH,F)2 SiO4] 9) CORINDONE [Al2O3] 10) DIAMANTE [C] b) Tenacità, Resistenza alla Compressione e alla Trazione La tenacità è definita come l’energia necessaria a causare una rottura meccanica in un materiale. Questa energia dipende dalla forma e dalle dimensioni del campione e dalla velocità di applicazione del carico. Attraverso opportune procedure è possibile determinare la resistenza all’impatto delle varie rocce utilizzando test standardizzati (Izod o Charpy) (vedesi ad esempio la prova Izod illustrata nella figura 1). La resilienza delle rocce dipende dalla durezza, struttura e grado di coesione dei minerali costituenti. Da prove di laboratorio è stato possibile organizzare le varie rocce secondo una scala di tenacità (tabella 2). 23 FIGURA 1: Schema di prova di resilienza secondo il metodo “Izod”. L’energia assorbita dal provino a rottura è calcolata dall’altezza raggiunta dal pendolo dopo avere urtato il provino in precedenza intagliato a V [1]. La resistenza alla compressione fornisce una misura della resistenza che una roccia oppone a prove di schiacciamento (hanno un’elevata resistenza alla compressione rocce che si caratterizzano per la presenza di cristalli duri che s’impacchettano bene tra loro, ad es. i graniti). La resistenza alla trazione rappresenta la capacità di una roccia di opporsi a sforzi di trazione uni assiali, pertanto essa è rappresentata dal carico specifico necessario a produrre la rottura. Questa grandezza è importante poiché fornisce indicazioni anche sulla resistenza alla flessione. c) Peso Specifico Apparente, Grado di Compattezza e Porosità Il peso specifico apparente (PV) di una roccia naturale (espresso in g/cm3 o in Kg/m3) è il rapporto tra peso e volume. Per peso specifico assoluto (PS) s’intende il peso dell’unità di volume della roccia finemente ridotta in polvere al fine di eliminare il contributo dei pori. Il rapporto PV/PS determina il grado di compattezza (C) di una roccia (questo rapporto è sempre <1). Le rocce sono caratterizzabili anche in base all’indice di porosità (Ip), che fornisce una misura della % dei vuoti presenti. Ip(%) è misurato dal rapporto tra il volume totale dei pori (VTPori) e il volume totale del campione di pietra (VTPietra) moltiplicato per 100: Ip(%)=(VTPori)/ (VTPietra)x100 Rocce quali i graniti e i calcari compatti presentano valori di Ip tra l’1-2%. Nel caso di rocce porose (a es. tufi e arenarie) Ip assume valori molto più elevati, > 20% [2]. 24 <Ai fini applicativi è possibile distinguere tra due diversi tipi di porosità: la porosità totale o reale (il rapporto tra il volume dei pori e il volume totale del campione) e la porosità apparente o aperta (il rapporto percentuale tra il volume totale dei pori comunicanti tra loro e con l’esterno e il volume del campione> [3]. TABELLA 2: Scala della tenacità delle più comuni rocce [2]. Qui di seguito è descritta una delle metodiche utilizzata per la determinazione della porosità. Ɣ Porosimetria a intrusione di mercurio La procedura di analisi, con riferimento alla figura 2, è generalmente basata sulle seguenti fasi: ---Un frammento di roccia di appropriate dimensioni è posto in una cella dove, dopo avere fatto il vuoto, è immesso del mercurio (figura 2, sinistra); ---Sul mercurio che circonda il campione, attraverso un capillare, è esercitata una pressione man mano crescente affinché il metallo possa penetrare nei pori aperti di dimensione sempre minore (il mercurio penetra prima, alle pressioni più basse, i pori di dimensioni maggiori, mentre solo a pressioni elevate sarà possibile l’intrusione nei pori con dimensioni minori) (figura 2, centro e destra) [4,5]. Per l’analisi dei dati sperimentali in prima approssimazione si assume che la forma dei pori sia cilindrica e che pertanto sia valida la seguente equazione di Washburn: P r = -2Ȗcosș Dove r è il raggio dei pori nei quali penetra il mercurio alla pressione P. Ȗ e ș sono rispettivamente la tensione superficiale (480dine/cm, 0,48g/cm) e l’angolo di contatto del mercurio (~ 140°) [3]. Con r in micron e P in atmosfere la relazione precedente diventa: r = 7,36/P La porosimetria a intrusione di mercurio, è una prova di tipo distruttiva perché il campione di pietra è completamente intruso di mercurio e quindi non è più utilizzabile per altri scopi o per ripetere l’analisi stessa. I valori della porosità reale di alcune rocce sono elencati nella tabella 3 [2,6,7]. La pietra pomice, roccia magmatica effusiva; si caratterizza per la sua elevatissima porosità dovuta alla formazione di bolle di gas che determinano una struttura simile a quella delle spugne. Per la sua leggerezza, la pietra pomice galleggia sull'acqua. 25 FIGURA 2: Schema di un generico porosimetro a mercurio (vedesi testo) [5]. La pressione applicata cresce andando da sinistra a destra [4]. d) Gelività, Permeabilità all’acqua, Efflorescenza La Gelività misura la capacità di una pietra, che ha assorbito acqua, di resistere alle sollecitazioni meccaniche causate dai cicli GeloļDisgelo. C’è da rilevare che l'acqua solidificando aumenta di volume, pertanto se occlusa nei pori, può esercitare una pressione sulle pareti. Alla fine questo processo può determinare la formazione di crepe e fratture più o meno gravi. Le caratteristiche che influenzano e determinano la resistenza ai cicli di gelo e di disgelo di un materiale lapideo sono essenzialmente: --- la porosità apparente o aperta; --- la grandezza e la distribuzione dei pori aperti; --- la geometria dei capillari; --- il modulo di elasticità lineare e la resistenza meccanica [3]. In generale per la determinazione della gelività si fa ricorso a metodi diretti che prevedono di sottoporre campioni lapidei a una serie controllata di cicli di gelo disgelo e quindi analizzare le variazioni di alcune caratteristiche fisiche indotte sul materiale in esame. La permeabilità (k) all’acqua di una roccia misura la capacità di lasciarsi attraversare da parte di questo fluido [8,9,10]. 26 TABELLA 3: Valori della porosità reale di vari tipi di rocce [2]. La permeabilità assoluta (k) è determinata applicando a un campione cilindrico di roccia la Legge di Darcy, qui di seguito riportata [8]: dove: x x x x x x k è la permeabilità (in darcy); l è la lunghezza del campione (in metri); S è la superficie del flusso (in m2); ȝ è la viscosità del fluido (in poise); V la portata volumetrica (in m3/s); ǻp è la differenza di pressione alle due estremità del campione (in Pascal). La permeabilità di una roccia dipende fortemente dalla sua struttura e in particolare dalla porosità e dalla tortuosità degli stessi pori. La permeabilità e la porosità apparente di alcune rocce sono riportate nella tabella 4 [10]. Le Efflorescenze (depositi salini) sono dovute al fatto che soluzioni di sali in acqua prima penetrano attraverso i pori e/o le fessure all’interno di una roccia e poi tentano di migrare verso la superficie. Nel caso che la velocità di diffusione del vapor d’acqua dall’interno dei pori verso gli strati superficiali della roccia sia minore della velocità di migrazione della soluzione salina verso la superficie (la quantità d’acqua che evapora è piccola rispetto alla quantità di soluzione che arriva dalle parti più interne della pietra) allora si verifica che la soluzione salina è in condizione di 27 raggiungere continuamente la superficie dove per evaporazione del solvente all’aria essa diventa sempre più concentrata in sali. A saturazione i sali si depositano sulla superficie della pietra dando luogo al fenomeno dell’efflorescenza salina, vedesi figura 3 [12]. TABELLA 4: Permeabilità e porosità apparente di alcune rocce [10]. FIGURA 3, destra: Esempio di efflorescenza salina riscontrata sulla superficie di mattoni in cotto [12]. FIGURA 4, sinistra: Esfoliazioni e fenomeni di polverizzazione indotti da processi di efflorescenza e da altri fattori ambientali (cicli gelo-disgelo, freddo-caldo) sulle superfici di pietre. 28 Le Sub-Efflorescenze sono depositi salini che si formano dalle loro soluzioni acquose all’interno della pietra. Avvengono quando la velocità di diffusione del vapore acqueo dall’interno dei pori, verso la superficie, è maggiore della velocità con cui la soluzione salina migra verso la superficie e verso l’esterno. In queste condizioni la soluzione non riesce a raggiungere la superficie. Pertanto, a causa della veloce evaporazione dell’acqua dall’interno dei pori, la soluzione, ferma in profondità, si concentra fino al punto che i sali in essa disciolti precipitano all’interno dei pori sotto forma di cristalli. Le sub-efflorescenze causano distacchi di materiale nei casi di statue, basso-rilievi ecc. Le efflorescenze saline, oltre a provocare danni estetici, possono alterare o disgregare le superfici dei manufatti in pietra. Esempi di danni che vanno sotto il nome di esfoliazioni, scagliature e polverizzazioni, causati anche dai fattori sopra descritti, sono mostrati nella figura 4. e ) Dilatazione Termica e Conducibilità Termica Tutti i corpi si dilatano per effetto del riscaldamento. In prima approssimazione è valida la relazione: L (T1) –L (T2) /L (T1) = Ȝl (T2 – T1) Dove L(T1) e L(T2) rappresentano la lunghezza del campione prima e dopo il riscaldamento dalla temperature di T1 a T2 °C. Ȝl rappresenta il coefficiente di dilatazione lineare. Il coefficiente di dilatazione di volume Ȝv è, nel caso di corpi isotropi, pari a 3 volte Ȝl. La conducibilità termica di un materiale è una misura della velocità di trasmissione dell’energia termica; essa è proporzionale al gradiente di temperatura che si determina agli estremi del provino. Nel caso delle rocce il fenomeno della dilatazione e della conducibilità termica è molto contenuto anche se significativo. E’ importante rilevare che nel caso di consolidamento dei manufatti lapidei i materiali usati devono avere valori di Ȝ comunque compatibili con quelli del substrato da trattare. RIFERIMENTI 1 ) L. H. Van Vlack, <Tecnologia dei Materiali>, EST, Mondatori, Milano (1976). 2) A. Cagnana, <Archeologia dei materiali da costruzione>, http://archeologiamedievale.unisi.it/NewPages/EDITORIA/SAP/Manuali/man-1.pdf, 3) C. Fiori, R. Barboni, L. Paragoni, < Marmi e altre pietre nel mosaico antico e moderno >, Quaderni IRTEC-CNR, Faenza-Ravenna (1998). 4) A. Licciulli, <Corso di scienza e tecnologia dei materiali ceramici>, http://www.antonio.licciulli.unile.it/didattica_2005/silice_e_silicati.pdf, (2008). 5) ( http://www.geo.unimib.it/labs/porosimetro.a.mercurio.htm, (2008). 6) Porosità-Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/porosità (2007). 7) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>, PAIDEIA, Firenze (2007). 8) http://it.wikipedia.org/wiki/Permeabilit%C3%A0 9) www.unirc.it/documentazione/materiale.../599_2012_332_14660.ppt 10) http://www.altaviamilano.it/altavia/index.php/altapedia/grandi-opere/23-infrastrutture-e-delle-grandiopere-vol-1/146-appendice-a--petrografia-applicata 11) http://www.sapere.it/enciclopedia/permeabilit%C3%A0.html 12) Archivio di E. Martuscelli. 29 Capitolo –A.4): La degradazione ambientale dei manufatti lapidei in relazione alla composizione e struttura del substrato I manufatti lapidei per effetto di vari fattori ambientali subiscono profondi e spesso irreversibili processi di degradazione (figura 1) i cui meccanismi dipendono fortemente dalla natura chimica, fisica e strutturazione dei materiali costitutivi. I fattori di deterioramento dei manufatti lapidei possono essere di tipo fisico, chimico e biologico. . FIGURA 1: Manufatto lapideo, fotografato in tempi diversi. Notasi come nel tempo come il grado di degrado, causato dai vari fattori ambientali, aumenti fortemente causando danni irreversibili [1]. --1) Fattori di natura fisica Il vento, che provoca: -- processi di erosione a causa del trasporto di granuli di rocce dure, ad es. il quarzo; -- l’evaporazione dell’acqua che favorisce la disgregazione di materia derivante essenzialmente dalla cristallizzazione dei sali, trasportati dalla stessa acqua, all’interno dei pori. 30 I cicli caldo-freddo, che determinano fenomeni di dilatazione e contrazione che alla fine possono provocare microfratture attraverso cui l’acqua veicola sostanze inquinanti e sali solubili. -- I cicli gelo-disgelo, il cui danno è collegato, principalmente, al fatto che l’acqua assorbita dai materiali lapidei gelando aumenta di volume, pertanto quanto la solidificazione avviene all’interno di pori si determinano delle sollecitazioni che reiterate nel tempo, possono causare fratture e fessurazioni. --2) Fattori di natura chimica - Le Piogge Acide [2,3,4] Gli scarichi delle industrie, delle centrali termo-elettriche, dei veicoli a motore e dei riscaldamenti domestici liberano nell'atmosfera ossidi di carbonio (CO2), di zolfo (SO2) e di azoto (NO2). IL meccanismo di formazione delle piogge acide è basato sulla trasformazione degli ossidi gassosi in acidi, solubili in acqua, attraverso le seguenti reazioni chimiche: 1) H2O + CO2 ĺ H2CO3 2 1) 2SO2 + O2+ MeO + hȞ ĺ 2SO3+ MeO (la reazione, 2 1 è favorita da particelle di ossidi metallici (MeO), che agiscono da catalizzatori, e dalle radiazioni luminose, hȞ). Alla presenza di acqua l’anidride solforica reagisce formando una soluzione di acido solforico. 2.2) SO3 + H2O ĺ H2SO4 Il biossido di azoto si trasforma in acido nitrico a seguito delle reazioni sotto delineate. 3) NO2+O3 ĺ O2+NO3 NO3+NO2 ĺ N2O5 (anidride nitrica) N2O5+H2O ĺ 2HNO3 Sia l’acido solforico che l’acido nitrico sono acidi molto forti. In alcune circostanze si osserva la presenza nell’atmosfera anche dell’acido cloridrico (HCl). E’ importante rilevare che l’acqua è l’agente di degrado più importante non solo perché essa agisce da solvente e da veicolante (ad esempio le piogge acide) ma anche perché partecipa attivamente a molte delle reazioni di degrado dei manufatti lapidei. Le piogge acide sono particolarmente nocive nel caso di manufatti in pietra calcarea ad esempio le statue di marmo e in quelli in pietra silicea con un’elevata presenza di cementi di natura calcarea (vedesi il caso delle pietre arenarie). I materiali derivanti da rocce silicee, in generale più resistenti alle piogge acide, subiscono se ad alto grado di porosità, ad esempio i tufi, l’azione degradativa e concomitante di fattori fisici e biologici che ne determinano il deterioramento. La presenza di particolato atmosferico (particelle carboniose, metalliche o silicee, vedesi figura 2), contribuisce a implementare direttamente o indirettamente i processi di degradazione causati dai vari fattori ambientali, facilitando tra l‘altro anche la formazione di croste nere [5,6,7]. --3) Fattori naturali di natura biologica Questi agenti includono: batteri, funghi, alghe, licheni, muschi, muffe, piante erbacee e arboree. Alcune specie di licheni sono dannose soprattutto per le pietre carbonatiche; l’azione di altre specie, invece, si limitano alla formazione di patine superficiali (verdi, nere) che però non alterano 31 eccessivamente la materia. Le piante superiori invece provocano problemi meccanici con il loro ancoramento dovuto alla penetrazione progressiva delle radici che poi ingrossandosi determinano fratture. FIGURA 2: (da sinistra a destra) particelle di natura carboniosa, silicea e metallica contenute nel particolato ambientale e dannose per i manufatti lapidei. FIGURA 3: < L'azione combinata delle piogge acide, di particolati carboniosi e di fattori fisici risulta particolarmente evidente su questa statua realizzata in Westphalia (Ger); la foto a sinistra è stata scattata nel 1908, mentre la foto a destra è del 1968: sono trascorsi solo 60 anni > [3]. Alcune delle più significative alterazioni derivanti dall’azione dei vari fattori ambientali e che contribuiscono al deterioramento dei manufatti lapidei sono qui di seguito elencate: 32 a) Erosione con perdita di materiale lapideo e scomparsa graduale delle caratteristiche strutturali ed estetiche. b) Esfoliazione (lo strato superficiale si solleva e si stacca dagli strati sottostanti, formando lamelle a placche). c) Alveolizzazione (il distacco sabbioso di materiale determina la formazione di alveoli allineati con rimozione di materia friabile). d) Annerimento determinato dal deposito delle particelle carboniose sulla superficie del monumento. e) Decoesione e Dilavamento delle parti trasformate chimicamente in composti più solubili. Un esempio di alterazione ambientale subita da un manufatto lapideo è mostrato nella figura 3. I meccanismi che sono alla base dei fenomeni di degradazione di alcuni materiali lapidei ampiamente utilizzati nella realizzazione d’importanti opere d’arte sono sotto descritti. La degradazione ambientale del marmo I manufatti in marmo, roccia calcarea a base di calcite (CaCO3), quando sono esposti alle intemperie subiscono l’azione aggressiva delle piogge acide le quali possono contenere, come già scritto, acido carbonico, acido nitrico e acido solforico. Esempio di manufatto di marmo, degradato per effetto di agenti presenti nell’ambiente, è mostrato nella figura 4. Le superfici di marmo, esposte alla pioggia, sviluppano un aspetto ruvido comunemente detto tipo "zuccherino". I grani di calcite non aderiscono bene fra loro perché i loro bordi sono disciolti dall'acqua piovana [8]. I più indicativi processi che conducono alla degradazione ambientale dei manufatti di marmo, sono la carbonatazione, la solfatazione e la formazione di croste nere. Il chimismo di questi processi è qui di seguito illustrato. . FIGURA 4: Statua in calcare compatto fortemente degradata. Dresda, terrazzo dello Zwinger [9]. 33 ŹCarbonatazione La calcite, praticamente insolubile in acqua a temperatura ambiente, quando viene a contatto con piogge contenenti anidride carbonica (pH di circa 6) reagisce secondo la seguente reazione chimica: CO2 + H2O + CaCO3 Ca(HCO3)2 A seguito di questa reazione il carbonato di calcio è trasformato in bicarbonato di calcio Ca(HCO3)2. Questa sostanza è solubile in acqua pertanto, in superficie, si forma una soluzione acquosa di questo sale che può essere allontanata e/o asportata per dilavamento provocando perdita di materiale e corrosione del marmo (figura 4) [10,11]. Ź Solfatazione La solfatazione dei marmi avviene quando l’acido solforico (H2SO4), disciolto nella pioggia e nella rugiada, venendo a contatto con la superficie di un manufatto, reagisce con il carbonato di calcio trasformandolo in solfato di calcio bi-idrato (gesso), secondo la seguente reazione: H2SO4 + CaCO3 CaSO42H2O + CO2 La formazione di gesso, più solubile del carbonato in H2O, determina il dilavamento della pietra con asporto di materiale dalla superficie del manufatto. Inoltre la soluzione acquosa contenente solfato di calcio, può penetrare all’interno della pietra dove all’interno dei pori si possono depositare cristalli di gesso. Questo processo può essere causa di tensioni e degrado anche in profondità [11,12]. Ź Formazione di croste Le croste nere, sono delle incrostazioni compatte e solide (lo spessore varia da 0,5 a 3 mm) la cui composizione chimica e la cui origine è da mettere in relazione con le caratteristiche chimiche e fisiche dell’ambiente in cui vive il manufatto. Queste croste si formano principalmente in aree del manufatto esposte all'inquinamento atmosferico ma protette dal dilavamento delle piogge (figura 5) [13,14,15]. La degradazione ambientale delle pietre arenarie Le pietre arenarie, come già scritto, sono rocce sedimentarie costituite da grani di piccole dimensioni (da meno di un decimo di mm a 2 mm) che ne costituiscono “l’ossatura”. Questi grani, derivanti dalla disgregazione di rocce silicee (composti di quarzo, silicati, argille ecc.) sono tenuti insieme da un “collante” che se è un solido cristallino è detto “cemento”, se è amorfo vetroso è denominato “matrice” (figura 6) [16,17,18]. < …Le sostanze da cui è composto (il cemento) possono essere varie, ma le più comuni sono i carbonati, la silice, i minerali argillosi, ossidi di ferro, pirite, barite, ecc. Per matrice si intendono finissime sostanze carbonatiche o silicatiche che…. si ritrovano segregate negli interstizi > [16]. La resistenza alla degradazione dei manufatti in pietra arenaria, nei confronti dei vari fattori ambientali di degrado, trae essenzialmente origine dalla composizione chimica del cemento e dalla natura e dimensione dei grani. Le principali cause di degrado delle pietre arenarie sono connesse alla dissoluzione del cemento e alla cristallizzazione di sali che producono fenomeni di erosione e di scagliatura [19]. 34 … FIGURA 5: Croste nere formatesi sulla superficie di un manufatto in marmo [14]. FIGURA 6: Strutturazione di una pietra arenaria (schematico), vedesi testo [16]. 35 La degradazione ambientale del travertino Il Travertino, <Roccia sedimentaria di origine chimica la cui deposizione avviene presso sorgenti, cascate o bacini lacustri per precipitazione di carbonato di calcio> [19], si caratterizza per una <struttura amorfa con contenuto di carbonato di calcio (CaCO3) fino al 98,8% > [19]. Questa roccia <presenta pori e cavità dovuti alla decomposizione dei detriti vegetali dapprima inglobati nei depositi> [19]. I processi di degrado sono essenzialmente dovuti a fenomeni di corrosione conseguente l’azione dei fattori ambientali sulla componente calcarea. RIFERIMENTI 1) http://keespopinga.blogspot.it/2013/03/matematica-e-conservazione-del.html venerdì 29 marzo 2013, Matematica e conservazione del patrimonio artistico. 2) http://www.griffini.lo.it/laScuola/prodotti/respiro2/inquinamento.htm 3) http://www.nonsoloaria.com/piaceco.htm 4) http://www.ecoage.it/piogge-acide.htm 5) Antonio D’Alessio, Andrea D’Anna, Anna Ciajolo, Tiziano Faravelli, Eliseo Ranzi <Emissioni da processi di combustione>, La Chimica e l’Industria - Gennaio-Febbraio ‘05 n. 1 ANNO 87. 6) http://www.divisionechimicafisica.unito.it/pdf/Caus%C3%A0.pdf 7) Tognotti e al. Tesi P.Bellino - “Caratterizzazione tramite tecniche termogravimetriche della componente organica del particolato atmosferico” Università di Pisa 2004. 8) http://www.sciencemaster.com/jump/images/life/front.gif 9) http://www.geologi.emilia-romagna.it/rivista/2006-23_DelMonte.pdf 10) http://www.docchem.eu/prog/materiali_lapidei_il_degrado.pdf 11) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>, a cura dell’Istituto per l’Arte e il Restauro Palazzo Spinelli, Edito da PAIDEIA, Firenze (2007). 12) http://www.veneziadoc.net/ourvenice/Venezia_gessificazione/docs/relazione_chimica.pdf 13) http://www.archinfo.it/degrado-tipico-delle-rocce-e-dei-marmi/0,1254,53_ART_129102,00.html 14) http://www.lamiaaria.it/tutto-su/gli-effetti-sui-materiali/gli-effetti-sui-materiali-lapidei.aspx 15) E. Pedemonte, G. Fornari, <Chimica e restauro>, Marsilio Editori (2003). 16) http://marmi-pietre.com/blog/le-arenarie-le-pietre-calde/18 17) R. Bugini, L. Folli, <Lezioni di petrografia applicata>, (2008). http://www.icvbc.cnr.it/didattica/petrografia/3.htm 18) http://www.architettura.unina2.it/docenti/areaprivata/76/documenti/Lez%20lapidei%201.pdf 19) D. Chiesi, <Materiali Lapidei Patologie e cause di degrado>, http://www.studiocentauro.com/LAB%202012%20-%20Chiesi-dispense%20materiali_degrado.pdf Università di Firenze Facoltà di Architettura Laboratorio di Restauro (A.A. 2011/2012). 36 B) MATERIALI COSTITUTIVI DELLE CERAMICHE; BENI OTTENUTI MEDIANTE PROCESSI CHE CONTEMPLANO TRASFORMAZIONI CHIMICHE DELLE ARGILLE Dalle argille (materiali naturali) alle ceramiche (prodotti artificiali, fatti dall’uomo) Capitolo –B.1): Le argille: origine, struttura, proprietà e processi di lavorazione [1-24] Le Argille sono rocce costituite essenzialmente da allumino-silicati stratiformi, molto diffusi in natura, appartenenti alla famiglia dei fillosilicati. In questi silicati, come già scritto, ogni gruppo SiO4 a struttura tetraedrica condivide 3 atomi di ossigeno con i tetraedri contigui (figura 1). Si formano strati, dove i tetraedri si dispongono ai vertici di esagoni regolari che si estendono in maniera indefinita in due dimensioni. L'ossigeno non condiviso è sempre situato dalla stessa parte rispetto al piano degli ossigeni condivisi. Gli ossigeni non di collegamento recano una carica negativa. Questa elettronegatività è neutralizzata attraverso la sovrapposizione allo strato tetraedrico di < strati che hanno come motivo strutturale degli ottaedri formati da cationi di alluminio al centro, circondati da due atomi di ossigeno e quattro ioni idrossido (OH-). Anche gli ottaedri sono collegati tra loro in anelli esagonali che uniti tra loro formano lo strato ottaedrico. Dalla sovrapposizione di strati tetraedrici e ottaedrici, legati tra loro da un comune ione O, si ottiene il motivo strutturale fondamentale dei fillosilicati, chiamato pacchetto. [L. Cervelli, http://isismattei.altervista.org/downloads/materiali/disegno/argille.pdf] >. Nel caso di silicati a strati ricchi di cationi un solo strato di silicato si lega a uno strato cationico di ottaedri, formando una struttura lamellare a doppio strato: tetraedri-ottaedri. Nei silicati a strati poveri di cationi due strati di silicato si legano ai due lati di uno strato di ottaedri, con una sequenza tetraedri-ottaedri-tetraedri a sandwich (Figura 2). I fillosilicati si caratterizzano pertanto per una struttura lamellare composita, dove ciascuna lamella ha una faccia con un eccesso di cariche elettriche positive e la faccia opposta con eccesso di cariche negative. Le argille hanno la capacità di inglobare in zone interlamellari molecole d’acqua le quali, essendo polari, restano legate agli strati mediante forti legami (vedesi figura 3). L’acqua, agendo da plastificante e lubrificante, favorisce lo scorrimento di uno strato rispetto all’altro rendendo il materiale plasmabile e lavorabile. La caolinite, di formula minima Al2Si2O5(OH)4, è il materiale più semplice del gruppo delle argille, la sua struttura si caratterizza perché uno strato tetraedrico si accoppia con uno ottaedrico di ossido di alluminio dove i gruppi -OH servono per bilanciare le cariche (figura 2-(e)). Le Ceramiche: definizione, processi di lavorazione e classificazione L’argilla rappresenta la materia prima per la produzione di oggetti in ceramica. Le ceramiche, note fin dall'antichità, includono una vastissima tipologia di prodotti con funzioni diverse, ottenute attraverso un processo di lavorazione che è fondamentalmente lo stesso di quello che fin dalla preistoria fu usato da popolazioni primitive per la realizzazione di oggetti di uso comune utili alla conservazione dell’acqua, liquidi, prodotti della terra, sementi, cibarie di varia natura e unguenti. Come già in precedenza scritto alcune argille hanno la capacità di assorbire acqua. In questo stato esse diventano plastiche e malleabili e quindi possono essere modellate e formate. acquisendo le più svariate forme. 37 Qualora questi materiali siano essiccati a temperature relativamente basse, perdono la caratteristica di plasticità che riacquistano se ulteriormente impastate con acqua; pertanto possono essere nuovamente modellate e lavorate. Nel caso che un manufatto realizzato, lavorando le argille, contenenti acqua, è tenuto per tempi relativamente lunghi a temperature elevate, all’interno del materiale s’innescano una serie di reazioni chimiche che portano al suo indurimento con parziale perdita d’acqua. Il materiale così ottenuto, caratterizzato da forti legami inter-lamellari, non è più lavorabile (concetto di materiale termoindurente), il suo indurimento diviene permanente: dopo la cottura esso mantiene la sua forma e non può più assorbire acqua, le lamelle aderiscono fortemente l'una all'altra, e il materiale diventa rigido e fragile con una strutturazione a reticolo tridimensionale. Con questo procedimento le argille si trasformano nei vari tipi di ceramica. Con il procedere delle conoscenze i manufatti in ceramica furono abbelliti e impreziositi attraverso operazioni di rifinitura e decorazione e resi impermeabili utilizzando appropriate tecniche di smaltatura e verniciatura. Da quanto sopra è possibile concludere che le ceramiche sono “Materiali Artificiali”. Infatti, esse derivano da materiali naturali, ma sono prodotte attraverso processi di lavorazione e produzione inventate dall’uomo (Materiali Man Made) che prevedono trasformazioni chimiche. FIGURA 1: Struttura stratiforme delle argille (vedesi testo). [http://www.istitutofermiverona.it/LEZIONI/Fillosilicati.htm]. 