Tra epiloghi morse e lumie

Transcript

Tra epiloghi morse e lumie
Paolo Briganti
Tra epiloghi, morse e lumie
Le ragioni del teatro
nei primi atti unici di Pirandello
estratto da:
AA.VV.
da Dante a Montale
Studi di filologia e critica letteraria
in onore di Emilio Pasquini
a cura di
Gian Mario Anselmi, Bruno Bentivogli,
Alfredo Cottignoli, Fabio Marri, Vittorio Roda,
Gino Ruozzi, Paola Vecchi Galli
Bologna, Gedit
2005
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 701
Paolo Briganti
Tra epiloghi, morse e lumie
Le ragioni del teatro nei primi atti unici di Pirandello
0. Il “provido” ritardo
Il ritardo teatrale di Pirandello – ormai si sa – non fu affatto mancanza
di attenzione al genere specifico da parte dello scrittore, ma, anzi, fu determinato semmai (oltreché, in parte, da una concatenazione abbastanza sorprendente di situazioni ed eventi sfavorevoli) da una mancanza di attenzione da parte del mondo teatrale per quel giovane e ancora semisconosciuto
scrittore che bussava alle porte della scena1. Il quale, quando si stancò di
bussare, s’impegnò drasticamente in altro (romanzi, novelle...); anche perché, dopo il disastro delle zolfare paterne nel 1903, c’era bisogno di guadagnare, per sé e per la moglie (sùbito gravemente malata di nervi). Nacque
così, nel 1904, Il fu Mattia Pascal, e al non più tanto giovane Pirandello (più
che quarantenne ormai) cominciò ad arridere una certa notorietà, e con essa la possibilità appunto di scrivere altro (novelle soprattutto) per importanti testate, altro di cui vivere (che non è poco).
Pirandello era dunque assai più noto, ma anche molto preso da impegni
e progetti narrativi, quando, nel 1907, il commediografo catanese Nino
Martoglio, che dirigeva allora anche una compagnia siciliana di teatro, interpellò lo scrittore di Girgenti, sollecitandolo a scrivere qualcosa per la sce1
Il “nuovo corso” degli studi sul teatro pirandelliano – per una considerazione diversa da
quella, a lungo vigente, secondo cui Pirandello si sarebbe avvicinato tardi a questo genere artistico, e quasi obtorto collo – s’è aperto, si può dire, con la scoperta (da parte di Elio Providenti)
di più di quattrocento lettere giovanili di Pirandello ai familiari (cfr. E. Providenti, Lettere da
Bonn 1889-1891, Roma, Bulzoni, 1984; e Epistolario familiare giovanile 1886-1898, in «Nuova
Antologia», aprile-giugno e luglio-settembre 1985) da cui appunto si ricava, tra l’altro, che Pirandello aveva scritto, fra i venti e i trent’anni, numerosi testi teatrali.
701-724
23-12-2004
13:38
702
Pagina 702
Paolo Briganti
na2. Pirandello sùbito promise – l’antico sogno! –, ma non riuscì, quella volta, a tener fede all’impegno: troppo preso da altro. Non lasciò poi passare,
però, molto tempo: infatti nel 1910, solo tre anni dopo, Pirandello fornisce
a Martoglio – questa volta per il suo progetto romano del “Teatro Minimo” – due atti unici, La morsa e Lumie di Sicilia3, entrambi connessi a due
novelle (rispettivamente La paura e l’omonima Lumie di Sicilia). I due atti
unici vengono rappresentati al “Teatro Metastasio” di Roma nella medesima serata, il 9 dicembre 1910.
Così, il primo teatro “palese” di Pirandello nasce proprio sotto un doppio segno: quello dell’atto unico e quello della commistione testuale dei due
generi – scrittura narrativa e scrittura teatrale –; come sarà poi per gran parte del suo teatro. E, a veder bene, tutto ciò ha origine da quel “ritardo” teatrale, che è sì nei fatti oggettivi, ma che – come si diceva – è indotto, coatto, è in certo qual modo una “provida sventura”. La fantasia creatrice dell’autore, forzatamente tutta deflessa sulla narrativa, aveva infatti già prodotto nel 1910 (e continuerà ancora a produrre) storie, situazioni, personaggi che potevano e potranno essere agevolmente riconvocati per la scena,
sulla scena. I “numeri” della sua produzione, del resto, parlano chiaro: su
43 testi ufficiali del suo corpus teatrale, 32 – cioè all’incirca tre quarti del tutto – sono in qualche modo intersecati con testi narrativi.
1. Gli atti unici
Anche limitando l’attenzione al genere specifico dell’atto unico – che,
come abbiamo detto, costituisce il primo vero approdo pirandelliano al teatro – la quota non muta sostanzialmente, anzi si alza persino un poco in termini percentualistici: dei 13 atti unici scritti da Pirandello, 10 hanno implicazioni novellistiche, sicché il computo si porta al 76,9 %, contro il 74,4 %
nell’àmbito dell’intero corpus. Per comodità di riscontro, ecco in dettaglio,
schematico e un po’ semplificato, la sequenza degli atti unici (nell’ordine
delle prime rappresentazioni teatrali), affiancata dalle corrispondenze novellistiche:
2
Per questa e altre notizie selettivamente organizzate intorno al tema del teatro in Pirandello, è preziosa l’edizione in corso (filologicamente condotta e con apparato delle varianti) del teatro pirandelliano nei “Meridiani” Mondadori (ad oggi usciti tre volumi): L. Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro d’Amico, Milano, Mondadori, vol. I 1986, vol. II 1993, vol. III
2004).
3
Ci atteniamo qui sempre (anche più oltre nelle trascrizioni testuali da diverse edizioni) alla
grafia di “lumie” senza accento, raccomandata da A. d’Amico come unica costante grafia d’autore (contro tutte le stampe in genere).
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 703
Tra epiloghi, morse e lumie
ATTO UNICO
PRIMA
RAPPRESENTAZ.
PRIMA
EDIZIONE
703
NOVELLA
PRIMA
EDIZIONE
La morsa
1910
1898
La paura
1897
Lumie di Sicilia
1910
1911
Lumie di Sicilia
1900
Il dovere del medico
1913
1912
Il gancio → Il dovere
del medico
Cecè
1915
1913
Ø
La patente
1918
(in siciliano)
1918
(in italiano)
All’uscita
1922
1916
Ø
L’imbecille
1922
1926
L’imbecille
L’uomo dal fiore
in bocca
1923
1926
Caffè notturno →
La morte addosso
L’altro figlio
1923
1925
L’altro figlio
1905
Sagra del Signore
della Nave
1925
1924
Il Signore della Nave
1926
’A giarra → La giara
Bellavita
Sogno (ma forse no)
1917 / 1925
La patente
1963 / 1925 La giara
1927
1928
L’ombra del rimorso
[1931] 1937
1929
Ø
1902 / 1911
1911
1912
1918 / 1923
1909
1914
Per i tre atti unici senza implicazioni narrative, possiamo aggiungere che
la cronologia di “lavorazione” coincide quasi perfettamente con quella delle pubblicazioni, risultando comunque molto a ridosso delle stampe: i “momenti” di stesura di Cecè, All’uscita e Sogno (ma forse no) sarebbero appunto, rispettivamente, luglio 1913, aprile 1916, dicembre 1928-gennaio 19294.
Nell’àmbito delle Maschere Nude, i due atti unici Cecè e All’uscita sono, dopo il debutto del 1910, le prime due creazioni teatrali senza “sostegno” novellistico alle spalle: anche per tale approccio diretto al teatro si deve dunque notare una priorità del genere “atto unico”, forse come il più semplice,
per certi versi, rispetto alle articolazioni più impegnative e complesse dei
4
Questo il dettaglio, a confronto, delle prime edizioni: Cecè, in «La lettura» [il mensile del
«Corriere della Sera», diretto dal critico e drammaturgo Renato Simoni], ottobre 1913; All’uscita, in «La Nuova Antologia», novembre 1916; Sogno (ma forse no), in «La lettura», ottobre 1929.
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 704
704
Paolo Briganti
drammi in due o tre atti. Molto più tardo è invece il terzo ed ultimo atto unico “senza novella”, Sogno (ma forse no), decisamente sperimentale e innovativo (e decisamente fuori dalla portata di questo intervento)5.
