di Pietro Kuciukian Leggendo le testimonianze riportate in

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di Pietro Kuciukian Leggendo le testimonianze riportate in
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PREFAZIONE
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di Pietro Kuciukian
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Leggendo le testimonianze riportate in questo libro, ciò che mi
ha spinto a riflettere non sono soltanto i fatti terribili che vengono raccontati, ma soprattutto la possibilità di capire come ha inizio la catena del male, come accade che eventi apparentemente
trascurabili e sottovalutati possano sfociare in tragedia.
Comprendere le prime avvisaglie di una tempesta può evitare
tragedie immani che si ripercuotono sulla vita delle persone e sul
territorio per anni.
Essere attenti ai prodromi non è da tutti, anche se lo dobbiamo pretendere da coloro ai quali abbiamo delegato l’organizzazione della nostra vita sociale.
In Palestina nel 1916 l’ebrea Sarah Aaronsons, dopo aver assistito alla deportazione degli armeni, attenta ai primi movimenti
persecutori contro i propri connazionali di Jaffa, si era adoperata
per evitare la deportazione degli ebrei dell’Impero Ottomano.
In Germania, nel 1933, quando iniziarono i primi pogrom
contro gli ebrei, l’intellettuale tedesco Armin T. Wegner aveva intuito quali terribili tragedie sarebbero seguite a questi primi segni del male, per l’esperienza vissuta in Mesopotamia durante la
deportazione e lo sterminio degli armeni del 1915. Era accaduto,
quindi poteva accadere ancora. Inviò una lettera di protesta a
Hitler denunciando con forza il danno che sarebbe derivato alla
Germania e all’umanità, con la persecuzione degli ebrei.
Chi avrebbe potuto prevedere cosa sarebbe stato della Jugoslavia, assistendo allo scatenamento delle violenza sugli spalti di
un campo di calcio? Chi è stato capace di cogliere i pericolosi se-
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gnali di incitamento alla violenza e all’odio nelle parole dei responsabili politici del tempo? Si poteva prevedere una tale devastante guerra civile, i cui effetti si prolungano sino ad oggi, come
dimostra la problematica coabitazione in Bosnia e in Kosovo?
In Ruanda, dove per mesi la «Radio delle mille colline» incitava a liberarsi degli «scarafaggi» tutsi, chi poteva immaginare che
si sarebbe scatenato un genocidio di tale portata? Forse avrebbe
potuto prevederlo Romeo Dallaire, il comandante canadese dell’ONU che poi implorò invano l’invio di rinforzi per affrontare la
tragedia ormai in atto.
Chi e come avrebbe potuto intuire cosa sarebbe successo tra
armeni e azeri negli anni Novanta dopo le prime manifestazioni
razziste a Sumgait e i primi segnali di incitamento all’odio?
Il mio interesse per questo libro mi ha sollecitato ad analizzare ciò che avviene in una certa area, in un certo momento, precedentemente allo scatenarsi di un massacro, di un pogrom, di un
genocidio. E mi porta a riflettere sull’uso che nella nostra contemporaneità facciamo della memoria storica. Mi porta a riflettere sui silenzi e i vuoti che accompagnano le tragedie del presente.
«La memoria» scrive Davide Bidussa «non è un accadimento, è
un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui
al fine di costruire una coscienza pubblica. La memoria ha un valore pragmatico, serve per fare1; ci dice oggi che del passato si è
trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra
capacità di agire…»2.
È il richiamo alla responsabilità dell’agire, a ogni livello, individuale e pubblico, che nasce dalla lettura di testimonianze
cruente come queste, raccolte da Samuel Shahmuradian negli anni Novanta e presentate oggi in traduzione italiana.
Ma è anche il richiamo alla presenza del bene nella tragica catena del male che emerge in questi racconti e che è necessario
sottolineare, affinché il lettore ritrovi qualche ragione di speranza nell’umanità, troppo spesso devastata dal dolore.
Nei fatti di Sumgait si è manifestata una concezione punitiva
verso persone innocenti: si massacrano persone inermi che vivo1
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Corsivo mio.
David Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino 2009, p. 11.
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no a chilometri di distanza dai loro connazionali del Karabagh,
solo perché armeni, ritenendoli corresponsabili delle rivendicazioni autonomistiche del Karabagh, anche se non tutti gli armeni
avevano manifestato entusiasmo per la richiesta di indipendenza
della regione autonoma.