38 FIGURA 2: La struttura lamellare nei fillosilicati generatesi dalla sovrapposizione di strati tetraedrici di unità SiO4, figura (b), e di strati ottaedrici (figura (a) ) formati da cationi di alluminio atomi di ossigeno e ioni (OH-). Figura (d): lamelle con struttura, tetraedri-ottaedri-tetraedri. Figura (e): lamelle con struttura, tetraedri-ottaedri (vedesi testo). [http://www.istitutofermiverona.it/LEZIONI/Fillosilicati.htm]. FIGURA 3: la struttura delle argille dopo assorbimento di molecole d’acqua in spazi interlamellari (schematico). 39 a) c) b) d) e) f) FIGURA 4: Raffigurazione grafica delle fasi della lavorazione della ceramica in una bottega di un vasaio del Medio Evo (vedesi testo). [Archeo, Anno XVII numero 5 (195) Maggio (2001)]. Le fasi operative in una tipica bottega di un vasaio del Medio Evo, raffigurate attraverso i disegni del maestro G. Albertini, sono illustrate in figura 4. Le varie operazioni sono così descritte: <---Nel laboratorio, l’argilla proveniente dalla cava era lasciata decantare con abbondante acqua per diversi giorni, in modo da liberarla dalle impurità e dalla sabbia. Quindi veniva esposta al sole perché l’acqua evaporasse, lavandola energicamente con i piedi per rendere l’impasto omogeneo (figura 4-a). ---L’argilla veniva quindi foggiata in vaso al tornio (2), che è costituito da due piani circolari fissati ad un asse centrale girevole: girando sotto la spinta impressa dal piede del vasaio, la ruota inferiore (3), più ampia, trasmette un moto rotatorio al disco superiore (4) su cui è posta la palla d’argilla da modellare ( figura 4-b ). 40 ---Il vaso terminato, staccato dalla base del tornio per mezzo di una sottile corda, era posto a essiccare sugli scaffali ( figura 4-c ). ---Una volta essiccati, i vasi erano cotti in forno una prima volta, ottenendo il cosiddetto “biscotto”. Il forno (6), sotto cui ardeva il focolare (7), veniva caricato attraverso un’apertura poi sigillata con mattoni e argilla; una feritoia aperta su un lato (8) consentiva il controllo della cottura ( figura 4-d ). ---Ottenuto il biscotto, i singoli pezzi erano ricoperti o di semplice vetrina o di smalto (9) e quindi decorati (10) con vernici ricche di minerali ( figura 4-e,f ). ---Infine, i vasi erano cotti nuovamente in forno ad altissima temperatura (superiore ai 1000 °C) per fissare la vernice> [Archeo, Anno XVII numero 5 (195) Maggio (2001)]. Le ceramiche possono essere classificate sulla base del colore del corpo ceramico (colorato oppure bianco) e della sua compattezza (poroso o compatto). Le ceramiche a pasta compatta si distinguono per bassi valori della porosità, alta impermeabilità ai gas e ai liquidi ed elevata resistenza alla scalfittura. Le ceramiche con corpo poroso si caratterizzano per una pasta tenera, assorbente e scalfibile. Una possibile classificazione delle ceramiche è tracciata attraverso lo schema della figura 5. Le più indicative caratteristiche delle varie classi di ceramica sono qui di seguito illustrate. FIGURA 5: La classificazione delle ceramiche [L. Mandosso, G. V. Pallottino, <libro dell’educazione tecnica, Le Monnier, (1990)]. 41 ---Terrecotte Sono ceramiche impiegate con o senza rivestimento superficiale, costituite da un corpo poroso e colorato. Dopo il processo di cottura (900 - 1000°C) le terrecotte, generalmente, per la presenza di sali o ossidi di ferro, mostrano una colorazione che varia dal giallo al rosso mattone. Antichi e artistici manufatti in terracotta sono mostrati in figura 6. FIGURA 6: Sinistra; Testa in terracotta di Afrodite. 300 a.C. circa. Destra: Testina in terracotta di un dinasta ellenistico, III-II sec. a.C., Museo Etnografico del Tagikistan. [Archeo, Anno XVII – n. 4 (194) Aprile (2001); IRAN – Viaggio fra i tesori dell’antica Persia (2001); Archeo, Le nuove monografie, Anno X numero 2 – Maggio (2001)]. ---Terrecotte rivestite (Faenze) Questa classe ceramica include una serie di materiali costituiti da un corpo colorato e poroso opportunamente rivestito. Si caratterizzano rispetto alle normali terrecotte per una più elevata finezza del corpo ceramico dovuta alla presenza di grani di piccole dimensioni. La temperatura di cottura si aggira intorno ai 900-950°C. --- Maioliche Sono prodotti formati da paste porose a base di argilla e di piccole quantità di carbonato di calcio cotti al forno e ricoperti di uno smalto metallico generalmente a base di biossido di stagno. Le maioliche si distinguono per la particolare natura del rivestimento che può essere: <..bianco o colorato, costituito da smalto, cioè un vetro reso opaco dalla presenza di minori quantità di opportuni opacizzanti (SnO2, TiO2, ZrSiO3, etc.)….Lo smalto viene fissato con una seconda cottura successiva a quella del supporto (cottura del biscotto);..contemporaneamente, se presenti, vengono fissate le decorazioni eventualmente ricoperte da vetrine> [B. Fabri, C. Ravanelli Guidotti, < Il restauro della ceramica>, Nardini Editore, Firenze (1998)].Un esempio di applicazione di piastrelle in maiolica è riportato nella figura 7. 42 FIGURA 7: Un particolare delle piastrelle in maiolica del famoso Chiostro della Basilica di S. Chiara in Napoli. [http://images.google.it/imgres?imgurl=http://jemolo.com., (2008)]. ---GresL’impasto è costituito da una miscela di varie argille naturali. La temperatura di cottura è relativamente alta § 1200-1350°C per favorire la compattezza del manufatto. La colorazione del corpo ceramico dipende dalla natura chimica dei componenti. I gres, possono essere invetriati o smaltati, si caratterizzano per l’elevata impermeabilità all’acqua e opacità ed elevata resistenza meccanica. La riproduzione fotografica di un antico manufatto in gres è riportata nella figura 8. --- Porcellane Le porcellane, prodotte per la prima volta in Cina intorno all’ottavo secolo, sono materiali che si ottengono da impasti costituiti da diversi tipi di minerali naturali (caolino, sabbia di silice e feldspato) <Il caolino conferisce le proprietà plastiche e il colore bianco della porcellana ma non sempre; il quarzo è il componente inerte e svolge la funzione di sgrassante (inoltre consente la vetrificazione); infine il feldspato, viene definito fondente, perché, fondendo a temperature più basse, abbassa notevolmente la cottura dell'impasto ceramico (1280°C)> [ G.P. Emiliani, F. Corbara, Tecnologia Ceramica “Le Tipologie”, vol.3, Faenza, Gruppo Editoriale Faenza Editrice S.p.A., Aprile (2001)]. Le porcellane si suddividono in dure e tenere. Le porcellane dure, a più alto contenuto di caolino, vengono indurite ad alta temperatura (13001400°C) e si caratterizzano per una elevata resistenza meccanica, in particolare alla rottura, insieme 43 . FIGURA 8, sinistra: Busto in gres del faraone Osorkon I, (da Biblo. X sec. a.C., Parigi Museo del Louvre). FIGURA 9, destra: Porcellana medicea (Torino, Palazzo Madama). [www.metmuseum.org/.../h2/h2_17.190.2045.jpg, (2008)]. ad una elevata durezza superficiale, resistenza al calore, agli shock termici, alla scalfittura, ai graffi e agli urti. Le porcellane tenere, a elevato contenuto di feldspati, sono indurite a temperature più basse (12001250), pertanto le loro caratteristiche meccaniche sono inferiori rispetto alle dure. Il rivestimento (Coperta) consiste in una vernice trasparente e lucida contenente gli stessi componenti l’impasto anche se in proporzioni diverse in dipendenza della temperatura di cottura. Le porcellane per le loro caratteristiche, rappresentano i prodotti ceramici più pregiati, caratterizzati da un più elevato valore aggiunto (vedesi esemplare in figura 9). L’indurimento del corpo ceramico Il processo d’indurimento che fa seguito alla cottura di un manufatto è la risultante di un insieme di trasformazioni chimiche e fisiche che avvengono durante il corso del(i) trattamento(i) termico(i). Nel corso della cottura del corpo ceramico i materiali costituenti subiscono profonde trasformazioni di natura chimica, fisica e strutturale che vanno a determinare le proprietà ultime dei manufatti. La tipologia delle trasformazioni e il loro effetto sulle caratteristiche finali del materiale dipendono essenzialmente: ---dalla natura dell’impasto (composizione chimica e mineralogica); ---dalla tecnica della formatura; 44 ---dalla durata e modalità del trattamento termico; ---dall’atmosfera della camera di cottura (ossidante o riducente) ---dal grado di cottura. Le principali modificazioni che avvengono nell’impasto durante il trattamento di cottura sono qui di seguito descritte in funzione dell’intervallo termico considerato: ---RT - 200°C - L’acqua di plasticità nell'impasto del corpo ceramico è rimossa così come quella eventualmente presente in alcuni sali (ad esempio il solfato di calcio bi-idrato o gesso). Non si osservano trasformazioni chimiche, il materiale subisce un ritiro dimensionale. ---250 - 350°C – Sono eliminati i composti organici (per combustione) e le molecole di H2O, chimicamente legate. ---450°C – Si allontana l’acqua di porosità e avviene la dissociazione degli idrosilicati d’allumina, con formazione di ossidi liberi. La struttura cristallina dei minerali di natura argillosa collassa determinando l’eliminazione dall’impasto dell’acqua presente nei reticoli cristallini. Il caolino si trasforma, secondo la reazione qui di seguito portata, in metacaolinite. Al2O3Ɣ2SiO2Ɣ2H2O ĺ Al2O3Ɣ2SiO2 +2H2O caolino metacaolinite <Spariscono dal manufatto gli ossidrili che costituivano il punto di attacco per i dipoli dell’acqua, perciò l’argilla non può più assorbire acqua e non è più plastica> [C. Quaglierini e L. Amorosi < Chimica e tecnologia dei materiali per l’arte> Zanichelli (1991)]. --- 800°C – Avvengono le seguenti reazioni: Ɣ La de-carbonatazione dei carbonati, CaCO3 ĺ CO2 + CaO Ɣ L’ossidazione dei solfuri, 2CuS + 3O2 ĺ 2CuO + 2SO2 ƔLa decomposizione di sali, ad es., K2CO3 ĺ K2O + CO2 Lo sviluppo di CO2 e di H2O determina la porosità dei prodotti induriti. Inoltre si osserva che gli ossidi metallici prodotti reagiscono con silice e allumina dando luogo alla formazione di silicati basso fondenti. ---940°C – L’allumina amorfa è trasformata in allumina cristallina. ---1000°-1200°C <Comincia la sinterizzazione dovuta alla fusione dei silicati basso fondenti che saldano i grani di silice e allumina facendo diminuire la porosità. Si completa la fusione dei silicati e contemporaneamente si ha la formazione della mullite a spese della meta caolinite: 3(Al2O3Ɣ2SiO2 +2H2O) ĺ 3Al2O3Ɣ2SiO2 + 4 SiO2 mullite metacaolinite Ha così origine una massa vetrosa che include i cristalli di mullite> [C. Quaglierini e L. Amorosi < Chimica e tecnologia dei materiali per l’arte> Zanichelli (1991)]. 45 ---1400°C – Generalmente a queste temperature avviene la cottura dei prodotti ceramici a più elevato valore aggiunto come le porcellane o le ceramiche dure. Il degrado ambientale dei manufatti in ceramica I principali fattori di degrado delle ceramiche sono qui di seguito elencati. Ź Fattori di natura fisica: - Mutamenti di stato dell’acqua; - Migrazione/cristallizzazione di sali; - Modificazioni del grado di umidità; - Fluttuazioni termiche; - Scorrimento di acqua sulla superficie; - Esposizione al vento con particelle abrasive in sospensione; - Esposizione all’azione delle radiazioni della luce solare. Ź Fattori di natura chimica: - Processo di ri-algillificazione determinato dall’assorbimento di acqua; - Esposizione all’attacco di acidi e basi e altre tipologie d’inquinanti chimici disciolti nell’acqua; - Processo di ri-carbonatazione di ossido e idrossido di calcio; - Esposizione all’azione delle piogge acide che può essere causa di alterazione e lisciviazione del materiale ceramico. I sintomi della degradazione La penetrazione di soluzioni saline può avere l’effetto di determinare: - La solubilizzazione di parte del materiale; - L’aumento della dimensione dei pori e quindi della porosità totale; La riduzione della dimensione dei pori per effetto della deposizione di sali disciolti. Le modificazioni di natura chimica causano la: - Reidratazione del materiale ceramico; - Ri-carbonatazione; - Solubilizzazione selettiva di componenti chimici presenti nel corpo ceramico e/o nel rivestimento; Inoltre i processi di degradazione possono dare luogo a: - Incrostazioni e patine; - Fessurazioni, fratture, distacco delle parti, esfoliazioni [https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id..]. e disgregazioni. Interventi conservativi dei manufatti in ceramica Essenzialmente il restauro conservativo di un manufatto in ceramica prevede le seguenti operazioni: Ƈ Consolidamento; Ƈ Pulitura; Ƈ Assemblaggio; Ƈ Integrazione. 46 Circa il processo di consolidamento in letteratura è riportato: <Un consolidante comunemente utilizzato è il copolimero etilmetacrilato-metacrilato in soluzione di acetone. La concentrazione del consolidante va regolata in funzione della porosità del manufatto> [https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id..]. Mentre per quanto riguarda la pulitura sempre nel riferimento di sopra è scritto: <Lo “sporco” da eliminare può essere di tre tipi: - Sali solubili (lavaggi in acqua distillata); - Incrostazioni superficiali (impiego di reattivi chimici o con mezzi meccanici); - Macchie superficiali (acqua ossigenata per macchie dovute a ossidi di ferro o manganese)> [https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id..]. RIFERIMENTI 1) http://it.wikipedia.org/wiki/Argilla#Minerali_argillosi_e_loro_classificazione, (2008). -C. Cipriani, C. Garavelli, Carobbi - Mineralogia, II volume - Cristallografia chimica e Mineralogia speciale, USES, (1987). -A. Mottana, R. Crespi, G. Liborio, Minerali e rocce, Mondadori, (1977). 2 ) http://scienzegeologiche.unipr.it/cgi-bin/campusnet/corsi.pl/Show?_id=4ba6 3 ) A. Licciulli, <Scienza e tecnologia dei materiali ceramici>, http://www.antonio.licciulli.unile.it/didattica_2005/silice_e_silicati.pdf ( 2007). 4 ) http://scienzegeologiche.unipr.it/cgi-bin/campusnet/corsi.pl/Show?_id=4ba6 5 ) http://guide.dada.net/geologia/interventi/2007/01/284504.shtml 6 ) L. H. Van Vlack, <Tecnologia dei materiali>, EST-Mondadori (1976). 7 ) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>, PAIDEIA-FIRENZE ( 2007). 8) L. Pauling <La natura del legame chimico>, Edizioni Italiane, (1961). 9 ) http://www.scuolaranucci.it/storiaceramica.html, (2008). 10 ) B. Fabri, C. Ravanelli Guidotti, <Il restauro della ceramica>, Nardini Editore, Firenze (1998). 11) <Uomini e fornaci, le città della ceramica>, MedioEvo, n.8 (43), Agosto (2000). 12 ) G.P. Emiliani, F. Corbara, Tecnologia Ceramica “Le Tipologie”, vol.3, Faenza, Gruppo Editoriale Faenza Editrice S.p.A., Aprile (2001). 13 ) http://it.wikipedia.org/wiki/Ceramica#Lavorazione_dell.27argilla, (2008). 14 ) Archeo, Anno XVII – n. 4 (194) Aprile (2001).15 ) IRAN – Viaggio fra i tesori dell’antica Persia (2001).16 ) Archeo, Le nuove monografie, Anno X numero 2 – Maggio (2001). 17 ) a)- M. Torcia, EXHIBITION/CONFERENCE On: Innovative Materials and Technologies for the conservation of paper of historical, artistic and archaeological value, Naples: December/03 (2007). b)- P. L. Parrini et altri, <on black glazes of Greek and Etruscan potteries>, Proceeding of the Symposium on Scientific Methodologies Applied to Works of Art, Florence, pp. 34-38, 2-5 May (1984). 18 ) http://images.google.it/imgres?imgurl=http://jemolo.com., (2008). 19 ) http://www.anticafornacederuta.com/Museo/museo.html, (2008). 20 ) http://www.giovannicimatti.it/pages/tecniche_grande.php?id=4&pageNum_tecniche=0, (2008). 21 ) www.realcasadiborbone.it/.../porcel8.gif, (2008). 22 ) www.metmuseum.org/.../h2/h2_17.190.2045.jpg, (2008). 23 ) http://it.wikipedia.org/wiki/Vernici, (2008). 24 ) T. Peters, R. Iberg, Am. Ceram. Soc. Bull., 57/5, pp. 503-509, (1978). 47 C) MATERIALI COSTITUTIVI DI BRONZI E OTTONI: PROCESSI DI LAVORAZIONE, STRUTTURA, COMPOSIZIONE CHIMICA, DEGRADAZIONE E CONSERVAZIONE Dai metalli (materiali naturali) alle leghe metalliche (prodotti artificiali, fatti dall’uomo) Capitolo –C.1): I metalli e loro estrazione dai minerali presenti in natura. Il legame metallico Gli atomi dei metalli hanno la proprietà di cedere facilmente gli elettroni periferici (di valenza). Pertanto lo stato cristallino dei metalli si caratterizza perché nei reticoli si vanno a disporre ordinatamente dei cationi metallici, mentre, come illustrato nella figura 1, gli elettroni di valenza vanno a costituire una nuvola elettronica mobile che permeando l’insieme del reticolo cristallino, costituito da ioni positivi, agisce da collante mantenendo la neutralità elettrica del sistema. La presenza di elettroni liberi di muoversi rende conto dell’elevata conducibilità elettrica e termica tipica dei solidi metallici. Il legame metallico definisce la forza di attrazione che si stabilisce tra i cationi formatisi dagli atomi metallici e la nuvola elettronica de-localizzata in cui questi sono immersi. Va posto l’accento che al contrario dei legami ionici e covalenti il legame metallico non è direzionale. <si tratta di un legame primario, forte, che nasce dalla condivisione degli elettroni più esterni, delocalizzati in forma di una nuvola di carica elettronica negativa intorno ad aggregati di ioni metallici positivi> [http://www.larapedia.com/architettura_metalli_e_leghe_in_architettura/metalli_e_leghe_in_archit ettura.html]. FIGURA 1: Rappresentazione schematica della struttura cristallina di un generico metallo (vedesi testo). <..nel reticolo cristallino gli elettroni (Ɣ) si muovono in modo caotico. Il libero movimento degli elettroni spiega la buona conduttività dei metalli. L'azione neutralizzante degli elettroni negativi mantiene uniti gli ioni di metallo positivi>. [http://it.wikiversity.org/wiki/Struttura_atomica_della_materia]. 48 I metalli sono estratti dai rispettivi minerali (ossidi, idrossidi o sali) mediante una reazione di riduzione in base alla quale essi sono trasformati allo stato elementare con numero di ossidazione zero. Alcune tipiche reazioni chimiche usate nella metallurgia sono qui di seguito delineate. i) A partire da ossidi, per via secca usando il carbone come riducente CuO + C = Cu + CO 2Fe2O3 +3 C = 4Fe +3 CO2 Fe2O3 + 3CO = 2Fe +3 CO2 ii) Per via elettrolitica in bagno di elettrolita fuso Al+3 + 3e- = Al iii) Per calcinazione degli idrossidi o dei carbonati 2Fe(OH)3 + calore = Fe2O3+ 3H2O ZnCO3 +calore = ZnO + CO2 a cui segue la riduzione degli ossidi con carbone (vedesi sopra) iv) Arrostimento dei solfuri in presenza di aria o di ossigeno 2FeS2 + 11/2 O2 = Fe2O3 + 4 SO2 a cui segue la riduzione dell’ ossido ferrico con carbone (vedesi sopra) Le leghe metalliche: Bronzi e Ottoni I metalli hanno la proprietà di includere nel loro reticolo cristallino atomi di elementi diversi, metallici o non metallici dando luogo alla formazione di sistemi monofasici, omogenei, a più di un componente. Questi materiali sono comunemente definiti “Leghe Metalliche”. Le leghe metalliche possono essere di tipo “Interstiziale” oppure “Sostituzionale”. Nelle leghe interstiziali (figura 2), <elementi di piccole dimensioni atomiche (tipicamente il carbonio) possono stabilmente assumere posizioni interstiziali nel reticolo spaziale del metallo base, fino a un grado massimo di distorsione del reticolo>. Nel caso delle leghe sostituzionali (figura 3), < elementi caratterizzati da raggio atomico maggiore sono normalmente solubilizzati nel metallo base sostituendosi a esso in alcune posizioni del suo reticolo cristallino> [http://www.larapedia.com/architettura_metalli_e_leghe_in_architettura/metalli_e_leghe_in_archi tettura.html]. 49 LEGHE INTERSTIZIALI A A A A A A A A A B A A A A A B A A A A A A A A A A FIGURA 2: Struttura delle leghe interstiziali, tipo acciai e ghisa (Fe+C). Atomi dell’elemento B si dispongono negli interstizi del reticolo cristallino del metallo A (vedesi testo). I LEGHE SOSTITUZIONALI A A A B A A A A A A A A A A A A A A A A A A B A A A A A FIGURA 3: Struttura delle leghe sostituzionali, tipo bronzi (Cu+Zn) e ottoni (Cu+Sn). Atomi dell’elemento B sostituiscono nel reticolo cristallino atomi del metallo A (vedesi testo). 50 I Bronzi I bronzi sono leghe metalliche di tipo sostituzionale, costituite principalmente da Cu (rame) per il 70-90%, e da Sn (stagno) (leghe Cu-Sn). Come si evince dallo schema della figura 3 nel reticolo cristallino alcuni atomi di rame (A in figura 3) sono sostituiti in maniera statistica da atomi di stagno (B in figura 3). Le proprietà chimiche e meccaniche, e la lavorabilità dei bronzi, dipendono fortemente dalla percentuale di stagno e dalla presenza di altri elementi (piombo, zinco, argento, fosforo, alluminio, silicio e nichel). Anche gli ottoni appartengono alla famiglia delle leghe sostituzionali. In questo caso atomi di rame sono sostituiti da atomi di zinco (leghe Cu-Zn). FIGURA 4: Sinistra, Seneca, busto in bronzo, fusione a cera persa [1]. Destra, Pietà Rondanini (Michelangelo), statua in bronzo, fusione a cera persa [2]. I bronzi sono stati utilizzati fin da epoche remote, per la realizzazione di statue ed oggetti artistici (vedesi esempi in figura 4) [1,2,3,4,5]. I bronzi si lavorano per colata dal fuso e solidificazione (essenzialmente fusione in forma), La temperatura di fusione del bronzo diminuisce al crescere della percentuale di Sn. Il rame fonde a temperatura molto alta (Tf = 1084,6 °C), lo stagno a temperatura più bassa (Tf = 231,93 °C). Questo 51 comporta che, una volta ottenuto il bronzo in lingotti, la successiva lavorazione per fusione e colata, può essere effettuata a temperature inferiori e con un minore consumo di energia, rispetto al rame puro. Qui di seguito viene brevemente descritto uno dei più importanti processi di lavorazione dei bronzi che va sotto il nome di fusione a cera persa diretta. La “Fusione a Cera Persa Diretta” La tecnica della fusione a cera persa diretta per la fusione di statue cave in bronzo di grandi dimensioni (vedesi il caso dei Bronzi Riace) viene così’ descritta nel riferimento [3]: < …si costruisce un’intelaiatura di sbarre di ferro disposte in modo da seguire le masse della composizione e sostenere il peso della terra (usualmente argilla) che verrà ammassata intorno ad esse (vedesi figura 5-alto a sinistra). Questa terra, ancora morbida, viene modellata secondo le linee di direzione principali dell’opera e costituisce l’anima interna della statua…… La superficie della terra, che costruisce l’anima della statua, viene modellata con gli strumenti usuali per la ceramica (stecche, spatole ecc.) fino ad ottenere una forma di dimensioni leggermente minori rispetto alla futura statua di bronzo. L’anima deve essere poi asciugata perfettamente e cotta, dopodiché viene ricoperta con uno strato di cera su cui si esegue il vero e proprio lavoro di modellaggio e rifinitura (figura 5-alto a destra)…….. La successiva fase di lavoro consiste nel sistemare la rete di canali per l’entrata del metallo e l’espulsione dei gas. Ciò avviene collocando bastoncelli di cera nelle zone più idonee in modo da impedire il formarsi di bolle e sacche d’aria e in modo da facilitare la distribuzione del metallo liquido anche nelle zone più rilevate e negli spazi di minore diametro (figura 5-in basso). Si procede poi coprendo il modello ed i canaletti con un involucro esterno di terra. Questa è riportata a strati, cominciando con terra molto fine adatta a riprodurre fedelmente tutti i particolari della cera….. Dopo aver lasciato ben asciugare il tutto all’aria, si riscalda e si cuoce tutta la massa per togliere ogni residuo di umidità ed allo stesso tempo per eliminare la cera (fatta defluire da appositi canali), mantenendo lo spazio vuoto che dovrà accogliere il bronzo fuso. Per impedire che l’anima interna si sposti rispetto all’involucro esterno, una volta che tra di loro si è formato lo spazio vuoto, vengono in precedenza sistemati dei chiodi distanziatori che, inglobati nelle due terre, servono a impedire ogni movimento. La forma è ora pronta per il getto del bronzo fuso, fatto defluire direttamente da un forno o da crogiuoli (figura 6)> [3]. La degradazione ambientale dei bronzi I manufatti bronzei esposti all’aria, a seguito dell’azione dei vari fattori chimici ambientali, subiscono dei processi ossidativi e corrosivi che possono dare luogo alla formazione di una “Ossidazione Protettiva” (detta Patina) oppure a fenomeni distruttivi di corrosione molto gravi noti come “Cancro del Bronzo” [6]. ---Origine e composizione della Patina La patina osservata sui manufatti di bronzo, vedesi ad esempio il caso dei bronzi di Riace (figura 7), è la conseguenza di molteplici e spesso complessi processi di corrosione chimica determinati da reazioni innescate da agenti inquinanti presenti nell’ambiente circostante il manufatto (ossigeno, acidi, basi, prodotti solforati, cloruri, agenti ossidanti, materiale organico, ecc.). <Quando una patina è nobile, uniforme e liscia, essa conserva magnificamente l'oggetto, lo impermeabilizza, e gli conferisce quel fascino del tempo che ogni studioso impara ad apprezzare> [6]. 52 FIGURA 5: Le varie fasi della fusione a cera persa, tecnica diretta, per la realizzazione di statue cave in bronzo, anche di grandi dimensioni (vedesi testo) [3,4,5]. FIGURA 6: E’ raffigurato il momento in cui il bronzo fuso viene versato nello stampo. 53 FIGURA 7: La statua “A” dei Bronzi di Riace (rinvenuti il 16 agosto 1972 nel tratto di mar Ionio antistante il comune reggino di Riace Marina). Si vedono chiaramente le zone su cui è presente la patina nera. Le principali reazioni chimiche che contribuiscono alla formazione della patina sono qui di seguito descritte. ---Reazione del rame coll’ossigeno (Ossidazione) L’ossidazione può portare alla formazione della cuprite (Cu2O), ossido rameoso, di colore rosso bruno: 4Cu + O2 = 2Cu2O Oppure alla formazione di tenorite, ossido rameico, di colore grigio nero: 2Cu + O2 = 2CuO <La cuprite non altera in modo significativo la superficie dell'oggetto e ne preserva pressoché inalterati i rilievi ed i dettagli> [6]. 