C. Rebora- Frammenti lirici
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C. Rebora- Frammenti lirici
«FRAMMENTI LIRICI» DI CLEMENTE REBORA di Franco Fortini Letteratura italiana Einaudi 1 In: Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere Vol. IV.I, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1995 Letteratura italiana Einaudi 2 Sommario 1. Genesi e storia. 4 1.1. 1.2. 1.3. 2. 4 4 6 Struttura. 8 2.1. 2.2. 3. 8 10 Tematiche e contenuti. 12 3.1. 3.2. 4. 12 14 Modelli e fonti. 24 4.1. 5. 24 Valutazione critica. 26 5.1. 5.2. 5.3. 6. 26 29 30 Nota bibliografica. 31 Letteratura italiana Einaudi 3 1. Genesi e storia. 1.1. L’opera di Rebora è in primo luogo l’insieme dei suoi versi, pubblicati in raccolte o su periodici (e in poca parte inediti quando ancora viveva l’autore). Le raccolte recano i titoli di Frammenti lirici (1913), Canti anonimi (1922), Curriculum vitae (1955), Canti dell’infermità (1956). Nel 1947 il fratello Piero curò un volume1 che insieme ai Frammenti e ai Canti anonimi conteneva quasi tutte le poesie e prose liriche scritte fra il 1913 e il 1947 e stampate su riviste o fino allora inedite. L’edizione cui facciamo qui riferimento2 distingue invece fra i testi del periodo 1913-27, le cosiddette “poesie religiose” del periodo 1936-47, i Canti dell’infermità e le numerose “poesie sparse” scritte fra il 1930 e la morte (1957). Con le Dieci poesie per una lucciola una appendice contiene, fra l’altro, il terzo e quarto dei Movimenti di Poesia, testi, questi ultimi, molto rilevanti che tuttavia Rebora aveva rifiutati dopo la conversione e il passaggio allo stato sacerdotale. Le prose e gli scritti saggistici – fra i quali l’importante studio Per un Leopardi mal noto3, che è del 1910 e le esposizioni su Antonio Rosmini (1951-52)4 – non sono a tutt’oggi raccolti in volume. L’epistolario è di molto alta qualità intellettuale, può in più luoghi considerarsi integrazione e commento dell’opera lirica e non sembra avere ricevuto sino ad oggi tutta l’attenzione che merita5. Altrettanto rilevanti sono le versioni6, soprattutto quella del Cappotto di Gogol’, con note e annotazioni del traduttore. 1.2. Nato a Milano il 6 gennaio 1885, Rebora aveva ricevuto nella famiglia, che era di agiata borghesia, una formazione intellettuale ispirata in pari misura al gusto materno per la poesia e la musica e alla razionalistica severità civica, massonica e patriottica del padre, dirigente di una grande impresa di trasporti, mazziniano 1 C. REBORA, Le poesie (1913-1947), a cura di P. Rebora, Firenze 1947. Le poesie (1913-1957), a cura G. Mussini V. Scheiwiler, Milano 1988. Tutte le citazioni presenti nel testo sono tratte da questa edizione. L’indicazione in numeri romani di ogni “frammento” (abbreviato in fr.) è seguita dal numero dei versi citati. Non sono state mantenute le maiuscole nelle lettere iniziali di verso. 3 ID., Per un Leopardi mal noto, in «Rivista d’Italia», XIII (1910), pp. 373-449; ripubblicato in AA.VV., Omaggio a Clemente Rebora, Bologna 1971, quindi come volumetto autonomo, a cura e con introduzione di E. Barile, Milano 1992. 4 ID., Sguardo alla vita interiore di Antonio Rosmini, in «Charitas», bollettino rosminiano, Stresa, sedici contributi nelle annate 1951 e 1952. 5 Per i rimandi stilistici tra l’Epistolario e i Frammenti cfr. U. CARPI, La «Voce». Letteratura e primato degli intellettuali, Bari 1975. 6 Cfr. L. ANDREEV, Lazzaro e altre novelle, Firenze 1919; L. TOLSTOJ, La felicità domestica, Firenze 1920; ANONIMO, Gianardana, Milano 1922; N. GOGOL’, Il cappotto, Milano 1922. Va qui data notizia della nuova edizione di A. BLOK, I dodici, a cura di V. Scheiwiller, Milano 1986, pubblicato senza nome di traduttore col titolo Canti bolscevichi, Milano s. d. [ma 1920]. Scheiwiller, in una sua nota introduttiva, discute l’ipotesi che la versione possa essere opera di Rebora o almeno compiuta con la sua collaborazione. 