Laboratorio intermedio Le parole e la forma - 6
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Laboratorio intermedio Le parole e la forma - 6
Lezione 6 Dove le storie non cominciano dall'inizio e i morti invece di riposare in pace raccontano Raccontare una storia non vuol dire quasi mai scrivere uno dietro l'altro i fatti che la compongono, cominciando dal più antico, l'inizio, e arrivando al più recente, la fine. E non significa nemmeno cominciare con un evento che dà il via a tutto per chiudere con l'ultima conseguenza che ne è scaturita. Anche una salma può mettersi a raccontare, lo sappiamo tutti da quando abbiamo visto William Holden narrare la storia di Viale del tramonto galleggiando cadavere sulla piscina, o Kevin Spacey che ripensa all'amichetta della figlia adolescente alla fine della sua ultima giornata di vita in American Beauty. E anche in Amabili resti, di Alice Sebold, citato qualche pagina fa, la narratrice è appena morta. Nella prima puntata del serial di grande successo Desperate Housewives, invece, una delle signore comincia a raccontare la sua giornata, poi improvvisamente si spara e come se niente fosse continua a dirci tutto quello che succede a Wisteria Lane. Insomma alla lotteria delle possibili storie qualche volta esce il 47 morto che racconta. C'era una volta, ma precisamente quando? Una delle principali capacità di un narratore è proprio quella di sistemare gli avvenimenti in un ordine originale e piacevole per il lettore. Qui possiamo evitare di ripetere le tante teorie di critici e linguisti sulle strutture narrative (meno male, l'abbiamo scampata bella). Diciamo solo che si chiama fabula di un racconto la serie degli avvenimenti legati da un rapporto temporale e causale. E si chiama intreccio la scelta dello scrittore di sistemare secondo l'ordine scelto da lui sia la sequenza logica che quella temporale degli avvenimenti. Per chiarire meglio, la fabula somiglia all'andamento di una fiaba, che prende il via da un fatto per giungere poi alla conclusione. E tutti i fatti sono conseguenti, sia dal punto di vista cronologico che dal punto di vista delle cause e degli effetti. Pensiamo alle Avventure di Pinocchio di Collodi: Geppetto costruisce un burattino di legno e lo chiama Pinocchio, il burattino prende vita, scappa via dal papà e dopo molte avventure ritorna con lui, a quel punto viene trasformato finalmente in un bambino. La storia viene raccontata così. L'intreccio, invece, sistema i fatti della vicenda in un ordine che serve agli interessi artistici dell'autore, e quindi può far cominciare il racconto dal centro o dalla fine della storia, per ricostruire tutti i fili (ma solo quelli che vuole ricostruire, visto che molti elementi possono essere non detti, alla fine o quando meglio gli sembrerà. Così la storia di Pinocchio potrebbe cominciare con il protagonista che narra la sua storia quando, ormai mutato in bambino, ricorda con nostalgia il passato, oppure potrebbe cominciare da quando incontra il gatto e la volpe e poi tornare dopo a raccontare l'inizio, e così via. Insomma, c'era una volta, ma precisamente quando? Fin dai tempi di Omero Questo modo di raccontare, privilegiando l'intreccio alla fabula non è, come potrebbe sembrare, un'invenzione moderna, ma risale proprio agli inizi della narrazione occidentale. Nell'Odissea di Omero per esempio, come si sa, il protagonista intraprende un lungo viaggio per tornare a Itaca, la sua terra d'origine. Ma la vicenda che pure parla proprio di Ulisse, o Odisseo, non comincia con il racconto dell'inizio del suo viaggio di ritorno verso Troia, ma con gli Dei che ne discutono. Poi l'obiettivo passa sul figlio di Ulisse, Telemaco, che intraprende un viaggio per trovare notizie del padre. Solo