Gli armeni di Sumgait da generazioni vivevano lontani dalla
regione che rivendicava la secessione, integrati nel tessuto sociale
azero, «compagni» comunisti. Ciononostante sono stati colpiti
da una violenza cieca.
Quale è dunque la motivazione reale sottesa a queste esplosioni di violenza? Le testimonianze dei sopravvissuti, che costituiscono la sostanza del libro, potranno fornire al lettore un orientamento nella ricerca delle motivazioni che spingono l’uomo contro l’ uomo nelle maniere più brutali.
Tuttavia, anche se il bene e il male sono fra loro intrecciati, e
non è sempre facile riconoscere il male mascherato da nobili intenzioni3, esiste qualcosa che supera questo nodo: la verità dei
fatti.
In alcune situazioni-limite, l’intreccio di bene e male può essere sciolto ed è possibile recuperare il criterio di distinzione considerando le conseguenze di certi atti: il dolore o il non dolore, la
distruzione dell’uomo o la sua salvezza. I buoni al tempo del male ci sono stati anche a Sumgait ed è in nome della verità dei fatti
che, dentro tanto male, sorge l’imperativo di valorizzare quegli
episodi nei quali i non armeni, vale a dire azeri vicini di casa,
compagni di scuola, colleghi di lavoro, hanno saputo dire «no».
Si tratta di persone che di fronte al dolore dell’altro, alla violenza
devastante che si abbatteva sugli armeni innocenti, hanno reagi3 Al tempo del genocidio del 1915 all’interno dell’Anatolia, in un vilayet
della regione di Malatia, Mustafa aga Azizoglu, presidente della municipalità,
aveva cercato di attenuare gli effetti delle disposizioni ufficiali ricevute riguardanti l’eliminazione degli armeni. Contravvenendo agli ordini, aveva dato rifugio nella sua casa a circa quaranta armeni. Nel 1921 fu poi ucciso da uno dei
suoi figli, militante «giovane turco», che considerava il padre un «traditore».
Con quel gesto il giovane era convinto di restituire l’onore alla patria turca che
gli aveva affidato il compito di eliminare gli armeni e non di salvarli! Un malinteso ideale di patria: per gli armeni il padre è un giusto, per i turchi giusto è
il figlio.
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to, si sono opposte, non hanno voltato le spalle. In una parola,
non hanno avuto paura.
Vorrei ricordare quelle donne e uomini azeri che hanno aiutato, salvato, soccorso chi stava sprofondando nel dolore: la ragazza azera che ha coperto con uno scialle un’armena che stava per
essere bruciata viva e l’ha porta in casa sua, o l’azera Khanum che
viene colpita dagli hooligan perché ha osato proteggere l’armena
Marina Avanessian; o il giovane Sadraddinov che, disobbedendo
al padre, accoglie in casa gli scampati al pogrom. Non sono numerosi i fatti di bene, ma ci sono e costituiscono l’unico punto da
cui partire per una possibile ricostituzione dei rapporti di convivenza. Tatiana Arutunian, difesa e aiutata per ben due volte, dichiara: «Abbiamo trovato azeri dal cuore grande!». E l’armena
M. Rosa aggiunge: «Se non ci fosse stato qualche azero di cuore,
nessuno sarebbe sopravvissuto».
Ciò che si evince dalle testimonianze è anche la profonda fiducia dimostrata da alcuni armeni nella legge sovietica e la loro incredulità di fronte agli attacchi dei «compagni comunisti». Chi
poteva immaginare che, dopo anni di fratellanza, si potesse riattizzare un odio rimasto silente per così tanto tempo? «Per me il
partito, il Komsomol erano cose sacre», dichiara Tatiana Arutunian, «ma a Sumgait ho visto che i miei ideali erano stati messi
sotto i piedi: le tessere di membro del partito si dovevano comperare, i giovani aderivano alla gioventù comunista solo per ottenere dei privilegi… tutto si comprava e si vendeva a condizione di
dargli un prezzo. Perciò io non mi meraviglio che orrori di questo genere si siano verificati qui»4. È come se la storia si fosse, di
fatto, arrestata agli anni Venti. Un vuoto riempito da settant’anni
di un’ideologia fallimentare basata sulla menzogna.