2 ID., Letteratura italiana Einaudi 4 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini ammiratore di Cattaneo, già garibaldino combattente a Mentana e traduttore di Edgar Quinet, ossia di uno dei massimi autori del progressismo umanitario francese. Dal liceo classico Clemente era passato alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Milano, che allora si chiamava Accademia Scientifico-Letteraria, e vi aveva conosciuto coetanei appassionati di filosofia, letteratura, arti e musica. La sua esistenza, fino ai trent’anni, fu quella di un giovane di larghissime letture filosofiche e letterarie e di fervore intellettuale, presto intimamente leso da squilibri e da comportamenti di scacco. Come non pochi altri suoi coetanei del ceto colto, visse tanto sotto il segno della passione eroico-tragica secondo Nietzsche e Dostoevskij quanto sotto quello di una tensione spiritualistica e volontaristica verso una società unanime. Gliene venne un modo di porsi di fronte alla esistenza, alla vita familiare – dalla quale ebbe difficoltà a rendersi economicamente indipendente – e anche al gruppo dei suoi amici, di cui la scrittura poetica fu solo una delle forme assunte dalle contraddizioni violente che lo scossero nella sua vita di relazione e nell’immaginario. Volersi poeta fu per il giovane Rebora uno dei modi di riscattarsi dalla subordinazione interiore alla figura e alla cultura paterna e ai sensi di colpa che le si accompagnavano. Le amicizie sue, di filosofi e di filologi, riproducevano l’universo della razionalità operosa; e di qui la paura di perderle, di essere considerato un fallito. E insieme i comportamenti autopunitivi, di orgogliosa castità, di fuga di fronte all’amore possibile e di ascesi sportiva o militare; temi tutti ben leggibili nei Frammenti. In una lettera del 1910, risponde all’amico Monteverdi che lo sollecitava a raggiungerlo a Berlino: «È meglio che non ne parliamo: sembra che in uno scambio ci sia stato errore, ed ho infilato un binario morto»7, si può vedere non solo il sinistro flesso verbale con l’allegoria del frammento XI («O carro vuoto sul binario morto»); ma la persuasione di una sconfitta: «Il mio fallire perpetuo», scriverà al fratello Piero8. Di qui, anche, i ripetuti scacchi ai concorsi per l’insegnamento e la ricerca di un ambiente di artisti e letterati, irregolari dell’arte e del costume, dapprima nella Firenze della «Voce» poi nella amicizia con il pittore Cascella e con Sibilla Aleramo. La relazione con la pianista russa Lydia Natus e l’avvicinamento ai futuristi esaltarono (in coincidenza con l’avvicinarsi della guerra, le tensioni politiche pro e contro l’intervento, e soprattutto la breve ma tremenda esperienza al fronte, negli ultimi mesi del 1915) una crisi che non solo segnò quanto Rebora scrisse fra il 1913 e il 1917 ma si prolungò anche negli anni del conflitto e del dopoguerra. Di 7 C. REBORA, Lettera ad Angelo Monteverdi del 28 settembre 1910, in ID., Lettere, I. 1893-1930, a cura di M. Marchione, prefazione di C. Bo, Roma 1976, pp. 70-71. 8 ID., Lettera al fratello Piero del 6 agosto 1913, ibid., p. 189. Letteratura italiana Einaudi 5 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini quelle scritture una parte minore è in Canti anonimi, una maggiore è in quelle che gli editori hanno chiamate Poesie sparse e prose liriche. L’esperienza traumatica della battaglia e il successivo passaggio per gli ospedali psichiatrici lo segnarono a lungo. Agli amici di giovinezza che si erano a poco a poco allontanati da lui, egli appariva ormai come una mente vacillante e un velleitario9. Fino alla conversione, sul finire del 1929, fu traduttore, curatore di testi di spiritualità, insegnante e conferenziere poi novizio al Collegio Rosmini di Stresa; e, dal 1936, sacerdote. Solo nel dopoguerra riprese a scrivere versi, poi disposti nelle ultime raccolte. Queste, sebbene rivelino, sotto le pie formule della tradizione mistica, una certa continuità stilistica con quelle del periodo 1913-22, sono talvolta di dura energia formale e di una sprezzante decisione di taglio; e, nel Curriculum vitae, introduce una dimensione narrativa quasi del tutto assente dalla poesia della giovinezza. 