54 ---Reazioni che portano a carbonati e solfati rameici Il rame alla presenza di ossigeno e anidride carbonica reagisce dando luogo alla formazione di varie tipologie di carbonati rameici quali: --La Malachite, CuCO3Cu(OH)2, un composto di colore verde intenso che forma una patina verde oliva. --L’Azzurrite, 2CuCO3Cu(OH)2, di colore blu. --La Calconatronite, Na2(CuCO3)2 23H2O, verde/blu. Il rame a temperatura ambiente reagisce con l’ossigeno per formare ossidi di rame. Alla presenza di SO2 gli ossidi formano la brocantite, (CuSO4)3Cu(OH)2, la reazione è sotto riportata: 4CuO + 1/2O2 + SO2 + 3H2O = (CuSO4) 3Cu(OH)2 Contribuiscono alla formazione di patine i prodotti derivanti dalla corrosione di altri elementi presenti quali componenti la lega. Lo stagno reagendo con l’ossigeno forma ossido di stagno: Sn + O2 = SnO2 Mentre il piombo attiva una reazione con la CO2 per formare il carbonato di piombo: 2Pb + 3CO2 = 2PbCO3. ---Il Cancro del Bronzo Questa patologia dei bronzi richiede la presenza nell’ambiente di cloruri e quindi di acido cloridrico. In ambiente marino quest’ acido viene a generarsi per effetto della reazione tra il cloruro di sodio presente nelle nebbie saline e gas quale ad esempio il biossido di azoto secondo la reazione sotto riportata: 2NaCl + 3NO2 + H2O = 2NaNO3 + NO + 2HCl L’acido così formatosi, alla presenza di ossigeno atmosferico, reagisce con il rame dando luogo alla formazione di cloruro rameoso (in soluzione lo ione rameoso (Cu+1 )): 4HCl + 4Cu +O2 = 2Cu2Cl2 + 2H2O Il cloruro rameoso (Nantokite), poco stabile e poco solubile, secondo la reazione sotto decritta, in ambiente acido si solubilizza trasformandosi in cuprite, ossido rameoso (Cu2O), generando acido cloridrico: 2Cu2Cl2 + 2H2O = 2Cu2O + 4HCl 55 <L'acido cloridrico attacca il rame metallico alla presenza di ossigeno e umidità: 2Cu + HCl + H2O + O2 = Cu2 (OH)3Cl Si formano degli idrossicloruri rameici basici, verde azzurri (Atakamite e Paratakamite) e acido cloridrico, che corrode il metallo sano, formando altra nantokite. La reazione continua fino a consumare completamente il rame presente> [7]. FIGURA 9: I segni della degradazione irreversibile causati dal cancro del bronzo su oggetti antichi. Sinistra, cancro del bronzo su un manufatto egiziano. Destra, cancro del bronzo su un sesterzio di Traiano [8]. ---Trattamento del Cancro del Bronzo Il cancro del bronzo, come evidenziato attraverso gli oggetti in figura 9, agisce sia sulla patina che sul rame trasformandoli in una polvere inconsistente di colore verde azzurrognola. In un tempo relativamente breve, attraverso una reazione a catena che porta alla mineralizzazione dei metalli costituenti il manufatto viene completamente distrutto. Per arrestare il procedere del cancro del bronzo è essenziale provvedere alla: - Inibizione dei cloruri; Rimozione dei composti rameosi oppure alla loro conversione in cuprite (Cu2O, composto dotato di grande stabilità) [6,7,8]. I trattamenti per la stabilizzazione del cancro del bronzo sono essenzialmente basati sull’applicazione di inibitori, capaci di trasformare i prodotti della corrosione ciclica in sali che hanno una maggiore resistenza agli agenti di degrado presenti nell’ambiente e quindi dotati di una maggiore stabilità chimica. Il trattamento più importante usato nella conservazione di manufatti in bronzi è basato sull’impiego come agente inibitore del benzotriazolo (BTA), la cui struttura molecolare è sotto riportata, il quale 56 <non rimuove il cloruro rameoso, ma forma dei complessi insolubili che agiscono da barriera tra questo composto e l’umidità atmosferica, ostacolando la corrosione ciclica> [7]. Struttura chimica del benzotriazolo (BTA) La procedura di questo trattamento, descritta nel riferimento [7] prevede i seguenti passaggi: <- pulizia e rimozione di polvere e patine incoerenti con la matita/bastoncini in fibra di vetro; - pulizia con una miscela 1:1 di acetone e toluene per rimuovere eventuali strati oleosi e patine; - l’oggetto sgrassato viene messo in una soluzione alcolica o idroalcolica di BTA; - l’oggetto immerso nella soluzione viene posto sottovuoto finché non si forma più alcuna bolla. Dopo il trattamento, l’oggetto viene risciacquato in etanolo puro per togliere ogni residuo di BTA, fino a raggiungere pH neutro, e fatto asciugare velocemente. L’operazione si può ripetere fino a totale scomparsa del fenomeno di deterioramento……. L’applicazione dei protettivi (polimerici come Incral 44 e cere microcristalline come Reswax WH, o meglio ancora la duplice applicazione) completa i passaggi garantendo la stabilità del manufatto per parecchio tempo> [7]. L’ Incral 44 è < una Vernice protettiva a base di resine acriliche con additivi antiossidanti, in soluzione di solventi organici, utilizzata per la protezione di manufatti in bronzo ed altre leghe di rame>[9]. La Cera RESWAX WH è una <Miscela di cere naturali microcristalline e polietileniche, solubile in acquaragia minerale (white spirit D40), particolarmente indicata per la protezione di opere in bronzo esposte agli agenti atmosferici> [10]. RIFERIMENTI 1) http://www.gipsoteca.net/statueinbronzo/seneca_busto_in_bronzo.htm 2) http://www.statueinbronzo.com/pieta_rondanini_statua_in_bronzo.htm 3) http://www.portaleragazzi.it/files/storia/picchetto_archeologo/11_Fusione_a_cera_ persa.pdf 4) http://www.nonsolocittanova.it/museo_nazionale_rc_file/processo_di_fusione_a_cera_persa.htm 5) http://www.archeocalabria.beniculturali.it/archeovirtualtour/bronzi1.html 6) Ossidazione e patologie del Bronzo - Trattamenti di restauro, 7) http://www.campanologia.it/01-STS/G10-Proprieta-Bronzo/G10-07-Bronzo-cancro.htm 8) http://www.ctseurope.com/contentimages/news2010-21.3%20_cancro%20bronzo_.pdf 9) http://www.sesterzio.eu/patine/sesterzi.htm 10) http://www.restauro.cl/fichas/incral44.pdf 11) http://www.ctseurope.com/depliants/%7B8B0FB04E-791F-4A87-A4C0A7C00DFCA179%7D_Pagine%20da%202.2%20protettivi-59.pdf 57 D) I POLIMERI DI SINTESI QUALI MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA Dai monomeri ai polimeri ad alto peso molecolare (prodotti fatti dall’uomo) Capitolo –D.1): I polimeri di sintesi: struttura molecolare e proprietà Il termine polimero deriva dal greco (poly+meros, molte parti). La moderna chimica macromolecolare usa questo termine per definire le sostanze composte di molecole molto lunghe (macromolecole) ognuna delle quali è costituita da unità strutturali, denominate unità ripetitive, che si succedono lungo l‘asse della catena legate tra loro mediante legami primari, generalmente di tipo covalente. I materiali polimerici sono la risultante dell’aggregazione di macromolecole le quali nello stato condensato sono tenute insieme tra loro, attraverso legami secondari (forze di van der Waals, legami ionici, a idrogeno, ecc.). I polimeri si ottengono attraverso reazioni chimiche di sintesi, dette di polimerizzazione, in base alle quali molecole a basso peso molecolare, denominate “Monomeri”, sono fatte reagire in maniera tale da dare luogo alla formazione di lunghe catene macromolecolari. Le molecole idonee a essere polimerizzate, aventi caratteristiche di monomero, devono essere almeno bi-funzionali. Una generica reazione di polimerizzazione è schematicamente descritta attraverso la figura 1. FIGURA 1: Rappresentazione schematica di una reazione di polimerizzazione. Sopra: raffigurazione di una molecola bi funzionale, monomero. Sotto: rappresentazione della macromolecola ottenuta per polimerizzazione del monomero di cui sopra. Il polimero organico, strutturalmente più semplice è il polietilene (figura 2) che si ottiene per polimerizzazione del monomero insaturo: l’etilene (CH2 = CH2). La caratteristica di monomero è assunta dall’etilene quando il legame ʌ, alla presenza di opportuni iniziatori, si apre lasciando i due atomi di carbonio con elettroni spaiati con caratteristiche di radicali fortemente reattivi (figura 2). 58 Questi radicali si accoppiano tra loro dando luogo alla formazione di lunghe macromolecole la cui unità ripetitiva ha la seguente struttura: –[CH2-CH2]–. Nello spazio le macromolecole di polietilene, a causa della rotazione intorno ai legami carboniocarbonio possono assumere diverse forme geometriche (conformazioni) tra queste la più probabile è quella in cui tutti gli atomi di carbonio in catena giacciono in un piano. Infatti, a questa conformazione (comunemente detta, zig-zag planare) corrisponde una minima energia interna (figura 3). Tutti i polimeri che derivano da monomeri olefinici, derivati dell’etilene (ad esempio propilene, butilene e l’acido acrilico) prendono il nome di poliolefine. La struttura di alcuni polimeri olefinici è illustrata nella figura 4. FIGURA 2: Schema della reazione che porta all’ottenimento del polietilene dall’etilene (vedesi testo). FIGURA 3: Struttura del polietilene nella sua conformazione più stabile. Tutti gli atomi di carbonio in catena (in nero in figura) giacciono in un piano [1]. Lo schema di reazioni che portano all’ottenimento di due polimeri olefinici di grande interesse applicativo, il polivinilcloruro (PVC) e il polivinilacetato (PVAc) e illustrato in figura 5 [2]. 59 FIGURA 4: Struttura chimica di alcuni polimeri “vinilici” ottenuti per poliaddizione radicalica [1,14]. Come si evince dai meccanismi delineati nelle figure 2-5 le reazioni che portano alla produzione di polimeri a partire da monomeri vinilici si caratterizzano per il fatto che le macromolecole si formano senza che ci sia eliminazione di alcun raggruppamento di atomi o formazione di nuove molecole a basso peso molecolare. In questi materiali la costituzione chimica delle unità ripetitive è analoga a quella dei monomeri di partenza. Polimeri del tipo sopra descritti sono comunemente definiti come “Polimeri di Addizione” [1.2]. In figura 6 sono mostrate le strutture molecolari di una serie di monomeri e corrispondenti polimeri che appartengono alla famiglia dei polimeri di addizione [2]. La sintesi di un polimero può avvenire anche attraverso la condensazione di monomeri polifunzionali con formazione di prodotti secondari a basso peso molecolare (a. es., H2O o HCl). Come riportato nella figura 7 questo tipo di reazione, avviene quando i monomeri sono dei di-alcoli, delle di-ammine, dei di-acidi, dei di-cloruri, degli amminoacidi, ecc.. [1]. I polimeri che rientrano nella categoria di cui sopra sono definiti “Polimeri di Condensazione”, alcuni di questi sono elencati in figura 7 [2]. Lo schema di sintesi delle poliammidi e dei poliesteri è illustrato nella figura 8. Le poliammidi, derivanti dalla condensazione di gruppi carbossilici e amminici, si caratterizzano per la presenza lungo le macromolecole del gruppo ammidico, íN-(H)C(=O)í. Le poliammidi possono essere sintetizzate da di-ammine e di-acidi (a. es. il nylon 66, che si ottiene per condensazione dell’esametilenediamina e dell’acido adipico o acido esandioico, figura 8). Questa poliammide è denominata nylon 6,6, perché ogni unità ripetitiva della catena polimerica, come sotto mostrato, ha due sequenze di sei atomi di carbonio [3]. 60 Altre famiglie di poliammidi sono sintetizzate da ammino-acidi. E’ questo il caso del Nylon 6 che in linea di principio può essere fatto derivare dalla condensazione di molecole di Acido-ࣅ-ammino caproico [NH2- CH2-CH2-CH2-CH2-CH2-C(=O)-OH]. In questo caso nell’unità ripetitiva è presente una sequenza di sei atomi di carbonio, da cui il nome Nylon 6 [3]. La struttura molecolare delle due poliammidi, Nylon 66 e Nylon 6 sono messe a confronto nella figura 9 [3,4,5,6]. polivinilcloruro (PVC) polivinilacetato (PVAc) FIGURA 5: Lo schema di reazioni che a partire dall’acetilene portano alla sintesi del polivinilcloruro e del polivinilacetato [2]. 61 FIGURA 6: Polimeri di addizione. In figura sono indicati, da sinistra: il nome del polimero; la struttura molecolare del monomero e la struttura dell’unità ripetitiva del polimero [2]. 62 FIGURA 7: Tipici polimeri di condensazione. In figura sono indicati, da sinistra: il nome del polimero; la struttura molecolare del monomero e la struttura dell’unità ripetitiva del polimero [2]. 63 FIGURA 8: Reazioni che portano alla formazione di polimeri di condensazione. Sopra, un di-alcole reagisce con un di-acido formando un poliestere [1,14]. Sotto, una di-amina reagisce con un di-acido formando una poliammide. FIGURA 9: Struttura delle unità ripetitive del Nylon 6 e del Nylon 66, vedesi testo. 64 Nello stato condensato e in massa le macromolecole di poliammidi sono tenute insieme da forti legami a idrogeno intermolecolari che vedono coinvolti, gli ossigeni dei carbonili e gli idrogeni legati all’azoto (figura 10). FIGURA 10: Il sistema di legami a idrogeno nel nylon 66 (schematico). Le proteine naturali, composti a elevata massa molecolare a struttura polimerica, possono, in linea di principio, essere fatte derivare dalla policondensazione di Į-amminoacidi (composti in cui sia il gruppo amminico che quello carbossilico sono legati allo stesso atomo di carbonio) aventi diversa costituzione chimica, ma tutti una configurazione o chiralità, di tipo, L, secondo lo schema qui sotto riportato [7]. 65 Da questo schema si evince come gli Į-amminoacidi a seguito delle reazione di condensazione formano lunghe catene che si caratterizzano per la presenza di un legame peptidico tra l'azoto del gruppo amminico di una molecola e il carbonio del gruppo carbossilico di un'altra. Ogni proteina presenta una struttura primaria che è definita dalla sequenza di residui di Įamminoacidi che caratterizza le sue singole macromolecole. L’elevato numero di proteine che si trova in natura è da mettere in relazione con il fatto che esse sono la risultante del grande numero di possibili combinazioni tra i circa venti diversi L- Į amminoacidi che la natura utilizza nella sintesi delle proteine biologiche. Tra i Poliesteri particolare rilevanza applicativa riveste il polietilene tereftalato che può essere fatto derivare da una reazione di condensazione tra l’acido tereftalico e il glicole etilenico secondo lo schema riportato in figura 8, in alto. Secondo la sua struttura una catena macromolecolare può essere, con riferimento alla figura11: a ) lineare; b ) leggermente ramificata; c ) ad alto grado di ramificazioni; d ) reticolata, attraverso l’impiego di monomeri trifunzionali; e ) reticolata, utilizzando monomeri tetra funzionali. FIGURA 11: Rappresentazione schematizzata della struttura di una macromolecola: a) lineare; b) leggermente ramificata; c) ad alto grado di ramificazioni; d) ed e) reticolata [11]. 66 FIGURA 12: Gli stadi che portano all’ottenimento della bakelite, il primo polimero di sintesi, termoindurente, con una struttura a reticolo tridimensionale [12]. [https://www2.chemistry.msu.edu/faculty/reusch/ virttxtjml/polymers.htm, Encyclopædia Britannica, Inc]. Un importante esempio di polimero reticolato, con caratteristiche di termoindurente, è rappresentato dalla Bakelite, resina fenolo formaldeide (il primo polimero sintetizzato dall’uomo) il cui schema di sintesi è illustrato in figura 12. Da questo schema si evince che la struttura a reticolo tridimensionale si forma perché ogni molecola di fenolo presenta tre siti reattivi che sono gli idrogeni in posizione orto e para (monomero trifunzionale). Nel corso della reazione le molecole di aldeide formica (H2C=O) reagiscono con gli idrogeni reattivi del fenolo; si realizza un legame, C-C, tra il carbonio benzenico e il carbonio formaldeidico con formazione di un raggruppamento alcolico del tipo –CH2OH legato all’anello benzenico nelle due posizioni orto, e in quella para. Controllando la concentrazione di aldeide formica è possibile in un primo stadio produrre un pre-polimero termoplastico stabile, con una struttura prevalentemente lineare, che può essere, portato ad alta temperatura, formato e lavorato, sfruttando le sue caratteristiche visco elastiche allo stato fluido [12]. In seguito, alla presenza di un idoneo catalizzatore e appropriate condizioni è fatta partire la reazione di reticolazione che porta all’indurimento permanente della massa che da fluida diviene solida con una struttura reticolata (figura 12) [12,13]. Polimeri quali il polistirene, il polietilene, il polipropilene e molti poliesteri e poliammidi fanno parte della famiglia delle termoplastiche. Questi polimeri portati ad alte temperature, allo stato fluido, possono essere formati. Riportati a temperatura ambiente, si consolidano, se cristallini solidificano (in parte), mantengono la forma e quindi possono essere commercializzati come manufatti e oggetti a funzione d’uso. Al contrario dei termoindurenti questi manufatti possono essere rilavorati alle alte temperature, purché stabilizzati nei confronti della degradazione termica mediante appropriati additivi [1,12]. 67 Il concetto di polimero termoplastico e termoindurente viene così espresso nel riferimento [14]: <Polimeri Termoplastici: rispondono ad un aumento di temperatura con una diminuzione di viscosità e quindi con una maggiore fluidità, il che permette di riformarli un numero teoricamente infinito di volte. Polimeri Termoindurenti: una volta sagomati mantengono la loro forma; la loro viscosità non diminuisce all’aumentare della temperatura> [14]. In opportune condizioni è possibile sintetizzare macromolecole ottenute da monomeri con costituzione chimica diversa (comonomeri). Questi tipi di polimeri sono detti “Copolimeri” La chimica macromolecolare permette di sintetizzare le seguenti famiglie di copolimeri: ---Statistici; Alternati; a Blocchi e Aggraffati. La struttura molecolare di queste macromolecole è schematicamente raffigurata nella figura 13 [5]. FIGURA 13: Raffigurazione schematica dei possibili copolimeri derivati da due unità comonomeriche, in figura rappresentati da cerchi di colore nero e grigio. Da sinistra a destra: Copolimeri Statistici, Alternati; a Blocchi e Aggraffati o ad Innesto [5]. I polimeri, oltre che per la loro particolare costituzione chimica, si caratterizzano per le seguenti specificità. 1) Alto peso molecolare con distribuzione delle masse molecolari. I processi di polimerizzazione portano alla formazione di macromolecole con diversa lunghezza o grado di polimerizzazione; un materiale polimerico è costituito da una miscela di catene contenenti un numero diverso di unità strutturali e quindi differente massa molecolare e grado di polimerizzazione. Pertanto un polimero è più opportunamente caratterizzato da una distribuzione di pesi molecolari (vedesi generica curva in figura 14) e di media dei pesi molecolari (P.J. Flory, 1953; D.J. Pollock e R.F. Kratz, 1980). 68 Le medie basate sulla determinazione del peso molecolare medio numerico Mn, del peso molecolare medio ponderale Mw (con Mw >Mn) e del peso molecolare medio viscosimetrico Mv, sono comunemente utilizzate nella chimica macromolecolare [1]. < Il peso molecolare medio numerale Mn è definito come il peso medio di una macromolecola riferito all'unità di massa atomica. Espressioni di uso frequente sono Mn=¦niMi/¦ni =¦wi/¦(wi/Mi)=wT/N, con ni numero di molecole dell'i-ma frazione di molecole tutte di peso molecolare Mi e wi peso della i-ma frazione. Il peso molecolare del peso medio ……è la media pesata Mw=6wiMi/6wi=6Xwi; Mw è sempre maggiore di Mn per un materiale polidisperso, solo nel caso di un materiale monodisperso Mw=Mn. Il valore del rapporto Mw/Mn, detto indice di eterogeneità (grado di dispersione), è un parametro impiegato frequentemente per descrivere la relativa polidispersità di un polimero> [ L. Andreozzi, Tesi di laurea, Dipartimento di Fisica, Universita' di Pisa, 1991,< Note sui materiali polimerici> ]. 2) Cristallizzazione e concetto di grado di cristallinità e di amorficità Un polimero può cristallizzare solo se le singole macromolecole hanno una struttura “regolare” cioè presentano lunghi segmenti con un elevato grado di ordine costituzionale e configurazionale. Al contrario di quanto succede nel caso di composti a basso peso molecolare nel caso dei polimeri, per ragioni cinetiche e termodinamiche, le macromolecole, anche se regolari, cristallizzano solo in parte. FIGURA 14: Curva, idealizzata, di distribuzione o funzione di distribuzione dei pesi molecolari di polimeri. In ordinata è riportata la frazione numerica di macromolecole con un peso molecolare definito oppure la frazione in peso di macromolecole aventi una massa molecolare definita. In ascissa è riportato il valore del corrispondente peso molecolare [1,14]. 69 Nel caso di polimeri allo stato condensato ha senso quindi, di parlare di grado di cristallinità (Xc) e di amorficità (Xa). Le grandezze di cui sopra possono essere definite in base alle equazioni sotto riportate: Xc= Wc/(Wc+Wa); Xa= Wa/(Wc+Wa); Xa+ Xc = 1 Dove Wc e Wa sono rispettivamente la frazione in peso del polimero allo stato cristallino e amorfo. La struttura, in una visione planare, di un materiale polimerico semicristallino può essere schematicamente raffigurata mediante il modello “Fringed Micelle” (vedesi figura 15) [1]. Nel caso di polimeri amorfi, Xc=0, le macromolecole assumono una strutturazione, disordinata, a gomitolo statistico “Coiled-structure” o, “Spaghetti-like structure”, vedesi figura 16 [1,14]. La diffrazione dei raggi-X all’alto angolo è la tecnica che permette di evidenziare, nei polimeri semicristallini, la presenza di una fase amorfa e di una fase cristallina. Infatti, come si evince dal diffrattogramma mostrato nella figura 17, la fase amorfa determina una diffusione continua dei raggi-X (alone diffuso) mentre la fase cristallina interagendo con le radiazioni genera dei picchi discreti di diffrazione. Questi picchi di diffrazione si generano quando l’angolo (ș), secondo cui i raggi X incidono sulla superficie di un fascio di piani cristallografici paralleli, la relativa distanza interplanare, d, e la lunghezza d’onda Ȝ verificano le condizioni definite dall’equazione di Bragg: nȜ= 2d sen ș dove n è un numero intero. Di fatto la legge di Bragg definisce le condizioni necessarie affinché un’onda elettromagnetica piana sia diffratta da una famiglia di piani reticolari, paralleli [15,16,17]. la dimensione media dei cristalliti (t, in angstrom), presenti in un campione policristallino, in una direzione normale ai piani che provocano la diffrazione, può essere derivata applicando la seguente equazione di Sherrer: t = Ȝk/ ȕ cosș Dove: ȕ = larghezza a metà altezza di un picco di diffrazione espresso in radianti di 2ș; K una costante (generalmente assunta essere =0,87) [18]. 3) Capacità dei polimeri di formare fibre. Stato fibroso Alcuni polimeri attraverso opportune metodiche di lavorazione e trasformazione hanno la capacità di formare fibre con caratteristiche simili a quelle naturali (cotone, lino, canapa, lana e seta) e quindi con possibilità di essere anche usate quali filati per uso tessile [19]. Lo stato fibroso si caratterizza per i seguenti elementi: 1) Rapporto di forma (lunghezza (L)/diametro (D)) molto elevato ( L> > > D); 2) Orientamento delle macromolecole lungo l’asse di fibra; 3) Cristallinità generalmente alta; 4) Elevate prestazioni meccaniche [1,11,12,19,20]. 70 FIGURA 15-destra: Il modello strutturale, “fringed micelle”, di un polimero semicristallino al disotto della temperatura di fusione dei cristalliti. Le regioni cristalline, vedesi frecce in figura, hanno una lunghezza di circa 10-6 cm. Le regioni cristalline e amorfe sono interconnesse tra loro. Tratti della stessa macromolecola possono fare parte di regioni amorfe e cristalline [1]. FIGURA 16-sinistra: Nei polimeri amorfi le macromolecole assumono una strutturazione a gomitolo statistico “Coiled-o Spaghetti-like structure” [1,14]. FIGURA 17: Spettro di diffrazione dei raggi X all’alto angolo del polietilene. La regione ombreggiata ha origine dalla diffusione continua dei raggi X da parte della fase amorfa; i picchi discreti derivano dalla diffrazione discontinua della fase cristallina [1,14]. 71 Le fibre hanno una struttura molto complessa; esse sono costituite dall’associazione di micro fibrille elementari, ciascuna originatesi dall’aggregazione di un numero più o meno elevato di macromole le cui catene sono prevalentemente orientate parallelamente all’asse di fibra (vedesi modello in figura 18) [19]. Le microfibrille a loro volta si associano formando fibrille e quindi attraverso un processo di aggregazione successivo si ottiene la fibra con dimensioni visibili. Come si evince dalla rappresentazione schematica e semplificata riportata nelle figure 18 e 19, nelle fibrille elementari, lungo l’asse di fibra, si succedono, alternandosi tra loro, domini a elevato grado di ordine (cristallini) e regioni disordinate (amorfe). Attraverso l’uso della tecnica della diffrazione dei raggi X al basso angolo è possibile determinare la grandezza (L) che misura la distanza che intercorre tra il baricentro di due cristalliti separati tra loro da una regione amorfa e due zone con caratteristiche intermedie (L § Lc+La), figura 19 [19,20]. Nel mondo vegetale e animale sono presenti, rispettivamente, fibre cellulosiche (cotone, lino, canapa e molte altre) e proteiche (lana e seta) [19,20,21]. La struttura chimica di una macromolecola di cellulosa, componente principale delle fibre vegetali, è mostrata nella figura 20. FIGURA 18: Modelli schematici che illustrano la struttura dello stato fibroso nei polimeri (vedesi testo) [19,20]. Nel modello a sinistra i domini amorfi e cristallini sono indicati rispettivamente come (A) e (C ). 72 FIGURA 19: Modello strutturale (schematico) di una fibra di polimero dove regioni cristalline, con densità ȡc, si succedono a regioni amorfe, con densità ȡa, con l’interposizione di tratti aventi un grado di ordine intermedio (ȡc< ȡa), vedesi testo[19,20]. FIGURA 20: Struttura molecolare di una singola macromolecola di Cellulosa nella forma di 1,4-ȕ-D-glucopiranosio. Le unità di glucosio assumono una conformazione a sedia [21]. Nelle fibre cellulosiche le macromolecole, come evidenziato nella figura 21, sinistra, si associano dando luogo alla formazione di piani che a loro volta s’impacchettano formando le fibrille e quindi per un processo di successive aggregazioni le fibre macroscopiche, vedesi figura 21, destra [19,20,21]. Una capsula di cotone maturo con fuoriuscita delle fibre, insieme alla micrografia elettronica di una fibra di cotone disidratata, è mostrata nella figura 22 [19,20, 21]. Esempi di fibre naturali di origine animale sono la lana e la seta, entrambe costituite da proteine fibrose. La proteina, principale costituente strutturale della lana, è l’Į cheratina, mentre la seta è caratterizzata dalla co-presenza di due proteine diverse: la sericina (amorfa) e la fibroina (cristallina). Sia le fibre di lana che di seta hanno la capacità di essere filate e quindi tessute [19,20,21]. 73 FIGURA 21: Sinistra, è illustrato come le macromolecole della cellulosa si associano e si orientano lungo l’asse di fibra. La struttura è stabilizzata da legami a idrogeno intermolecolare (rappresentati in figura mediante linee punteggiate). Destra, micrografia elettronica delle lamelle costituenti le pareti interne della cellula dell’alga, Chaetomorpha, attraverso la quale viene evidenziata la presenza di fibrille cellulosiche [19,20,21]. FIGURA 22: Sinistra, capsula di cotone maturo con fuoriuscita delle fibre. Ogni fibra ha un’estremità legata ai semi, l’altra è libera. Destra, micrografia elettronica di una fibra di cotone disidratata, attraverso la quale è possibile evidenziare il fenomeno di torsione e le tipiche rugosità superficiali [19,20,21]. 74 FIGURA 23: Le due conformazioni a minima energia che possono assumere le proteine fibrose. Sinistra, conformazione a Į-elica destrorsa (cheratina della lana). Destra, una lamella a foglietto ripiegato costituita da macromolecole proteiche, come la fibroina della seta, in una conformazione di tipo ȕ [20,21]. FIGURA 24: Micrografia elettronica di una fibra di lana 75 FIGURA 25: Sopra-sinistra, Il baco estrude i filamenti serici da un orifizio posto sotto la bocca. La bava serica è utilizzata per costruire il bozzolo. Sopra-destra, micrografia elettronica a scansione attraverso la quale è evidenziata la natura composita della bava serica. Sono visibili le bavelle di fibroina (cristallina) e la guaina esterna di sericina (amorfa) [19,20,21]. Sotto, micrografia elettronica di fibre di fibroina sgommate, vale a dire depurate della sericina. Le proteine fibrose costituenti le fibre di lana e seta si diversificano non solo per quanto riguarda la loro composizione e costituzione chimica ma anche per la conformazione e forma geometrica che le singole macromolecole assumono nei rispettivi reticoli cristallini. In particolare, come si evince dalla figura 23, sinistra, le macromolecole della cheratina, costituente delle fibre di lana, assumono una conformazione a Į-elica destrorsa. Questa struttura è stabilizzata da forti legami a idrogeno, intramolecolari, tra gli idrogeni dei gruppi N-H e gli ossigeni dei gruppi C=O (vedonsi tratti punteggiati in figura 23). Le macromolecole della fibroina si caratterizzano per una conformazione di tipo ȕ, a catena all'incirca estesa, dove gli atomi dello scheletro macromolecolare giacciono quasi in un piano. La peculiarità di questa strutturazione è che le macromolecole associandosi tra loro formano dei piani di lamelle ondulate, a foglietto ripiegato o plissettato (figura 23, destra). 