Per gli altri dieci atti unici “con novella” si osserverà che, nello schema
sopra disposto, le novelle precedono sempre le corrispondenti versioni teatrali. Anche se poi...
2. Il “caso”a sé della Paura e della Morsa
Già: se per nove coppie testuali è del tutto vero – è vero cioè anche sul
piano dell’elaborazione – che la novella precede l’atto unico, dobbiamo però anche ricordare sùbito che per la prima accoppiata, La morsa/La paura,
le cose sono assai meno nette, e parlare in questo caso di “derivazione” dell’atto unico La morsa dalla novella La paura sarebbe forse erroneo, o improprio, o, quantomeno, incerto.
2.1. Status quaestionis
Ecco, per chiarezza espositiva, un succinto ragguaglio sulla situazione,
già nota agli specialisti. L’atto unico, inizialmente col titolo L’epilogo, fu
pubblicato la prima volta nel 1898 sul periodico romano «Ariel» (fondato
proprio quell’anno dallo stesso Pirandello insieme a Italo Carlo Balbo e
Ugo Fleres, che ne era anche il direttore), nel numero del 21 marzo; poi, col
titolo definitivo La morsa, fu ristampato in due altre edizioni (con varianti)
in «Noi e il mondo» (Roma, 1° marzo 1914)6, e in «Scene e retroscene» (Torino, 1° dicembre 1922), prima di entrare nella raccolta delle Maschere nude (Firenze, Bemporad, 1926; poi Milano, Mondadori, 1936). La novella La
paura era invece primamente uscita a stampa su «La domenica italiana» del
1° agosto 18977. Con tali date, dunque, anche in questa accoppiata la novella parrebbe precedere la versione teatrale.
5
La prima rappresentazione assoluta di Sogno (ma forse no) fu, singolarmente, in traduzione
portoghese, Sonho (mas talvez nâo), presso il “Teatro Nacional” di Lisbona il 22 settembre 1931;
mentre il primo allestimento italiano – a parte una esecuzione radiofonica (EIAR, 11 gennaio
1936) – s’ebbe, già postumo, a Genova il 10 dicembre 1937, presso il “Giardino d’Italia”, a cura del Gruppo Universitario di Genova.
6
Col nuovo e definitivo titolo di La morsa era stata però già rappresentata nel ’10 (cfr. supra,
§ 0).
7
La paura, rimasta fuori dalle Novelle per un anno, vi entrò solo postumamente, a partire dal
1938, nell’Appendice al secondo dei due volumi dell’“Omnibus” Mondadori dedicato all’intera
produzione novellistica.
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 705
Tra epiloghi, morse e lumie
705
Il problema nasce però, fuori dalle asciutte cronologie editoriali, anzitutto coi riscontri epistolari. Infatti, in una lettera ai familiari del novembre
1892, Pirandello scrive fra l’altro:
[...] Ho finito anche la mia nuova commedia, cioè un dramma in un atto, dal titolo L’epilogo, che andrà sulle scene, spero, sulla fine di questo mese o i primi del venturo. [...] Lo darà la compagnia Marini al Valle, protagonista lo Zacconi, attore egregio8.
Invece il progetto, che pareva assai prossimo a realizzarsi, non si concretizza; sicché Pirandello si rivolge a Cesare Rossi. Ma anche questa prospettiva sfuma; tanto che Pirandello, scrivendo il 7 febbraio 1893, ancora ai familiari, lamenta la sfortuna che pare accanirsi sui suoi testi teatrali, e porta
appunto l’esempio dell’Epilogo:
Lo dò [sic] a Cesare Rossi; sissignore! Cesare Rossi lo legge, lo loda, l’accetta, promette di rappresentarlo; ma prima capita il centenario Goldoniano, che lo distrae; poi è costretto a dar parecchie recite d’una commedia incontrata al pubblico; la stagione di carnevale termina, e il Rossi se ne va col
manoscritto del mio disgraziato Epilogo non rappresentato. Gli scrivo a Napoli pregandolo o di rappresentar colà, a quel teatro Sannazaro, il lavoro, o
almeno di restituirmelo per non perderlo, e ancora non mi risponde9.
Indipendentemente dalla validità di quella “promessa” di rappresentazione (si fa presto a promettere a un giovane postulante...), quel che conta
è che Cesare Rossi, pur non mettendo poi in scena L’epilogo, ne conservò il
manoscritto; che oggi si trova dunque fra quelli della Biblioteca Federiciana di Fano: datazione induttiva, quel “novembre 1892” della prima lettera
citata; o, al massimo, per eventuali ulteriori interventi, “fino al gennaio
1893”. Stando così le cose, sembrerebbe allora certa la precedenza dell’atto unico L’epilogo/La morsa sulla novella La paura, caso unico in tutto il corpus teatrale pirandelliano.
Eppure qualche margine di dubbio può ancora restare; se non altro perché la felice conservazione di un documento teatrale anteriore alla stampa
non esclude di per sé l’eventuale esistenza di perdute (o non ancora affiorate) carte attestanti analoghe (e magari precedenti) fasi elaborative sul versante narrativo. Altre analisi e confronti, di nuovo testuali, potrebbero allora forse tentare di risolvere questo estremo dubbio... (Non qui, non ora, comunque).
8
9
L. Pirandello, Lettere della formazione 1891-1898, Roma, Bulzoni, 1996, p. 121.
L. Pirandello, Lettere della formazione..., cit., p. 133.
701-724
23-12-2004
706
13:38
Pagina 706
Paolo Briganti
2.2. Fabula, anzi fabulae: confronti sincronici
Invece ci si potrebbe intanto contentare – su un piano di valutazione non
più filologica, ma puramente critica – di una valutazione comparativa fra i
due testi, soprattutto in termini di fabula, come se (strumentalmente) fossero adagiati su un medesimo piano sincronico.
La paura/La morsa si fonda, quanto all’argomento, sul tema del triangolo amoroso in àmbito coniugale: è la moglie a tradire il marito, nella particolare variante della consorte che poi, pentita, vorrebbe rientrare nell’ordine costituito degli affetti familiari. Il nocciolo di entrambi i testi consiste nella parte finale (l’“epilogo”, appunto) di una vicenda il cui ampio pregresso
viene ricostruito lungo lo svolgimento. L’amante (Antonio Serra), rivela alla
donna (nella novella e nell’atto unico, rispettivamente, Lillina Fabris/Giulia
Fabbri) la paura che il marito di lei (Andrea Fabris/Fabbri), li abbia visti in
un fugace atteggiamento rivelatore. Il Serra, amico e collaboratore di Andrea, lo stava accompagnando in un breve viaggio per lavoro; da cui è però
rientrato in anticipo su Andrea, per poter preavvertire la donna dei suoi timori. Di lì a poco dovrà rientrare anche il marito, che forse sa o forse non
sa. Tra i due amanti si svolge un colloquio rivelatore: rivelatore soprattutto
della paura e d’una certa egoistica grettezza del Serra. Il quale viene congedato alla fine da Lillina/Giulia, che, convinta ormai della pochezza d’animo
dell’amante e pentita del proprio tradimento, decide di troncare la relazione tornando al solo giusto amore per il marito e per i figli.
Fin qui la fabula è sostanzialmente comune ai due testi, anche perché la
novella consta della “descrizione narrativa”, senza alcuno scarto né alcuna
infrazione temporale, di un breve segmento di vita della protagonista: pochi
ma decisivi minuti della sua esistenza. La novella viene cioè narrata, in certo
qual modo, in “tempo reale”, essendo fondamentalmente costituita – senza
pause né salti – dal discorso diretto dialogico fra due personaggi: questo significa, fra l’altro, che il tempo che s’impiega a leggere il testo corrisponde,
più o meno, al tempo di svolgimento dell’azione narrata, un’azione appunto
fondamentalmente dialogica. Una novella molto “teatrale”, dunque.
È interessante notare la strettissima vicinanza fra le porzioni sovrapponibili dei due testi: i discorsi diretti della novella coincidono quasi perfettamente con le battute del testo teatrale; mentre le parti narrative e descrittive, sempre della novella, vengono riutilizzate anche nel testo teatrale quali
didascalie, con minime trasformazioni (e i mutamenti sono perlopiù strettamente funzionali alla forma didascalica). Da segnalare poi, nell’àmbito di
questi confronti, che, mentre nella novella le parole della domestica vengono rese attraverso il discorso indiretto del narratore (con l’assolutizzazione
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 707
Tra epiloghi, morse e lumie
707
quindi delle due voci principali), nel testo teatrale la domestica, oltre ad acquistare un nome (Anna), assume in proprio la parola: il che è ovvio, naturalmente, trattandosi di un testo teatrale, ma è significativo il fatto che ciò
avvenga con una trasformazione solo formale del discorso “indiretto → diretto”, senza alcuna modifica dei contenuti: ad ulteriore conferma della reale sovrapponibilità dei due testi.