1.3. Lo scritto presente considera soprattutto il libro dei Frammenti lirici (« forse il libro più difficile di tutto il nostro Novecento»)10 come quello che si vuole, appunto, un libro compiuto. Ma si deve anticipare qui che la poesia successiva, del periodo 1913-22, proprio sviluppando le forze centrifughe solo implicite nella raccolta del 1953 e quindi rinunziando a strutturarsi come i Frammenti, perviene a esiti che in assoluto sono i suoi maggiori. In questo senso gli scritti posteriori si fanno interpreti, come spesso accade, degli anteriori. Poesie come Al tempo che la vita era inesplosa, Sacchi a terra per gli occhi, Gira la tròttola viva, Dall’imagine tesa (nei Canti anonimi), i quattro Movimenti di poesia, Notte a bandoliera, Fantasia di carnevale, Voce di vedetta morta, Scampanio con gli angioli, Stralcio, Arche di noè sul sangue, Viatico, Vanno, Serenata del rospo, Ca’ delle sorgenti (nelle Poesie sparse e prose liriche) destinano a Rebora un luogo nella lirica italiana moderna anche più alto di quello cui lo pongono i Frammenti del 1913, ancora “inesplosi”. Le prime prove di Rebora sono probabilmente da situare intorno al 1905, sui suoi vent’anni. Ne parla in una lettera del 1909: «[...] mi sono convinto che le mie poesie non raggiungeranno forse mai l’arte»11. Sono di quell’anno (mentre continua lo studio della musica), e in coincidenza con la stesura della tesi di laurea, l’incontro con Giovanni Boine e il primo contatto epistolare con Prezzolini e «La Voce». Alla data del 16 novembre 1911, scrive a Dania Malaguzzi e già intravvede 9 ID., Lettera ad Angelo Monteverdi del 15 settembre 1921, ibid., p. 418: «[...] perché gli amici della giovinezza non sono più gli amici della tua vita?» 10 S. RAMAT, Storia della poesia italiana del Novecento, Milano 1976, p. 89 (il capitolo sui Frammenti lirici è alle pp. 88-104). 11 C. REBORA, Lettera a Daria Malaguzzi del 29 maggio 1909, in ID., Lettere cit., p. 45. Letteratura italiana Einaudi 6 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini il futuro titolo, sebbene nel senso limitativo – e successivamente respinto – di alcunché di disgregato e casuale: «S’io pubblicherò alcuni pochi frammenti lirici […]»12. Il 14 gennaio 1912 chiede a Monteverdi quale potrebbe essere la spesa per stampare una cinquantina di Frammenti lirici (che egli dice «vecchi o recenti, gravi o labili»)13 in cento o cinquecento esemplari; il 16 febbraio gli annuncia a giorni i versi, non ancor limati; nè ordinati sono ancora i frammenti, perché non so come disporli se per contrasto o per affinità [...]. Mi son tenuto al numero della cinquantina, perché altri più recenti potran fare parte di un secondo vol. con svolgim. e modi più su (o più giù)14. È quindi verisimile che la maggior parte dei Frammenti sia stata composta prima del 1912 anche se il lavoro di revisione e di nuova composizione ebbe a continuare ancora per diciassette mesi e fino alla immediata vigilia della stampa. In una lettera ad Antonio Banfi del 12 febbraio Rebora dà di sé una immagine che già misura il grado della sua consapevolezza: «[...] cavaliere in procinto d’essere scavalcato – perché sono un lirico»15. Ma il senso di precarietà esistenziale non era disgiunto da una precisa coscienza critica: «e salvato (superbia?) dal consiglio affettuoso di Monteverdi che un anno e mezzo fa ebbe modo di veder questa piccola parte dei miei versi [...] in essi è tutta la sofferenza e la gioia della mia vita interiore [...]»16. E, pochi giorni più tardi, il 22 febbraio, rivolto al critico e filologo che aveva eletto a consigliere e che certo deve essere intervenuto, con i suoi suggerimenti, sui testi: «Non mi sentirei di togliere un accento ai miei versi [...]» diceva; e «specialmente nella ricchezza interiore del ritmo (ritmo idea-suono) [...] io richiamo la tua attenzione benevola: ritmo non sempre superficialmente gustabile»17. La lettera conteneva anche la trascrizione di quattro poesie (O carro vuoto sul binario morto, Sta fra lascivie di vivande e vino, Nell’avvampato sfasciume, O poesia, nel lucido verso). Il 27 febbraio pregava Monteverdi di informare a Firenze Prezzolini – cui si era rivolto per la pubblicazione, dicendosi pronto ad affrontarne le spese; e gli amici Monteverdi e Banfi si proffersero a contribuirvi – che egli avrebbe voluto le poesie stampate senza titoli, e che «sfilassero una dietro l’altra senza interstizi» in «un libro ritroso»18. Prezzolini ne apprezzò solo 12 ID., Lettera a Daria Malaguzzi del 16 novembre 1911, ibid., p. 106 (l’intera lettera, pp. 104-6). ID. Lettera ad Angelo Monteverdi del 14 gennaio 1912, ibid., p. 110. 14 ID., Lettera ad Angelo Monteverdi del 16 febbraio 1912, ibid., p. 115. 15 ID., Lettera ad Antonio Banfi del 12 febbraio 1912, ibid., p. 113. 16 ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del 14 febbraio 1913, ibid., p. 152. 