Durante i fatti terribili di Sumgait, tra gli armeni ci sono stati
uomini e donne coraggiosi che si sono battuti fino allo stremo
per difendere le loro famiglie, i loro figli, i loro genitori. Vissuti
per secoli in ambiente islamico, costretti spesso a difendere la
propria religione e la propria tradizione, alcuni membri delle famiglie armene sotto attacco sono stati capaci di costringere gli as4
Vedi la testimonianza di Tatiana Arutunian, anni 56, a p. XXX.
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salitori a un confronto individuale, consapevoli che senza la forza
del gruppo, l’assalitore si sarebbe dato alla fuga.
È la forza derivante dalla coscienza del valore di ogni persona,
autonoma e responsabile dei propri atti, di contro alla realtà di
singoli che ricavano la loro forza dal gruppo, dal fatto di portare
avanti la caccia al «diverso» avanzando insieme compatti.
La catena del male è continuata dopo i fatti di Sumgait: pogrom a Kirovabad nel novembre del 1988, a Baku nel gennaio
del 1990 e infine la guerra tra l’Azerbaigian e il Nagorno Karabagh dal 1992 al 1994. Enormi sofferenze per l’esodo di profughi
da entrambe la parti, perdite umane e lacerazioni profonde.
Ci sono stati ancora una volta episodi di «bene» dentro la catena del male che è seguita ai fatti di Sumgait, episodi di cui sono
venuto a conoscenza anche personalmente, e tuttavia il carico di
sofferenza che i due popoli hanno dovuto sopportare è stato
enorme.
Nel 1991, mi sono recato da Tbilisi in Armenia passando attraverso due villaggi azeri in stato di guerra. Superato il confine
fra la Georgia e l’Armenia, in cima a una collina, sono stato raggiunto da una decina di contadini che, appena scoperto che parlavo armeno, mi hanno abbracciato calorosamente. Erano armeni di un villaggio armeno dell’Azerbaigian che, subito dopo i fatti di Sumgait, si erano trasferiti in un villaggio dell’Armenia abitato da azeri, Evlu, poco distante dal confine dove mi trovavo in
quel momento. Gli azeri nati e cresciuti a Evlu si erano a loro volta trasferiti nel villaggio armeno dell’Azerbaigian. Si era trattato
di uno scambio pacifico tra le popolazioni, senza violenza, organizzato da due persone di buona volontà, i maestri di scuola.
L’insegnante armeno e il mullah azero erano vissuti insieme per
un periodo, cercando di conoscersi e di stabilire un’amicizia, base per operare lo scambio pacifico degli abitanti dei due villaggi.
Hanno superato incomprensioni e problemi, vivendo nella stessa
casa, e infine armeni e azeri si sono scambiati le abitazioni, distanti fra loro migliaia di chilometri5.
Nel 1993 ho incontrato sul lago Sevan una donna povera, mol5
P. Kuciukian, Giardino di tenebra. Viaggio in Nagorno Karabagh, Guerini
e Associati, Milano 2003, p. 81.
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to distinta che mi ha raccontato di essere una profuga di Sumgait: «Avevo nostalgia della mia casa, così ho detto a mia madre,
che mi impediva di ritornare, che sarei andata a Mosca per curarmi una febbre che mi tormentava. Da Mosca ho avvertito i miei
vicini di casa azeri che sarei andata a trovarli. Sono venuti a prendermi all’aeroporto di Baku, hanno dato cento dollari al poliziotto della dogana perché avevo un nome armeno, mi hanno messo
un velo in testa e mi hanno portata a casa loro. Mi hanno ridato
tutti i denari e i gioielli che avevo loro consegnato prima di fuggire in Armenia. Quando, nuovamente velata, mi hanno riaccompagnata all’aeroporto, per tornare in Armenia, via Mosca, ho regalato loro il mio gioiello più prezioso. Non ho potuto entrare in
casa mia, era occupata da profughi azeri, che non ho avuto il coraggio di incontrare»6.
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Ibid., p. 122.