Questo vale ovviamente solo per le parti veramente sovrapponibili, cioè
la novella nella sua interezza e, grosso modo, la prima metà dell’atto unico
(in sostanza fino all’uscita di scena dell’amante). Il testo teatrale infatti è
praticamente raddoppiato, giacché La morsa scavalca la situazione sospensiva con cui si chiude La paura, mostrandoci anche il “duetto”, drammaticissimo, fra moglie e marito (che controbilancia così il precedente “duetto”
fra moglie e amante). Andrea Fabbri, il marito, rientra dal viaggio d’affari,
e, tramite una conversazione apparentemente casuale e noncurante, porta il
discorso sull’infedeltà coniugale, avvolgendo rapidamente la moglie in una
spirale di progressiva e stringente tensione (una “morsa”), fino al redde rationem rivelatore: Andrea ormai sa tutto, e Giulia dovrà pagare la propria
colpa con il definitivo e irrevocabile allontanamento, da lui, dalla casa e, soprattutto, dai figli (cui non potrà neppure rivolgere un ultimo saluto). Di
fronte a tale prospettiva, Giulia, disperata, si chiude nella stanza attigua e
(fuori scena) si spara un colpo di pistola; proprio mentre rientra, ignaro, l’amante; al quale repentinamente il marito rinfaccia gelido: «Tu l’hai uccisa».
2.3. Significati
Per quanto riguarda il confronto sul “significato” complessivo di ciascuno dei due testi, ad onta di una trama largamente sovrapposta nella prima
parte (e quindi, fino a un certo punto, di un’unica fabula), risulta invece
molto evidente, per la nuova porzione teatrale, la differenza globale di senso fra i testi stessi. Il fatto che la novella si concluda nell’incertezza sospensiva di Lillina Fabris decisa a cambiar vita, sottolinea la svolta esistenziale
della protagonista psicologicamente recuperata dopo la “colpa”: la donna
ha compreso il proprio errore e vuol tornare ad essere la buona moglie e la
madre serena di un tempo. La “paura” – non tanto quella piuttosto meschina di Antonio Serra, quanto quella moralmente efficace della donna – è
l’occasione per una positiva svolta esistenziale. La sospensione conclusiva
aumenta l’effetto dell’attesa di Lillina, attesa trepida ma positivamente foriera di radicale resipiscenza morale dopo la caduta, nella prospettiva di una
rinnovata vita familiare per lei, il marito, i figli.
701-724
23-12-2004
708
13:38
Pagina 708
Paolo Briganti
Invece lo sviluppo ulteriore della vicenda, solo nell’atto unico, fa precipitare ogni speranza: Andrea Fabbri è ormai a conoscenza della colpa di
Giulia e, con la sua calcolata macchinazione psicologica, incarna la spietata
morale del marito offeso che vendica il proprio onore senza concedere alla
moglie il beneficio di alcuna attenuante, né, tantomeno, la possibilità di riabilitarsi. Il tragico gesto conclusivo della moglie, fin troppo repentino, non
permette del resto alcun accomodamento o sviluppo ulteriore (e resta abbastanza sorprendente la battuta con cui il marito scarica, ancora a caldo,
anzi “a pistola fumante”, tutte le responsabilità del suicidio di Giulia sull’amante)10.
Le due “morali” implicite, quella della novella e quella dell’atto unico,
pur partendo da un percorso inizialmente identico, e pur fondandosi evidentemente su uno stesso retroterra di convinzioni morali e comportamentali, appaiono comunque addirittura opposte negli esiti: nella Paura la reintegrazione della moglie pentita appare possibile; nella Morsa la donna fedifraga dovrà comunque pagare, inesorabilmente, cacciata o morta. La differenza parrebbe stare tutta nella consapevolezza: se il marito non sa, è ancora possibile rimediare; se invece sa, non ci son santi...
Vien da chiedersi se è tutto qui (del resto, per la morale borghese calzerebbe a pennello)11, o se ci siano magari anche altre ragioni. Sarà cioè, questa divergenza, il frutto automatico e casuale di un fatto strutturale, generato magari dal maggiore o minore spazio a disposizione? O il portato di uno
sviluppo “ideologico-morale”12? O una concessione “tragica” ad effetto,
particolarmente congeniale alla dimensione teatrale, di contro alla scelta
“patetica” della novella? Delle tre ipotesi, mi pare che la prima sia la meno
probabile (certo la meno interessante); la seconda, tutt’altro che infondata,
avrebbe bisogno di uno scandaglio di più ampio raggio (qui impossibile); la
10
L’argomentazione del tutto implicita – ricavabile con qualche accortezza solo da alcune frasi all’interno dei due “duetti” di “Giulia/Antonio” e “Giulia/Andrea” – è che Antonio Serra ha
approfittato di una condizione di temporanea debolezza d’animo di Giulia per sedurla, e con ciò
l’ha anche irrimediabilmente condannata poi al suicidio: va da sé che la sortita finale, ad onta della repentinità con cui è esplicitata, risulta diabolicamente premeditata (come, del resto, tutta la
precedente azione di “accerchiamento”).
11
Il più evidente e critico esempio teatrale, a ciglio asciutto, di morale borghese – in cui la
cosa che conta massimamente è che il tradimento non si sappia – è forse quella esplicitata nel
“tre atti” di Marco Praga La moglie ideale, un aspro dramma pre-grottesco (1890). Qualcosa di
molto simile sarebbe poi stato espresso nel primo grottesco ufficiale: La maschera e il volto di
Luigi Chiarelli (1916).
12
Ma, allora, in che direzione? Per questo interrogativo sarebbe davvero indispensabile poter
decidere quale testo venga prima. Oppure, rovesciando il ragionamento, potrebbe essere una considerazione ideologica a suggerirci, criticamente, il punto di partenza e quello d’arrivo più in linea
con gli sviluppi ideologici di Pirandello. Ma, certo, son territori di delicata esplorazione; comechessia, da accompagnarsi, parallelamente, con raffronti stilistici.
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 709
Tra epiloghi, morse e lumie
709
terza – coesistendo magari con la seconda (infatti l’una non esclude l’altra) –
mi pare altamente probabile, e può trovare anche, volendo, qualche rapida
conferma in altri testi più o meno nei dintorni (anzitutto in Lumie di Sicilia).
3. Un by-pass trans-generico
Ma, prima ancora delle conferme, torniamo un momento al primitivo titolo della Morsa, cioè L’epilogo. Di là dalla funzione occasionale di titolo, il
termine “epilogo” può designare, in Pirandello, sia una particolare tipologia dell’atto unico, sia – ancor prima – una modalità creativa trans-generica
(mi si passi il termine), fra narrativa e teatro, appunto. Lo scrittore ebbe infatti ad usarlo come definizione di “genere” per altri suoi testi: “epiloghi”
vengono definiti nel risvolto di copertina (all’altezza del 1920) vari atti unici, come Lumie di Sicilia, La patente, Il dovere del medico, Cecè, La giara13.
E, ancor prima (1911), nell’inviare in lettura a Edoardo Boutet l’atto unico
Il dovere del medico, Pirandello scrive esplicitamente che, come il precedente L’epilogo/La morsa, «è anch’esso un epilogo»14.
L’importanza di queste designazioni di genere non è sfuggita ad Alessandro d’Amico15, che le ha ricollegate, fra l’altro, ad alcune formulazioni
teoriche di Pirandello contenute in un disperso articolo del 1897, Romanzo, Racconto, Novella, riportato in luce nel 1966 da Gösta Andersson16; in
tale occasione Pirandello, parlando del rapporto tra novella, romanzo e tragedia, affermava tra l’altro che, di contro al romanzo,
la novella e la tragedia classica [...] pigliano il fatto, a dir così, per la coda; e
di questa estremità si contentano: intese a dipingerci non le origini, non i
gradi della passione, non le relazioni di quella con i molti oggetti che circondano l’uomo, e servono a sospingerla, a ripercoterla, ad informarla in
mille modi diversi, ma solo gli ultimi passi, l’eccesso insomma17.