nel Libro Quinto entra in scena l'eroe. E non lo vediamo all'inizio del suo viaggio né in una delle sue imprese, ci appare invece imprigionato dalla ninfa Calipso, che riceve da Zeus l'ordine di lasciarlo partire. Quando si ritrova a tavola con un re, Alcinoo, che gli chiede più o meno: chi sei e come sei capitato qui?, Ulisse risponde così: «Cosa devo raccontarti da principio, che cosa per ultimo? Senza fine sono le sventure che gli dei del cielo mi diedero». Lo stesso Ulisse sa che raccontare significa scegliere l'ordine degli eventi da narrare: Cosa devo raccontarti da principio, che cosa per ultimo? «Ora, per cominciare, dirò il mio nome perché anche voi lo sappiate. E se riesco a sfuggire al giorno che non dà scampo, sarà poi ospite vostro, pur abitando lontano. «Io sono Odisseo, il figlio di Laerte, celebrato per ogni sorta di inganni tra gli uomini, e la mia fama giunge fino al cielo. Abito in Itaca, ben visibile sulle acque di lontano in essa vi è un monte, il Nerito frondoso, agitato dai venti, che spicca solitario. E intorno ci sono molte isole, assai vicine l'una all'altra, come Dulichio e Same e la selvosa Zacinto. Ma la mia patria è bassa di rive e giace nel mare più in su, verso l'oscuro occidente le altre invece stanno in disparte, verso l'aurora e il sorgere del sole. Ed è aspra, essa, e rocciosa, ma buona nutrice di giovani ed io non so davvero vedere altra cosa più dolce della propria terra. «Mi tratteneva Calipso laggiù, la divina tra le dee, in grotte profonde, desiderando che le fossi marito anche Circe mi tratteneva nel suo palazzo, l'Eéa ingannatrice, desiderando che le fossi marito. Ma non riuscirono mai a persuadermi. Perché nulla è più dolce della patria, nulla più della famiglia, anche se uno abita in una casa ricca e doviziosa, ma lontano, in terra straniera, separato dai suoi. «Via, ora ti narrerò anche il mio ritorno travagliato. Zeus me l'impose, nel partire da Troia». E come si legge, anche nel cominciare a raccontare, Ulisse ordina la sua vicenda attraverso un intreccio non cronologico, parlando prima di Calipso e Circe e solo dopo della fine di Troia e dell'inizio del viaggio. L'ordinatore del tempo In effetti lo scrittore agisce davvero come un vero e proprio ordinatore del tempo nella narrazione: spesso altera l'ordine degli eventi, per esempio raccontandoci solo alla fine qualcosa che risulta necessario per comprendere ciò che avviene nella sua giusta luce. E naturalmente modifica anche la durata: può usare molte pagine per descrivere azioni che invece hanno una durata breve e una riga per raccontare anni. Il tempo del racconto quindi è del tutto autonomo rispetto al tempo della vicenda narrata. E l'autore spesso si tiene per sé qualche particolare che ci farà sapere solo quando vorrà lui. Anche questa non è comunque un'invenzione contemporanea. Nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni fino al terzo capitolo del romanzo il lettore non sa che il comportamento di don Rodrigo dipende da una scommessa con suo cugino, il conte Attilio. Ecco come Lucia parla della faccenda: Con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d'un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com'ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell'altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s'eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l'altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. Insomma, come un qualunque playboy attempato, Rodrigo tenta di rimorchiare la bella del paese, lei gli dà il 2 di picche, Attilio se la ride, lui rosica e dice: - Vuoi scommettere che io quella me la faccio? Vabbè, l'ho raccontata come la direbbe forse un ragazzo del liceo, che magari non la sa nemmeno questa