17 ID., Lettera ad Angelo Monteverdi del 22 febbraio 1913, ibid., p. 157. 18 ID., Lettera ad Angelo Monteverdi del 27 febbraio 1913, ibid., p. 159. 13 Letteratura italiana Einaudi 7 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini sette o otto e chiamò «organettate» le rimanenti. Rebora lavorò ancora sui versi, li accrebbe. Inviava a Monteverdi, per consiglio, versioni non definitive della complessa allegoria Dal grosso e scaltro rinunciar superbo, proponeva diversi titoli (gli sarebbe piaciuto I guinzagli del Veltro), Sicuro ormai di venir pubblicato presso la fiorentina Libreria della Voce, continuò fino all’ultimo a correggere e mutare. I versi, nuovi e vecchi, scrive il 17 di aprile, sono «ritormentati»19. Il 18 di maggio è da Daria Malaguzzi a leggere sulle prime bozze «i nuovi frammenti e le nuove tramutazioni»20. Nella seconda metà del giugno 1913 si succedono lettere e appelli. E quando Rebora, il 1° di luglio, riceve le prime copie, scrive a Prezzolini che forse sarebbe stata necessaria una ulteriore prova di stampa. 2. Struttura. 2.1. I Frammenti lirici sono una serie ininterrotta di settantadue poesie, numerate con numeri romani (ma si veda la sezione 6). Dei 2327 versi, i settenari e gli endecasillabi – ossia i moduli metrici di massima frequenza nella tradizione italiana– sono 1418 (60,93 per cento21. Il 31,58 per cento è di ottonari, novenari e decasillabi ossia di versi che per numero di sillabe sono fra il settenario e l’endecasillabo. Solo il 7,47 per cento ossia 147 eccedono queste misure, con quadrisillabi, quinari, senari, dodecasillabi, versi di dodici posizioni, doppi settenari. Le composizioni si dividono in due modelli metrici: quelle riferibili alla tradizione, con forme strofiche regolari, che diremo “chiuse” e quelle invece “aperte”, dove i versi si succedono, tanto per la loro misura metrica quanto per le sequenze strofiche, senza riferimento ad uno schema fisso ma solo alludendo a taluni momenti della tradizione lirica, come i canti leopardiani, soprattutto i più tardi. Nel primo modello rientrano venti frammenti: il IV, VII, IX, XVI, XVIII, XIX, XX, XXII, XXVI, XXX, XXXII, XXXVII, XXXVIII, XL, XLI, XLIII, XLIV, XLVIII, LIV, LVII. Di questi, otto sono in quartine di endecasillabi, cinque in quartine di endecasillabi e settenari, tre sono sonetti, uno (il fr. LVII) è un madrigale, tre (XLI, XLVIII, LIX) sono rispettivamente in strofe di ottonari e quadrisillabi, settenari e un decasillabo, endecasillabi e settenari (e un ottonario al v. 3). Nel secondo modello gli altri cinquantadue frammenti. 19 ID., Lettera ad Angelo Monteverdi del 17 aprile 1913, ibid., p. 172. Lettera a Daria Malaguzzi del 18 [in realtà 19] maggio 1913, ibid., p. 178. 21 P. GIOVANNETTL, I «Frammenti lirici» di Clemente Rebora: questioni metriche, in «Autografo», III (1986), 8, pp. 11-35. A questo studio si debbono anche buona parte delle considerazioni metriche che qui seguono. 20 ID., Letteratura italiana Einaudi 8 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini La disseminazione dei testi metricamente “chiusi” fra quelli “aperti” ci dice che il maggior numero dei primi si concentra fra i testi XVI-XXII e XXXVIIXLIII ossia nel primo e secondo terzo dell’opera, mentre l’ultimo terzo ha solo tre testi metricamente chiusi (LIV, LVII, LXIV) e le ultime quindici poesie (comprensive dei frammenti LXIX e LXX composti più tardi delle altre e addirittura alla vigilia della stampa) costituiscono un gruppo compatto interrotto solo dal LVII e dal LXIV, tutti e due brevi composizioni arieggianti il madrigale. Secondo Paolo Giovannetti Rebora tratterebbe le quartine endecasillabiche in modo molto diverso dagli altri testi in forme “chiuse”. Le prime dovrebbero essere considerate un veicolo neutro, di scarsa risonanza semantico-strutturale22. Si può dissentire su questo punto, pur concordando con Giovannetti sul divario nettissimo fra le composizioni in quartine encasillabiche e le altre composizioni “chiuse”. Ma ancor più rilevante, come componente strutturale, è – secondo Giovannetti – la rima. Nelle strutture “chiuse” il poeta demanda a rime e assonanze il compito di aumentare, diciamo così, il tasso di coagulazione del testo anche o soprattutto là dove lo schema delle quartine endecasillabiche è meno dotato di evidenza prosodica e sommosso dagli enjambements: e