Non può non essere significativo il fatto che il termine “epilogo”, correlato a tale concezione artistica pirandelliana, sia capace di accomunare, nell’ac13
Cfr. la Notizia di A. d’Amico premessa a La morsa, in Pirandello, Maschere Nude, ed. cit.,
I, pp. 5-6.
14
La lettera, datata «Roma, 2 dicembre 1911», è citata da A. d’Amico nella sua Notizia premessa a Il dovere del medico, in Pirandello, Maschere Nude, ed. cit., I, p. 75.
15
A. d’Amico, Notizia premessa a La morsa, cit., pp. 5-6.
16
Gösta Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Pirandello, Almqvist & Wiskell, Stoccolma, p. 124 (citato da A. d’Amico, cfr. supra).
17
L. Pirandello, Romanzo, Racconto, Novella, in «Le Grazie», Catania, 16 febbraio 1897.
701-724
23-12-2004
710
13:38
Pagina 710
Paolo Briganti
cezione di “estremità finale di un fatto”, due generi apparentemente (e statutariamente) divaricati quali la “novella” e la “tragedia classica”. Il by-pass instaurato da Pirandello fra narrativa e teatro, in ispecie fra novella ed atto unico, può trovare in tale definizione accomunante il conforto di una visione artistica al di sopra di generi normalmente considerati in opposizione o, quantomeno, definiti per differenze peculiari (fin dalle distinzioni aristoteliche).
In effetti la definizione di “epilogo” funziona bene in Pirandello tanto
per gli atti unici quanto per la maggioranza delle novelle “brevi” (che costituiscono la parte più cospicua delle Novelle per un anno): vale cioè, quale by-pass trans-generico, per tutti quei testi che, proprio per la loro caratteristica compressione e riduzione al fatto saliente conclusivo, bruciano le
loro energie, narrative o sceniche, nella “coda” di un fatto; quel fatto, quanto a presupposti, può anche nascere di lontano, ma nell’epilogo – novella o
atto unico che sia – conta artisticamente per il suo repentino risolversi, con
un ribaltamento improvviso, o un riconoscimento inaspettato: spesso, proprio per questo, la struttura stessa del testo implica un recupero conoscitivo dei fatti propriamente “a ritroso” o, come che sia, una restituzione finale di significato a qualcosa che è già accaduto. Giovanni Macchia ha giustamente osservato18 che nei testi di Pirandello – più nel teatro magari, ma
spesso anche nelle novelle – tutto è già avvenuto: si tratta solo di recuperare gli eventi o di riconoscere gradualmente la ragione profonda di quegli
eventi apparentemente inspiegabili. Allora “epilogo” non significherà soltanto “parte terminale di un fatto”, ma indicherà proprio – pirandellianamente – «un fatto preso per la coda».
Il confronto poi fra novella e atto unico potrà mostrare efficacemente
l’ulteriore riduzione (compressione degli eventi e del tempo trattato) cui
normalmente, nell’adattamento teatrale, viene sottoposto il testo narrativo
a causa delle necessità specifiche della rappresentazione scenica. Ma questo
in linea teorica generale; in pratica per ogni coppia testuale (novella/atto
unico) il confronto rivela sempre peculiarità proprie, diverse, poco o tanto,
per ogni caso.
4. Lumie di Sicilia fra narrativa e teatro
Il caso di Lumie di Sicilia – che condivide con La morsa il privilegio del
“debutto” scenico di Pirandello – è appunto adatto sia, genericamente, per
confrontare novella e testo teatrale, sia, specificamente, per saggiare l’ipo18
Giovanni Macchia, Premessa al primo volume delle Maschere nude, ed. cit., p. XVIII.
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 711
Tra epiloghi, morse e lumie
711
tesi, dianzi lasciata in sospeso (cfr. § 2.3), di una particolare e precoce attenzione dell’autore, nel passaggio da una destinazione all’altra, alle esigenze eventualmente divergenti fra lettura ed esecuzione scenica.
Lumie di Sicilia – il titolo, s’è visto, designa parimenti novella ed atto unico – non presenta problemi quanto a priorità: la novella precede infatti nettamente la trasformazione teatrale; quindi possiamo anche definirla propriamente e sicuramente “novella genetica”.
La novella fu dunque pubblicata in due puntate il 20 e 27 maggio 1900
sul settimanale letterario fiorentino «Il Marzocco»; entrò presto, fin dal
1902, nella raccolta Quand'ero matto... (ristampata con qualche variante anche nell’edizione del 1919) presso le edizioni torinesi dello Streglio; per trovare la definitiva collocazione nel 1926 entro il vol. X delle Novelle per un
anno, per l’editore fiorentino Bemporad, volume dal titolo Il vecchio Dio (di
lì poi le successive ristampe Mondadori).
L’atto unico giunse invece alle stampe solo il 16 marzo 1911 sulla «Nuova Antologia» (essendo già stato rappresentato però qualche mese prima,
nel dicembre 1910 – come s’è detto ad abundantiam – appunto nella stessa
serata della Morsa)19; entrò poi nella raccolta delle Maschere nude fin dalle
edizioni milanesi dei fratelli Treves nel 1920 (poi presso Bemporad, 1926),
in una versione che presenta numerose varianti, una delle quali, il finale,
fondamentale (come si vedrà). Frattanto c’era stata anche un’importante
redazione dialettale (di cui diremo) approntata da Pirandello nel 1915, appositamente per la compagnia di Angelo Musco20.
4.1. Una stessa fabula
L’argomento è assai noto, sicché basteranno qui pochi cenni, per rammentare abbastanza sinteticamente la fabula, comune, nelle linee generali, a
novella e atto unico. Antefatto: il giovane Micuccio Bonavino, suonatore
d’ottavino della provincia messinese, aveva scoperto in Teresina (una ragazza poverissima, orfana di padre) grandi potenzialità canore, e, a costo di sacrifici, prima le aveva fornito denari per gli studi di canto, poi l’aveva incitata lui stesso a completare gli studi in continente presso maestri prestigiosi: si erano dati cinque, sei anni di tempo perché ella potesse compiere la
19
Cfr. supra (§ 0).
Si tratta di una versione in cui Micuccio e zia Marta (solo loro) si esprimono in siciliano,
rappresentata la prima volta il 1° luglio 1915 all’“Arena Pacini” di Catania dalla compagnia di
Angelo Musco. Mai data alle stampe da Pirandello, oggi è fruibile in L. Pirandello, Tutto il teatro in siciliano, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Milano, Bompiani, 1993.
20
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 712
712
Paolo Briganti
propria educazione artistica; poi si sarebbero ricongiunti (sono dunque
“promessi”). Il fatto: Micuccio (che frattanto era stato anche gravemente
malato), si presenta, senza preavviso, nella lussuosa casa di Sina Marnis
(questo il nome d’arte assunto ora dalla fanciulla) dove la cantante è attesa
dalla servitù, lei e tutti gli invitati, per la cena-festa in suo onore; all’arrivo
di Sina e della madre di lei (che per Micuccio è, secondo l’uso siciliano, «zia
Marta»)21, appare sempre più chiaro che Sina (ingioiellata, scollata, procace...) non è più la semplice e pura Teresina d’un tempo, né può più essere
la “sua” Teresina. Micuccio è addirittura “trattenuto” in una cameretta di
passaggio fuori dalla sala, che s’è riempita d’un tratto d’una folla di ammiratori: cenerà lì, separatamente, insieme alla “zia Marta”, sempre più imbarazzata e, alla fine, in pianto. Micuccio, disilluso, dopo aver forzato zia Marta a riprendersi i soldi che gli erano stati mandati durante la malattia, estrae
da un sacchetto numerose “lumie” (i limoni siciliani), dicendo che le aveva
portate per Teresina, ma che ora le lascia solo a lei, a zia Marta... Il finale
però diverge nei due “generi” (novella e atto unico), e poi, ancor più, nelle
versioni teatrali: e lo lasciamo per dopo.
4.2. L’intreccio della novella
Se questa fabula è dunque comune ai due versanti, novella/teatro, anche
l’intreccio a veder bene è quasi identico: infatti la novella è già costruita in
gran parte “in presa diretta” e in tempi stretti, senza un dilatato sviluppo
d’eventi da narrazione distesa, e a partire proprio dalla parte finale del fatto,
senza alcun preambolo conoscitivo per capire almeno a grandi linee la situazione pregressa. Un “epilogo”, insomma, che prende i fatti per la coda. E un
trattamento già sostanzialmente predisposto, si direbbe, alla resa teatrale.