76 Nella strutturazione di tipo ȕ, tipica della fibroina della seta, i segmenti molecolari s’impacchettano tra loro secondo una disposizione che si caratterizza perché molecole adiacenti hanno opposte orientazioni (struttura ȕ-antiparallela). I legami a idrogeno, fra gruppi NH e CO, stabilizzano la struttura. I sostituenti laterali di una stessa catena assumono tutti, o una disposizione di tipo Up, oppure Down; nelle due molecole adiacenti i gruppi laterali si disporranno in maniera opposta [19,20,21]. La fotografia di una fibra di lana con la sua tipica struttura a scaglie è mostrata nella figura 24 [21]. In figura 25, sinistra, è riportata la fotografia del baco da seta mentre secerne una bava di seta. In figura 25, destra, è illustrata la struttura bi-componente delle singole bave[21]. La morfologia di fibre di fibroina sgommate cioè, depurate della sericina è evidenziata nella micrografia elettronica di figura 25, sotto. Tra le fibre di polimeri di sintesi rientra il Kevlar, una fibra che appartiene alla famiglia delle poliammidi (Nylons) aromatiche (Aramidi) e la cui struttura dell’unità ripetitiva è illustrata nella figura 26 [22]. Da questa figura si evince come nel Kevlar < tutti i gruppi ammidici sono separati da gruppi parafenilenici ossia i gruppi ammidici si attaccano agli anelli fenilici opposti uno all'altro, negli atomi di carbonio 1 e 4 > [22]. FIGURA 26: Struttura molecolare dell’unità ripetitiva del Kevlar, una fibra sintetica ad elevate prestazioni [22]. Come illustrato attraverso la figura 27, le macromolecole di kevlar attraverso la formazione di forti legami a idrogeno formano delle lamelle le quali associandosi tra loro danno luogo alla formazione della fibra a livello macroscopico. Le fibre di Kevlar hanno un carico di rottura elevato e una bassa densità (1,44 g/cm3). E’ interessante osservare come la presenza di zone amorfe che si alternano a regioni cristalline lungo l’asse delle fibre determina la capacità da parte delle stesse di assorbire e interagire con sostanze coloranti e quindi essere colorate, sia prima sia dopo essere state tessute. Le fibre naturali e sintetiche trovano applicazione anche come tele per substrati di dipinti e come supporti di papiri e documenti cartacei (vedesi figura 28). <Per tela, si intende qualsiasi tipo di tessuto, teso fissato a un telaio di legno. Di solito le tele sono di lino, cotone, canapa o acriliche. Il telaio è fornito di quattro cunei che servono a tendere la tela per evitare che si formino pieghe. La trama della tela può essere più o meno grossolana, a seconda di come si vuole dipingere> [http://angoloarte.altervista.org/TELE.htm]. 77 Le micrografie elettroniche in scansione, mostrate in figure 29 e 30, evidenziano le peculiarità che caratterizzano la struttura e la morfologia di fibre di lino e di canapa, prelevate da antichi tessuti. FIGURA 27: La strutturazione delle fibre (sintetiche) di kevlar. FIGURA 28: Sinistra, tela di canapa per supporto pittorico con campione di corda. Destra, frammento di un antico tessuto in cotone utilizzato come supporto di Papiri (Museo Egizio del Cairo) [L. D’orazio, C. Mancarella, E. Martuscelli, C. Polcaro, «Papirologia Lupiensa», 10, 92 (2001)]. 78 FIGURA 29: Destra, micrografia elettronica in scansione di fibre di lino prelevate da un manufatto rinvenuto a Bakchias (antico Egitto), notasi la particolare morfologia a nodi delle fibre. Sinistra, fotografia del manufatto. [E. Martuscelli e al., in «Bakchias VI» Monografie di SEAP, Ist. Edit. e Polig. Int. Pisa (1998)]. FIGURA 30: Sinistra, frammento di un antico tessuto in canapa. Destra, la tipica morfologia delle fibre di canapa. [E. Martuscelli, L. D’Orazio, Euro-Mediterranean Advanced School on: New materials and technology…..>, CNR Napoli, (1999). 79 4) La transizione vetrosa nei polimeri amorfi e semicristallini e la fusione La transizione vetrosa è una trasformazione reversibile del secondo ordine, tipica dei polimeri amorfi e delle regioni disordinate presenti nei polimeri semicristallini, che avviene a una ben determinata temperatura, detta di transizione vetrosa (Tg). Per temperature inferiori il materiale ha caratteristiche tipiche dello stato vetroso (alta rigidità e fragilità). Sopra la tg, il polimero assume un comportamento gommoso (maggiore flessibilità e minore rigidità). Dal punto di vista molecolare la Tg rappresenta la transizione da uno stato in cui i segmenti macromolecolari sono incapaci di eseguire movimenti, essendo in sostanza congelati in un rigido impacchettamento, a uno caratterizzato da un più elevato volume libero. In queste condizioni i segmenti molecolari sono relativamente liberi di compiere movimenti di torsione e di traslazione [1,12]. La temperatura di fusione (Tm) di un polimero semicristallino rappresenta la temperatura alla quale i cristalliti fondono passando dallo stato solido cristallino a uno stato liquido disordinato. La fusione, dal punto di vista termodinamico, è una transizione del primo ordine [1,12]. Riportando in grafico grandezze quali, il volume specifico oppure il modulo di elasticità, in funzione della temperatura è possibile evidenziare le transizioni sopra delineate e quindi determinare i valori di Tg e Tm. FIGURA 31: E’ mostrata, schematicamente, la dipendenza dalla temperatura del volume specifico di un polimero amorfo e di un polimero semicristallino. In grafico sono evidenziate la transizione vetrosa (Tg) e la fusione (Tm) [23]. 80 L’andamento delle curve volume specifico - temperatura (figura 31) può essere interpretato, nel caso di polimeri amorfi e semicristallini, sulla base delle seguenti considerazioni: --- A T<Tg, i moti molecolari sono molto limitati, i sistemi sono rigidi e vetrosi. --- A T=Tg, il coefficiente di espansione volumetrico subisce un’improvvisa variazione evidenziata dal fatto che la pendenza delle curve, in figura 31, aumenta. Contemporaneamente i valori del modulo subiscono un brusco abbassamento. --- A T>Tg, sono permessi movimenti molecolari a lungo raggio. Un polimero amorfo diventa gommoso (tratti di macromolecole costituiti da 20-40 atomi possono muoversi in maniera coordinata). Un polimero semicristallino assume un comportamento plastico e quindi può essere deformato sotto l’azione di opportune sollecitazioni meccaniche [23]. Alla temperatura di fusione i cristalliti, presenti nei polimeri semicristallini, fondono pertanto il polimero si comporta, a causa degli “entanglements” (grovigli) intra e inter macromolecolari come un liquido con caratteristiche visco-elastiche [23]. Come messo in evidenza dall’andamento delle curve, sforzo-deformazione, mostrato in figura 32, le proprietà dei polimeri dipendono fortemente dalla loro struttura molecolare e dallo stato di aggregazione delle macromolecole allo stato condensato. In particolare dal confronto degli andamenti delineato in figura 32, si ricava che a parità dello sforzo applicato l’entità della deformazione varia da materiale a materiale. I polimeri reticolati e le fibre si caratterizzano per bassi valori della deformazione, anche in corrispondenza di sforzi elevati. Al contrario gli elastomeri mostrano alti gradi di deformazione per valori bassi degli sforzi insieme con un’elevata reversibilità. I polimeri termoplastici presentano un comportamento intermedio con la peculiarità del fenomeno dello snervamento come si evince dal plateau che si osserva nella curva corrispondente. Nella tabella 1 sono indicati per una serie di polimeri i valori della Tg e della Tm [23]. TABELLA 1, sinistra: Valori della Tg e della Tf (Tm) per alcuni polimeri [23]. FIGURA 32, destra: Diagrammi sforzo-deformazione (schematico) per le diverse classi di polimeri (elastomeri, plastomeri, reticolati e fibre), vedesi testo. 81 5) La Regioselettività e la Stereoisomerizzazione nelle macromolecole Monomeri asimmetrici quali il propilene (CH2=CH (CH3)), il vinil cloruro (CH2=CH (Cl)), lo stirene (CH2=CH(C6H5), l’acrilonitrile CH2=CH(C) ؠ, gli esteri dell’acido acrilico [il polimetil metacrilato (CH2=C (CH3)(CO2CH3), il vinilacetato (CH2=C (CH3)(OOCCH3)] e altri presentano il fenomeno della “Regioselettività”, potendo susseguirsi lungo la macromolecola con una disposizione di tipo testa-testa, coda-coda oppure testa-coda (vedesi schema in figura 33). La moderna chimica macromolecolare è capace di indirizzare la reazione di sintesi in maniera regio selettiva. In queste condizioni tutte le macromolecole sono regolarmente costituite, essenzialmente, da una successione delle unità ripetitive di tipo testa-coda. FIGURA 33: Il fenomeno della regioselettività in monomeri asimmetrici. Sopra, polimerizzazione del tipo testa(head)-coda(tail). Sotto, polimerizzazione con successione irregolare di tipo testa-testa o coda-coda [24]. Nel caso di monomeri asimmetrici del tipo sopra indicati è possibile riscontrare un altro fenomeno detto di “Steroisomeria”. Il concetto d’isomeria configurazionale o stereoisomeria può essere delucidato prendendo ad esempio il caso del polipropilene. Partendo dal propilene monomero (CH2=CH(CH3)), secondo le condizioni di sintesi è possibile produrre un polimero dove, in un’ipotetica conformazione con gli atomi di carbonio in catena giacenti in un piano, i metili si dispongono casualmente sopra o sotto il piano (caso della macromolecola in alto in figura 34). Alternativamente la reazione di polimerizzazione può condurre alla formazione di macromolecole, dove si succedono unità con la configurazione dell’atomo di carbonio terziario alternativamente opposta (caso della macromolecola al centro nella figura 34). Macromolecole come quelle descritte in alto nella figura sono irregolari, pertanto non potranno mai cristallizzare. Il polipropilene costituito da simili catene è definito atattico e per definizione è un materiale amorfo. Le macromolecole al centro e in basso nella figura 34, denominate rispettivamente sindiotattiche e isotattiche, sono regolari e quindi cristallizzabili. I materiali corrispondenti prendono il nome di polipropilene sindiotattico e isotattico [1,24]. Ragionamento analogo vale per tutta la serie di monomeri asimmetrici citati. 82 FIGURA 34: Stereoisomeria nel caso del polipropilene (vedesi testo) [1,24]. In figura in nero sono i metili in grigio i carboni e in bianco gli idrogeni. Sopra, catena irregolare, atattica. Centro, catena regolare, sindiotattica. In basso, catena regolare, Isotattica. Con l’ausilio di catalizzatori stereospecifici è possibile sintetizzare polimeri isotattici e sindiotattici. Come si evince dalla tabella sotto riportata, le caratteristiche chimiche, fisiche e applicative dipendono fortemente dal tipo di stereoisomeria delle macromolecole costituenti i corrispondenti materiali polimerici [1,24]. Polymer Tg atactic Tg isotactic Tg syndiotactic PP –20 ºC 0 ºC –8 ºC PMMA 100 ºC 130 ºC 120 ºC In tabella: PP=polipropilene; PMMA=polimetilmetacrilato 83 In particolare nel caso del polipropilene (PP) si osserva che il conformero atattico per le sue caratteristiche è un materiale gommoso a RT che può essere usato solo come adesivo. Mentre i conformeri, isotattico e sindiotattico, entrambi cristallini (Tm=170 e 120°C), hanno caratteristiche di termoplastici e quindi possono essere formati con le normali tecniche di lavorazione tipiche di questa tipologia di materiali polimerici. RIFERIMENTI 1) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>, a cura dell’Istituto per l’Arte e il Restauro, Palazzo Spinelli, PAIDEIA, Firenze (2007). 2) David A. Katz, pdf, Polymers, 1998, http://www2.units.it/liut/ORGANICA_3/organica3.htm 3) http://www.pslc.ws/italian/nylon.htm 4) http://www.treccani.it/enciclopedia/poliammide/ 5) http://matse1.matse.illinois.edu/polymers/prin.html 6) http://chem-guide.blogspot.it/2010/04/polymer.html 7) http://scienzaemusica.blogspot.it/2013/03/una-straordinaria-proteina-lemoglobina.html 8) http://editimage.org/ 9) http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/chimica/La-chimica-del-carbonio/Compostiorganici-di-interesse-biologico/Proteine.html 10) http://www.pslc.ws/italian/pet.htm 11) C.Hall, < Polymer materials >, The Macmillan Press, London (1981). 12) E. Martuscelli < Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics >, Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA Firenze (2012). 13) Plastic Engineering Company < Phenolic Novolac and Resol Resins >, www.plenco.com/resin.htm 14) A. Passaro, Centro di Progettazione, Design & Tecnologie dei Materiali CETMA, pdf 15) http://ww2.unime.it/weblab/ita/bragg/bragg2.htm S. Quartieri, Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Messina, http://www.terra.unimo.it/appunti/958.pdf 16) P. P. Ewald, 1962, IUCr, 50 Years of X-ray Diffraction, Section 5, page 64. 17) http://reference.iucr.org/dictionary/File:BraggLaw-1.gif 18) http://studium.unict.it/dokeos/2012/courses/1003109C1/document/XRD_new.pdf 19) E. Martuscelli, < Degradazione delle fibre naturali e dei tessuti antichi >, Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA Firenze (2006). 20) E. Martuscelli, < Nature and structure of natural fibres >, in Book of Lectures of EuroMediterranean Advanced School, edited by E. Martuscelli and L. D’Orazio, CNR, Italy (2002). 21) E. Martuscelli, <Le fibre di polimeri naturali nell’evoluzione della civiltà: le fibre di seta>, Monografie Scientifiche, Serie Scienze Chimiche, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma (1999). 22) http://www.pslc.ws/italian/aramid.htm 23) V. Venditto, modulo: chimica dei polimeri, http://www.polymertechnology.it/bacheca/NanocompositeForm/page0/files/4-stato_amorfo.pdf 24) https://www2.chemistry.msu.edu/faculty/reusch/virttxtjml/polymers.htm 84 D) I POLIMERI DI SINTESI QUALI MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA Dai monomeri ai polimeri ad alto peso molecolare (prodotti fatti dall’uomo) Capitolo –D.2): Materiali polimerici di sintesi utilizzati nella realizzazione di manufati di arte moderna e contemporanea I polimeri sintetici, a causa delle loro intrinseche caratteristiche di base, sono lavorati e formati, previa addizione di una serie di additivi atti a migliorarne lavorabilità, la stabilità chimica, le prestazioni e la colorazione. Generalmente a questo materiale composito (polimero+additivi+riempitivi+pigmenti) si da il nome di plastica. Le plastiche, sin dalla nascita dell’industria dei polimeri di sintesi furono preferite, in molte applicazioni, a materiali più tradizionali (legno, ceramiche, ferro, avorio, ecc.). Le ragioni di questo processo d’imitazione e sostituzione sono da ascriversi al fatto che le plastiche, pur alla presenza di alcuni punti di criticità, presentano i seguenti vantaggi: ---Facilità di lavorazione; ---Bassi costi di produzione; ---Leggerezza; ---Colorabilità; ---Ampia gamma di prestazioni [1,2, 3 4]. A seguito della crescita dell’industria dei polimeri di sintesi, particolarmente notevole dalla fine della seconda guerra mondiale, molti artisti, architetti e designer, si convertirono all’impiego delle plastiche quale materiale di base per la realizzazione dei loro manufatti. Formulazioni a base di polimeri sono state quindi ampiamente utilizzate per la realizzazione di opere di arte contemporanea e moderna pertanto nei giorni nostri oggetti di plastica, con valore artistico, sono in misura sempre maggiore, presenti nelle collezioni private e in pubblici musei. Qui di seguito è riportata una casistica di oggetti d’arte di plastica ottenuti utilizzando varie tipologie di polimeri di base e anche differenti processi di lavorazione. 1) Manufatti realizzati per lavorazione meccanica (scultura, intaglio, modellazione e per asporto) di una massa di plastica ottenuta per presso fusione, estrusione, colata o casting. a) Manufatti in resina epossidica Le Resine Epossidiche sono dei materiali polimerici termoindurenti, ottenute per polimerizzazione e reticolazione dai monomeri di partenza secondo lo schema riportato in figura 1 [3,4,5]. Generalmente il processo che porta all’ottenimento di pezzi pre-finiti in resina epossidica consiste nel preparare il prepolimero (un polimero a basso peso molecolare con gruppi epossidici a ogni estremità) che ha caratteristiche termoplastiche, e quindi formarlo insieme al catalizzatore a temperature inferiori a quella di attivazione dello stesso. Solo a fine lavorazione il pezzo è portato a temperature più alte, dove la massa si consolida assumendo una struttura a elevato grado di reticolazione (figura1) [3,4]. 85 < Le resine epossidiche induriscono per dare materiali solidi con l’aiuto di agenti di reticolazione o catalizzatori, che includono: ammine, anidridi e aldeidi > [6]. 1) Prepolimero termoplastico 2) FIGURA 1: Schema della reazione di polimerizzazione delle resine epossidiche. 1)-Sintesi del pre-polimero dai due monomeri (bisfenolo-A ed epicloridrina) in presenza di NaOH. 2)-Reticolazione o indurimento mediante aggiunta di una diammina (sotto in figura) [3,4]. 86 La scultura Awakening beauty di Frank Gallo (USA), mostrata in figura 2, è stata realizzata scolpendo una massa preformata di resina epossidica già indurita [5]. FIGURA 2: Scultura in resina epossidica, un materiale termoindurente, Awakening beauty di Frank Gallo USA [5]. b) Sculture in polimetilmetacrilato Il polimetilmetacrilato (PMMA, comunemente noto in commercio come Plexiglas o Perspex) è un polimero vinilico, termoplastico, che si ottiene, come mostrato schematicamente in figura 3, per polimerizzazione (radicalica vinilica) del monomero, il metilmetacrilato (estere metilico dell’acido metacrilico, MMA) [3,4]. FIGURA 3: Schema di sintesi del polimetilmetacrilato (PMMA) dal monomero, il metilmetacrilato (MMA) [7]. 87 Esempi di sculture ottenute per lavorazione meccanica di lastre o masse preformate di PMMA sono documentate nelle figure 4 e 5. FIGURA 4: Sinistra, scultura, “Lot’s Wife”, ricavata da un blocco di polimetilmetacrilato (PMMA) da A. Fleischmann, (I.C.I., Plastics Division). Destra, scultura, Adamo e Eva, scolpita in una lamina spessa di PMMA da Marcel Ronay, ( I. C. I. Plastics Division ) [8]. FIGURA 5: Sculture in bianco e nero, in PMMA, realizzate da Marcello Morandini [9,10,11]. 88 FIGURA 6: La grande scultura trasparente in PMMA (Apolymon), ottenuta per colata o casting da Bruce Beasley (USA), 1968-70 [14]. Manufatti artistici, pieni, in PMMA possono essere anche essere realizzati attraverso la tecnica della colata in uno stampo (casting) [12,13]. Questo processo di lavorazione ricorda quello dei bronzi. Nel processo di casting un material liquido è versato in uno stampo, dove solidifica per effetto della temperatura oppure per effetto di un processo di polimerizzazione. Si forma un oggetto tridimensionale che riproduce fedelmente il disegno dello stampo [13,14]. Nel caso del PMMA il processo di casting è basato sulle seguenti fasi: ---- Il monomero liquido o/e un suo prepolimero a basso peso molecolare contenenti il catalizzatore è colato nello stampo; ---La temperatura è innalzata al fine di innescare/completare il processo di polimerizzazione; ---La temperatura è riportata a RT, lo stampo aperto e quindi il manufatto rimosso e sottoposto a pulitura e rifinitura. 89 Nella figura 6 è mostrata la grande scultura in PMMA (Apolymon) realizzata da Bruce Beasley (USA) impiegando su larga scala la tecnica del casting [14]. Questa scultura è stata istallata nella città di Sacramento, California (USA). c) Sculture in Polistirene Il polistirene (PS) comunemente in commercio (general purpose o compatto o cristallino) è un polimero aromatico a struttura lineare (amorfo) con caratteristiche di termoplastico che è ottenuto attraverso una polimerizzazione per addizione, radicalica, che prevede l’apertura del doppio legame dello stirene monomero. La sintesi del PS necessita la presenza di opportuni iniziatori che decomponendosi generano radicali (a. es. i perossidi) e catalizzatori (figura 7). Il PS ha una Tg di § 100°C, pertanto a temperatura ambiente è un solido vetroso. Al disopra della Tg diviene plastico e quindi, a temperature relativamente più alte può essere trasformato e formato con le normali tecniche di lavorazione per i polimeri termoplastici [3,4,15]. FIGURA 7: Il polistirene è un polimero di sintesi che si ottiene attraverso una reazione di polimerizzazione, a partire dal monomero stirene (sinistra in figura) [3,4,15]. FIGURA 8: Micrografia elettronica di una sezione di EPS attraverso cui è messa in evidenza la tipica struttura cellulare [16]. 90 Il polistirene può essere anche ottenuto in una struttura espansa (EPS). Per realizzare questo prodotto le piccole perle trasparenti di PS (0,3-2,8 mm), derivanti dalla reazione di sintesi, sono messe a contatto con un agente espandente, generalmente il pentano (un idrocarburo gassoso), che penetra nelle sfere di PS e quindi <si espande facendo rigonfiare le perle fino a 20-50 volte il loro volume iniziale. Si forma così al loro interno una struttura a celle chiuse che trattiene l'aria e conferisce al polistirene le sue eccellenti caratteristiche d’isolante termico e ammortizzatore di urti> (figura 9) [16]. Il polistirene sia in forma compatta che espansa è stato impiegato da molti artisti contemporanei nella realizzazione, attraverso lavorazione meccanica di masse o blocchi preformati, di sculture a elevato contenuto artistico [19]. Alcuni esempi sono mostrati nella figura 9. FIGURA 9: Sinistra, scultura in polistirene, Leda e il Cigno di Gabrielli Luciano [17]. Destra, Jean Dubuffet, “Pantalon d’Equinox”, polistirene espanso dipinto. d) Sculture in Polivinilcloruro Il polivinilcloruro (PVC), un polimero di massa con caratteristiche termoplastiche, stabilizzato da una serie di additivi, si ottiene per polimerizzazione di addizione, radicalica, del cloruro di vinile (figura 10) [3,4,20, 21]. Moderne sculture in PVC sono mostrate in figura 11. 91 FIGURA 10: Dal cloruro di vinile, monomero (a sinistra), al polivinilcloruro (a destra) [20]. FIGURA 11: Moderne sculture in PVC di Peeta, pseudonimo di Manuel di Rita. [http://www.peeta.net/peeta_it/sculptures/venus_page.html] e) Sculture in Poliuretano I poliuretani (PU) sono una famiglia molto vasta di polimeri i quali si caratterizzano per la presenza lungo le macromolecole di legami uretanici del tipo sotto riportati. 92 FIGURA 12: Schema della reazione tra un diisocianato e un diolo che porta alla sintesi di un generico poliuretano prepolimero, lineare. FIGURA 13: Struttura molecolare di poliuretani segmentati. Sopra, di tipo poliestere. Sotto, di tipo polietere. [Thea van Oosten, PUR Facts, Amsterdam Uiversity Press (1009)]. 93 I PU sono sintetizzati facendo reagire, alla presenza di catalizzatori ed estensori di catena, un diisocianato con un poliolo (figura 12). < I polioli sono prodotti poliossidrilici con peso molecolare compreso tra 400 e 6000 e con funzionalità (numero dei gruppi ossidrilici reattivi per molecola) comprese tra 2 e 8. Possono essere di natura polietere (polioli polietere) o poliestere (polioli poliestere) > [24]. In fig.13 sono riportate le strutture molecolari di PU-segmentati a base polietere e poliestere; in fig.14 è mostrato lo schema per la produzione di schiume poliuretaniche. <Le schiume poliuretaniche sono prodotte attraverso la formazione del polimero poliuretanico e lo sviluppo concomitante del gas espandente. Quando questi due processi sono ben bilanciati, le bolle di gas sono intrappolate all’interno della matrice polimerica durante la sua formazione. La schiuma rigida poliuretanica è un materiale bifase con struttura cellulare a celle chiuse costituito da una matrice polimerica termoindurente altamente reticolata e da una fase gassosa che rappresenta in genere più del 95% del volume totale del prodotto> [25]. FIGURA 14: Schema della sintesi che porta all’ottenimento di poliuretani espansi. Sopra, la struttura molecolare dei monomeri di partenza. Centro, la struttura della macromolecola lineare del PU. La presenza in catena di gruppi ossidrili appartenenti al glicerolo, liberi di reagire, determina la struttura a reticolo tridimensionale del PU. Sotto, la reazione tra un isocianato e l’acqua, presente in tracce, che da origine alla formazione di anidride carbonica, la quale ultima facilita la formazione di una struttura cellulare [26] (vedesi testo). Gli EPU possono essere, flessibili (struttura cellulare aperta) oppure rigidi (struttura a celle chiuse). La sintesi di schiume rigide poliuretaniche prevede la preparazione di due soluzioni costituite: una da una miscela di un poliolo (il glicerolo), un agente schiumogeno, un silicone che agisce da tensioattivo e un catalizzatore; un’altra da un poliisocianato (il difenil metano diisocianato), guardasi schema in figura 14 [26]. 94 Mescolando in opportune condizioni le due soluzioni s’innesca la reazione di polimerizzazione del PU che da origine a un sistema con una struttura molecolare tridimensionale [26]. Contemporaneamente l’acqua presente in piccole quantità causa la decomposizione dei composti isocianici con produzione di anidride carbonica che determina la formazione della struttura cellulare (vedesi figura 14, sotto). L’anidride carbonica e l’agente schiumogeno originano bolle gassose nel sistema reagente che vanno a strutturarsi nella massa che si consolida in un rigido blocco termoindurente. Modificando in maniera controllata la natura chimica dei reagenti e degli agenti schiumogeni è possibile realizzare EPU con caratteristiche morfologiche, fisiche e applicative molto diverse [27]. Lastre e blocchi di poliuretano espanso, rigido o flessibile (la tipica struttura delle celle è mostrata in figura 15), sono stati ampiamente utilizzati per la realizzazione di manufatti d’arte. Alcuni esemplari sono riportati nelle figure 16, 17, e 18. FIGURA 15: Micrografia elettronica di un campione di poliuretano espanso, flessibile, a base polietere, dalla quale si evince la tipica struttura a celle aperte. [Tesi di Laurea di D. Favero, Anno Academico 2012-2013, Relatore Ezio Martuscelli, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli]. 95 FIGURA 16-sinistra: Scultura in EPU, Cactus, <ideato da Guido Drocco e Franco Mello nel 1972 per Gufram, è un appendiabiti….. É realizzato in poliuretano espanso la cui superficie, verniciata in gluflac (una vernice lavabile), è modellata creando una texture che richiama la superficie dell’omonimo vegetale..> [28, 29,30]. FIGURA 17-destra: Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso, “Pratone”, Scultura in poliuretano espanso verniciato con Guflac, 95x140x140cm. 1971 [33]. FIGURA 18: Sculture di Piero Gilardi in poliuretano espanso. Sinistra, “Spiaggia con papuina”, cm 30x30, 2004 [31]. Destra, “Pere Cadute”, anno 2000. 