sono rime – come quelle in enza e in -ezza – che alludono alle figure astratte presenti nella lirica dello stilnovo o che – arricchite di consonanti – intensificano effetti di sonorità e durezza “petrosa”. Più rilevante – e anche più esteso nei testi “aperti” – l’apporto delle assonanze vocaliche. Nelle assonanze, nel legame che (come sarà in Montale) stabiliscono all’interno del verso, si forma la tensione fra equilibrio e squilibrio, moto centripeto e moto centrifugo che è fondativa per la poesia di Rebora. Di questi caratteri strutturali egli era pienamente cosciente: non bisogna dimenticare l’informazione contenuta nella lettera del 16 febbraio 1912 ad Angelo Monteverdi: «[...] né ordinati sono ancora i frammenti, perché non so come disporli se per contrasto o per affinità»23. «Questi frammenti [ed allude a tre composizioni trascritte nella lettera e ad altre due inviate a Prezzolini] dovranno essere [...] incastonati opportunamente – per virtù di richiami o di contrasto – fra gli altri già incatenati»24. Quanto alle composizioni “aperte”, esse senza dubbio rivelano la massima originalità strutturale di questa poesia, il suo «vecchio-nuovo»25, come Rebora lo chiamò nella già citata lettera del 27 febbraio 1913. Qui, se la prevalenza dell’endecasillabo e del settenario (rispettivamente di 582 e 550 versi) è, come nelle 22 Ibid., p. 17. REBORA, Lettera ad Angelo Monteverdi del 16 febbraio 1912 cit., p. 115. 24 ID., Lettera ad Angelo Monteverdi del 22 febbraio 1913 cit., p. 157. 25 ID., Lettera ad Angelo Monteverdi del 27 febbraio 1913 cit., p. 159. 23 C. Letteratura italiana Einaudi 9 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini “chiuse”, costante, ben cinquecento fra ottonari e decasillabi intervengono a introdurre continui mutamenti ritmici. Grazie ad una forte dialettizzazione, entro i singoli componimenti, delle invarianti ritmiche di partenza [...] il componimento reboriano sembrerà bensì muoversi attorno a un nucleo relativamente stabile di soluzioni metriche, ma ad esse affiancherà estemporanee dissonanze, violente sincopi del ritmo che impediranno al lettore frettolose ricomposizioni26. Questo sovraccarico non abbandona mai il verso di Rebora se non dove un allentamento è dichiarato dalle forme metriche “chiuse”; e, in questo senso mi pare giusta la osservazione di Bandini secondo cui, ad esempio, il paesaggio che il Contini ha visto negli incipit in funzione di metafora che prepara una clausola intellettualistica, non è quasi mai contemplato in idillica immobilità, ma attraversato da moti e irrigidito da tensioni, a sottolineare drammaticamente la situazione morale del poeta […]27. 2.2. Bandini ha visto con sicurezza il nucleo della poesia reboriana nelle similitudini che in un medesimo sintagma stringono insieme l’astratto e il concreto. Tale tendenza ad elidere la mediazione vuole significare la passione di modellare il ragionamento (e quel che si suol chiamare il “pensiero”) nell’ardore e furore o veemenza dell’eloquio; procedimento dei mistici e dei profeti. In Rebora (seguiamo ancora l’interpretazione di Bandini) c’è una nettissima prevalenza del verbo. Verbi intransitivi si trasformano in transitivi-causali (del tipo «piomba il fulmine e scorrazza | [...] | campi e ville», fr. III, vv. 5-7 oppure «ma ragionarono il mondo», fr. XVII, v. 51); i transitivi-riflessivi si mutano in intransitivi assoluti («Il pensiero che [...] | divincola muto», in Fantasia di carnevale, fr. XI, vv. 15-17); frequenti i parasintetici («infognare», «invilire», «impastare»). Indice della violenza repressa e del suo ingorgo è la frequenza dei verbi esprimenti frattura e dissoluzione, che iniziano con prefissi che dicono deformazione e violenza e si inanellano in serie (del tipo «scoppia», «scaglia», «scorrazza», «scardina», nel fr. III; «sguazza», «spezza», «schizza», «strizza», nel fr. XLIX). I verbi si succedono per asindeto, non di rado l’infinito è in funzione di sostantivo, talvolta il participio si fa aggettivo (ad esempio: «Nell’avvampato sfasciume», fr. XXXVI, v. 1). Il lessico ha una escursione amplissima che va dagli arcaismi («gli sprezzanti arcaismi» di cui parla Bandini) ai dialettismi, da reperti della tradizione letteraria a 26 P. GIOVANNETTI, I “Frammenti lirici” di Clemente Rebora cit., p. 21. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, in AA.VV., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea. Rebora, Salsa, Ungarettt, Montale, Pavese, presentazione di G. Folena, Padova 1966 («Quaderni del circolo filologico linguistico padovano»; del 1972 è la ristampa anastatica), p. 7; l’intero saggio alle pp. 3-35. 27 F. Letteratura italiana Einaudi 10 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini tecnicismi del nostro secolo. Dante è l’autore che più contribuisce a quella inattualità che Rebora perseguiva coscientemente; i dantismi sono così frequenti non solo per quanto è del lessico ma anche per la connessione fra sintassi e metro, soprattutto nelle forme “chiuse”. Non si dovrebbe tuttavia dimenticare che tali dantismi immediatamente visibili possono nascondere alla vista il processo di trasformazione (nella accezione chimica) che Rebora fa compiere a taluni versi o passi danteschi28, a cominciare, per esempio, dalla struttura del frammento LXX, che è quella di una ascesa e di una ascesi29. Non meno importante è D’Annunzio30. L’antidannunzianesimo etico di Rebora procede spesso assumendo elementi lessicali, cadenze, tonalità ma invertendone radicalmente la direzione. Un esempio di questo eclettismo ancora acerbo e in una tonalità che certo echeggia il D’Annunzio del Poema paradisiaco per la fluidità delle quartine indotta da una sovrabbondanza di enjambements è nei versi del frammento LIV (su trentasei versi ben tredici scavalcano, di cui tre da una ad altra quartina: «Stai con chi ha luce; e il nulla all’abbrunito || passeggier scavi d’intorno. Io non penso», vv. 4-5; «È un inganno di voi che giù nel senso || ho confitto, o annidate trecce fonde», vv. 8-9; «Quando voi m’appariste, e lisce e tonde | le guance sotto arrisero, non gli occhi», vv. 1213). L’evocazione, nella notte che cela gli amanti, dell’amore mancato per ritegno – tema dominante in Rebora e chiaramente autobiografico, come conferma l’epistolario – si accompagna a ovvi dantismi, che riportano al gusto preraffaellita e anche a quello che della pittura nabis giunge a certo Munch: A salutarvi, fanciulla, movea parole il labbro tutte a scarabocchi e la persona né ritta né china non ritrovava il consueto aspetto: feci come chi avanzi il passo stretto se dietro senta alcun che s’avvicina. Perché si figurò l’anima miti confidenze nel tempo che verrebbe [...]? (vv. 15-22). (dove si noti il tipico tratto reboriano del contrasto crudo fra l’arcaismo, dantesco 28 Cfr. G. ORELLI, Dante in Rebora (appunti), in Clemente Rebora, a cura di A. Ermentini e G. Oldani, Brescia 1985, pp. 26-29. Si veda, per un esempio illuminante, G. MAGRINI, La trottola di Rebora, in «Paragone. Letteratura», nuova serie, XXXIX (1988), pp. 28-39. 29 Cfr. G. MUSSINI, Dannunzianesimo e antidannunzianesimo in Clemente Rebora (da un’indagine sulle fonti), in AA.VV., Studi di letteratura italiana offerti a Dante Isella, Napoli 1983, pp. 473-94, che parla di « andamento “a commedia”» (p. 493) per tutti i Frammenti lirici. 30 Ibid. Letteratura italiana Einaudi 11 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini ma anche pascoliano, di «movea» e quello «scarabocchi» così brusco e “comico”). Fino ai versi 34-36: […] striscian flessuosi gli amanti ai piedi dei misteriosi alberi, stretti in brividi sommessi con tanto di dieresi non scritte. L’indagine di Bandini insiste sui polemici arcaismi delle apocopi interne al verso; ma Rebora giungerà – se non nei Frammenti, in Fantasia di carnevale (Variazioni italiane) – fino al sarcasmo delle apocopi da canzonetta («al ghiotto destin | senza principio nè fin»). Arcaismi e crudezze, spesso ricercate nei vocabolari ma circolanti nell’aria letteraria del tempo. Però il medesimo studioso insiste sulla struttura sintattica, fondata prevalentemente sulla paratassi, con «rare subordinate [...] rette dal gerundio». Una sintassi «giustappositiva e segmentata nei suoi elementi», cui si aggiungono le «frequenti “frenate” indotte dalle rime-al-mezzo»31, suggerisce una costruzione dei frammenti “aperti” come “embricata” o “tettonica”, che non è senza richiamare l’arte cubofuturista e che ha qualche relazione con le ricerche musicali. Questa è la tesi di Marcello Carlino. Per questo studioso, Rebora nel corso del suo lavoro è andato ben oltre quella che ebbe a chiamare «la melodia silvana» ossia l’ideale melodico leopardiano, di cui il poeta ebbe a occuparsi nel suo saggio del 1910: interferiscono elementi di disturbo che deturpano il parallelismo nello sviluppo armonico [...] la contraddizione [...] lievita parossisticamente. È un groviglio di contrasti tematici, di aggregazione e disgregazione dei contenuti, di uso e riuso di stilemi, di inveramento e denegazione di immagini, di proposta e di cancellazione di messaggi […]32. 