L’esordio della novella, addirittura in medias res: «– Teresina sta qui?» (e
non sappiamo ancora neppure chi parli a chi), immette direttamente, senza
preventive spiegazioni, nel corso di una vicenda che iniziava da assai lontano, ma che, appunto, è relegata, nei suoi prodromi e nella lentezza degli anni, alla condizione di antefatto tutto ancora da scoprire da parte del lettore.
Il dialogo in diretta fra Micuccio e il cameriere costituisce una prima tranche interlocutoria, in cui emergono sì e no i nomi dei protagonisti, e s’intuiscono appena i loro rapporti. Ci rendiamo conto del disagio del protagonista, timido, impacciato e fuori posto, che si considera tacitamente fi21
“Zio/zia” (siciliano: zi’/zâ) è l’appellativo di rispetto per una persona, non più giovane, di
condizione sociale modesta.
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 713
Tra epiloghi, morse e lumie
713
danzato di Teresina; la quale però, diventata Sina, deve aver fatto una bella
fortuna; ed è ora giustappunto attesa in questa sua lussuosa dimora, insieme a uno stuolo di convitati, per una serata in suo onore. Questa – dall’inizio fino a «E Micuccio rimase a tentennar la testa»22 – potrebbe essere dunque la prima parte della novella, sostanzialmente tutta in “presa diretta”.
È nel secondo momento del testo che vengono ripagate le nostre attese
conoscitive relativamente all’antefatto, con Micuccio che attende in un angolo, mentre la servitù passa avanti e indietro. Questa seconda parte – da
«Perbacco, era vero dunque!» fino a «...era tempo perciò che l’antica promessa s’adempisse, a dispetto di chi non voleva crederci» – riproduce i pensieri intimi di Micuccio: ed è grazie ad essi che ripercorriamo gli eventi ordinatamente dai lontani inizi (cinque/sei anni prima) fino al presente. Sul
piano stilistico-narrativo è una sorta di lungo monologo interiore che filtra
dal disciplinato discorso indiretto libero d’una voce narrativa indeterminata.
Il terzo blocco – da «Micuccio sorse in piedi, con le ciglia corrugate...» fino alla fine –, il più lungo, riprende il filo della narrazione degli eventi “in
diretta”, narrazione che nuovamente presenta dominanti situazioni dialogiche: sono le battute (e certe reticenze imbarazzate) fra zia Marta e Micuccio
– con una sola fugace “entrata-uscita” di Sina Marnis – a condurre il discorso e a pilotare la novella verso il finale. In questa terza parte si accumula sempre più la tensione del dramma psicologico di Micuccio, costretto via via a
riconoscere prima la troppa distanza sociale ormai creatasi fra lui e Teresina/Sina, quindi la vera e propria estraneità e – tramite l’esplicita ammissione di zia Marta – l’“indegnità” di lei, ormai corrotta da una sfarzosa vita
mondana, una vita, insieme, di grandi successi e facili costumi. L’antica promessa, promessa d’amore e di matrimonio, è tradita, calpestata, dimenticata.
4.3. Riconversioni teatrali
Come dicevamo, rispetto a queste tre parti novellistiche da noi convenzionalmente indicate, il testo teatrale ricavabile, per quanto riguarda i dialoghi e i ridotti movimenti scenici, era già, in certo qual modo, disegnato: si
sovrappone infatti assai bene alla prima e alla terza parte. Le tre unità aristoteliche, ferreamente vigenti per un “atto unico” di stampo scenicamente
realistico, erano già garantite. Quanto allo “spazio” (problema fondamen22
Qui, e di séguito, per le citazioni utilizziamo il testo di Lumie di Sicilia secondo la citata
edizione del 1902, testo ricavabile dall’apparato variantistico di cui è corredata l’edizione L. Pirandello, Maschere Nude, a cura di Mario Costanzo, Milano, Mondadori (“Meridiani”), vol. II,
1987.
701-724
23-12-2004
714
13:38
Pagina 714
Paolo Briganti
tale per l’unità di luogo), basta aprire il sipario su Micuccio già entrato, anziché ancora all’uscio: l’anticamera della sala può così divenire automaticamente l’unica, assoluta, unitaria scena; sullo sfondo la “bussola” della sala,
che segna anche il limite di un efficacissimo “fuori scena”, un “di là”, un off
limits, proibito a Micuccio, ma pure all’occhio e alla mente dello spettatore. Il “tempo” e l’“azione”, di conseguenza, non hanno stacchi o interruzioni: tutto, nei due segmenti indicati, viene già narrato-esplicitato in diretta e corrisponde, grosso modo, al tempo poi teatralmente esecutivo.
Resta solo, questo sì, da recuperare l’antefatto, il fatto pregresso, già lontano nel tempo, di cui qui si coglie, pirandellianamente, solo la “coda”: un
cospicuo e fondamentale antefatto, invero. In casi del genere soccorre, in
teatro, un facile escamotage: l’antefatto viene palesato dai dialoghi iniziali
fra alcuni personaggi in scena, perlopiù secondari: questi funzionali attanti
parlano fra loro “della cosa”, e così noi veniamo a sapere – senza che nessun “coro” ce lo debba dire direttamente (addio finzione realistica, sennò) –
di che si tratta, quali sono gli avvenimenti precedenti e come stan le cose a
quel punto, cioè al punto d’apertura del sipario, magari un attimo prima
che entrino in scena i personaggi principali. Solo che, nel caso di Lumie di
Sicilia, il racconto particolareggiato dell’antefatto, nella novella d’origine,
era pressoché interamente lasciato ai pensieri del protagonista: e far sentire
i pensieri a teatro – un teatro, ripeto, realistico-verisimile qual è quello iniziale di Pirandello – non è solo difficile, è praticamente impossibile. Una soluzione, certo, avrebbe potuto essere il “monologo-interiore esplicitato”: il
personaggio esprime a voce alta il proprio pensiero come se parlasse a sé
stesso: qualcosa di simile a un protratto “a parte”. Ma una finzione scenica
siffatta non era forse neppure nella chiave di quel tipo di teatro; e poi un
protratto monologo avrebbe comportato un evidente “peso” scenico, in assenza di quel “movimento” (anche solo verbalmente dialogico, s’intenda)
che è tipico del teatro, e che il pubblico si attende e pretende (o si attendeva e pretendeva).
Così Pirandello fa dialogare direttamente il protagonista con i due camerieri, trasformando l’eventualmente greve monologo in vivaci battute
dialogiche. Ma perché questo dialogo potesse davvero avvenire e risultasse,
magari, anche brillante, il Micuccio treatrale non poteva più essere lo stesso Micuccio della novella, schivo, reticente, introverso, quasi vergognoso:
doveva, perciò, cambiare carattere. È quello che fa Pirandello: applica al
personaggio un drastico viraggio umorale, in seguito al quale Micuccio, pur
restando sostanzialmente un buon figliolo ingenuo, diventa però molto più
ciarliero, quasi sfrontato (un po’ alla Renzo Tramaglino), e non lesina le vantazioni dei propri meriti e capacità, colloquiando anche spontaneamente e
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 715
Tra epiloghi, morse e lumie
715
rispondendo senza reticenze alle maliziose domande dei due camerieri, i
quali ridono alle sue spalle e suscitano certo anche il sorriso degli spettatori (persino con una “battutaccia” da avanspettacolo)23.
In questo modo il patetismo quasi uniforme (e un po’ lacrimevole) della
novella si trasforma in una mescidanza di patetico e comico, di serio e ironico, di doloroso e di buffo: si trasforma insomma in un grottesco, o, meglio ancora, in una incarnazione di quell’“umorismo” che Pirandello aveva
frattanto messo a punto, anche sul piano teorico24: quella qualità operativa
che rende tanto mossa e viva e “catturante” la scena pirandelliana, anche
con poco. Le ragioni del teatro. Le pure e semplici ragioni del teatro.
5. Come vanno a finire le Lumie
Eccoci ora al finale, anzi ai finali, che avevamo tenuto in sospeso.