96 f) (Manufatti polimaterici). Numerose opere d’arte moderna sono basate sull’impiego di più materiali caratterizzati da caratteristiche chimiche, fisiche e comportamentali molto diverse. Esempi di questa tipologia di manufatti sono mostrati in figura 19. E’ importante rilevare come, in generale, la conservazione di manufatti polimaterici deve prendere in considerazione il fatto che i meccanismi alla base dei processi di degrado sono diversi secondo la natura chimica del materiale costituente. Inoltre nel progettare interventi di restauro e protezione, siano essi diretti o indiretti, massima attenzione deve essere riservata a possibili effetti sinergici e interazioni tra i prodotti derivanti dalla degradazione e la compatibilità dei materiali usati con tutti i tipi di componenti. Particolarmente degni di cura sono quei manufatti polimaterici che vedono la presenza di plastiche, definite “maligne”, le quali hanno la caratteristica di degradarsi producendo sostanze molto reattive (ad esempio di natura acida) capaci di causare profondi e irreversibili processi di degrado in altri materiali componenti l’oggetto in esame [36]. Tra le plastiche maligne rientra la celluloide, una plastica contenente nella sua formulazione il nitrato di cellulosa (un polimero che si ottiene per nitrazione della cellulosa, un polimero naturale) il quale ultimo a seguito di degradazione termica da origine alla formazione di acido nitrico, un acido molto aggressivo verso una vasta gamma di materiali organici e inorganici (vedonsi reazioni in figure 20 e 21) [36]. FIGURA 19: Manufatti artistici, polimaterici, dove uno dei componente è il PMMA. Sinistra, “Construction in Space with Crystalline Centre” di Naum Gabo, in polymethylmethacrylate e celluloide (1938-40 ) [35]. Destra, “Tavolo con cigno”, polimetilmetacrilato, poliestere e legno. Opera di Vannetta Cavallotti. 97 FIGURA 20: Reazione di nitrazione della cellulosa che porta all’ottenimento del nitrato di cellulosa, componente principale, insieme alla canfora, della celluloide (schematico). +3H2O FIGURA 21: Schema della reazione che per effetto della degradazione Termica porta alla denitrazione del nitrato di cellulosa con produzione, in presenza di acqua, di acido nitrico [36]. 98 RIFERIMENTI 1) E. martuscelli <le plastiche nel terzo millennio>, Ricerca e Futuro, 23, 46 (2002) 2) E. martuscelli <Dalla scoperta di Natta lo sviluppo dell’industria e della ricerca sulle macromolecole in Italia>, Consiglio Nazionale dele Ricerche, (2001). 3) E. Martuscelli, <La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>, a cura dell’Istituto per l’Arte e il Restauro, Palazzo Spinelli, PAIDEIA, Firenze (2007). 4) E. Martuscelli <Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics>, Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA Firenze (2012). 5) G. Martinez, Revista de Plasticos Modernos, 89,73 (2005). 6) http://w3.uniroma1.it/pasquali/page2/page9/page10/files/04-02.pdf 7) http://www.pslc.ws/italian/pmma.htm 8) J. Gordon Cook, <Your guide to Plastics>, Merrows Publishing CO LTD, England ( 1964) 9) http://www.teknemedia.net/archivi/2008/02/23/mostra/28477.html 10) www.exibart.com/.../rev/723/rev50723(1)-ori.jpg, (2008). http://www.sapere.it/tca/minisite/arte/nonsolomostre/2004map/map06.html, (2008). 11) http://www.ebay.it/itm/FURSTENBERG-Marcello-Morandini-Empire-Platzteller-groser-TellerNEU-/161105370702?pt=DE_M%C3%B6bel_Wohnen_Sonstige&hash=item2582a0de4e 12) R. O. Ebewele, <Polymer Science and technology>,CRC Press (2000). 13) http://www.imouldsourcing.com/index.php/what-is-green-die-casting/ 14) http://www.brucebeasley.com/%20Acrylic%20/page/Apolymon.sun.htm 15) http://it.wikipedia.org/wiki/Polistirene 16) http://www.abmespansi.it/?p=4&n=eps 17) http://www.bovere.it/notizie.php?idNews=7 18) http://fighillearte.blogspot.it/2011/03/enzo-maneglia-nel-museo-di-fighille.html 19) http://artlistening.umpf.it/archives/327 20) http://it.wikipedia.org/wiki/Cloruro_di_polivinile 21) http://www.galleryteo.com/artists/15_e.html 22) M. G. Kamath, Atul Dahiya, Raghavendra R. Hegde, Monika Kannadaguli & Ramaiah Kotra, < Chemical Bonding > Updated: April, 2004 http://www.engr.utk.edu/mse/Textiles/Chemical%20Bonding.htm 23) Leo Amino: Sculpture 1945-1974, Gilbert, ppg. 26, 27 http://www.wright20.com/auctions/view/DLPX/F5XM/332/LA/none/0/0/ 24) http://www.ironguide.it/Compiti_di_chimica/piste_atletica_leggera/poliuretani.pdf 25) http://lschimica.unipr.it/Poliuretani.pdf 26) D. A. Katz.<Polymers>, Chemist, Educator, Science Communicator, and Consultant 1621 Briar Hill Road, Gladwyne, PA 19035, USA, 1998, pdf 27) http://www.hotfrog.it/Societa/DUNA-Corradini 28) http://www.eyeondesign.it/appendiabiti-cactus-di-guido-drocco-e-franco-mello-per-gufram/ 29) http://www.owo.biz/products/cactus-gufram-red 30) G. Pettena <arte/ architettura/ambiente 26, radical design: ricerca e progetto dagli anni ’60 ad oggi>,http://www.ca.archiworld.it/riviste/rivista_arch/anno_2004/luglio/pag%2026-28.pdf 31) http://www.ilcastelloarte.it/mostra.php?id=130 32) http://artecontemporaneatemporanea.wordpress.com/2012/05/30/380/ 33) http://www.artelabonline.com/articoli/view_article.php?id=3551 34) http://milanoartexpo.com/2011/11/23/dennis-oppenheim-electric 35) http://fusionanomaly.net/naumgabo.html, (2008) 36) E. Martuscelli, <The chemistry of degradation and conservation of plastic artefacts of pre-synthetic era based on natural or artificial polymers>, Palazzo Spinelli Restauro, PAIDEIA, Firenze (2010). 99 D) I POLIMERI DI SINTESI QUALI MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA Dai monomeri ai polimeri ad alto peso molecolare (prodotti fatti dall’uomo) Capitolo –D.3): La degradazione delle plastiche in relazione alla composizione e struttura molecolare dei polimeri componenti [1-23] Nel caso dei polimeri il termine degradazione è usato per indicare un insieme di processi che comportano non solo la demolizione delle catene macromolecolari ma anche modificazioni chimiche di varia natura ed entità che determinano comunque rilevanti effetti sulle proprietà fisicomeccaniche del materiale [1]. La degradazione delle plastiche ha inizio già nel corso dei processi di trasformazione e lavorazione durante i quali sono sottoposti, alla presenza dell’ossigeno atmosferico e a temperature generalmente elevate, a forti sollecitazioni meccaniche. Inoltre c’è da osservare come i manufatti di plastica nel corso del loro ciclo di vita, riguardo alla loro funzione e tipologia d’impiego, sono esposti solitamente all’azione combinata della luce, dell’ossigeno e di vari agenti chimici inquinanti che determinano inevitabilmente fenomeni degradativi [1,2,3,4]. Fondamentalmente il deterioramento delle macromolecole in massa, secondo il fattore di degrado, è riconducibile alle seguenti tipologie: 1) Degradazione Termica e Termo-ossidazione (per azione combinata di calore e ossigeno); 2) Fotodegradazione e Foto-ossidazione (per effetto della luce naturale alla presenza di ossigeno); 3) Degradazione Chimica (indotta dall’azione aggressiva di acidi, basi, ozono, acqua, inquinanti ambientali, piogge acide, ecc.,) 4) Degradazione Meccanica (derivante dalle sollecitazioni meccaniche subite nel corso della lavorazione); 5) Biodegradazione (indotta da microrganismi). I processi di degradazione dei polimeri allo stato condensato, oltre che dal tipo di agente, dipendono dalla struttura del polimero (natura chimica delle unità ripetitive, peso molecolare, cristallinità, morfologia) e da grandezze quali: temperatura di transizione vetrosa, e temperatura di fusione. I fenomeni degenerativi determinano nella massa del polimero alcuni effetti (sintomi) la cui percezione permette di evidenziarne i segni. I più importanti sintomi della degradazione sono i seguenti: <--- Infragilimento dovuto alla diminuzione del peso molecolare e/o reticolazioni del polimero. --- Cambiamenti in superficie, come decolorazione, formazione di cricche e screpolature. --- Ingiallimento che potrebbe accadere con e senza cambiamenti delle proprietà meccaniche del polimero. L’ingiallimento dovuto alla formazione di gruppi carbonilici nella struttura polimerica> [1]. La complessità dei processi di degradazione delle plastiche è da mettere in relazione con il fatto che i vari e molteplici meccanismi sono molto spesso indotti dall’azione concomitante e sinergica 100 di più agenti di degradazione e che oltre a ciò le reazioni chimiche avvengono allo stato condensato e in sistemi eterogenei [1]. Inoltre c’è da tenere presente che le plastiche sono dei sistemi compositi a più di un componente, vista la presenza di additivi e riempitivi di varia natura e funzione (stabilizzanti, antiossidanti, plastificanti, lubrificanti, ritardanti di fiamma e molti altri) e che questi agenti possono interferire con i meccanismi di degrado. La degradazione dei polimeri avviene inevitabilmente attraverso una serie di reazioni il cui chimismo e i cui meccanismi sono molto spesso molto complessi e di non facile interpretazione a livello molecolare. FIGURA 1: Schema delle possibili modificazioni chimiche che interessano le macromolecole di un materiale polimerico sottoposto all’azione di uno o più fattori di degrado: Dall’alto verso il basso: ʊ rottura statistica delle catene (depolimerizzazione); ʊ reticolazione; ʊ modificazione dei gruppi laterali; ʊ eliminazione dei gruppi laterali; ʊ ciclizzazione dei gruppi laterali [6]. 101 Le principali modificazioni chimiche indotte sulle macromolecole di un polimero da un generico fattore di degrado sono sotto elencate: 1) Rottura dei legami della catena con diminuzione della lunghezza media delle catene (processo di depolimerizzazione che in alcuni casi porta alla formazione di sole unità monomeriche) e conseguente progressivo scadimento delle proprietà meccaniche (in particolare l’allungamento e la resistenza a rottura) [5]. 2) Reticolazione; 3) Modificazione dei gruppi laterali; 4) Eliminazione dei gruppi laterali; 5) Ciclizzazione dei gruppi laterali (vedesi figura 1) [6]. La degradazione si manifesta nei polimeri attraverso un decadimento progressivo e irreversibile delle proprietà (termiche, meccaniche, ottiche, elettriche, ecc.). Il grafico della figura 2 mostra, infatti, come una riduzione del peso molecolare, nel caso di un generico polimero, determina il decadimento della tenacità [6]. FIGURA 2: La tenacità di un polimero (G1c) diminuisce al diminuire della massa molecolare Mw[6]. Qui di seguito relativamente, ai processi degradativi illustrati nella figura 1, sono riportati alcuni casi di degradazione osservati e studiati in polimeri impiegati, sia nella fabbricazione, sia come consolidanti e protettivi di opere d’interesse artistico e culturale. 102 REAZIONI DI DEPOLIMERIZZAZIONE ---La depolimerizzazione termica di polimeri poliolefinici a struttura molecolare ņCH2ņCHXņ I polimeri vinilici, a forma generale ņCH2ņCHXņ (dove con X s’intende un sostituente laterale, ad esempio un atomo di cloro, un radicale alchilico o arilico, un gruppo -C-OOCH3 e altri), per effetto della temperatura possono subire un processo di depolimerizzazione che come mostrato in figura 3 determina la demolizione progressiva della macromolecola attraverso la rottura sistematica dei legami intra catena, CņC, e che quindi porta alla formazione dei corrispondenti monomeri olefinici CH2őCHX [12]. FIGURA 3: Schema della reazione omolitica di depolimerizzazione termica di polimeri poliolefinici a struttura molecolare ņCH2ņCHXņ, che porta alla formazione di monomeri CH2őCHX. Sopra, la fase d’iniziazione che comporta la formazione di specie radicaliche. Sotto, la fase di propagazione che conduce alla formazione di monomeri, secondo un meccanismo detto di “unzipping” (tipo apertura di una chiusura lampo) o depropagazione [12]. FIGURA 4: Reazioni di terminazione di un processo di depolimerizzazione termica di polimeri vinilici del tipo ņCH2ņCHXņ. Sopra, terminazione per accoppiamento di due specie radicaliche. Sotto, terminazione per disproporzione di radicali [12]. 103 In alcuni polimeri la depolimerizzazione si completa con la produzione di monomero al 100%. In altri la depolimerizzazione s’interrompe a causa delle reazioni di terminazione descritte in figura 4 [12]. In questi casi la percentuale di monomero prodotto, secondo i meccanismi di degradazione che prevalgono, è inferiore al 100%. Alcuni esempi di depolimerizzazione di polimeri a seguito di fenomeni degradativi sono qui di seguito illustrati. ---La depolimerizzazione del Polimetilmetacrilato (PMMA) La degradazione termica, in assenza di ossigeno (termodegradazione) del PMMA avviene prevalentemente attraverso il meccanismo di depolimerizzazione, detto di “unzipping” o depropagazione. Il processo globale di degradazione termica del PMMA, schematicamente illustrato nella figura 5, determina la formazione di sole unità monomeriche; la reazione ha una resa in metilmetacrilato (MMA) del 100% [10,13]. a) Prima del riscaldamento b) fase iniziale, omolisi c) fase di propagazione con produzione del monomero FIGURA 5: Degradazione termica del polimetilmetacrilato, PMMA. a) La struttura del PMMA prima dell’inizio della reazione di depolimerizzazione. b) Reazione di omolisi con rottura di un legame C-C e formazione di due specie radicali. c) Reazione di depropagazione che porta alla formazione di unità monomeriche [10]. 104 Il PMMA, per effetto dell’azione della luce solare e alla presenza di ossigeno (foto-ossidazione), insieme con altri percorsi degradativi, si caratterizza, anche, per reazioni che portano alla depolimerizzazione delle macromolecole causata dalla rottura omolitica dei legami C-C intra-catena (vedesi schema in figura 6) [18]. FIGURA 6: Schema della reazione di depolimerizzazione Foto-ossidativa del PMMA che porta alla scissione, casuale. omolitica, dei legami C-C intra-catena [18]. --- La depolimerizzazione termica del Polistirene (PS), Polipropilene (PP) e Polietilene (PE) In questi polimeri la reazione di depolimerizzazione termica della catena avviene prevalentemente secondo un meccanismo di “chain transfer” in base al quale un atomo d’idrogeno è estratto e quindi trasferito (vedesi meccanismo, semplificato, in figura 7) [12]. Nel caso del polistirene la degradazione termica porta a una resa in monomero del 42%; contemporaneamente si forma una miscela di prodotti saturi e insaturi, tra i quali dimeri e trimeri [14,15]. FIGURA 7: La depolimerizzazione del polietilene mediante un meccanismo di trasferimento di catena di un atomo d’idrogeno (schematico). Simile meccanismo vale anche per il polipropilene e il polistirene[12]. FIGURA 8: Reazione di depolimerizzazione termica dei poliuretani. Si formano molecole dei monomeri di partenza, isocianati e glicoli [12]. 105 --- La depolimerizzazione termica dei Poliuretani, Poliammidi, Poliesteri e Polisilossani Nel caso dei poliuretani (PU) i gruppi funzionali sono intra-catena. Pertanto il meccanismo di degradazione termica e termo ossidativa dipende dalla natura chimica di questi gruppi. In generale il calore produce una depolimerizzazione con formazione dei monomeri di partenza (glicoli e isocianati) (figura 8) [12]. FIGURA 9: Reazione di depolimerizzazione termica delle poliammidi, sopra, e dei poliesteri, sotto. Si assiste alla rottura dei legami ammidici ed esteri mediante un meccanismo di trasferimento d’idrogeni [16]. Nelle poliammidi e nei poliesteri la degradazione termica accade attraverso il meccanismo di trasferimento d’idrogeni che, come schematicamente illustrato in figura 9, provoca la rottura dei legami ammidici ed esteri e conduce a frammenti di macromolecole a minore peso molecolare [12]. Nel caso dei polisilossani la depolimerizzazione causata dal calore determina la formazione di monomeri ciclici e frammenti oligomerici (figura 10) [12]. FIGURA 10: Il meccanismo di depolimerizzazione termica dei polisilossani [9] 106 --- La depolimerizzazione foto-ossidativa dei Poliuretani (PU) La foto-ossidazione causa nei PU ingiallimento, la formazione di reticolazioni e una notevole riduzione nelle proprietà meccaniche. I materiali diventano sempre più fragili al crescere del tempo di esposizione alle radiazioni solari alla presenza di ossigeno. Il comportamento alla foto-ossidazione dei PU dipende dalla loro struttura chimica. In particolare è stato possibile dimostrare che la stabilità, a parità di ogni altra condizione, è maggiore nei PU a base di esametilene diisocianato. Al contrario è minore quando come d’isocianato è usata la difenilammina diisocianato. Un comportamento intermedio è osservato nel caso di PU a base di toluene diisocianato [3]. Inoltre si osserva che i PU a base poliestere sono più stabili di quelli a base polietere e ancora più stabili rispetto a quelli a base politioetere (vedesi scala di stabilità qui di seguito mostrata). PU-esametilene diisocianato > PU-toluene diisocianato > difenilammina diisocianato PU-poliestere> PU-polietere > PU-politioetere Stabilità crescente Nel caso di PU con una componente aromatica (Ar) la scissione delle catene avviene preferenzialmente nei legami N-C e C-O dei gruppi uretanici con formazione di catene aventi un terminale radicalico (vedesi schema sotto riportato). --- La depolimerizzazione chimica indotta dall’esposizione all’ozono in polimeri con doppi legami in catena L’ozono (O3) ha la capacità di legarsi ai doppi legami C=C presenti lungo la macromolecola di un polimero determinandone la rottura secondo il seguente meccanismo: 107 --- La depolimerizzazione per idrolisi della cellulosa La cellulosa, il componente principale di tutte le fibre di origine vegetali (lana, cotone, juta, canapa, ecc.), è un polisaccaride naturale costituito da unità glucosidiche unite tra loro attraverso un legame ȕ(1ĺ4) glicosidico. Nella rappresentazione della figura 11 tutti gli atomi giacciono in un piano. Nella realtà le unità di glucosio assumono una conformazione a sedia. Le unità adiacenti di glucosio si succedono in catena eseguendo una rotazione di 180° intorno al legame C-O. Da questo scaturisce che l’unità ripetitiva è costituita da due unità glucosidiche a struttura cellobiosica (figura 11, sotto). Soluzioni diluite di acidi hanno la capacità di diffondere nelle regioni amorfe delle fibre cellulosiche causando una reazione d’idrolisi che porta alla rottura dei legami ȕ glucosidici di natura etere. Attraverso questa reazione si formano residui cellulosici a più basso peso molecolare. Con il procedere della reazione si osserva una progressiva riduzione del grado di polimerizzazione. Lo schema della reazione d’idrolisi della cellulosa è illustrato nella figura 12. FIGURA 11: Struttura molecolare della cellulosa (sopra in figura) e della corrispondente unità ripetitiva (sotto in figura), vedesi testo. 108 FIGURA 12: Schema delle reazioni attive nell’idrolisi acida della cellulosa. Lo ione H+ rompe il legame etere-glucosidico (I in figura); si forma un residuo cellulosico ione carbonio terminato e un residuo con un OH terminale ( II in figura). Il residuo ione-terminato reagisce con acqua formando un frammento molecolare, OH-terminato (III in figura). REAZIONI CHE COINVOLGONO I SOSTITUENTI LATERALI A seguito di queste reazioni le macromolecole conservano la loro lunghezza ma la costituzione chimica subisce una variazione. I gruppi laterali in alcuni casi sono eliminati dando luogo alla formazione di derivati a basso peso molecolare in altri danno luogo alla formazione di cicli legati alle macromolecole di partenza (vedesi schema in figura 1). ŹEsempi di reazioni di eliminazione dei grupi laterali --- De-idroclorurazione del Polivinilcloruro (PVC) e deacetilazione del Polivinilacetato (PVAc) Reazioni di eliminazione dei gruppi laterali, causate dal calore, sono state certificate nel caso del polivinil cloruro (PVC) e del polivinil acetato (PVAC, vedesi struttura in figura 13). Infatti, questi due polimeri a temperature relativamente elevate danno luogo a reazioni che portano all’eliminazione, rispettivamente, di una molecola di acido cloridrico, HCl, (reazione di deidroclorurazione) e una di acido acetico CH3-COOH (reazione di de-acetilazione) ( figura 14). H C CH H O O C CH H C H O O CH3 C CH3 FIGURA 13: Struttura molecolare del PVAC 109 FIGURA 14: Schemi dei processi di degradazione termica del PVC e del PVAC che portano alla eliminazione dei sostituenti laterali con formazione, rispettivamente, di acido cloridrico e acido acetico [10]. Come si evince dagli schemi in figura 14 l’eliminazione di HCl e di CH3-COOH determina la formazione di un doppio legame che rende instabile l’unita ripetitiva limitrofa permettendo così alla reazione di proseguire. La fine della reazione vede la formazione di macromolecole di natura polienica, caratterizzate dal fatto che doppi legami in catena (C=C) s’intervallano con legami semplici C–C (vedesi figura 14, sotto) [7,8]. La presenza di questo tipo di macromolecole coniugate rende conto dell’effetto di scolorimento che si osserva nei materiali a base di PVC e PVCA esposti alle alte temperature. Quando il PVC è esposto all’azione della luce solare, subisce un appariscente processo d’ingiallimento divenendo fragile. In letteratura è riportato che questi fenomeni sono dovuti alla formazione di lunghe sequenze, in catena, di polieni coniugati. Queste sequenze derivano dal fatto che anche la foto-ossidazione determina una reazione di deidroclorinazione secondo lo schema semplificato riportato nella figura 14 [19]. Per contrastare questo processo sono impiegati appropriati additivi stabilizzanti al calore e alla luce [9]. ŹEsempi di reazioni di ciclizzazione dei gruppi laterali --- Acido poliacrilico e Poliacrilonitrile In polimeri con gruppi carbossilici, –COOH, pendenti lungo la catena macromolecolare, la permanenza a elevate temperature può determinare una reazione che porta alla ciclizzazione dei gruppi laterali. In figura 15 il fenomeno è evidenziato nel caso dell’acido poliacrilico e del poliacrilonitrile [9]. 110 FIGURA 15: Esempi di reazioni, indotte dalla permanenza ad elevate temperature, che portano alla ciclizzazione dei gruppi laterali. Sopra, ciclizzazione dei gruppi carbossilici nell’acido poliacrilico. Sotto, caso del poliacrilonitrile dove si osserva la ciclizzazione dei gruppi nitrili [12]. REAZIONI CHE PORTANO A PROCESSI DI RETICOLAZIONE NEI POLIMERI --- Polistirene (PS) Lo schema che illustra il chimismo del processo di foto-degradazione chimica del polistirene, che conduce allo sviluppo d’idrogeno e alla formazione di reticolazioni, è schematicamente descritto in figura 16 [12,4]. Alla presenza di ossigeno e di radiazioni UV il polistirene ingiallisce e quindi diviene fragile perdendo molte delle sue caratteristiche chimiche, fisiche, ottiche e meccaniche. Nella tabella 1, di seguito mostrata, sono indicate, per una serie di polimeri, le principali cause di degradazione [5]. 111 FIGURA 16: Lo schema che illustra il chimismo del processo di degradazione fotochimica del polistirene che porta allo sviluppo di idrogeno e alla formazione di reticolazioni [12]. TABELLA 1: Le principali cause di degradazione di alcuni polimeri. 112 DEGRADAZIONE AD OPERA DI ORGANISMI BIOLOGICI In alcuni manufatti di plastica è stata osservata la presenza di funghi, muffe e batteri che determinano, in maniera diretta o indiretta, dei significativi processi degradativi. Nelle foto riportate nella figura 17 è documentata la presenza di attacco biologico nel caso di un manufatto, realizzato in poliuretano espanso da Piero Gilardi, denominato: Orto. FIGURA 17: Sopra-sinistra, Orto di Piero Girardi, opera in poliuretano espanso (PLART, Napoli). Sopra-destra, particolare con evidenza di attacco biologico. Sotto, micrografia elettronica in scansione da cui traspare la presenza, in superficie, di ife fungine. [Tesi di laurea di Deborah Favero, Piero Girardi, I Polimeri nell’Arte, Relatore, Ezio Martuscelli, Univ. Suor Orsola Benincasa, Napoli, Anno Accad. 2012-2013]. 113 RIFERIMENTI 1) N. Dintcheva <Degradazione e Stabilizzazione dei Polimeri> pdf 2) E. 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Sopra-sinistra: Carta da filtro costituita da sole fibre di cellulosa. Sopra-destra: Carta di giornale composta di fibre cellulosiche e cariche inorganiche inerti usate come riempitivi. Sotto: Carta di libro a stampa, fatta di fibre cellulosiche, cariche inerti, colle e inchiostri [1]. 115 I principali componenti della carta sono: - Le Fibre Cellulosiche (includono anche le sostanze a esse associate: lignine, emicellulose e pectine) - Le Cariche (minerali in polvere: talco, marmo e caolino) - I Collanti (naturali, di origine animale o vegetale, oppure di natura sintetica) - I Pigmenti, i Coloranti e gli Inchiostri. Le proprietà della carta dipendono dalla purezza delle fibre cellulosiche, dal processo di lavorazione, dalle caratteristiche chimiche e fisiche dei molteplici additivi che devono essere aggiunti alla pasta cellulosica affinché il prodotto finale possa soddisfare i requisiti richiesti. Le caratteristiche, l’origine e la funzione dei vari componenti della carta sono qui di seguito messe in evidenza. Ɣ Le Fibre Cellulosiche, La componente cellulosica è ottenuta attraverso un processo di disgregazione (meccanica o chimica) di stracci di tessuti, di fibre vegetali (canapa, lino, cotone, ecc.) e di polpa di legno. La strutturazione delle fibre cellulosiche, a livello molecolare e supermolecolare è stata già prima decritta. Le fibre vegetali sono delle cellule assottigliate alle estremità le cui pareti sono costituite da strati con diverso orientamento di fibrille elementari di natura cellulosica. Queste cellule una volta mature muoiono e seccano. La morfologia di fibre mature di cotone e lino è mostrata in figura 2 [2,3,4]. Sono in questo stato che le fibre vegetali sono filate, colorate e tessute. FIGURA 2: Micrografie elettroniche in scansione di fibre cellulosiche mature. Sopra, sinistra: Vista longitudinale di una fibra di cotone con il tipico fenomeno di convoluzione. Sopra, destra: Visione trasversale con il lumen centrale [2]. Sotto: Fibre di lino con la loro particolare morfologia a nodi e con le estremità a becco di flauto (foto a destra) [3,4]. 116 Le fibre cellulosiche oltre che nelle piante di cotone, lino, canapa, juta, ecc., sono presenti anche nelle cellule del legno la cui struttura è rappresentata in figura 3 [5]: FIGURA 3: Rappresentazione schematica della struttura di una tipica cellula del legno. La lamella di mezzo (middle), essenzialmente costituita da lignina, forma lo strato esterno intorno alla parte primaria. La parete secondaria è fatta di tre strati, esterno (S1), centrale (S2), interno (S3). Ognuno di questi strati è costituito di singole lamelle di fibre cellulosiche orientate secondo un’orientazione parallela. La direzione varia da strato a strato [5]. Material Cotone Ramie Canapa Juta Legno da piante caduche Legno conifero Steli di granturco Paglia di frumento Cellulose( % ) 98 86 65 58 41-42 41-44 43 42 TABELLA-1: Percentuale di cellulosa presente in materiali usati nella fabbricazione della carta [6]. 