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di Bernard Kouchner
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7 dicembre 1988. Alle undici e quarantuno ora locale, un’esplosione di magnitudine 6,9 della scala Richter fa rientrare, per
disgrazia, come al solito, il popolo armeno al centro dell’interesse mondiale. Terremoto in Armenia. Le città di Spitak, Kirovabad (oggi Vanadzor) e Leninakan (oggi Gyumri) distrutte più del
50%: circa centomila morti. Per la prima volta l’Unione Sovietica, non si trattava ancora di Russia, apriva le porte alla moltitudine dei soccorsi e dei volontari. Compassione e solidarietà si eguagliarono.
27, 28, 29 febbraio 1988. Lo stesso anno, qualche mese prima,
nell’indifferenza quasi generale, a Sumgait, in Azerbaigian, fu organizzato un pogrom contro la minoranza armena. Questo libro,
una sorta di «pugno allo stomaco», descrive, a partire dalle principali testimonianze inconfutabili, la preparazione e lo svolgersi di
questo crimine. Viene qui analizzata la sequenza degli assassinii.
Paradosso insopportabile: i massacri ripetuti rendono le vittime sospette. La crudeltà stupisce per un solo momento e l’opinione pubblica si lascia rapidamente distogliere da massacri continuati. I genocidi interessano meno delle catastrofi naturali. «O
mio Dio!», uno dice, inquietandosi come al solito dei flagelli che
sconquassano la crosta terrestre. Si comprendono più facilmente
i movimenti tellurici che le tragedie provocate, gli attentati alla
condizione umana ad opera dell’uomo.
Una sera, prima che Gorbačëv ricevesse il premio Nobel per
la pace, in una piccola camera di un hotel parigino, ascoltai la
coppia più importante del mondo parlare di genocidio. Sacharov
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evocava gli armeni e Elena Bonner raccontava dei curdi. Lei metà armena e metà ebrea, come lei stessa si definisce, ci diceva del
suo lavoro di medico presso i curdi dell’Iraq e del ruolo che questa popolazione dilaniata, divenuta più tardi democratica, ha giocato in un altro massacro, quello degli armeni. Le tragedie si intrecciavano dentro una sorta di scherzo della storia.
È difficile analizzare tutto «il triste bene» del libro che segue e
affermare la necessità della sua lettura dopo la prefazione di Elena Bonner con il suo modo così semplice di definire il crimine e
nello stesso tempo parlare di speranza.
Genocidio. Parola che per gli armeni è espressione di male secolare.
Genocidio. So quanto sia pesante questo vocabolo per poterlo pronunciare alla leggera, come troppo spesso avviene in questi
tempi di «piccola» cultura. Il termine risuona troppo forte per
essere usato senza prudenza, sprecato senza riflettere. E tuttavia,
lo scoprirete più avanti, alla lettura delle testimonianze, quale altra espressione scegliere per esprimere l’antica paura che afferra
gli abitanti di Sumgait all’avvicinarsi degli assassini ubriachi, ai
rumori minacciosi delle violenze abituali?
Si uccidevano gli armeni per quello che erano: armeni.
Genocidio. È lontano il 1915, e tuttavia la parola rimane proibita. In questi anni senza memoria, bisogna ascoltare i racconti
dei testimoni di Sumgait.
Cosa era successo? Perché ancora degli armeni assassinati?
Molte frontiere fra le repubbliche sovietiche non rispettavano
le delimitazioni etniche. È il caso della Transcaucasia dove le popolazioni armene e azere (turcofone) erano mescolate una all’altra. Per diverse ragioni la frontiera tracciata negli anni Venti tra la
Repubblica Socialista Sovietica d’Armenia e quella dell’Azerbaigian ha nettamente favorito quest’ultima, sul cui territorio vivevano fino a poco tempo fa 450.000 armeni. Erano concentrati soprattutto nella regione di Baku, a Kirovabad (ribattezzata Gangia) e in una regione limitrofa all’Armenia chiamata Karabagh.
Circa 150.000 armeni che costituiscono l’80% della «Regione
Autonoma dell’Alto Karabagh» non hanno smesso di desiderare
il loro ricongiungimento all’Armenia, a causa della discriminazione e della repressione culturale subite, e ciò a partire dal 1923.
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L’apparire sulla scena di Gorbačëv ha permesso di rendere pubbliche queste rivendicazioni: a partire dal gennaio del 1988,
enormi manifestazioni a Yerevan, capitale dell’Armenia, chiesero
l’autodeterminazione degli abitanti di quel territorio. Come afferma Sacharov, il problema del Karabagh aveva, come quello dei
tatari di Crimea, «valore di test per la perestroika».