faccenda e invece gli piacerebbe, perché sembra una cosa da cinema americano (un po' come nel film Una poltrona per due, dove per scommessa due ricconi scambiano le vite di Eddie Murphy e Dan Akroyd). Nel romanzo la cosa è importante, infatti se Rodrigo amasse Lucia avrebbe un certo diritto nel cercare di impedire il matrimonio con Renzo, no? Sarebbe un personaggio a suo modo grandioso e tragico, no? Il suo amore respinto ce lo renderebbe simpatico, no? Invece è solo un porco e può schiattare di peste senza che nessuno lo compianga. Ma in ogni caso Manzoni tiene la cosa tanto nascosta, forse troppo, così che quasi nessuno se ne accorge o se ne ricorda. Tre atti sull'albero Uno sceneggiatore italiano che è un vero maestro del cinema, Sergio Donati, quando tiene i suoi corsi di sceneggiatura alla Scuola Omero, dice che il soggetto di un film deve sempre prevedere tre atti. E per chiarire di che si tratta racconta una storiella che parla di un protagonista e di un albero. Nel primo atto, l'autore fa salire il protagonista su un albero, nel secondo gli tira dei sassi, nel terzo il protagonista viene fatto scendere dall'albero; se scende vivo è una commedia, se scende morto è una tragedia. E' evidente che questa storia può sembrare fin troppo semplice, ma questa struttura narrativa in tre atti rispecchia una divisione della vicenda raccontata che serve a qualunque sceneggiatore. La storia ha una precisa struttura narrativa. Primo atto: cattura l'attenzione dello spettatore lo coinvolge nella storia, e costruisce le tensioni, e le aspettative relative al possibile sviluppo degli eventi. Appaiono i personaggi principali. Si viene introdotti nel mondo del film, nel suo stile e nelle sue atmosfere. Si viene a conoscenza, del problema che è l'origine della storia. Si capisce il «tema» del film. Cioè, nel linguaggio di Donati, si fa salire un personaggio su un albero. Secondo atto: dove le aspettative s'intensificano, con l'inserimento di ulteriori complicazioni che mettono in dubbio la risoluzione del conflitto. Cioè l'autore tira i sassi al malcapitato protagonista tra i rami. Terzo atto: la storia si risolve con i suoi problemi e i suoi conflitti. Cioè il personaggio scende dall'albero. Gli sceneggiatori «all'americana» inseriscono sempre un colpo di scena nel passaggio tra un atto e l'altro, chiamato turning point, che in genere contraddice o fa un effetto di contrasto con quanto si vede prima. Insomma ciò che noi chiameremmo semplicemente «colpo di scena». I tre atti di Kinder Ma tutti i bravi narratori probabilmente sanno usare questa struttura perfino inconsapevolmente. E di sicuro nei corsi dove si insegnano le tecniche della narrazione questa divisione della storia viene raccomandata caldamente. Chuck Kinder, uno scrittore americano, docente di scrittura creativa all'università di Pittsburg, nel suo romanzo Lune di miele, istruzioni per l'uso, nel raccontare le preoccupazioni della moglie di uno scrittore descrive proprio la struttura del racconto in tre atti: «Dio ti prego, basta con gli inizi pieni di speranze, con le crisi, con gli atterraggi di emergenza. Dio ti prego, basta con i melodrammi in tre atti del cazzo». Appesi a testa in giù Vediamo adesso questa divisione in tre atti in un racconto che a tutti noi di Omero piace moltissimo, Colla pazza di Etgar Keret, tratto dalla raccolta Pizzeria Kamikaze (edita in Italia dalla e/o). Cominciamo a leggere. «Non toccare», mi ha detto. «Perché?», ho domandato. «È colla. Una colla speciale, super adesiva». «E perché l'hai comprata?». «Mi serve, ho un sacco di cose da incollare». «Ma non c'è niente che abbia bisogno di essere incollato» mi sono spazientito, «non capisco perché tu compri tutte queste scemenze». «Per lo stesso