117 Dai dati riportati nella tabella 1, si evince come il contenuto di cellulosa, da cui traggono origine le caratteristiche applicative della carta, dipende fortemente dal tipo di materiale di partenza usato nella preparazione della polpa cellulosica (ad es. le fibre di cotone hanno un’elevatissima % di cellulosa, mentre il legno ha un contenuto in cellulosa minore, § 40%) [6]. In generale le carte a più alto pregio, sono quelle a maggiore contenuto di cellulosa. Ɣ Le Cariche Sin dal XII secolo i fabbricanti di carta usavano aggiungere alle paste cellulosiche cariche minerali allo scopo di migliorare le caratteristiche della carta e rendere i fogli più idonei a essere scritti e colorati (evitando ai solventi degli inchiostri di migrare verso l’interno) e più leggibili i caratteri e le immagini. In particolare la presenza di cariche permette di ottenere fogli più: ---bianchi, ---pesanti, ---compatti e meno porosi. Tra le sostanze comunemente usate come cariche rientrano: il caolino, il carbonato di calcio, il solfato di bario, il solfato di piombo, la silice e gli ossidi di titanio [7,8]. ƔColle e Adesivi Le colle hanno la funzione di ridurre la capacità di assorbire acqua e altri liquidi evitando anche agli inchiostri di espandersi sulla superficie dei fogli di carta. Inizialmente erano usati prodotti naturali di origine vegetale o animale (ad es., derivati dell’amido oppure gelatine ricavate dal “carniccio” della pelle di animali). Nel diciottesimo secolo la gelatina fu sostituita, come collante, dalla colofonia, una resina di origine vegetale. Al fine di migliorare l’idrorepellenza e aumentare l’adesione interfibrillare, alla gelatina era aggiunta anche una certa % di allume (solfato idrato di potassio e alluminio, [Al2(SO4)3·K2SO4·24H2O]). Sostanze adesive (amido di mais, destrine e gomme naturali) sono usate per migliorare la dispersione omogenea delle cariche nel materiale di base. In seguito adesivi sintetici (poliacrilammide, carbossimetilcellulosa, e altri) hanno progressivamente sostituito quelli naturali. ƔInchiostri Gli inchiostri sono costituiti da pigmenti, coloranti, leganti e resine, dispersi in un liquido di trasporto (spesso acqua). Altri additivi comprendono: agenti tamponi, per controllare il pH; resine per implementare la resilienza; umettanti, per prevenire l’evaporazione; fungicidi, surfactanti e biocidi [9]. Tra gli inchiostri neri grande diffusione hanno avuto, in un passato relativamente recente, quelli a base di carbone e quelli comunemente denominati “galli tannici”. Questi ultimi sono anche noti per la loro capacità, negativa, di indurre fenomeni di degradazione chimica al supporto cartaceo, e questo a causa della loro particolare composizione e reattività dei componenti. I principali ingredienti su cui si basava la preparazione di un tradizionale inchiostro ferro-gallo tannico, erano i seguenti: Noce di galla; Sali solubili (FeSO4 e CuSO4); Sostanze acide (acido acetico); Gomma arabica; Acqua. 118 Le noci di galla sono escrescenze lignee che si vanno a formare sui rami giovani di alberi, quali la quercia (figura 4). FIGURA 4: Noci di galla della quercia. FIGURA 5: Struttura molecolare del gallotannino (sinistra) e schema d’idrolisi che porta all’ottenimento di acido gallico [10 ]. Le noci di galla sono ricche in gallotannini, sostanze che per idrolisi producono acido gallico (figura 5) [10]. Nella molecola dell’acido gallico (acido 3,4,5-triidrossibenzoico, C6H2(OH)3COOH), sono presenti gruppi funzionali idrossilici e carbossilici (figura 5, a destra). La gomma arabica (una complessa miscela di carboidrati e glicoproteine) è una sostanza resinosa che si ricava da alberi di origine sub-sahariana, appartenenti alla specie delle acacie (Acacia senegal e Acacia seyal). La resina è raccolta facendo delle incisioni nella corteccia degli alberi (figura 6) [11]. La gomma arabica ha la funzione di addensante e stabilizzante della miscela. 119 I principali processi chimici che avvengono nel corso della preparazione di un inchiostro ferrogallico (Kretel,1999) sono i seguenti: 1 ) L’acido gallico reagendo con FeSO4 forma il gallato ferroso, un sale, incolore, solubile in acqua. 2 ) Questo sale alla presenza di ossigeno atmosferico si trasforma nel pirogallato ferrico, un composto complesso, di colore nero-violetto, insolubile in acqua. 3) Le interazioni tra sali di ferro, e acidi gallici e tannici libera ioni H+ che con ioni solfati in eccesso danno luogo alla formazione di molecole di acido solforico (H2SO4). FIGURA 6: La gomma arabica trasuda spontaneamente dal tronco e dai rami delle acacie. Il flusso della resina viene stimolato attraverso appropriate incisioni nella corteccia [11]. Lo schema di alcune delle più significative reazioni che avvengono nella preparazione dell’inchiostro ferro-gallico sono mostrate nella figura 7 [11]. E’ stato ampiamente documentato che gli inchiostri ferro-gallici sono corrosivi e determinano profondi processi di degradazione nei documenti cartacei. Questi processi sembrano essere dovuti al fatto che i componenti gli inchiostri attivino due processi degradativi: ---L’idrolisi acida della cellulosa; ---L’ossidazione della cellulosa catalizzata dalla presenza di ioni Ferro++. A seguito di questi fenomeni documenti e pagine di libri diventano fragili; inoltre si osserva l’evanescenza dello scritto specialmente se il manufatto è esposto all’azione della luce solare e all’ossigeno ambientale [12]. 120 FIGURA 7: Alcune delle reazioni che secondo Kretel sono alla base della preparazione di inchiostri ferro-gallici, vedesi testo [11]. Inchiostri neri a base di carbone erano preparati mescolando opportunamente i seguenti ingredienti: -Acqua; -Nerofumo o fuliggine; -Gomma arabica [12,13]. Gli inchiostri al carbone sono chimicamente molto più stabili di quelli ferrogallici. Pertanto non danno luogo a fenomeni di degradazione interna nei confronti del supporto cartaceo. Inoltre essi sono resistenti all’azione dell’ossigeno atmosferico e alla luce. Questi inchiostri presentano, però l’inconveniente di essere poco resistenti all’acqua che, formando una miscela ne determina il dilavamento. Pertanto documenti scritti con questi inchiostri devono essere conservati in atmosfera a basso contenuto di umidità [1]. Ɣ I processi di produzione della carta Si parte dalla preparazione della pasta o impasto (una miscela acquosa che contiene tutti gli ingredienti, fibre cellulosiche e additivi vari). Secondo la loro origine e composizione le paste si dividono in: ---Pasta meccanica o pasta di legno Si ottiene direttamente, attraverso procedure meccaniche, dal legno e da scarti della sua lavorazione (trucioli, segatura, ecc.). Pertanto le fibre cellulosiche non sono separate dalla lignina e dalle altre sostanze presenti nel legno (emicellulose, ecc.). Le carte preparate con questa pasta sono caratterizzate da fibre corte che per la loro impurezza tendono a ingiallire se esposte all’aria. ---Pasta chimica o pasta di cellulosa È ricavata da legno, paglia, canne e altri vegetali i quali dopo disgregazione sono trattati chimicamente, in ebollizione in acqua, con sostanze tipo soda o bisolfito di calcio. Attraverso questa procedura chimica le fibre di cellulosa sono separate dalla lignina e altre sostanze indesiderate. 121 ---Pasta di stracci I prodotti di partenza (stracci di cotone, lino e canapa) derivano dal recupero e riciclo di scarti della lavorazione dei tessuti. ---Pasta di cartaccia Si ottiene da riciclo della carta straccia, in particolare quella dei giornali che per essere utilizzata deve essere sbiancata al fine di eliminare gli inchiostri. Generalmente a questa pasta si aggiunge una certa quantità di pasta di legno. FIGURA 8: Schema del processo in continuo usato nelle cartiere moderne per la produzione della carta in rotoli [14]. Tra tutte le paste la più pura e pregiata è quella chimica che è utilizzata nella produzione di libri e documenti di valore [14]. Alle paste sono aggiunti i vari additivi, la cui natura e % varia in relazione alla funzione d’uso finale cui la carta è destinata. La pasta cellulosica, opportunamente formulata, è, attualmente, trasformata in rotoli attraverso un processo in continuo schematicamente descritto nella figura 8 [14]. 122 Nella stampa, riprodotta in figura 9, sono evidenziate le tecnologie di produzione della carta seguite fin dall’XI secolo a Fabriano. Questa città divenne celebre nel mondo proprio per la qualità della carta che vi si produceva. FIGURA 9: Stampa dove viene raffigurata l’organizzazione del lavoro in un’antica cartiera di Fabriano [15]. Capitolo –E.-2): Stabilità e degradazione dei manufatti cartacei I fattori di degrado della carta possono essere di natura esogena (temperatura, umidità, ossigeno, luce, inquinanti chimici ambientali, insetti, funghi e batteri) oppure endogena, dovuti, questi ultimi alla presenza nel substrato cartaceo di: -ioni metallici, -sostanze acide, -lignina, -prodotti vari connessi ai processi di lavorazione, -materiali usati per la scrittura, stampa e colorazione (inchiostri, coloranti o pigmenti, colle, ecc.) [1]. Molto spesso è stato riscontrato come la degradazione della carta è la conseguenza dell’azione combinata e sinergica di più fattori di natura diversa. 123 I fattori endogeni sono essenzialmente collegati ai processi di fabbricazione della carta e sono da ascrivere: - All’impiego di stracci colorati sbiancati con cloro; - All’uso di polpa di legno ad alto contenuto di lignina; - Alla frammentazione delle fibre a seguito di disgregazione meccanica; - A procedure che utilizzano un ambiente acido; - Alla sostituzione della gelatina, come agente d’ispessimento, con la colofonia e allume; - All’utilizzo d’inchiostri ferro-gallici [16,17,18]. La presenza di acidità all’interno del substrato cartaceo causa l’idrolisi acida della cellulosa che porta alla rottura dei legami 1ĺ4 ȕ tra unità di glucosidiche (vedesi figura 10) [18]. FIGURE 8: Reazione d’idrolisi della cellulosa che causa la rottura del legame 1ĺ4 ȕ tra unità glucosidiche [18]. E’ stato ampiamente documentato che la presenza di un’alta % di lignina nelle paste cellulosiche rappresenta la maggiore fonte di degradazione della carta. Le ragioni di ciò sono da attribuire al fatto che la lignina è una sostanza con una complessa struttura molecolare (figura 9) caratterizzata dalla presenza di gruppi funzionali, reattivi, che interagiscono con gli altri componenti del legno, inclusa la cellulosa. La lignina in pratica esplica la funzione di una matrice amorfa idrofoba. Nella molecola della lignina sono presenti due gruppi cromofori (A e B in figura 9) che hanno la capacità di assorbire radiazioni UV. Questo processo porta alla formazione di radicali molto reattivi che facilitano il determinarsi di fenomeni di foto-ossidazione anche nei confronti della cellulosa [19,20]. Inoltre a seguito di degradazione la lignina produce residui acidi che possono indurre l’idrolisi acida della cellulosa. Quanto sopra spiega il perché la presenza di lignina nelle paste cellulosiche sia fonte di fenomeni di degrado che si manifestano attraverso scolorimento della carta e riduzione della resistenza agli stress meccanici. La corrosione interna della carta dovuta agli inchiostri ferro-gallici è da mettere in relazione con il fatto che attraverso complicati meccanismi questi inchiostri generano l’idrolisi acida della cellulosa e l’ossidazione delle sue catene, quest’ultima a causa della presenza di ioni Fe++. Come già scritto l’idrolisi acida della cellulosa, deriva, anche, dall’eccesso di acido solforico prodotto nel corso della preparazione degli inchiostri ferro-gallici [11]. Esempi di manufatti cartacei gravemente deteriorati a causa dell’azione di inchiostri ferro gallici sono mostrati nella figura 10 [11,8]. 124 FIGURE 9: Struttura molecolare della lignina, vedesi testo. FIGURA 10: Sinistra, antico codice musicale deteriorato per la presenza d’inchiostro ferro-gallico ad alta acidità. Destra, micrografia elettronica in scansione che evidenzia gli effetti degradativi causati da inchiostri ferro-gallici sulle fibre di cellulosa [11]. 125 Da quanto sopra è possibile concludere che gli inchiostri ferro-gallo-tannici sono l’origine di fenomeni di degradazione del supporto cartaceo connessi all’azione sinergica di meccanismi d’idrolisi acida e di ossidazione della cellulosa. I documenti cartacei scritti con inchiostro acido, ferro-gallico, devono essere, per le ragioni di cui sopra, stabilizzati. Una delle procedure prevede una prima fase che consiste nell’eliminazione degli ioni Fe+2 attraverso l’uso di una soluzione acquosa di acido fitico (figura 11) il quale è capace di disattivare questi ioni mediante una reazione chelante che porta alla formazione di un composto complesso [11]. In seguito si provvede alla de-acidificazione usando tamponi imbevuti di CaCO3 [11]. Va rilevato che queste operazioni non alterano il colore dell’inchiostro sul substrato cartaceo. I manufatti cartacei sono molto sensibili all’azione di fattori esogeni ambientali che in maniera cooperativa possono essere causa di danni molto rilevanti e spesso irreversibili. I fenomeni di degrado indotti da alcuni di questi fattori sono qui di seguito brevemente riportati. FIGURA 11: Struttura molecolare dell’acido fitico [11]. ---Umidità L’assorbimento di acqua, specialmente in ambienti con valori dell’umidità relativa (rh) > del 68%, determina nei documenti cartacei i seguenti fenomeni: --- rigonfiamento e distorsione delle fibre cellulosiche; ---aumento della velocità della degradazione indotta da acidità; ---produzione di macchie di ruggine in presenza di rilegature e fermagli metallici; I fenomeni sopra indicati subiscono un’accelerazione alla presenza di temperature ambientali elevate. Pertanto le opere in carta dovrebbero essere conservate in ambienti con una temperatura che non dovrebbe superare i 20°C. ---Ossigeno e luce; foto-ossidazione L’azione combinata della luce (in particolare le radiazioni ultraviolette) e l’ossigeno ambientale, induce una serie di reazioni di foto-ossidazione che secondo le condizioni possono determinare: 1) La modificazione chimica dei gruppi funzionali che si succedono lungo le catene cellulosiche; 126 2) La scissione dei legami intra-catena con formazione di residui di macromolecole a più basso peso molecolare e quindi a minore grado di polimerizzazione. Lo schema di una possibile reazione di foto-ossidazione che porta alla rottura delle catene cellulosiche è mostrato nella figura 12 [21]. FIGURA 12: Esempio di reazione di ossidazione che porta alla rottura delle catene cellulosiche con riduzione del grado di polimerizzazione (DP) La reazione causa la rottura del legame glucosidico tra due unità adiacenti [21]. Le reazioni di foto ossidazione causano la formazione di gruppi cromofori (aldeidi, carbossili, ketoni) che originano fenomeni d’ingiallimento nel substrato cartaceo con l’evanescenza dello scritto. Esempi di degrado indotto da fenomeni di foto-ossidazione in manufatti cartacei sono mostrati nella figura 13 [3,8]. I manufatti cartacei, specialmente se esposti o conservati in ambienti umidi, sporchi e polverosi, e a temperature relativamente elevate, sono molto sensibili agli attacchi degradativi da parte di agenti biologici. Le muffe, funghi e batteri, attraverso complessi meccanismi, hanno la capacità di degradare e assimilare la cellulosa delle fibre. La resistenza alla biodegradazione dipende dalla natura e struttura delle fibre vegetali e dalla presenza di sostanze quali la lignina. In particolare i seguenti fattori strutturali influenzano fortemente la velocità della reazione di biodegradabilità delle fibre cellulosiche: ---grado di polimerizzazione; ---grado di cristallinità; ---grado di orientazione delle macromolecole; ---presenza di legami inter/intra molecolari. Micrografie elettroniche in scansione che documentano l’attacco fungino su antiche fibre di lino, sono mostrate in figura 14 [22]. 127 FIGURA 13: Copertine di libri con chiari sintomi di danni causati da foto-ossidazione (evanescenza dei colori, scoloramento e ingiallimento) [3,8]. FIGURA 14: Micrografie elettroniche in scansione che documentano l’attacco fungino su antiche fibre di lino. Sinistra, fibre con vuoti causati dalla penetrazione delle ife in corrispondenza dei nodi. Destra, evidenza di crescita di spore fungine [22]. I sintomi della biodegradazione (danni strutturali e cromatici) osservati sulla pagina di un libro sono documentati attraverso la foto in figura 15 [23]. Insetti e roditori sono attratti non solo dalla cellulosa ma anche dalle proteine, carboidrati e altre sostanze organiche contenute nelle colle, gelatina e altri additivi della carta e anche dal cuoio di libri rilegati (vedesi figura 16). 128 FIGURA 15: Pagina di un libro con evidenze di danni strutturali e cromatici derivanti da attacchi di muffe e funghi [23]. FIGURE 16: Sinistra, il Nicobium castaneum, insetto infestante, noto come il verme delle biblioteche. Destra, tipologie di danni causati dall’insetto di cui sopra [24]. 129 RIFERIMENTI 1) E. Martuscelli, F. Tolve, <Works on Paper: Prevention of Degradation>, Edited by CNRMediterranean and Middle East (Papertech-Project-6FP-EU), (2007). 2) http://msa.ars.usda.gov./la/srrc/cotton/cotupc.html (2003). 3) E. Martuscelli, personal archive. 4) E. Martuscelli et Al., <Natura, origine e tecnologie di lavorazione delle fibre naturali tessili rinvenuti a Bakchias nel 1997>, in Bakchias VI, monografie di SEAP (1998). 5) A J. 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Il consolidamento è un trattamento diretto (prevede interventi sulle parti dell’oggetto) finalizzato alla stabilizzazione del manufatto degradato ristabilendo un grado sufficiente di coesione in parti con una struttura portante compromessa. Generalmente i consolidanti manifestano la loro funzione attraverso un processo di penetrazione e impregnazione dei materiali da trattare [1]. Le tre diverse procedure di consolidamento, basate sull’impiego di formulazioni a base di polimeri sintetici, sono qui di seguito descritte. ƔProcedura da soluzione Questo metodo prevede le seguenti fasi: a) il polimero, preformato, è disciolto in un idoneo solvente; b) l’oggetto da trattare è messo a contatto con la soluzione contenente il polimero che lo impregna in profondità; d) il solvente è fatto evaporare permettendo al polimero di consolidarsi all’interno del manufatto. ƔProcedura da monomeri o prepolimeri liquidi, polimerizzabili Questa metodica è basata sulle seguenti operazioni: a) il manufatto è impregnato con monomeri o prepolimeri a basso peso molecolare, liquidi; b) mediante l’aggiunta di opportuni catalizzatori è fatta avvenire la polimerizzazione in situ; c) il polimero così formato solidifica all’interno del substrato da consolidare [1]. ƔProcedura dal fuso Prevede l’uso di polimeri termoplastici a bassa temperatura di fusione, massa molecolare viscosità. Un agente consolidante deve essere caratterizzato da: ---Compatibilità chimica e fisica con i materiali che costituiscono il manufatto da trattare. ---Fluidità sufficientemente alta (bassa viscosità), al momento dell’impiego, per penetrare in profondità all’interno del substrato e quindi impregnare le parti da stabilizzare. ---Capacità di solidificare rapidamente in situ aderendo alle superfici del materiale de-coeso. 132 La protezione è un trattamento diretto fondato sull’impiego di materiali, capaci di formare sulla superficie dei manufatti, già opportunamente consolidati, film sottili, trasparenti e semipermeabili, che in conformità a specifiche caratteristiche chimiche e fisiche abbiano la funzione di impedire successivi processi di degradazione mitigando l’azione dei fattori di deterioramento ambientali. In particolare a un agente di protezione si richiede: --- Stabilità chimica nei confronti degli agenti atmosferici e della luce (in particolare la luce UV); ---trasparenza e assenza di colore (non deve influenzare le caratteristiche cromatiche del manufatto); ---Permeabilità all’aria e al vapore d’acqua; ---Impermeabilità all’acqua allo stato liquido; ---Aderenza e compatibilità con il substrato consolidato; ---Insolubilità nell’acqua; ---Bassa volatilità. In linea di principio i trattamenti protettivi devono essere reversibili. Questo significa che l’agente protettivo impiegato deve essere solubile in solventi organici [1,2,3]. Un esempio d’intervento di consolidamento e protezione effettuato su un oggetto lapideo è mostrato nella figura 1 [4]. FIGURA 1: Consolidamento e protezione di un manufatto lapideo, una pietra tombale in marmo, Old Chapell Hill Cemetery, North Carolina USA. Sinistra, prima dell’intervento. Destra, dopo [4]. La validità di un trattamento di consolidamento e di protezione è generalmente stabilita, a priori, attraverso specifici test effettuati su campioni, in laboratorio. 133 Alcuni di questi test, messi in essere, nel caso di substrati lapidei, sono sotto descritti. a) profondità di penetrazione dei consolidanti Un buon consolidante deve penetrare all’interno della pietra da trattare. La profondità di penetrazione dipende dalle caratteristiche della pietra e dalle proprietà del consolidante. Il test consiste nel sezionare campioni cubici della pietra dopo il trattamento di consolidamento per evidenziare il livello di penetrazione dell’agente consolidante all’interno del campione (vedesi figura 2). FIGURA 2: Prove per valutare la profondità di penetrazione di un consolidante. Sinistra, pietra calcarea con bassa penetrazione. Destra pietra calcarea con alto grado di penetrazione dell’agente consolidante, vedonsi frecce [5]. b) Resistenza all’abrasione Con questo test l’effetto consolidante è misurato confrontando la perdita in peso, riscontrata, a seguito di abrasione superficiale indotta da una punta ruotante, in pietre trattate e tal quali (figura 3) [5]. c) Resistenza ai cicli gelo/disgelo Un altro importante test è quello attraverso cui è valutata la resistenza di campioni di pietra sottoposti a cicli gelo/disgelo. Dalla figura 4 emerge che le pietre trattate con opportuni agenti consolidanti resistono meglio ai cicli gelo/disgelo [5]. 134 FIGURA 3: Test di microabrasione; mette a confronto la perdita di peso per abrasione di pietre consolidate (sinistra) e non (destra) [5]. FIGURA 4: Campioni di pietre sottoposti a cicli gelo-disgelo. Effetto del trattamento consolidante: Le pietre trattate non si frantumano al contrario di quelle non trattate (vedesi frecce) [5]. 135 d) Idrorepellenza dei trattamenti protettivi Un trattamento protettivo deve creare una barriera nei confronti dell’acqua (specificatamente quella piovana) ma nello stesso tempo deve permettere la fuoriuscita dell’umidità interna, sotto forma di vapore, attraverso i pori che pertanto non devono essere ermeticamente occlusi. L’idrorepellenza è valutata mediante misure di angolo di contatto il cui valore come riportato in figura 5 permette di quantificare la bagnabilità di un liquido nei confronti di una superficie solida. Esempi di prove di bagnabilità sono illustrati nelle figure 6 e 7. FIGURA 5: L’angolo di contatto permette di valutare l’adesione (bagnabilità) di un liquido nei confronti di una superficie solida. Esso è definito come l’angolo (ࣄ) formato dall’interfaccia solido/liquido e dall’interfaccia liquido/vapore. Sinistra (a): ࣄ <90°, buona adesione tra il liquido e il solido; Destra: (b): ࣄ >90° il liquido non aderisce alla superficie solida. FIGURA 6, sinistra: Prova d’idrorepellenza effettuata su di un mattone trattato con un agente protettivo. Una goccia d’acqua depositata sulla superficie del mattone a destra, trattato con un agente protettivo, non bagna il manufatto. Al contrario il mattone non trattato è bagnato dall’acqua, assorbendola [5]. FIGURA 7, destra: L’acqua spruzzata su di una superficie trattata con un protettivo, non è assorbita (sinistra), mentre la parete non trattata (destra) assorbe totalmente l’acqua. 136 e) Resistenza all’azione di acidi (acid drop test) Questo test si esegue confrontando la capacità di resistenza all’azione di una goccia di una soluzione acquosa acido cloridrico di campioni di pietra trattati e non (vedesi figura 8). FIGURA 8: Test per valutare la resistenza all’azione di acidi di trattamenti protettivi di manufatti lapidei. Sinistra, pietra trattata, l’acido in sostanza non ha effetto corrosivo. Destra, pietra non trattata con chiare evidenze di corrosione [5]. CONSOLIDANTI E PROTETTIVI IMPOSTATI SU POLIMERI DI SINTESI Un esame della letteratura scientifica e tecnica porta alla conclusione che molti dei polimeri sintetici che trovano applicazione come consolidanti e/o protettivi nel campo della conservazione diretta dei beni culturali appartengono alle seguenti famiglie: Ź Poliesteri insaturi Ź Polimeri vinilici Ź Polimeri acrilici Ź Resine epossidiche Ź Resine siliconiche, poli-alchilalcossisilani Ź Poliuretani Ź Fluoropolimeri Ź Parilene Esempi d’impiego come adesivi, consolidanti o protettivi di sistemi polimerici appartenenti ad alcune delle famiglie sopra indicate, su substrati di varia natura e composizione chimica, sono qui di seguito riportati. 137 1) I POLIESTERI INSATURI La sintesi dei poliesteri insaturi prevede una prima fase, nel corso della quale è sintetizzato un precopolimero lineare a struttura poliestere. Lo schema della reazione di copolimerizzazione che porta a questo tipo di pre-polimero, da monomeri quali, un diolo alifatico (glicole etilenico o glicole propilenico), l’anidride maleica e l’anidride ftalica, è delineato in figura 9 [6]. FIGURA 9: La fase iniziale della sintesi dei poliesteri insaturi. Ottenimento di un pre-polimero lineare per copolimerizzazione dei tre monomeri: propilene glicole; anidride maleica e anidride ftalica. La struttura del pre-polimero è indicata in basso in figura [6]. Nella seconda fase il pre-polimero è disciolto in un solvente molto reattivo (con caratteristiche di monomero), generalmente lo stirene, alla presenza di un iniziatore, il perossido di butanone (la cui struttura molecolare è sotto mostrata). La struttura molecolare del 2-Butanone perossido. 138 L’iniziatore in opportune condizioni si decompone formando radicali liberi che innescano la reazione di reticolazione e di omopolimerizzazione dello stirene. Queste reazioni avvengono alla presenza di appropriati catalizzatori (ad es. il naftanato di cobalto) e di composti metallici che agiscono da acceleratori. Come si evince dallo schema riportato in figura 10, a seguito delle reazioni di cui sopra si viene a formare una struttura solida, tridimensionale, altamente reticolata con caratteristiche termoindurenti [6]. FIGURA 10: Rappresentazione schematica della struttura a reticolo tridimensionale di una resina poliestere insatura dopo la reazione di indurimento e di cura (vedesi testo) [6]. ---Applicazione dei poliesteri insaturi nella conservazione dei beni culturali ƔDipinti murali e mosaici Pannelli rigidi ottenuti attraverso l’impregnazione di fibre di vetro con resine insature prima dell’indurimento (sistemi compositi, comunemente noti come vetro-resine) sono usati nel risupporto di dipinti staccati dalla base originale. 139 <I dipinti murali, strappati, vengono oggi per lo più ricollocati con idonei adesivi su questo tipo di supporti…….Oltre alle pitture murali essi tornano utili alla risupportazione di mosaici staccati o anche per il trasporto di dipinti su tavola di grandi dimensioni> [7]. ƔMarmo, ceramiche e pietre Le resine poliestere, commercializzate come Sintolit (mastice bi componente, resina non indurita + induritore (Perossido di Benzoile al 3% in volume)), sono utilizzate per l'incollaggio e la stuccatura di marmo, ceramica e pietra in genere [8]. Una volta mescolato l’induritore con la resina il prodotto deve essere applicato entro 3 minuti sulla superficie, asciutta e pulita, del substrato. Il tempo d’indurimento varia dai 30 ai 60 minuti secondo la temperatura di esercizio [8]. Alcune resine poliesteri insature, opportunamente caricate con polveri di marmo colorate, pigmenti minerali o altri inerti, imitano alla perfezione qualunque tipo di marmo o superficie lapidea. 