Il 20 febbraio 1988, un fatto senza precedenti in URSS: il Soviet
del Nagorno Karabagh vota una mozione chiedendo il trasferimento della regione all’Armenia. Entusiasmo in Armenia.
La risposta non tarda. A Sumgait, grande borgo presso Baku
dove vivono 18.000 armeni, per tre giorni si organizza la caccia
all’armeno da parte di «certi elementi», caccia che provoca numerose vittime.
Questo libro è la parola dei sopravvissuti, raccolta in Armenia
dove avevano trovato rifugio. Attraverso i racconti si deducono
la preparazione, il meccanismo e lo scopo di questo pogrom. La
preparazione utilizza principalmente due leve. Da una parte la
denuncia delle rivendicazioni legittime degli armeni del Karabagh, fatte passare come un’iniziativa dell’«imperialismo dell’Armenia»; dall’altra il propagarsi di voci che riguardavano malversazioni delle quali sarebbero state vittime gli azeri di Ghapan, città dell’Armenia a forte minoranza azera (c’erano a quel tempo
200.000 azeri in tutta la repubblica di Armenia).
Le folle vengono fanatizzate, senza controllare la distribuzione di alcool e di armi bianche, e, secondo uno schema divenuto
sfortunatamente classico, gente che fino ad allora era vissuta in
modo pacifico o amichevole con i vicini, si ritrova da un giorno
all’altro come minimo con la casa saccheggiata o, nel caso peggiore, massacrata da dagli stessi vicini.
Per quanto riguarda la parte ufficiale sovietica, la passività
delle forze dell’ordine è unanimemente deducibile dai racconti
dei testimoni. Per qualche giorno gli azeri commettono, senza essere fermati, ogni sorta di vessazioni. (Le poche condanne di
qualche mese più tardi, risultato di processi «farsa» e di parodie
di processi, furono molto lievi.)
Al pogrom di Sumgait seguirono quello di Kirovabad (novembre 1988) e quello di Baku (gennaio 1990), mettendo fine alla secolare presenza armena in Azerbaigian: non resta che la «fortez-
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za» del Karabagh armeno attualmente in stato di assedio e di
blocco.
Crudezza del racconto.
All’ombra della perestroika si svolgono delle malvagità che bisognerebbe denunciare più fortemente. Non si sono fatti i conti
contro l’oppressione per il fatto che si è salutato l’arrivo di Gorbačëv, geniale curatore fallimentare, come il male minore. Solo
l’indipendenza di una repubblica garantisce contro l’oppressione.
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Parigi, 1990
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di Elena Bonner
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Scrivere una prefazione per questo libro è difficile. Ma il libro è
ancora più difficile, insopportabilmente più difficile. Non si tratta di letteratura. È una tragedia ancora viva, una piaga sanguinante di tutti coloro che hanno vissuto quei giorni. I loro ricordi
sono come un dialogo con se stessi. Non davanti a una telecamera, o a un microfono, o per la stampa. Così si parla solamente nell’oscurità della notte, a se stessi o forse alla propria madre. E probabilmente a nessun altro. Quindi lo leggo. Devo leggerlo. I miei
occhi si riempiono di lacrime, il dolore mi serra il cuore. In più è
un’onta bruciante. Quelle cose sono successe qui. Nel mio paese!
Quindi ognuno dei suoi cittadini è complice.
Sumgait ha sconvolto il popolo armeno. L’ha sconvolto per la
sua crudeltà, per il suo cinismo. Per il suo carattere organizzato e
per la sua impunità ha sconvolto l’Azerbaigian. Ha sconvolto anche qualcuno in Russia, ma solo chi conosceva la verità. Mentre
l’immensità del paese, un sesto del pianeta, continua fino ad oggi
a ignorarlo. Anche l’Occidente non l’ha quasi notato. Si vede come la nostra glasnost ha funzionato. Ci si ricorda con vergogna di
quei giorni quando, mentre si sotterravano le vittime e quando
tutta l’Armenia era in sciopero, sugli schermi della televisione gli
operai russi rimproveravano agli armeni di non lavorare, perché
a causa loro non potevano realizzare il Piano. Si aveva voglia di
girare la testa dall’altra parte per non vedere i visi di quella gente
alla quale, una volta di più, avevano imbottito la testa.