5.1. Lumie di Sicilia: il finale della novella
Nella novella, Micuccio, uscito dall’appartamento di Sina Marnis, sopraffatto dallo sconforto, si siede sulle scale piangendo, mentre fuori piove
a dirotto. All’interno, Sina Marnis – ricomparendo una seconda volta fuori
dalla sala dopo la prima fugace apparizione – non trova più Micuccio, ma
solo la madre, in lacrime; vede le lumie e, senza che costei possa fermarla,
se ne riempie le braccia: noncurante della madre, che non vorrebbe, le porta nel salone gridando festosa «Lumie di Sicilia!». È la sconfitta di Micuccio, della semplicità e purezza dei sentimenti, degli antichi valori; col corrispettivo trionfo invece di chi ormai, come Sina, ha perduto il senso di quei
valori tradizionali in una vita di lusso e piacere, e, s’indovina, di costumi
non più incorrotti.
Tecnicamente, si tratta in realtà di un “finale doppio”, o “composto”: è
infatti composto da un finale primo, o “sottofinale” (sulle scale) e da un fi23
Sempreché non sia il moderno fruitore, come magari il sottoscritto, a metterci un eccesso
di malizia, direi che è proprio un doppiosenso salace (di quelli da aperta risata) l’ammicco della
cameriera (Dorina) al cameriere (Ferdinando) a chiosa-commento di una vantazione di Micuccio a proposito della voce di Teresina: «MICUCCIO (sorridendo) Gran voce, eh? / FERDINANDO (riavviandosi) Eh sì... anche la voce.../ MICUCCIO (si stropiccia di nuovo le mani) Me ne posso vantare! Opera mia! / DORINA La voce? / MICUCCIO Io, gliel’ho scoperta! / DORINA Ah sì? (A Ferdinando:) Senti? Gliel’ha scoperta lui – la voce.» [lezione del 1911]. Si noti il trattino di separazione, corrispondente al “tempo comico” per la gag, fulminea-ammiccante, conclusiva.
24
Alludo, naturalmente, al saggio su L’umorismo, del 1908.
701-724
23-12-2004
716
13:38
Pagina 716
Paolo Briganti
nale secondo, quello che conchiude effettivamente la narrazione (di nuovo
all’interno). Per meglio apprezzare poi i successivi confronti con l’atto unico, vediamolo propriamente questo novellistico finale “composto”, nella
redazione del 1902 (che è già la seconda, come s’è detto, cioè quella che più
da vicino precede la versione teatrale del ’10)25. Micuccio sta dunque per
andarsene:
– [...] Basta, basta, me ne vado lo stesso... anzi, tanto più, ora... Che
sciocco, zia Marta: non l’avevo capito! Non piangete... Tanto, che ci fa? Fortuna... fortuna...
Prese la valigetta e il sacchettino di sotto la tavola, e s’avviava per uscire,
quando gli venne in mente che lì, dentro il sacchetto, c’eran le belle lumie
ch’egli aveva portate a Teresina dal paese.
– Oh, guardate, zia Marta, – riprese. Sciolse la bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versò quei freschi frutti fragranti. – E se mi mettessi a tirare tutte queste lumie, che le avevo portate – soggiunse, – su la testa di quei galantuomini?
– Per carità, – gemette la vecchina tra le lagrime, facendogli di nuovo
cenno supplichevole di tacere.
– No, niente, – soggiunse Micuccio, ridendo acre e rimettendosi in tasca
il sacchetto vuoto. – Le lascio a voi sola, zia Marta. E dire che ho anche pagato il dazio... Basta. A voi sola, badate bene... A lei dite così: «Buona fortuna!» a nome mio.
Riprese la valigetta e andò via. Ma per la scala, un senso d’angoscioso
smarrimento lo vinse: solo, abbandonato, di notte, in una grande città sconosciuta, lontano dal suo paese; deluso, avvilito, scornato. Giunse al portone, vide che pioveva a dirotto. Non ebbe il coraggio d’avventurarsi per quelle vie ignote, sotto quella pioggia. Rientrò pian piano, rifece una branca di
scala, poi si sedette sul primo scalino e, appoggiando i gomiti su le ginocchia
e la testa tra le mani, si mise a piangere silenziosamente.
Sul finir della cena, Sina Marnis fece un’altra comparsa nella cameretta.
Vi trovò la mamma che piangeva, sola, mentre di là quei signori schiamazzavano e ridevano.
– È andato via? – domandò, sorpresa.
Zia Marta accennò di sì col capo, senza guardarla. Sina fissò gli occhi nel
vuoto, assorta, poi sospirò:
– Poveretto...
– Guarda, – le disse la madre, senza frenar più le lagrime col tovagliolo.
– Ti aveva portato le lumie...
– Oh, belle! – esclamò Sina rallegrandosi. Strinse un braccio alla vita e
ne prese con l’altra mano quanto più poteva portarne.
25
Riporto appunto a testo, ricavandola dall’apparato variantistico dell’ediz. cit. delle Maschere Nude, la redazione del 1902, già lievemente ritoccata rispetto alla princeps del 1900 (e poi
ancora minimamente modificata nell’edizione del 1919 e, ancora, nella definitiva del 1926, l’ultima rivista da Pirandello).
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 717
Tra epiloghi, morse e lumie
717
– No, di là no! – protestò vivamente la madre.
Ma Sina scrollò le spalle nude e corse in sala gridando:
– Lumie di Sicilia! Lumie di Sicilia!
5.2. Lumie di Sicilia: il finale dell’atto unico (prima versione)
Vediamo dunque sùbito, a confronto, il corrispondente finale dell’atto
unico nella versione del 1911:
Basta, basta... Me ne vado lo stesso... Anzi, tanto più, ora... Che
sciocco, zia Marta: non lo avevo capito! Per questo... tutta... tutta nuda...
Non piangete... tanto, che ci fa? Fortuna... fortuna... (così dicendo, riprende la valigetta e il sacchetto e si avvia per uscire; ma gli viene in mente che lì, dentro il sacchetto, ci sono le belle lumie che egli aveva portate a
Teresina dal paese) Oh, guardate, zia Marta... Guardate qua... (scioglie la
bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versa su la tavola i freschi
frutti fragranti).
MARTA Le lumie! Le nostre belle lumie
MICUCCIO Gliele avevo portate... (ne afferra una) E se mi mettessi a tirarle su
le teste di tutti quei galantuomini là?
MARTA (di nuovo supplice). Per carità!
MICUCCIO (ridendo acre e mettendosi in tasca il sacchetto vuoto). No, niente;
non temete. Le lascio a voi sola, badate bene. A lei dite così: «Buona fortuna!» da parte mia.
(Via – Séguita di là il suono e il coro – Zia Marta resta a pianger, sola, innanzi alla tavola, con la faccia coperta dalle mani – Lunga pausa – finché
Sina Marnis non pensa di fare un’altra breve comparsa nella cameretta)
SINA (sorpresa, vedendo la madre che piange). È andato via?
MARTA (accenna di sì col capo, senza guardarla).
SINA (fissa gli occhi nel vuoto, assorta, poi sospira). Poveretto...
MARTA Guarda... ti... ti aveva portato le lumie...
SINA (rallegrandosi). Oh belle! Guarda... quante! Che odore! belle! belle!
belle! (stringe un braccio alla vita e ne prende con l’altra mano quante più
può portarne, chiamando forte verso i commensali del salone, che accorrono) Didì! Didì! Rosi! Gegè! Cornelli! Tarini! Didì!
MARTA (levandosi e protestando vivamente). No! Di là, no! Non voglio! Di là, no
SINA (scrollando le spalle, ridendo, e offrendo i frutti ai convitati). Lasciami fare! Qua, Didì! Lumie di Sicilia! A voi, Rosi, qua, lumie di Sicilia! Lumie
di Sicilia!