3. Tematiche e contenuti. 3.1. La struttura dominante dei Frammenti si articola in una premessa descrittivonarrativa e in uno svolgimento ragionativo, di contenuto etico. Le occasioni dei singoli testi sono di situazioni e di esperienze di una prima persona: paesaggi, stagioni, mutamenti meteorologici, oggetti o eventi investiti di potere allegorico (il «carro vuoto», il viaggio in treno, il grillo, l’uccello nella rete), la scolaresca, la gi31 F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora cit., pp. 24-25. CARLINO, Le parole maledette di un musicista mancato (note in margine ai «Frammenti lirici» di Clemente Rebora), in «Studi novecenteschi», IX (1982), 23, pp. 136-37 (l’intero saggio alle pp. 117-44). 32 M. Letteratura italiana Einaudi 12 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini ta. Il conflitto città-campagna, con la tendenza a privilegiare l’attività pratica e con la tentazione, anche erotica, per la vitalità della gente “comune”; il paesaggio idillico (campestre, lacuale, alpino, marino); gli affetti famigliari e amicali; il senso di una possibile e tuttavia mancata rivelazione amorosa, di un fallimento personale accompagnato tanto da un imperativo e straziante dover-essere quanto dalla certezza di una ascesa complessiva degli uomini e della natura intera nella storia: il cosiddetto «finalismo cosmico»33. Due terzi dei frammenti hanno come tema la vita e la scena cittadina e il suo contrasto con quella della campagna. Questa si presenta dapprima come (al modo tradizionale) autenticità e immediatezza materna, quella come alienazione ed orrore; però il poeta torna di continuo a riaffermare, contro l’idillio, il primato della lotta umana e del lavoro (le «faccende»; fr. II, v. 65). Al divenire, ossia al moto universale sotto il segno della vitalità, non però possono fare resistenza né la storia umana né la natura (fr. LVII). Si perviene così alla visione di una realtà unitaria, dove la materia è indistinguibile dallo spirito ed è percorsa da un unico potente moto di elevazione e autocreazione. Se la prima parte dei Frammenti è drammatizzazione della volontà e perciò della energia morale e delle sue contraddizioni, la seconda metà è di tormentosa e felice capitolazione di fronte a un destino universale. Tale seconda tematica non è però separabile dalla prima: i testi si alternano e si tendono, anche in conflitto, sebbene la soluzione “cosmica” finisca col prevalere. In decrescendo, il tema idillico, intonato dalle forme “chiuse”, interviene come pausa nel cozzo incessante delle forme “aperte”, in alcuni casi persino assumendo la melodia arcaica e quella del madrigale. Una parte della critica (Giovanni Getto, Marziano Guglielminetti) ha forse esagerato l’importanza del conflitto tematico città-campagna. Nella sua forma tradizionale quel conflitto è soprattutto presente in quelli che è lecito supporre siano i testi composti in più giovane età. Sebbene il momento idillico ricorra nella forma di una nostalgia di madre e di culla (e tornerà anche al di là dei Frammenti, come nei Canti anonimi, diciamo, nella forse troppo famosa ed elegiaca Campana di Lombardia e nella felice “canzone” a Carlo contadino, Al tempo che la vita era inesplosa), l’opposizione fra “natura” e società-cultura-civiltà («scienza») e la loro concordia discorde raffigurata nelle massime composizioni dei Frammenti non ci pare riducibile né a mero riflesso di un momento storicamente determinato (cre33 La formula è in S. RAMAT, Storia della poesia italiana del Novecento cit., pp. 93 sgg. Una esauriente rassegna delle tematiche dei Frammenti è in U. CARPI, La «Voce». Letteratura e primato degli intellettuali cit., pp. 201-43, in particolare alle pp. 228-43. Letteratura italiana Einaudi 13 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini scita dell’industria moderna nell’Italia di allora, grande pathos della trasformazione simultanea