Non c’è alcun dubbio che Sumgait, come atto genocidario,
conoscerà un giorno la sua valutazione storica. Ma nella storia
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corrente tali valutazioni tardano sempre. E questi ritardi conducono la società verso altre disgrazie. Penso che la situazione attuale del nostro paese che segna il passo dopo avere decretato la
perestroika ha come punto di partenza il momento in cui la gente
ha creduto ai suoi slogan e quello in cui il Karabagh si è impegnato legalmente, per decisione delle autorità sovietiche regionali,
sulla via alla quale aspirava la maggioranza assoluta (75%) delle
persone che vivevano su quella terra. Fu uno dei primi movimenti di realizzazione della perestroika nell’URSS, e l’Armenia fu una
delle prime repubbliche ad applicarla. Migliaia di persone andavano ai raduni con lo slogan «Sì a Gorbačëv!» Da nessuna parte
e mai più si ebbe nell’URSS un tale sostegno alla perestroika e al
suo iniziatore. Ma le nostre autorità1 temono più di tutto le manifestazioni popolari incontrollate.
Come ora, per tutti i problemi importanti, le loro paure, le loro incomprensioni, la loro incapacità, hanno permesso a forze
dell’ombra di organizzare Sumgait. Le autorità hanno fatto di
tutto per farlo passare sotto silenzio, per attenuarlo, per non presentarlo per ciò che era. Molte volte il segretario generale del Comitato centrale, Michail Gorbačëv, ha ripetuto: «Abbiamo avuto
tre ore di ritardo. Erano bande di hooligan!». Ed è stato ancora
più vergognoso sentire lui, piuttosto che gli operai che non ne sapevano niente. A partire dai primi errori nel Karabagh, con Sumgait che non è mai stato condannato, il nostro paese ha visto dilagare un’ondata di tragedie per comprendere le quali ci vorrà
molto tempo: Kirovabad e il flusso di rifugiati dalle due parti,
Tbilisi, l’Abkhazia, Fergana, Udzen, l’Ossezia, e i nuovi orrori di
Baku. La colpa non è del Fronte popolare dell’Azerbaigian, degli
«estremisti», ma della paura che hanno le autorità di perdere il
loro potere. Nell’attesa, siamo diventati un paese di rifugiati. Ma,
come negli anni Trenta si taceva della carestia in Ucraina e della
morte di milioni di persone, oggi Sumgait passa sotto silenzio.
Oggi il nostro paese vive nell’attesa di ciò che può ancora succedere. E ognuno cerca la risposta alla questione di sapere se bisognava inviare le truppe a Baku, quando e con quale scopo: salvare le persone o salvare lo Stato?
1
Autorità sovietiche [N.d.T.].
forse la nota è superflua
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Questa è la nostra riflessione su ciò che è stato. Tutti si chiedono cosa bisogna fare per uscire dall’«impasse» attuale. La soluzione più frequentemente avanzata è quella di non rimuovere il
passato, non il passato lontano, ma quello più vicino, quello degli
ultimi tre anni. La proposta più frequente è quella di cominciare
a partire dai tragici mesi del gennaio del 1990. Ma tutti i mesi
precedenti furono tragici. E io penso che bisogna iniziare a dire
tutta la verità sui tre anni precedenti. I dirigenti devono dire tutta la verità al paese. Tutta la serie di errori, di inerzie, di azioni
inammissibili. Solamente dicendo la verità per intero si può iniziare a trovare una soluzione. Non dobbiamo temere né i musulmani, né i cristiani. Noi siamo tutti uomini, e anche gli atei lo sono. Ma se noi non mettiamo in luce tutta la verità, non arriveremo a nulla.
Forse non tocca a me, che sono metà ebrea e metà armena,
scrivere questa prefazione. Forse non sarebbe meglio che la scrivesse quella donna azera che ha salvato una famiglia armena?
Quella che ha detto: «Mio figlio vede tutto ciò, domani farà le
stesse cose». È una messa in guardia per noi tutti in questo mondo. Se noi non arriviamo a far sì che ogni Stato sia al servizio degli uomini e non gli uomini al servizio dello Stato, piccolo o grande che sia non importa, i nostri figli e i nostri nipoti si trasformeranno in una folla di bestie feroci. Come a Sumgait.
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(traduzione dal russo di Patrick Donabedian)