2) RESINE EPOSSIDICHE La sintesi e le proprietà delle resine epossidiche sono state già descritte in un capitolo precedente del presente volume. Le resine epossidiche di più ampio utilizzo sono quelle che si ottengono dalla condensazione di epicloridina e difenil propano (bisfenolo A). FIGURA 11-sinistra: Le resine epossidiche sono dei sistemi a due componenti; uno di natura oligomerica e il secondo capace di provocare la reazione di cura, denominato induritore. FIGURA 11-destra: Al momento dell’impiego i due componenti sono mescolati e reagendo danno luogo alla formazione di un materiale con caratteristiche termoindurenti. [http://pslc.ws/macrog/kidsmac/epoxy.htm]. Queste resine sono note con la sigla DGEBA (diglicidiletere di bisfenolo A). Dalla condensazione si ottiene un pre-polimero lineare liquido la cui viscosità aumenta con il peso molecolare. Quando a questo pre-polimero è aggiunto un agente di reticolazione o di cura, s’innesca una 140 reazione che porta alla formazione di un polimero reticolato a struttura tridimensionale, termoindurente, insolubile e resistente all’azione di basi, acidi e altri agenti chimici. Per la loro struttura chimica le resine epossidiche presentano un’elevata adesività nei confronti di substrati solidi polari quali metalli, vetri, ceramiche e lapidei [9]. Le resine epossidiche sono commercializzate nella forma di due componenti separati. Un componente contiene la resina di base, il pre-polimero oligomerico lineare, l’altro l'agente reticolante e induritore. Queste due sostanze sono mescolate in rapporto stechiometrico all’atto dell’impiego. La miscelazione attiva la reazione di reticolazioni che trasforma il pre-polimero liquido in un materiale solido termoindurente, vedesi figura 11. ---Applicazione delle resine epossidiche nella conservazione dei beni culturali ƔManufatti lapidei Un esempio di applicazione di resine epossidiche nel campo della conservazione di opere in pietra è illustrato attraverso la figura 12 che documenta il trattamento di pre-consolidamento, eseguito utilizzando la tecnica per iniezione, nel restauro del campanile della Chiesa romanica di S. Antonio a Pomarolo (TN) [10]. Quest’operazione, che permette il fissaggio e l’ancoraggio di frammenti in via di distacco o già staccati, è finalizzata al ristabilimento della coesione delle superfici maggiormente degradate [10,1]. FIGURA 12: Restauro del campanile della Chiesa romanica di S. Antonio a Pomarolo (TN) con iniezioni di resina epossidica [10]. 141 Resine epossidiche sono state anche impiegate con la tecnica della stuccatura nel restauro del portale della Chiesa dei Carmini a Venezia (2010, figura 13). Questo trattamento è così descritto nel riferimento [11]: <Siamo intervenuti, poi, con una serie di microstuccature in resina epossidica caricata con quarzite superventilata, in seguito coperte con una maltina intonata per colore alla pietra d’Istria, che andassero a chiudere le fessurazioni createsi perché luoghi di origine di possibili e pericolosi degradi> [11]. FIGURA 13: Il portale della Chiesa dei Carmini a Venezia per il cui restauro (2010) sono state utilizzate resine epossidiche, vedesi testo [11]. ƔManufatti di legno Nell’ambito del restauro di manufatti di legno le resine epossidiche, che hanno un’elevata capacità di penetrare nelle fibre, sono utilizzate nelle seguenti applicazioni: -- Incollaggi; -- recupero di travature; -- incollaggi strutturali [12]. Nella figura 14 è messo in evidenza una procedura finalizzata al rinforzo di travature mediante l’inserzione di barre in vetroresina in apposite scanalature. In seguito queste barre sono bloccate in questi alloggiamenti mediante l’impiego di resine epossidiche [12]. Questa tecnica è anche usata nel restauro conservativo dei mobili <per migliorare incollaggi….o per rinforzare massellature esigue sottoposte a sforzi, o per rinforzare legno amallorato per marcescenze o tarlature> [12]. 142 Resine epossidiche (Rutapox I-93/2 e I-93/1) sono state impiegate nel consolidamento di manufatti lignei. Per questa particolare applicazione sono state impiegate resine epossidiche il cui pre-polimero ha una bassa viscosità e basso peso molecolare al fine di permettere una profonda penetrazione all’interno delle parti deteriorate e indebolite [6]. FIGURA 14: Sinistra, scavo dell’alloggiamento delle barre. Destra, annegamento delle barre nella resina epossidica [12]. 3) RESINE ACRILICHE Le resine acriliche sono una famiglia di polimeri e copolimeri che si ottengono mediante polimerizzazione di monomeri acrilici o metacrilici (ad es. esteri etilici e metilici dell'acido acrilico e dell'acido metacrilico). Le resine acriliche che interessano dal punto di vista della conservazione di manufatti artistici fanno capo essenzialmente alla famiglia dei polialchilacrilati e a quella dei polialchilmetacrilati vedesi struttura molecolare in figura 15, dove R è un generico radicale organico. Una vasta gamma di resine acriliche, con caratteristiche chimiche fisiche e campi di applicazione diversi sono sintetizzate variando la natura chimica del sostituente R e sfruttando che monomeri acrilici con differente struttura chimica possono facilmente copolimerizzare tra loro. La struttura molecolare di alcune resine acriliche che si differenziano per la natura del radicale R è riportata nella figura 16-sopra. Dalla figura traspare come all'aumentare della lunghezza dell'alchile (gruppo pendente R) la temperatura di transizione vetrosa si abbassa sostanzialmente. La struttura di due resine acriliche ottenute per copolimerizzazione di monomeri acrilici diversi è rappresentata nella figura 16-sotto. 143 FIGURA 15: Struttura molecolare delle unità ripetitive dei poli(alchil acrilati) (sinistra), e dei poli(alchil metacrilati) (destra). R rappresenta un generico radicale organico [6,1]. FIGURA 16: Struttura molecolare di alcune resine acriliche. Sopra, resine che si differenziano per la natura del radicale R. Sotto, resine ottenute per copolimerizzazione di monomeri acrilici diversi. Sotto-sinistra, il copolimero metilmetacrilato/n-butilmetacrilato. Sotto-destra, il copolimero metilmetacrilato/etilmetacrilato. 144 Da quanto sopra riportato, si ricava come la chimica delle resine acriliche per la sua versatilità permette di sintetizzare una vastissima gamma di prodotti finali con caratteristiche mirate all’utilizzo (tailor made products) [1]. Le resine acriliche, per le loro intrinseche specificità sono ampiamente impiegate nella conservazione di opere d’arte di varia tipologia. Alcuni esempi sono sotto descritti. --- Applicazione delle resine acriliche nella conservazione dei beni culturali ƔManufatti lapidei Decoro floreale della fontana “Putriduzza” di Petralia Soprana (figura 17) Come riportato nel riferimento [13], il preconsolidamento, necessario < al ristabilimento della coesione della superficie maggiormente degradata>, è stato eseguito < mediante impregnazione di resina consolidante acril-siliconica, per mezzo di pennelli, e iniezioni all’interno delle fessure con siringhe e pipette> [13]. Colori basati su leganti acrilici, “Polycolor acrilic”, <capaci di formare, una volta asciutti, una pellicola estremamente forte, resistente ed elastica> [13] sono stati utilizzati, dopo le fasi di consolidamento, pulitura e stuccatura, per l’integrazione pittorica. Il restauro è stato finito (vedesi figura 17) applicando sulla superficie <uno strato di vernice protettiva, “Acrilmat”che è una resina acrilica in soluzione idroalcolica trasparente e opaca che fissa e protegge le decorazioni su pietra senza alterarne le cromie originali> [13]. FIGURA 17: Sinistra, prima del restauro. Destra, a restauro completato, vedesi testo [13]. 145 Statua all’esterno della Chiesa di S. Michele a Lucca E’ un manufatto realizzato in calcare [roccia carbonatica a bassa porosità (3-4%) con un alto contenuto di minerali argillosi]. Il manufatto è stato trattato (metodo a spruzzo e non a pennello) con un prodotto consolidante/protettivo, reversibile e resistente ai raggi UV, basato su di una miscela fra una resina acrilica e un fluoro elastomero, in acetone Questo prodotto è commercializzato come Fluormet CP, vedesi figura 18 [14,1]. FIGURA 18: La statua in pietra calcarea, all’esterno della Chiesa di S. Michele a Lucca, per il cui restauro stata impiegata una miscela fra una resina acrilica e un fluoro elastomero, il Fluormet. Sinistra, prima del trattamento. Destra, dopo il trattamento [14]. La facciata principale della Basilica di San Petronio in Bologna (figura 19) Nel consolidamento di questo manufatto è stata impiegata una particolare formulazione, detta Cocktail di Bologna, tra i cui componenti principali figura una resina acrilica, il Paraloid B72 [copolimero metilacrilato (MA)/etilmetacrilato (EMA) con MA/EMA=30/70; Tg= 40°C] [15,16,18,1]. Resine acriliche sono usate anche nel consolidamento di manufatti ceramici. <Un consolidante comunemente utilizzato è il copolimero etilmetacrilato-metacrilato in soluzione di acetone. La concentrazione del consolidante va regolata in funzione della porosità del manufatto> [https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id..]. 146 FIGURA 19: Una resina acrilica, il Paraloid B72 è stata utilizzata, insieme ad altri componenti, nel restauro della facciata principale della Basilica di San Petronio, Bologna [15,16,1]. ƔAffreschi murali Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, Dermulo (figura 20) Resine acriliche sono state impiegate nelle seguenti fasi operative del restauro dell’affresco: <-Protezione precauzionale delle zone in pericolo di caduta mediante velatura con carta giapponese e resina acrilica in solvente organico. -Consolidamento delle zone pericolanti (già protette dalle velature precauzionali) e dei distacchi fra i vari strati, mediante iniezioni di un’emulsione acrilica (Primal AC33, un copolimero etilacrilato (EA)/metilmetacrilato (MMA) con il rapporto MMA/EA= 33/67; Tg=16°C) in varie diluizioni in acqua demineralizzata. Nei vuoti più consistenti, con l'immissione di malta idraulica composta di calce Lafarge, inerti e Primal al 5%. -Fissaggio della pellicola pittorica sollevata e/o priva di coesione con impregnazione inorganica mediante idrossido di calcio, in alternativa con resina acrilica (Paraloid B72) in appropriata diluizione con solvente organico, nei casi d’incompatibilità (es. alla presenza di tempere, pigmenti non resistenti a un PH acido). 147 - Analisi dettagliata della tecnica esecutiva con individuazione di presenze di pittura a secco e/o tempera e loro protezione mediante resina acrilica in soluzione (Paraloid B72). - Rimozione del fissativo dalle zone dipinte a secco e fissaggio definitivo delle stesse con resina acrilica al 2%> [17]. FIGURA 20: Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, Dermulo, affresco per il cui restauro conservativo sono state usate, in alcune fasi, resine acriliche [17]. ƔDipinti ad olio su tela Il Plexisol P500, la struttura chimica del cui monomero, il n-butilmetacrilato, è qui di seguito illustrata, è un omopolimero acrilico, termoplastico, con elevata resistenza all'invecchiamento. 148 FIGURA 21: Dipinto a olio su tela del 1859, veduta di Napoli, di F. Sorrentino (scuola napoletana), dopo il restauro per il quale è stata usata anche una resina acrilica, vedesi testo [21]. FIGURA 22: Dipinto, la Crocifissione, di Ignazio Enrico Hugford, per il cui consolidamento è stato impiegato il Plexisol. Foto generale dopo il restauro vedesi testo [22,21]. 149 Il Plexisol P550 è utilizzato per la conservazione dei dipinti su tela. In particolare questo polimero si è rilevato < Particolarmente adatto all’utilizzo come consolidante dello strato pittorico grazie alla capacità di penetrazione del solvente, il suo basso peso molecolare e l’efficacia anche a ridotte concentrazioni (5%-10% - da 1:4 a 1:9 di Plexisol in White Spirit (acqua ragia minerale o spirito di trementina; distillato di resine di pino)), che permettono di non introdurre nuove tensioni nella pellicola pittorica> [19]. Il Plexisol, diluito in acetone al 10%, è stato usato nelle operazioni di restauro del dipinto mostrato in figura 21 [20,21]. In particolare questo prodotto è stato scelto per le operazioni di consolidamento finalizzate a migliorare l’adesione degli strati del dipinto. <I risultati ottenuti (fig. 21) sono stati buoni: la coesione dei vari strati del dipinto è stata ristabilita e la tela ha mantenuto una certa elasticità> [21]. Il Plexisol è stato anche impiegato nelle operazioni di consolidamento del dipinto, la Crocifissione, di Ignazio Enrico Hugford (figura 22) [22]. <Il dipinto è stato consolidato prima a pennello e poi sulla tavola fredda usando il Plexisol P550 in una concentrazione 1/26 in benzina. Poi è stato messo in sottovuoto e la resina iniettata è stata riattivata con una temperatura di 55°C. E’ stato scelto questo prodotto sintetico per impermeabilizzare la tela per ridurne l’igroscopicità> [22]. ƔManufatti lignei Le resine acriliche sono ampiamente impiegate nel pre-consolidamento e consolidamento di manufatti lignei. Le operazioni di consolidamento, nel caso di oggetti di legno, si rendono necessarie quando il degrado < interessa soprattutto la struttura interna del legno a opera degli insetti xilofagi. Questi insetti indeboliscono a tal punto la struttura del legno da renderla quasi spugnosa e debole alle sollecitazioni meccaniche. Il consolidamento in genere è effettuato con resine acriliche tra le quali una delle più efficaci è il Paraloid B72> [23]. Il Paraloid B72 è commercializzato sotto forma di granuli. Pertanto al momento dell’impiego deve essere disciolto in appropriati solventi. < La soluzione penetra all’interno della struttura, nelle gallerie scavate dai tarli, asciugandosi si espande e indurisce rinforzando il tutto. Il consolidamento può essere eseguito per immersione, per spennellatura o siringatura> [23]. FIGURA 23: Cristo deposto (1717), cappella del SS. Crocefisso, Chiesa dell’Immacolata Concezione, in legno scolpito e dipinto. L’opera è stata restaurata presso il laboratorio di opere lignee dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli [24]. 150 FIGURA 24: Particolare della scultura lignea policroma raffigurante il Crocefisso (Chiesa di S. Giorgio in Cassolnovo (PV)), per il cui restauro è stata utilizzato, come fissativo, il Paraloid B72 [24-b]. Un esempio di applicazione del Paraloid B72 nel consolidamento di un’opera lignea è descritto nel riferimento [24] e fa riferimento al caso di un Cristo deposto, in legno scolpito e dipinto (figura 23). Il Paraloid B72, sciolto in acetone in percentuale del 5%, è stato usato come fissativo nelle operazioni di restauro di una scultura lignea policroma del primo seicento, raffigurante il Crocefisso, sita nella Chiesa di S. Giorgio in Cassolnovo (PV) (figura 24) [24-b]. ƔManufatti cartacei Miscele di resine acriliche di natura diversa quali ad esempio quelle ottenute mescolando una dispersione acquosa di Acrylic E-411 con un’emulsione acquosa di Plextol B 500 (copolimero di etilacrilato e metilmetacrilato) sono state ampiamente utilizzate come collanti nella preparazione di velo pre-collato per il restauro della carta [25]. La velatura è un intervento diretto che è necessario <per rinforzare carte indebolite e fragili o per arrestare i danni causati dagli inchiostri, ferro gallici> [26] (vedesi figura 25). La miscela, Primal E-411/Plextol B500 (prima essiccata) al 2-3% in alcool etilico è stata impiegata nelle operazioni di fissaggio a spray, riguardo alle sole zone solubili, per le tavole cartacee in bianco e nero (nerofumo) [27]. La miscela di Acrilic DP59 038, Plextol B500 e Acrilico E411, in soluzione acquosa, eventualmente con aggiunta di Tylose (un adesivo derivato della cellulosa, metilidrossietilcelluosa), <è stata sperimentata sia come adesivo a pennello, in questo caso usato direttamente per incollaggi di superfici da ricomporre, sia per trattare veline giapponesi da poter utilizzare per realizzare foderature, falsi margini e tiranti attivando l’adesione con l’acetone> [26]. 151 Veli pretrattati con resine acriliche Plextol B500 e Acrilico E411, in soluzione acquosa, fatti aderire mediante colla d’amido unita a Tylose MH 300, sono stati utilizzati nel trattamento di strappi e tagli nel restauro di un volume pergamenaceo di graduale decorato del XVI secolo, ora di proprietà della parrocchia di San Giacomo Maggiore di Lauria [28]. FIGURA 25: Esempi di restauro conservativo di pagine cartacee di manoscritti e di libro a stampa. Sinistra, velatura di un manoscritto cartaceo con acidità perforante [29]. Destra, pagina velinata in fase di restauro [30]. ƔManufatti di bronzo Vernici acriliche, impiegate come protettivi superficiali, sono applicate alla fine dei trattamenti di pulitura e di consolidamento e d’inibizione del cancro del bronzo (di questo fenomeno si è già scritto in precedenza). In letteratura è riportato un trattamento efficace nella protezione dei bronzi basato sull’impiego di una vernice acrilica, contenente additivi antiossidanti (Incral 44). L’effetto di protezione è potenziato usando, insieme alla resina vinilica, una miscela di cere naturali microcristalline e polietileniche, solubile in acquaragia minerale [http://www.ctseurope.com/contentimages/news2010-21.3%20_cancro%20bronzo_.pdf]. Questo tipo di trattamento si è dimostrato efficace nel proteggere opere di bronzo esposte all’azione degli agenti atmosferici. 4) RESINE SILICONICHE, POLIALCOSSISILANI E POLIALCHILALCOSSISILANI La chimica del silicio non prevede, lungo le macromolecole di polimeri siliconici, la presenza di sequenze del tipo, -Si-Si-Si-Si-. I polimeri siliconici o silanici (intesi quali derivati del silano, (SiH4) si caratterizzano pertanto per la presenza di sequenze del tipo ~Si-O-Si-O-Si-O-, dove atomi di silicio si alternano in catena con atomi di ossigeno. La saturazione delle altre due valenze del silicio, tetravalente, avviene attraverso legami con radicali alchilici o arilici (vedesi figura 26) [1]. I polimeri di origine organo-siliconica che hanno trovato largo impiego, per le loro particolari caratteristiche molecolari, chimiche e fisiche, nel campo della conservazione dei manufatti di 152 interesse culturale, storico e artistico, appartengono essenzialmente alle famiglie dei polialcossisilani e poli-alchilalcossisilani i cui precursori monomerici sono rispettivamente gli alcossisilani e gli alchilalcosisilani, di seguito brevemente descritti [1]. FIGURA 26: Strutture molecolari di macromolecole polisilossaniche lineari. Sopra, il polidimetilsilossano, tra parentesi è indicata l’unità ripetitiva. Sotto-sinistra, l’unità ripetitiva del polimetilfenilsilossano. Sotto-destra, l’unità ripetitiva del polidifenilsilossano. -Alcossisilani In queste sostanze gli idrogeni del silano (SiH4) sono sostituiti da radicali alcossilici (OR, ad esempio –O-CH3 oppure O-CH2-CH3). Gli alcossisilani si caratterizzano per la presenza del raggruppamento SiOC, vedesi il caso del tetraetossisilano o silicato di etile Si[OC2H5]4 la cui struttura molecolare, caratterizzata dal silicio al centro di un tetraedro, è sotto illustrata (il silicio è in grigio, gli atomi di ossigeno e di carbonio in nero, gli idrogeni in grigio chiaro) [1,2]. tetraetossisilano Si[OC2H5]4 153 -Alchilalcossisilani Si contraddistinguono poiché nelle loro molecole gli idrogeni del silano sono sostituiti, in parte da radicali alchilici (R) e in parte da radicali alcossilici (OR). Questi composti presentano nella loro molecola il raggruppamento CSiOC. La struttura molecolare del metiltrietossisilano, tipico esempio di alchilalcossisilano, è la seguente: OC2H5 ~ CH3SiOC2H5 ~ OC2H5 Negli alchilalcossisilani e alcossisilani i gruppi -Si-OR, alla presenza di acqua e di appropriati catalizzatori subiscono una reazione d’idrolisi trasformandosi nei gruppi –Si-OH. Questi ultimi per successiva condensazione intermolecolare danno luogo prima a oligomeri e quindi attraverso una reazione di policondensazione alla formazione di polimeri ad alto peso molecolare, lineari o ramificati. Lo schema delle reazioni che da alcossisilani o alchilalcossisilani monomeri portano alla formazione di polimeri lineari e ramificati è descritto nella figura 27 [1,31]. FIGURA 27: Reazioni di polimerizzazione di alcossisilani (a) e di alchilalcossisilani (b). Nella pratica industriale molti polisilossani lineari sono sintetizzati, mediante una reazione di ring opening, dai corrispondenti oligomeri ciclici organosilossanici, vedesi schema in figura 28 [1]. 154 FIGURA 28: Lo schema della reazione di apertura dell’anello dell’octametilciclotetrasilossano che porta all’ottenimento del polidimetilsilossano [1] ---L’impiego degli alcossisilani e degli alchilalcossisilani nella conservazione dei beni culturali ƔManufatti lapidei Miscele di monomeri alcossisilanici con differente struttura chimica, diluiti in solventi per ridurne la viscosità, sono adoperati nei trattamenti di consolidamento/protezione di opere in pietra. La formulazione prevede la presenza di un catalizzatore/iniziatore idoneo a innestare in situ la reazione d’idrolisi e di policondensazione. La velocità di penetrazione all’interno delle pietre e il grado di riempimento dei pori del manufatto degradato, che rappresentano le principali caratteristiche del sistema consolidante, dipendono dai seguenti fattori: a) la viscosità della formulazione, la natura del solvente e sua velocità di evaporazione dall’interno delle pietre, durante il corso della polimerizzazione; b) la concentrazione, la composizione della miscela e la struttura chimica degli alcossisilani; c) la velocità di polimerizzazione e d’indurimento e la struttura del polimero che si forma nei pori; d) l’adesione e il tipo di legami che si vanno a manifestare tra i gruppi funzionali del polimero e del substrato lapideo [1]. Attraverso la scelta di adeguati iniziatori e catalizzatori è possibile indirizzare la polimerizzazione degli alcossisilani in maniera tale che essa abbia inizio solo dopo la penetrazione della formulazione liquida all’interno del manufatto da consolidare e che dia luogo alla formazione di un polimero altamente reticolato capace di riempire i pori e le crepe agendo da collante tra grani tra loro sconnessi. 155 Case history concernenti l’applicazione delle resine polialcossilaniche o poliachilalcossisilaniche nella conservazione di opere in pietra sono di seguito descritti. Chiese barocche di Lecce Formulazioni commerciali, a base di prodotti silanici, del tipo sotto riportate: --ESTEL 1000 (o CTS 1000) e Wacker OH, RC 70 (prodotti a base di silicato di etile); --ESTEL 1100 (o CTS 111, SILO 111) e RC80 (miscele di silicato di etile e alchil-alcossi-silani); --RC90 (miscela tra etilsilicato e metil-fenilpolisilossano); --Wacker 290L, TRECON WR e Silirain 50 (genericamente descritti come alchil-alcossi-silani oligomerici); sono state sperimentate nel trattamento sostenibile delle chiese barocche di Lecce (figura 29), per la cui costruzione è stata ampiamente usata la pietra leccese, una <calcarenite, molto tenera e caratterizzata da una porosità molto elevata, pori piuttosto fini e notevole capacità di assorbire l’acqua….. L’insieme di queste caratteristiche conferisce a questa pietra un’ottima lavorabilità,….. ma anche una resistenza agli agenti atmosferici e una durabilità molto modesta> [32]. FIGURA 29, sinistra: La facciata della chiesa di Santa Croce a Lecce [32]. FIGURA 30, destra: l'arco di Traiano in Benevento. Nel restauro di queste strutture sono state impiegate resine siliconiche di varia tipologia (vedesi testo). 156 FIGURA 31: La “Tintern Abbey”, Wye Valley (Galles) UK, per il cui restauro sono stati impiegati prodotti alcossisilanici. Arco di Traiano in Benevento Nel restauro conservativo dell'arco di Traiano in Benevento (114 d.C.) (figura 30), il consolidamento dei marmi è stato eseguito con silicato di etile dato a pennello [33]. “Tintern Abbey”, Wye Valley (Galles), UK Nel consolidamento della “Tintern Abbey”, monumento in pietra arenaria (figura 31) è stato utilizzato un gel (noto in commercio con il nome di “Brethane”) basato sui seguenti componenti: --- Metiltrimetossisilano, monomero; --- Acqua e Spirito metilato; --- Soluzione di naftenato di piombo che agisce da catalizzatore. Arco di Trionfo (Parigi) e le Statue del Prato della Valle (Padova) Derivati silanici idrorepellenti (protettivi) e consolidanti, commercializzati con il marchio di fabbrica RHODORSIL® (silicati di etile associati a un catalizzatore neutro che rende più rapida e completa la loro polimerizzazione anche alla presenza di scarsa umidità) sono stati impiegati nelle operazioni di restauro di numerosi monumenti tra cui vanno citati: l’Arco di Trionfo (Parigi) e le statue del Prato della Valle (Padova) [34]. Edicola d’angolo di Palazzo Chigi (19th sec.) Protettivi di natura polisilossanica sono stati utilizzati nel restauro dell’edicola d’angolo di Palazzo Chigi (19th sec.), in maiolica dipinta con la cornice in stucco dorato, raffigurante la Madonna con Bambino. Formulazioni a base di derivati silanici sono servite per eseguire la protezione finale degli stucchi dopo le operazioni di restauro conservativo [35]. 157 Mosaici dell’arco d’ingresso al Presbiterio (San Vitale- Ravenna) Le tessere in pasta vitrea, fratturate, dei mosaici dell’arco d’ingresso al Presbiterio (San VitaleRavenna) sono state consolidate e protette mediante infiltrazione a goccia di una resina siliconica idrorepellente a base di polifenilmetilsilossano, commercializzata come Wacker BS 44 [36]. La resina allo stato di polvere, prima dell’impiego è disciolta in un opportuno solvente organico. Alla presenza di un idoneo catalizzatore il prodotto, dopo il trattamento, subisce un processo d’indurimento formando sulla superficie un reticolo tridimensionale chimicamente legato al substrato del manufatto lapideo mediante forti legami primari, figura 32 [36]. FIGURA 32: Tessere in pasta vitrea deteriorate e trattate con una resina siliconica protettiva, idrorepellente nell’ambito dell’intervento di restauro sui mosaici dell’arco d’ingresso al Presbiterio di S. Vitale (Ravenna) [36]. 5) DERIVATI VINILICI: POLIVINILACETATO (PVAc), POLIVINILALCOL (PVA), COPOLIMERI ETILENE-VINILACETATO (E-co-VAc) Le strutture molecolari del PVAc, PVA, e dei copolimeri E-co-VAc sono descritte nella figura 33. La sintesi del polivinilacetato (PVAc), di certo il più importante vinil derivato, è descritta in figura 34, dalla quale si evidenzia come questo polimero termoplastico è sintetizzato dall’acetilene che è trasformata nel monomero, l’acetato di etile (un estere dell’alcole etilico e dell’acido acetico). Quest’ultimo è quindi polimerizzato attraverso una polimerizzazione di tipo radicalica [37]. 158 PVAc ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ PVA ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ E-co-VAc FIGURA 33: Strutture molecolari del PVAc (sopra), PVA (centro), e dei copolimeri E-co-VAc (sotto). 159 FIGURA 34: Schema della sintesi del PVAc (vedesi testo) [37]. FIGURA 35: Lo schema della sintesi del polivinilbutirrale a partire dal PVA e butirraldeide [38]. Il polivinilalcol è ottenuto attraverso un’idrolisi controllata (detta alcolisi) del PVAc, già prima descritta. Questa de-acetilazione può essere completa o parziale, portando, di fatto, a dei copolimeri tra il VAc e il VA [38]. I copolimeri etlene-vinilacetato sono sintetizzati copolimerizzando in condizioni opportune i due monomeri. I copolimeri in commercio, di natura random, si caratterizzano per una composizione che vede la presenza di etilene tra il 60-80%. 