MICUCCIO
Tela
Due sono le immediate osservazioni: la strettissima somiglianza fra i due
testi e, per contro, l’eliminazione della breve e intensa scena di Micuccio
701-724
23-12-2004
718
13:38
Pagina 718
Paolo Briganti
sulle scale. È sicuramente una ragione puramente “tecnica” quella che ha
obbligato Pirandello al sacrificio di tale scena: era l’assunto dell’unità spaziale ad impedirla, semplicemente (ed era oltretutto impensabile “uscire di
casa” dopo che l’intero atto s’era svolto “dentro casa”, anzi dentro quell’unica anticamera). Certo la caduta di tale “sottofinale”, tristissimo, attenua
parecchio (pur senza estinguerlo interamente) il timbro crepuscolare-introspettivo della situazione: resta, nella memoria ravvicinata dello spettatore,
la figura dolente di Micuccio che se n’è già andato, da sovrapporre mentalmente – solo mentalmente – alla rutilante apparizione finale di Sina e al suo
gesto sciaguratamente scanzonato. Invece, nella novella, l’effetto conclusivo
era determinato, non tanto dall’uno o dall’altro finale, ma proprio dalla
compresenza di un finale “doppio” (si diceva sopra: “composto”), parallelo, antitetico e, soprattutto, sovrapponibile pariteticamente a contrasto effettivo: fuori, solo, al buio, sulle scale, Micuccio che piangeva; dentro, nel
salone sfarzoso gremito di ammiratori, pieno di luce, Sina che rideva, nel
momento stesso in cui “profanava” le lumie.
A parte ciò, dicevamo, la vicinanza “verbale” delle due versioni è lampante, tanto nei dialoghi dell’atto unico, che ripetono di fatto quelli della
novella, quanto nelle didascalie, che riadattano solo formalmente, “didascalizzandosi”, le brevi parti narrativo-descrittive originarie. Anche proprio
per questa sorta di larga sovrapponibilità, è plausibile qualche osservazione
minuta sulle differenze che pur ci sono. Le “varianti” (mi si passi per praticità un uso lievemente improprio del termine, visto che si transita da un genere a un altro) sono quasi tutte aggiuntive. Vediamole, ordinatamente.
Anzitutto lo scorcio finale del duetto tra Micuccio e zia Marta. La prima
delle varianti aggiuntive – «Per questo... tutta... tutta nuda...», balbettato da
Micuccio – è in realtà il recupero (molto “parlato” nella forma, reticente e
ripetitivo) di quanto nella novella, assai prima, era esplicitato narrativamente, in un discorso indiretto libero ben percepibile ed efficace per il lettore («Come mai ella... così? Nudo il seno, nude le spalle, le braccia nude...»); considerazione che sul piano “verbale” – nonostante la “visibilità”
dell’attrice in scena – era invece rimasta, nella conversione teatrale, solo
“implicita”, in quanto nascosta entro una “inudibile” didascalia («Sina [...],
nudo il seno, nude le spalle, le braccia, si presenta frettolosa [...]»).
In didascalia, l’espressione integrata «versa su la tavola» – anziché la sola voce verbale «versa» della novella – è completamento dovuto probabilmente a una maggiore attenzione referenziale-esplicativa in funzione proprio dell’esecuzione scenica.
L’aggiunta della battuta esclamativa di zia Marta («Le lumie! Le nostre
belle lumie») serve a dare un po’ più di corpo al dialogo con un’espressio-
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 719
Tra epiloghi, morse e lumie
719
ne rimasta del tutto sottintesa nella novella: la si potrebbe considerare una
specie di automatica – plausibile ed anzi necessaria – “controscena”26 attoriale (in questo caso anche verbale anziché solo mimica).
Sùbito dopo, la giunta di Micuccio «Gliele avevo portate...» palesa udibilmente per gli spettatori quel che nella novella veniva narrato («le belle lumie ch’egli aveva portate a Teresina dal paese»).
La medesima battuta di Micuccio si conclude con l’aggiunzione di un
«là» («su le teste di tutti quei galantuomini là?») che offre certo migliore
“appoggiatura” esecutiva all’attore e, insieme, esemplifica una più vistosa
necessità deittico-spaziale del teatro, dove il gesto (gesto che davvero, in
questo caso, “indica”), evocato dalla deissi, può secondar meglio la parola
“detta” (che così diventa anche “parola agìta”).
Le due piccole giunte successive, sempre di Micuccio («non temete» e
«badate bene»), sono sottolineature discorsive, esplicativa la prima, espressiva la seconda, che migliorano anche la pronunciabilità della battuta.
Nella porzione residua di questo finale – il breve duetto tra Sina e sua
madre – zia Marta si aggiudica una brevissima battuta, «Guarda... ti... ti
aveva portato le lumie...» (oltretutto già registicamente impostata su un parlato balbettante e pausato) multifunzionale: rende infatti zia Marta, nel momento specifico, più “attiva”, anziché quasi solo astante; contribuisce a
rimpolpare un poco il dialogo; sottolinea la distanza tra le intenzioni dell’illuso/deluso Micuccio (già fuori scena) e la condizione ormai del tutto “altra” di Sina; contiene anche, implicitamente, un rimprovero e un auto-rimprovero (come dire, più o meno: “guarda che pensiero aveva avuto lui, poverino, e tu invece che cosa sei diventata, come viviamo ora noi...”); indirizza decisamente l’attenzione di tutto il pubblico in sala sulle eponime “lumie”, oggetto sempre più magnetico, e le colloca come sotto un riflettore
predisponendole per l’azione ultima.
Le altre tre varianti, sempre aggiuntive («Guarda... quante! Che odore!
belle! belle! belle!», «Non voglio! Di là, no», e «Lasciami fare! Qua, Didì!
Lumie di Sicilia! A voi, Rosi, qua»), nelle battute a incastro di Sina e di zia
Marta, sono infine soprattutto riempitivi “fonici” per la durata dell’azione
stessa; ma, in più, il richiamo ai convitati, di là, nella sala, rinforza anche, efficacemente, l’opposizione deittico-simbolica “qua/là”; senza contare che poi
magari, esecutivamente (a meno che non sia Sina ad avviarsi alla sala e a pronunciare la battuta già in uscita), si può ipotizzare, proprio sul calar del si26
Ricordo che, nella prassi del palcoscenico, “controscena” (non necessariamente prevista
dal testo ufficiale) indica un’azione “di sfondo” o “di reazione” all’azione in primo piano: spesso le controscene sono solo gestuali, mimetiche, senza emissioni di voce; ma sia per lo “sfondo”,
sia per la “reazione” il gesto può essere accompagnato da brevi battute a soggetto.
701-724
23-12-2004
720
13:38
Pagina 720
Paolo Briganti
pario, l’ingresso festoso di alcuni dei convitati che saranno accorsi ai richiami di Sina, con la “contaminazione” dei due spazi fino ad allora separati.
Anche solo in séguito a questo parzialissimo confronto, mi pare si possa
dire che Pirandello – partendo, non dimentichiamolo, da un testo novellistico, qual era Lumie di Sicilia, già fortemente e come vocazionalmente predisposto alla performatività della scena – si muoveva, all’altezza del
1910/1911, con grande abilità e sensibilità teatrale, operando nella trasformazione dei generi con mano davvero sicura. E – si badi – quando la sua
pratica in prima persona della scena teatrale era ancora nulla (salvo l’esser
stato spettatore, evidentemente, attento e critico).
5.3. Lumie di Sicilia: un altro finale per l’atto unico
Quando poi Pirandello entra davvero in contatto col mondo del teatro,
e il rapporto col palcoscenico e certe sue “regole” diventa non solo virtuale ma effettivo e continuo, egli acquisisce rapidamente sicurezza ancora
maggiore, e, nella rielaborazione dei suoi “vecchi” testi, rivela spregiudicatezza e “fiuto” scenico (verrebbe da dire: avendo potuto finalmente respirare la proverbiale “polvere del palcoscenico”; quella che non ti lascia più).
È il medesimo Lumie di Sicilia a potercelo ulteriormente testimoniare,
grazie alla definitiva versione teatrale del medesimo atto unico, secondo la
stampa del 1920, presso i fratelli Treves27. Quest’ultima versione si differenzierebbe invero assai poco da quella del 1911, se non fosse per la cospicua e fondamentale modifica del finale (che diventa anche il finale definitivo, quello con cui ormai va per il mondo questa pièce).
La chiave della modifica sta tutta nell’anticipare minimamente il rientro
in scena di Sina, quando ancora Micuccio non se n’è andato. Si attua così –
mentre prima non poteva aver luogo – il loro ultimo incontro, presente zia
Marta sgomenta: una scena di grande tensione e di grande effetto. A tale
nuova situazione non può non corrispondere un nuovo scatto teatrale e
conclusivamente, per forza, anche un diverso tono (e significato) complessivo del testo.
Vediamolo dunque da vicino questo “terzo” ed ultimo finale28:
27
La versione del ’20 è poi ribadita (con pochissime e minime varianti) da quella del 1926
presso Bemporad (da cui derivano in séguito, identiche, le successive edizioni mondadoriane).