motivo per cui ti ho sposato» ha risposto lei stizzita, «per passare il tempo». Non volevo litigare, perciò sono rimasto zitto. Anche lei è rimasta zitta. «È efficace questa colla?» ho domandato. Lei mi ha mostrato la confezione con la fotografia di un uomo appeso al soffitto a testa in giù dopo che gli avevano spalmato di colla le suole delle scarpe. «Nessuna colla riesce a fare una cosa simile» ho detto, «questo signore è stata fotografato normalmente, in realtà sta in piedi su un pavimento. Hanno soltanto capovolto un lampadario in modo da dare l'impressione che il pavimento fosse il soffitto. Lo si capisce dalla finestra. Vedi? La maniglia è montata al contrario». Ho indicato la finestra che appariva nella foto, ma lei non l'ha guardata. «Sono le otto» ho detto, «devo scappare». Ho preso la borsa e l'ho baciata sulla guancia. «Oggi torno tardi perché...» - «Lo so» mi ha interrotto, «fai gli straordinari». Questa battuta che sembra innocua è il primo colpo di scena del racconto. Finora abbiamo conosciuto i protagonisti, caratterizzati quasi esclusivamente dal dialogo, che si svolge tra due che discutono su tutto, anche su un tubetto di colla. Poi lei dice una frase inaspettata e fa salire il nostro protagonista sull'albero. Infatti veniamo a sapere che la moglie sa che non farà davvero gli straordinari, ma passerà in qualche altro modo il suo tempo. Comincia a intravedersi anche il tema del racconto, anticipato già dal titolo: il collante, ovvero ciò che deve essere attaccato. Ho telefonato a Mihal dall'ufficio. «Oggi non posso venire» ho detto, «devo tornare a casa presto». - «Perché?» ha domandato, «è successo qualcosa?» - «No... cioè, a dire il vero sì. Penso che lei abbia dei sospetti». C'è stato un lungo silenzio all'altro capo del filo, potevo sentire i respiri di Mihal. «Non capisco perché restiate insieme» ha sussurrato alla fine, «non fate niente voi due, non litigate nemmeno più. Non riesco a capire, non riesco proprio a capire cosa vi tenga uniti. Non capisco» ha ripetuto ancora, «davvero non capisco...». Si è messa a piangere. «Non piangere Mihal» le ho detto, «è arrivato qualcuno, devo riattaccare», ho mentito. «Verrò domani e ne parleremo. Promesso». Sono tornato a casa presto. Appena entrato ho salutato ad alta voce ma non ho ottenuto risposta. Sono passato da una stanza all'altra. Lei non c'era. Sul tavolo della cucina ho trovato il tubetto della colla completamente vuoto. Ho cercato di spostare una sedia. Non si è mossa. Ci ho riprovato. Neanche di un millimetro. L'aveva incollata al pavimento. Il frigorifero non si apriva, aveva incollato anche quello. Non capivo il perché di tutte quelle assurdità, lei era sempre stata assennata, non capivo cosa le fosse successo. Mi sono diretto verso il telefono in salotto. Forse era andata da sua madre. Non sono riuscito a sollevare il ricevitore, aveva incollato anche quello. Ho preso rabbiosamente a calci il tavolino del telefono e mi si è quasi distorto un piede. E il tavolino non si è nemmeno spostato. Quello che abbiamo appena letto è il secondo atto del racconto, in cui l'autore «tira i sassi» al protagonista. In effetti la storia si è sviluppata: abbiamo conosciuto l'amante Mihal, e tornando a casa lui ha trovato tutto incollato. Quindi il tema del collante è rimasto vivo. In più sappiamo anche che il nostro protagonista non ama nemmeno Mihal, infatti pur di liberarsi delle sue lamentele le dice una bugia. Ma pure Mihal ha un ruolo importante nella storia, come se fosse il coro di una tragedia greca, ci rivela i problemi che lui tenta di nascondere pure a se stesso. Lui ha detto nel primo atto: «Non c'è niente che abbia bisogno di essere incollato», Mihal dice nello sviluppo successivo: «non riesco proprio