160 I polivinil acetali, un’altra interessante famiglia di derivati vinilici, si ottengono attraverso una reazione tra il PVA e aldeidi. Lo schema di sintesi del polivinilbutirrale, è mostrato in figura 35 [38]. I polimeri appartenenti alle famiglie dei derivati vinilici sono generalmente dei termoplastici che sono impiegati, nel campo della conservazione, sia allo stato condensato sia in emulsione acquosa o in soluzione di solventi organici. Il PVAc, i copolimeri (E-co-VAc) e i PVAc modificati per inserzione in catena di altre unità comonomeriche, allo stato solido, tal quali, oppure in dispersione acquosa o in soluzione di solventi organici sono impiegati come adesivi e collanti in varie tipologie di applicazioni nel campo della conservazione. Alcuni prodotti sono utilizzati nella rifoderatura di dipinti e nel campo della conservazione di tessuti con particolare riguardo al caso dell’incollaggio di manufatti tessili fragili su substrati stabili. Una serie di resine viniliche sono componenti di molti collanti, in dispersione acquosa, di largo impiego nel campo del consolidamento di manufatti lignei. I copolimeri (E-co-VAc) sono usati come additivi in adesivi del tipo “hot melt”e come componenti di adesivi impiegati come opacizzanti di vernici. In letteratura è citato il caso di dispersioni di PVAc, plastificati con dibutilftalato, usati nella rifoderatura di dipinti [6,38]. Una formulazione ottenuta mescolando una soluzione di PVAC in toluene con una soluzione di detergente è stata usata per trattamenti di consolidamento di materiali archeologici imbevuti d’acqua. Resine viniliche a base di PVAc sono state impiegate nei trattamenti di consolidamento di reperti di ossa recuperati nel corso di scavi archeologici [6]. Il polivinilbutirrale trova applicazione nel consolidamento di tessuti, di materiali fossili e nel caso di manufatti lignei [6]. Nel campo della rifoderatura dei dipinti grande successo ha trovato una formulazione a più componenti, Il Beva 371, messa a punto negli anni 1970 da Gustav Berger [39]. Il Beva 371 <è un termocollante sintetico che offre molteplici possibilità di applicazione negli incollaggi e nelle foderature particolari, solitamente non consentite dalle tradizionali colle> [40]. I componenti del Beva 371 sono sotto elencati: La composizione dei copolimeri etilene vinilacetato, EVA, presenti nel Beva 371 è: Elvax 150 (VAc=33%); AC 400 (VAc=15%). Il Laropal, altro componente del Beva, è una resina chetonica, policicloesanone, a basso peso molecolare che si ottiene per policondensazione del cicloesanone e di suoi derivati metil sostituiti. La sua struttura è qui di seguito mostrata. 161 Nel riferimento [41], l’utilizzo del Beva nell’intervento di restauro di un dipinto a olio su tela della Chiesa di San Vittore di Caiolo (Sondrio) è così riportato: <…Consolidamento del supporto cellulosico con applicazione dal verso di consolidante termoplastico (Beva 371 in diluizione al 20/30%) dato a pennello e successiva veicolazione forzata dopo l'evaporazione del solvente con l'applicazione del sottovuoto e l'apporto di calore per l'attivazione del consolidante. Reintegrazione delle lacune del supporto realizzando inserti in tela di lino (pattina) apprettata con adesivo termoplastico (Beva 371- Beva film) applicati mediante giunzione di testa con resina poliammidica per restauro tessile (Lascaux 5060) da utilizzarsi anche per la giunzione dei tagli presenti…> [41]. Il complicato ma efficace, sistema utilizzato nella rifoderatura del dipinto di Enzo Cucchi, la fioritura dei galli neri, riportato nel riferimento [39], è schematicamente illustrato nella figura 36. Da tale figura si evince come nella rifoderatura si è fatto uso di Beva sia allo stato di gel sia di film preformato. E’ interessante rilevare che nel sistema di laminato di cui sopra sono stati impiegati anche film a base di poliesteri (poliestere Scapa e Tergal). FIGURA 36: sezione trasversale del sistema complesso del laminato usato nella rifoderatura del dipinto di Cucchi, guardasi testo [39]. Film di Beva per le loro caratteristiche di adesivo sintetico termoplastico si sono dimostrati utili <per ottenere una foderatura trasparente nei dipinti su tela (quando è necessario consolidare il tessuto e allo stesso tempo mantenere sul verso una visione perfetta di scritte, firme, date e sigle) > [42]. La complessa procedura, basata sull’impiego di film trasparenti di Beva e altri polimeri, seguita per realizzare l’obiettivo di cui sopra (vedesi figura 37), nel caso del restauro del dipinto di Vincenzo Milione, S. Romualdo che incontra Ottone III, del Sec. XVII, è così descritta nel riferimento [42]: <è stata progettata e costruita una nuova apparecchiatura per il controllo della pressione del sottovuoto. Quest’attrezzatura ha permesso di raggiungere progressivamente una distribuzione della depressione omogenea sull’intera superficie del dipinto... Inoltre, per l’apporto di calore nella foderatura, è stata usata una nuova strumentazione computerizzata completamente automatica, con un controllo molto preciso della temperatura, pratica da usare e molto più 162 economica della tavola calda. Queste attrezzature hanno consentito una perfetta applicazione della resina termoplastica e di tessuti sintetici trasparenti a una coppia di pitture del Sec. XVIII, lasciando perfettamente visibili le scritte autografe sul verso delle tele> [42]. FIGURA 37: Il sistema ideato per applicare sul verso di un dipinto su tela una foderatura trasparente al fine di potere leggere quanto scritto sulla tela, vedesi testo [42]. FIGURA 38: Vincenzo Milione, S. Romualdo che incontra Ottone III. Le scritte sul verso del dipinto a confronto: prima della foderatura (in alto), dopo la foderatura (in basso), vedesi testo [42]. 163 Il raggiungimento dell’obiettivo prefissato è documentato attraverso la figura 38, dove le scritte sul verso del dipinto di cui sopra, sono messe a confronto: prima della foderatura (in alto), dopo la foderatura (in basso) [42]. Film di Beva sono stati usati, con successo, anche nella rifoderatura del dipinto di Emilio Notte, realizzato nel 1940 con tecnica mista su tela, “Saltimbanchi” (figura 39) [43]. FIGURA 39: Dipinto su tela “Saltimbanchi”, di Emilio Notte (1940), per il cui restauro sono stati usati film di Beva [43]. Da quanto sopra traspare come materiali polimerici di varia natura e stato fisico sono ampiamente utilizzate nelle operazioni di restauro conservativo dei dipinti su tela e in particolare nelle operazioni di rifoderatura, di consolidamento dello strato pittorico e quindi nella protezione dello stesso. 6) POLIMERI APPARTENENTI ALLA FAMIGLIA DEI “PARILENE” Parilene è il nome commerciale di una famiglia di polimeri afferenti ai poli-para xilileni. Questi polimeri hanno la peculiarità di formarsi a seguito di deposizione, su di un substrato solido, dei monomeri allo stato di vapore. A seguito di ciò il substrato è ricoperto uniformemente da una sottile pellicola o film costituito da un polimero lineare a elevata cristallinità. Le fasi del processo di “vapor deposition polymerization” del Parilene C (il polimero mono cloro sostituito), con riferimento alla figura 40, possono così essere descritte [44]: Fase-a)- Il dimero del monomero, il di-p-xililene, è fatto sublimare a 150°C (sinistra in fig. 40). Fase-b)- Il vapore del dimero è sottoposto a pirolisi a ~ 650°C. A seguito di ciò si viene a formare il monomero in fase vapore (centro in fig. 40). 164 Fase-c)- Il monomero in fase vapore è trasferito nella camera di deposizione, dove a temperatura ambiente polimerizza spontaneamente sul substrato da trattare. Si forma un sottile strato o film policristallino (flessibile e con buone proprietà meccaniche) capace di resistere, agli attacchi di varie specie chimiche, alle alte temperature e all’umidità ambientale (idrorepellente) [44,45]. FASE-a) FASE-b) FASE-c) FIGURA 40: Le fasi del processo di “vapor polymerization” del Parilene C (vedesi testo) [44]. deposition Il processo di “vapor deposition polymerization” del Parilene è stato sfruttato, viste anche le caratteristiche intrinseche del film polimerico, per il consolidamento di documenti cartacei e di manufatti tessili. Alcuni casi di consolidamento, eseguiti attraverso il processo di polimerizzazione in situ del Parilene, di varie tipologie di manufatti cartacei, sono sotto certificati. Nella figura 41 è mostrata la capacità d’idrorepellenza indotta dal trattamento di consolidamento con Parilene su superfici di campioni di carta diversi per composizione e lavorazione [46]. Come documentato in figura 42, un libro esposto all’azione consolidante del Parilene resiste, molto meglio di quanto non lo faccia un libro tal quale, a un trattamento estremo d’immersione in acqua per quattro mesi e successiva conservazione allo stato umido per tre mesi [45]. I trattamenti di consolidamento determinano in manufatti di carta un aumento generalizzato della resistenza alle sollecitazioni meccaniche dovute al fatto che, come documentato dalle micrografie elettroniche della figura 43, le molecole di monomero in fase vapore penetrano all’interno della struttura della carta, dove polimerizzano in situ dando luogo alla formazione di uno strato sottile di polimero che aderisce fortemente alle fibre di natura cellulosica [46]. Come traspare dalle fotografie mostrate in figura 44, la perdita di lucentezza a seguito di trattamento con Parilene è minima e accettabile nella pratica della conservazione [46]. In letteratura è stato osservato che fogli di carta trattati con Parilene sviluppano una maggiore resistenza agli attacchi di muffe e funghi (ad esempio, Aspergillus niger, A. flavus, Penicillium sp., Rhizopus sp., and Trichoderma virid) [46]. 165 FIGURA 41: Test della goccia d’acqua su superfici di fogli di carta. Sinistra: I campioni non trattati denotano una più o meno accentuata idrofilicità; alcuni assorbono del tutto l’acqua. Destra, I campioni trattati con Parilene sono tutti idrorepellenti [46]. Da tutto quanto sopra si ricava l’indicazione che il trattamento con Parilene, basato sul processo di “gas phase in site polymerization”, è capace, in appropriate circostanze, di indurre in manufatti cartacei o in documenti di archivio, fragili e degradati, un effetto di consolidamento utile a prolungarne la vita [45,46]. Ovviamente le caratteristiche del substrato cartaceo e la struttura chimica del Parilene impiegato influenzano fortemente gli esiti del trattamento. FIGURA 42: Fotografie di libri dopo quattro mesi d’immersione in acqua e tre mesi di conservazione allo stato umido. Destra: Libro in precedenza sottoposto a trattamento con Parilene. Sinistra: Libro non trattato (vedesi testo) [45]. 166 FIGURA 43: Micrografie al microscopio elettronico a scansione della superficie di fogli di carta di giornale. Sinistra, campione non trattato. Destra, campione consolidato con Parilene. Dalla micrografia si evince che il polimero aderisce alle fibre cellulosiche (vedesi testo) [46]. FIGURA 44: Tavole di carta del “Taiwan Plant Atlas” (1911) ricoperti da film di Parilene messe a confronto con una pagina non trattata (blank in figura), vedesi testo [46]. 167 Il processo al Parilene è stato anche usato con successo nel consolidamento di tessuti particolarmente delicati e fragili. Un esempio di questo tipo di applicazione è illustrato attraverso la figura 45. FIGURA 45: Frammento di un tessuto serico-aureo (XIII-XIV secolo d.C.) rinvenuto a S. Fruttuoso di Camogli (Liguria, Italia). Il reperto, un tessuto misto costituito da filamenti di seta e da sottili fili d’oro è stato consolidato con il processo al Parylene. 7) LA FAMIGLIA DEI POLIURETANI I poliuretani costituiscono una vasta famiglia di polimeri che secondo le loro caratteristiche molecolari e strutturali possono essere termoplastici ed elastomeri. Inoltre questi materiali hanno la capacità di formare schiume o sistemi espansi a celle chiuse o aperte [1 ]. Le modalità di sintesi, le caratteristiche chimiche e fisiche dei poliuretani (PU) sono state già in parte descritte nel presente volume. In questo capitolo saranno esposte alcune delle più significative applicazioni dei PU nel campo della conservazione dei BB.CC. 168 ---Applicazioni dei poliuretani nella conservazione dei beni culturali ƔManufatti in pietra ---Monumento alla Libertà’ (Riga, Lettonia) (figura 46) Nel corso del restauro del Monumento alla Libertà, un adesivo di natura poliuretanica a due componenti (epoxy bounded polyurethane) è stato impiegato come sigillante, sostitutivo del piombo, dei rivestimenti in granito [47]. FIGURA 46: Riga, monumento alla Libertà, per il cui restauro sono stati impiegati anche resine poliuretaniche [47,48]. ---Pietre in travertino Un poliuretano perfluorurato anionico in emulsione idroalcolica (12-13%), commercializzato come Akeogard P è stato sperimentato con successo come protettivo superficiale per materiali lapidei e anche come consolidante di manufatti quali ad esempio quelli in travertino (figura 47) [49]. 169 FIGURA 47: Parete rivestita di lastre di travertino http://it.dreamstime.com/fotografia-stock-parete-della-roccia-del-travertino ---Pietre di tufo E’ stato sperimentato l’effetto consolidante di vari tipi di poliuretani, polimerizzati in situ, su rocce tufacee. I trattamenti sono stati eseguiti su campioni di tufo giallo napoletano, una roccia vulcanica di colore giallo paglierino con una porosità compresa tra 55 e 70% [50,51,51,53,54]. Sono state testate, formulazioni liquide diverse per tipologia dei componenti (monomeri), per la concentrazione relativa degli stessi e per la natura chimica dei catalizzatori [1]. L’acqua, presente nei pori delle pietre tufacee, partecipa alla reazione di polimerizzazione favorendo la formazione di copolimeri Uretano/Urea [1,50,51]. Infatti, come evidenziato nello schema in figura 48, l’acqua reagisce con l’isocianato producendo acido carbammico, che perdendo CO2 si trasforma in un’ammina la quale reagendo con altro isocianato forma un’urea sostituita. Se i gruppi R in figura sono degli OH, allora questo diolo può partecipare alla sintesi del PU sostituendosi ai dioli normalmente impiegati. FIGURA 48: Reazione tra l’acqua, presente nei pori di rocce tufacee, e l’isocianato. I prodotti sono sostanze con legami ureici che partecipano all’insieme delle reazioni che avvengono in situ dando luogo alla formazione di copolimeri Uretano/Urea, guardasi testo [1,50,51]. 170 Dalle ricerche eseguite da Martuscelli e altri è stato possibile dimostrare l’efficacia dei processi di consolidamento sopra descritti sulla base, tra l’altro, dei seguenti risultati [50,51,51,53,54]: 1) I trattamenti conferiscono ai campioni di pietra una consistente riduzione dell’assorbimento di acqua per capillarità pur permettendo una buona capacità di traspirazione. 2) Da test di abrasione si ricava che i campioni trattati presentano una minore perdita in peso rispetto a quelli tal quali. 3) Il tufo consolidato mostra una maggiore capacità di recupero della resistenza alla compressione determinato da una migliorata aggregazione dei grani. La validità della metodica di consolidamento impiegata è da mettere in relazione anche con il fatto che essa permette al monomero, e agli altri componenti la formulazione liquida, di penetrare in profondità, all’interno del campione dove polimerizzando forma un film protettivo che, come documentato attraverso studi di microscopia elettronica a scansione (figura 49), ricopre omogeneamente la superficie dei grani e dei cristalli pseudo-cubici di cabasite e quelli prismatici di fillipsite, principali costituenti dei tufi napoletani [50,51]. Questa caratteristica del trattamento in situ è vanificata quando il trattamento di consolidamento è condotto con una soluzione/sospensione di polimero preformato. Infatti, come documentato in figura 50, il film che si ottiene dalla deposizione del polimero a seguito dell’evaporazione del solvente ricopre essenzialmente solo la superficie del campione di pietra [50,51]. FIGURA 49: Micrografie elettroniche al microscopio elettronico a scansione di superfici di frattura di campioni di tufo: A) non trattato; B), C) e D) dopo polimerizzazione in situ con formulazioni reattive aventi diversa composizione di partenza (vedesi testo) [50]. 171 FIGURA 50: Micrografia elettronica in scansione della superficie di un campione di pietra arenaria trattata con una dispersione di poliuretano in acqua (guardasi testo) [50,51]. ---Manufatti in Poliuretano espanso e manufatti tessili Una dispersione acquosa di un poliuretano alifatico, policarbonato-polietere (caratterizzato dalla presenza in catena di unità derivanti da policarbonati ossidrili terminati, vedesi ad esempio la struttura sotto mostrata), commercializzata dalla Bayer, come “Impranil DLV” è stata utilizzata nel consolidamento e protezione di manufatti in poliuretano espanso [55]. Struttura molecolare di un generico policarbonato alifatico ossidrile terminato Questo prodotto è anche usato come vernice protettiva e stabilizzante di manufatti tessili di varia origine e funzione [56]. I poliuretani alifatici, policarbonato-polietere, si caratterizzano, rispetto a quelli in base etere o estere, per una più maggiore stabilità all’idrolisi e resistenza all’ossidazione [56]. 172 Nel consolidamento e stabilizzazione di due opere di un’artista contemporaneo, Piero Gilardi, la “Zuccaia” e “Sassi” (figure 51 e 52), entrambe ottenute per lavorazione di poliuretani espansi di tipo polietere, è stata impiegata una speciale formulazione che sfrutta le sinergie dei seguenti componenti: 1) Impranil DLV, della Bayer (emulsione acquosa al 40%), agente consolidante; 2) Tinuvin B75, della Ciba-Geigy [una miscela di tre componenti, uno stabilizzante al calore (Irganox 1135, 20%), un assorbitore di raggi UV, (Tinuvin 571, 40%) e uno stabilizzante alla luce (Tinuvin 765, 40%), vedonsi strutture molecolari sotto riportate] [55]. La miscela è stata applicata sulla superficie dei manufatti mediante nebulizzazione. FIGURA 51: La “Zuccaia”, opera di Piero Gilardi (1991) eseguita utilizzando un poliuretano espanso in base polietere, per il cui consolidamento è stata usata una sospensione acquosa di un poliuretano, polietere-policarbonato (Impranil), vedesi testo [55]. 173 FIGURA 52: Particolari dell’opera “Sassi” di Piero Girardi, in poliuretano espanso, con chiare evidenze di processi di degradazione, prima del trattamento di consolidamento e stabilizzazione (vedesi Testo) [55]. RIFERIMENTI 1) E. Martuscelli,. < La chimica macromolecolare applicata alla conservazione dei manufatti lapidei>, PAIDEIA, Firenze (2007). 2) http://www.eziomartuscelli.net/files/abstract.pdf 3) O. Chiantore, <Polimeri per la Conservazione>, Univ. di Torino, pdf (2014). 4) http://ruedrichrestorations.com/projects.aspx 5) Prosoco-Technical Bulletin 1102HCT. 6) C. V. Horie <Materials for conservation>, Elsevier, (2005). 7) M. Matteini, A. 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Vitale a Ravena ”, in < Restauri ai mosaici nella basilica di S. Vitale a Ravenna >, a cura di C. Fiore, C. Muscolino, CNR-MBCA, CNR-IRTEC, Faenza. 37) http://www2.units.it/liut/ORGANICA_3/organica3.htm 38) L. Borgioli, P. Cremonesi <Le resine sintetiche usate nel trattamento di opere policrome>, il Prato, Collana i Talenti, Padova, (2005). 39) G. A. Berger, <La foderatura, metodologia e tecnica>, Nardini Editore, Firenze (1996). 40) http://www.antichitabelsito.it/beva_375.htm 41) http://progettorestauro.it/pierre/soluzioni/66-chiesa-di-san-vittore-di-caiolo-sondrio/136-intervento-direstauro-dipinto-ad-olio-su-tela.html 42) L. Speranza, M. Verdelli, N. Presenti, <Moderne Tecniche nelle Foderature Trasparenti dei Dipinti>, Toscana Restauro Arte, 21-06-2008 http://www.toscanarestauroarte.it/backoffice/img/Articolo_Interno_1(2).pdf 43) http://restaurartist.it/?portfolio_cat=restaur 44) http://www.paratechcoating.co.uk/parylenewhat.php, (2007). 45) Bruce J. Humphrey, J. 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Martuscelli, ACS Symposium Series 916, pp. 370-390, Washington, DC (2005). 52) 16 ) E. Martuscelli et Al., Italian Patent NA – A000021, (2004). 53) 17 ) L. D’Orazio, L. Gentile, C. Mancarella, E. Martuscelli, Polymer Testing, 20, 227,(2001). 54) 18 ) M. Cocca, L. D’Arienzo, L. D’Orazio, G. Gentile, E. Martuscelli , Macromol. Symp., 228, 245 (2005). 55) T. van Oosten, <Pur Facts, conservation of Polyurethane Foam in Art and Design>,Amsterdam Un. Press, (2011). 56) http://tecci.bayer.de/coatings/emea/en/Impranil_DLV-1_en.pdf 57) E. Martuscelli, http://www.eziomartuscelli.net/content/i-polimeri-nell%E2%80%99arte-nei-beniculturali-i-polimeri-l%E2%80%99arte-i-beni-culturali 176 CONCLUSIONI Dall’insieme degli argomenti trattati nel presente volume, emerge chiaramente come la Chimica e la Scienza e Tecnologia dei Materiali sono decisivi nella conservazione di tutte le tipologie di beni culturali. Lo sviluppo sinergico di queste due discipline ha permesso di mettere a punto strumenti idonei a: ---identificare la natura dei materiali costitutivi dei manufatti e a delucidare i legami e/o le interazioni che agiscono tra gli stessi; ---definire lo stato di conservazione degli oggetti diagnosticando le cause del degrado e la gravità degli attacchi dei fenomeni degradativi; ---sviluppare nuovi materiali, con elevata stabilità chimica, efficaci a svolgere specifiche e innovative funzioni come agenti di consolidamento e di protezione di opere d’interesse culturale e storico. ---individuare procedure durevoli, sostenibili e reversibili di conservazione, atte a prolungare la durata del ciclo di vita dei manufatti; ---valutare l’efficacia dell’intervento di conservazione e diagnosticare lo stato di conservazione post restauro. Inoltre va messo in risalto che attraverso l’implementazione di studi e ricerche nel campo della chimica macromolecolare e della scienza e tecnologia dei materiali polimerici è stato possibile preparare nuove formulazioni basate su polimeri di sintesi che si sono dimostrate essere essenziali nelle moderne procedure finalizzate al consolidamento e alla protezione dei BB. CC. Al presente i polimeri rappresentano una classe di materiali fondamentali per la conservazione dell’arte in tutte le sue manifestazioni espressive incluse quelle realizzate in materiali costituiti da polimeri: I Polimeri per l’arte. E’ interessante evidenziare che le plastiche, complesse formulazioni basate su polimeri, sono anch’esse impiegate come materiali costitutivi delle più svariate tipologie di manufatti d’interesse nel campo dell’arte e del design: I Polimeri nell’arte. 177 INDICE PAGINA-1 INTRODUZIONE PAGINA-8 PARTE-PRIMA: I MATERIALI COSTITUENTI I BENI CULTURALI PAGINA-9 MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE ESEGUITE PER LAVORAZIONE MECCANICA DI ROCCE NATURALI Capitolo –A.1): Le rocce naturali: composizione, struttura e genesi PAGINA-17 Capitolo –A.2): La struttura e la composizione chimica dei minerali, costituenti le rocce PAGINA-23 Capitolo –A.3): Le proprietà fisiche e strutturali delle rocce PAGINA-30 Capitolo –A.4): La degradazione ambientale dei manufatti lapidei in relazione alla composizione e struttura del substrato PAGINA-37 B) MATERIALI COSTITUTIVI DELLE CERAMICHE Capitolo –B.1): Le argille: origine, struttura, proprietà e processi di lavorazione PAGINA-48 C) MATERIALI COSTITUTIVI DI BRONZI E OTTONI Capitolo –C.1): I metalli e loro estrazione dai minerali presenti in natura. Il legame metallico PAGINA-58 D) I POLIMERI DI SINTESI QUALI MATERIALI COSTITUTIVI DI OPERE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA Capitolo –D.1): I polimeri di sintesi: struttura molecolare e proprietà PAGINA-85 Capitolo –D.2): Materiali polimerici di sintesi utilizzati nella realizzazione di manufati di arte moderna e contemporanea PAGINA-100 Capitolo –D.3): La degradazione delle plastiche in relazione alla composizione e struttura molecolare dei polimeri componenti PAGINA-115 E) MATERIALI COSTITUTIVI DELLA CARTA Capitolo –E.-1): Lavorazione, struttura e composizione chimica della carta PAGINA-123 Capitolo –E.-2): Stabilità e degradazione dei manufatti cartacei PAGINA-131 PARTE-SECONDA: I POLIMERI DI SINTESI PER LA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI 178 PAGINA-132 PROCEDURE DI CONSOLIDAMENTO E PROTEZIONE DI MANUFATTI DI INTERESSE STORICO E CULTURALE BASATI SULL’IMPIEGO DI POLIMERI DI SINTESI PAGINA-137 CONSOLIDANTI E PROTETTIVI IMPOSTATI SU POLIMERI DI SINTESI PAGINA-177 CONCLUSIONI 179 FINITO DI STAMPARE MARZ O 2014 DA ENZ O ALBANO S.R.L . ENRICO F ERMI , 17 - N APOLI NEL MESE DI V IA (]LR0DUWXVFHOOL, laureato in chimica, Dirigente di Ricerca del CNR, è stato, dal: ---1972 al 2002, 'LUHWWRUH GHOO¶,VWLWXWR GL 5LFHUFD H 7HFQRORJLD GHOOH 0DWHULH 3ODVWLFKH GHO &RQVLJOLR 1D]LRQDOH delle Ricerche; ---1987 al 2004, Presidente del Consorzio sulle Applicazioni delle Materie Plastiche. PUHVVROD)DFROWjGL6FLHQ]HGHOO¶8QLYHUVLWj´)HGHULFR6HFRQGR´GL1DSROL, ha insegnato: ---Esercitazioni di Chimica Fisica; ---Scienza dei Materiali. (¶ DXWRUH GL %UHYHWWL H GL ROWUH SXEEOLFD]LRQL VFLHntifiche nel settore della scienza e della tecnologia dei nuovi materiali. (¶VWDWRUHODWRUHDROWUH&RQJUHVVLH&RQYHJQL Nel campo dei Beni Culturali ha coordinato i seguenti progetti internazionali finanziati GDOO¶UE e dal MIUR: New Materials and Eco-Sustainable Technology for the Conservation and Restoration of Textiles (INCO-MED VFP-UE); Nuovi Materiali Polimerici e Tecnologie Ecosostenibili per Preservare, Conservare e Restaurare Pietra e Tessili (CNR-MIUR); Innovative Materials and Technology for the Conservation of Paper of Historical Artistic and Archaeological Interest (INCO-CT-2004-509095 VI-FP-UE). Ha pubblicato i seguenti libri: -Le Fibre di Polimeri Naturali nell’Evoluzione della Civiltà: le Fibre di Seta (Monografie Scientifiche, CNR, Serie Scienze Chimiche, Roma, 1999); -Dalla Scoperta di Natta lo Sviluppo dell’Industria e della Ricerca sulle Plastiche in Italia (Monografie Scientifiche, CNR, Serie Scienze Chimiche, Roma, 2001); -La Ricerca sui Polimeri in Italia - Storia Attualità e Prospettive in un Contestuale Sviluppo Industriale (IRTEMP; CNR, Napoli 2001); -Relazioni Proprietà-Struttura nelle Fibre di Lana (CAMPEC, Collana di Trasferimento-PNR-MIUR, Volume Primo, Napoli 2003); -I Coloranti Naturali nella Tintura della Lana (CAMPEC, Collana di Trasferimento-PNR-MIUR, Volume Secondo, Napoli 2003); -La Fibra Naturale che ha segnato la Storia di Popoli e Nazioni (Monografie Scientifiche, CNR, Serie Scienze Chimiche, Roma, 2003). -Degradazione delle Fibre Naturali e dei Tessuti Antichi, PAIDEIA Firenze (2006). -La Chimica Macromolecolare Applicata alla Conservazione dei Manufatti Lapidei, PAIDEIA, Firenze (2007). -Works on Paper: Prevention of Degradation, With F. Tolve, CNR, Papertech-project-6FP-EU, Naples (2007). -Innovative Materials and Technologies for the Conservation of Paper of Historical, Artistic and Archaeological Value, Editor with D. Acierno, E. Pedemonte, E. Princi, CAMPEC- Papertech-project-6FP-EU, Naples (2007). -The chemistry of degradation and conservation of plastic artefacts of pre-synthetic “era” based on natural or artificial polymers, Palazzo Spinelli Restauro-PAIDEIA Firenze (2010). -Degradation and preservation of artefacts in synthetic plastics, Palazzo Spinelli Restauro-PAIDEIA Firenze (2012). Dal 2004 è Docente GL³&KLPLFDper i %HQL&XOWXUDOL³SUHVVRO¶8QLYHUVLWjGHJOL6WXGL6XRU2UVROD%HQLQFDVD ± Napoli. Attualmente è Direttore dei Corsi Interdisciplinari di Alta Formazione ³la Plastica nell’Arte e per L’Arte´ organizzati dalla Fondazione Plart (Napoli). E-mail: [email protected] Telefono: 081/7612817 Cellulare: 389/5813347 Sito web: http://www.eziomartuscelli.net Euro 23,00
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