28
In questo scorcio conclusivo le due redazioni, del 1920 e del 1926, coincidono interamente.
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 721
Tra epiloghi, morse e lumie
721
Basta, basta... Me ne vado lo stesso... Anzi, anzi... tanto più, ora...
Rientra a questo punto dal salone Sina. Subito Micuccio lascia la zia Marta
e si volta a lei; la afferra per un braccio e se la tira davanti.
Ah, per questo, dunque... tutta... tutta così?
Accenna con schifo alla nudità.
Petto... braccia... spalle...
MARTA (di nuovo, supplice, con terrore) Per pietà, Micuccio!
MICUCCIO No. State tranquilla. Non le faccio niente. Me ne vado. Che sciocco, zia Marta! non lo avevo capito... – Non piangete, non piangete... –
Tanto, che fa? Fortuna, anzi! Fortuna...
Così dicendo, riprende la valigetta e il sacchetto e s’avvia per uscire; ma gli
viene in mente che lì, dentro il sacchetto, ci sono le belle lumie, ch’egli aveva portato a Teresina dal paese.
Oh, me ne scordavo: guardate, zia Marta... Guardate qua...
Scioglie la bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versa su la tavola i freschi frutti fragranti.
SINA (facendo per accorrere) Oh! Le lumie! le lumie!
MICUCCIO (subito fermandola) Tu non le toccare! Tu non devi neanche guardarle da lontano!
Ne prende una e la avvicina al naso di zia Marta.
Sentite, sentite l’odore del nostro paese... – E se mi mettessi a tirarle a
una a una su le teste di quei galantuomini là?
MARTA No, per carità!
MICUCCIO Non temete. Sono per voi sola, badate, zia Marta! Le avevo portate per lei...
Indica Sina.
E dire che ci ho pagato anche il dazio...
Vede sulla tavola il danaro, tratto poc’anzi dal portafogli; lo afferra e lo caccia nel petto di Sina, che rompe in pianto.
Per te, c’è questo, ora! Qua! qua! ecco! così! E basta! – Non piangere!
– Addio, zia Marta! – Buona fortuna!
Si mette in tasca il sacchetto vuoto, prende la valigia, l’astuccio dello strumento, e va via.
MICUCCIO
Tela
Ad onta di una persin commovente conservazione di gran parte dei materiali linguistici, con un paio di nuovi brevi innesti di battute (e relative didascalie) – che costituiscono la vera novità –, con lo smistamento di una
battuta da zia Marta a Sina, e con quasi null’altro, l’effetto appare sorprendentemente nuovo, di potenziata evidenza e bruciante repentinità.
L’incontro diretto fra Sina e Micuccio – un Micuccio che, ormai, è solo lontanissimo parente del timido, introverso e succube Micuccio della novella,
essendo passato già attraverso lo “spavaldo” Micuccio del 1910/11 – accende scintille: Micuccio afferra Sina per il braccio, le rinfaccia aperta-
701-724
23-12-2004
722
13:38
Pagina 722
Paolo Briganti
mente le indecenti “nudità”, le vieta di toccare e financo di guardare «di
lontano» le lumie (col loro profumo antico, di paese, di onesti costumi...);
infine le restituisce il denaro del prestito sì, ma non lasciandolo insipidamente sul tavolo (come prima, alla madre), bensì infilando, alla fedifraga
impunita Sina Marnis, la somma nella scollatura, come tramandano si faccia (quantomeno si facesse) – secondo consolidata, ancorché vieta, prassi
iconografica – giustappunto con le donnacce. Questo significava rendere al
grado più esplicito possibile – e, naturalmente, nel modo più “teatrale”
possibile – quel che prima, pur affiorante, era lasciato, in assenza di diretto confronto delle parti, al giudizio morale dello spettatore, alla sua elaborazione post factum. Ora il marchio infamante non è solo tra le righe, coltivabile nelle coscienze, ora è impresso indelebilmente, con un gesto inequivocabile e definitivo, e anche – che non guasta – straordinariamente ad
effetto. Il portato di ciò è, naturalmente, un tono finale diverso e una sottolineatura “ideologica” ancor più netta e vigorosa. Ora è come dissolto
l’alone crepuscolare, sparita la dismissione nel ripiegamento e nella sconfitta: Micuccio se ne va sì, ma trionfante, avendo giudicato e mandato col
suo... colpo di coda.
Piccolo corollario, prima di chiudere. Quanto un siffatto gesto ad effetto e una trionfante uscita di scena (giusto un attimo prima che cali il sipario) possano importare a un primo attore, mattatore o no, si lascia al ragionevole intuito del lettore anche appena provveduto. Un primo attore che si
sia prodotto per tutto l’atto, tenendo la scena dall’inizio sin quasi (quasi) alla fine, non potrà mai gradire un’uscita che lasci padrone del palcoscenico,
per i brevi ma trepidi, delicati, momenti finali, una spalla (zia Marta) e una
comprimaria (Sina), cioè nella fattispecie probabilmente una “generica” e
una “subrettina”. Dunque questo finale “forte”, con l’ultima battuta e l’ultimo gesto appannaggio del protagonista assoluto, era – vedi caso – in linea
con certe esigenze attorial-protagonistiche, esigenze magari di per sé non
necessariamente commendevoli, ma resistenti (eccome) nel mondo del teatro. Esigenze che producono effetti, effetti pratici (come la differenza tra allestire una pièce o non allestirla, ad esempio).
L’abbiamo accennato sopra en passant (cfr. § 4) ma ora è il caso di chiarirlo meglio: quest’ultima versione del finale passa – ed è fondamentale – attraverso l’intenso e proficuo (ancorché burrascoso) rapporto che Pirandello intrattenne con l’attore siciliano Angelo Musco, a partire proprio da una
specifica riscrittura per lui di Lumie di Sicilia. Lo scrittore, che apprezzava
e stimava Musco come il miglior interprete del teatro siciliano, gli approntò infatti nel 1915, appositamente, una redazione “sicilianizzata” (in cui appunto le battute di Micuccio e zia Marta sono in dialetto) e, soprattutto, vi-
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 723
Tra epiloghi, morse e lumie
723
stosamente modificata nel finale, secondo l’assetto poi passato anche – come s’è visto – nel testo in lingua29.
Il nuovo ultimo finale pare non fosse particolarmente apprezzato dalla
critica, che rimpiangeva la maggior finezza della precedente versione. Aveva ragione, in fondo, la critica: ma le ragioni della scena potevano anche essere altre. E Pirandello, che pure non fu mai corrivamente disponibile a
compromessi che non lo convincessero, sembra proprio che, in questo caso, non abbia avuto alcuna remora alla modifica. Rispetto alla quale non è
chiaro se tale nuovo finale fosse davvero direttamente ed originariamente
escogitato da Pirandello o fosse piuttosto un suggerimento da lui accolto
dallo stesso Musco, eventualmente in itinere, cioè durante l’allestimento. La
seconda ipotesi non sarebbe affatto da escludersi, anche alla luce di successivi accertati comportamenti di Pirandello, diffidente e severo sì, ma pronto ad accogliere e a far proprie – assumendole a testo – le idee registiche
d’allestimento che incontrassero la sua approvazione esecutiva30. Comechessia, Pirandello diede il proprio placet a questo ulteriore, meno fine ma
più forte, finale di Lumie di Sicilia, e lo mise a testo. A testo nelle Maschere
nude, il suo teatro in lingua.
Le ragioni del teatro (vedete un po’).
29
Non è qui il caso di fornire anche il finale nella versione siciliana (per cui si rinvia alla citata edizione pirandelliana di Tutto il teatro in siciliano, a cura di Sarah Zappulla Muscarà), ma
sarebbe sorprendente, ed utile, toccar con mano, “testi a fronte”, la perfetta sovrapponibilità
strutturale delle due redazioni, in dialetto e in lingua, e persino la quasi perfetta sovrapponibilità delle parole, pur in “traduzione”, una ad una.
30
È il caso, tanto per citare esemplarmente quello forse più famoso, della variantistica relativa a Sei personaggi in cerca d’autore, il cui assetto ultimo è sicuramente debitore di alcune, famose e significative, esperienze d’allestimenti scenici affidati a registi di vaglia.
701-724
23-12-2004
13:38
Pagina 724