a capire cosa vi tenga uniti». Lui ha detto: «Non volevo litigare, perciò sono rimasto zitto», Mihal dice: «non fate niente voi due, non litigate nemmeno più». Comunque è arrivato il momento di un altro colpo di scena, stavolta davvero sorprendente, leggiamo: Allora l'ho sentita ridere. La risata arrivava da qualche parte sopra di me. Ho alzato lo sguardo e lei era lì, appesa a testa in giù, attaccata a piedi nudi al soffitto del salotto. L'ho guardata allibito. «Dì un po'» ho domandato, «sei impazzita?». Non ha risposto, si è limitata a sorridere. Il suo sorriso pareva talmente naturale, ora che stava appesa così, all'incontrario, come se le labbra si tendessero da sole grazie alla forza di gravità. «Non ti preoccupare, ti tiro giù io» ho detto sfilando dei libri dagli scaffali. Ho impilato alcuni volumi dell'enciclopedia e mi ci sono arrampicato. «Forse ti farà un po' male» ho spiegato cercando di mantenermi in equilibrio in cima ai libri. Lei ha continuato a sorridere. Ho tirato con tutte le mie forze ma non è successo niente. Sono sceso con prudenza dai libri. «Non ti preoccupare» l'ho rassicurata, «vado dai vicini a telefonare, a chiamare aiuto». «Va bene» ha riso lei, «io non mi muovo». Ho riso anch'io. Era così bella e insensata appesa così, all'incontrario. I suoi capelli lunghi ondeggiavano, i seni sembravano due gocce d'acqua cadenti sotto la maglietta bianca. Era così bella. Mi sono arrampicato sulla pila dei libri e l'ho baciata. Ho sentito la sua lingua toccare la mia, la pila dei libri è crollata e mi sono ritrovato a dondolare nell'aria, senza nessun appoggio, appeso solo alle sue labbra. Era difficile svolgere meglio il tema dell'amore che tiene incollati i pezzi di un rapporto di coppia, no? Viene rappresentato brillantemente dalla colla pazza, senza retorica. Ma anche altre idee, che svolte direttamente sarebbero banali, in questo racconto trovano un risvolto nuovo: all'inizio è come se lui non vedesse più la moglie? Allora nell'incipit lei non è nemmeno descritta. Lui alla fine la vede in una luce nuova? E nel finale lei è messa a testa sotto e descritta nella sua bellezza. Inoltre è evidente anche l'equilibrio tra le tre parti, perfino dal semplice punto di vista della durata. Come previsto dai manuali, primo, secondo e terzo atto, hanno più o meno la stessa lunghezza. Per quanto riguarda il cinema, un maestro riconosciuto come Syd Field, nel suo testo La sceneggiatura, il film sulla carta (Lupetti & Co., 1991), arriva a formulare perfino la lunghezza in pagine dei singoli atti. Per un film di due ore, che secondo Field dovrebbe necessariamente durare 120 cartelle, il primo atto va dalla pagina 1 alla 30, il secondo dalla 31 alla 90, il terzo dalla 91 alla 120. E oltre a questo illustra minuziosamente come si devono suddividere i singoli atti, minuto per minuto e pagina per pagina, seguendo tra l'altro la curva dell'attenzione del pubblico. Ma anche se nel cinema questo schema è diventato una sorta di Bibbia, proporre di applicarlo alla narrativa mi sembra decisamente troppo... In ogni caso, sia che l'abbiamo ricostruito noi a posteriori, sia che Keret abbia seguito consapevolmente lo schema dei tre atti (antico quanto Aristotele e il suo discorso sulla Tragedia), il risultato è non solo notevole dal punto di vista narrativo, ma anche esemplare per spiegare i tre atti di una narrazione. Esercizio 6 Scrivere una trama, cioè l'idea per un soggetto cinematografico o per un racconto, mettendone in evidenza la struttura in tre atti, cercando anche di piazzare al posto giusto i due turning point cioè i due colpi di scena che devono sorprendere i lettori. Poi provate a scrivere il racconto che ne consegue mantenendo lo schema che avete appena realizzato.