del mondo contadino e della vita cittadina ad opera del violento sviluppo capitalistico) né a quello di una opposizione fra malattia e salute, autenticità e inautenticità, alienazione e recupero di sé, “retorica” e “persuasione”, che pure è dibattuto tema della cultura di quel periodo (da Nietzsche pervenendo a Thomas Mann e a L’anima e le forme del giovane Lukàcs, 1911; e, da noi, a Michelstaedter)34. Bisogna, crediamo, ricordare che Rebora, mascherando da contrasto cittàcampagna i conflitti del suo tempo, poteva credere di aver chiuso i conti col razionalismo positivistico di eredità paterna. Ma invero non faceva se non assumere un altro aspetto della medesima eredità, l’unione di naturalismo “creaturale” e panpsichismo che aveva anch’esso il volto democratico-progressista dei “profeti” dei primi decenni dell’Ottocento35, ad esempio, del Mazzini, che fino alla conversione sarebbe rimasto per lui uno dei maggiori punti di riferimento (nel frammento II, v. 48, chiamerà suo padre «puro e severo», come «mite e severo» era stato secondo Carducci – Giambi ed epodi, II, 23, v. 12 – il Mazzini) e che aveva alimentato, proprio negli anni della sua formazione, il senso del “mistero” indagato dagli scienziati positivisti e poetato un po’ ovunque in Europa e, in Italia, soprattutto da Pascoli. Il conflitto città-campagna non era un luogo letterario, come è ancora nella prima lirica dei Canti anonimi, Il ritmo della campagna in città, esibizione cruschevole ispirata ad una tradizione antica quanto la nostra letteratura, di imitazione delle voci di mercato; ha a che fare semmai con la imponente trasformazione sociale nel primo decennio del secolo (cui sono dedicati i Frammenti) quanto con le formulazioni filosofiche ed etiche della “classe dei colti” europea di quel tempo. Non si dimentichi che Rebora adolescente non può non avere avvertito gli echi degli eccidi milanesi del 1898 e, nel 1900, a quindici anni, quelli del regicidio di Monza. Tutti e due questi blocchi di ideologia e di immaginario sono i temi e i contenuti della sua poesia, anche se certamente rimossi. 3.2. Il primo “frammento” è una proposta di poetica, che cosi chiude: Se a me fusto è l’eterno, fronda la storia e patria il fiore, pur vorrei maturar da radice 34 G. MUSSINI, Clemente Rebora e Carlo Michelstaedter, rapporti interpretativi, in AA.VV., In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, a cura di F. Alessio e A. Stella, Milano 1979, pp. 320-42. 35 In un utile volume di P. BÉNICHOU, Le temps des prophètes. Doctrines de l’âge romantique, Paris 1977, i capp. IX-XIV, e in particolare quelli dedicati a Edgar Quinet e a Jules Michelet, introducono a punti di riferimento importanti per l’umanitarismo di Rebora e l’idea di natura santificata. Letteratura italiana Einaudi 14 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini la mia linfa nel vivido tutto e con alterno vigore felice suggere il sole e prodigar il frutto; vorrei palesasse il mio cuore nel suo ritmo l’umano destino, e che voi diveniste – veggente passione del mondo, bella gagliarda bontà – l’aria di chi respira mentre rinchiuso in sua fatica va. Qui nasce, qui muore il mio canto: e parrà forse vano accordo solitario; ma tu che ascolti, rècalo al tuo bene e al tuo male: e non ti sarà oscuro. (fr. I, vv. 17-35). La conclusione del frammento I va letta insieme a quella del LXXII, vv. 1922, l’ultimo del libro: [...] Tu, lettor, nel breve suono che fa chicco dell’immenso, odi il senso del tuo mondo: e consentire ti giovi dove non c’è solo analogia di apostrofe al lettore e orgoglioso annunzio di valore del «breve suono» e dell’«accordo solitario». L’imperativo ha valore conclusivo, quasi dicesse: “e dunque”. Il frammento II pare appena continuare la dichiarazione programmatica del frammento I, concludendosi con una memorabile gnome, v. 65: «nelle faccende è l’idea». E già col frammento III si legge una delle vittorie poetiche dei Frammenti nella personificazione di eventi meteorologici che in questo poeta si estendono ad occupare, orizzontali o verticali o trasversali, uno spazio amplissimo: l’assalto del vento, nuda violenza esplosiva e vitale in figura di cavaliere armato e al galoppo sulle pianure, quando penetra la città si interiorizza, la sfrenatezza positiva decade e subdolamente la città distrugge il coraggio umano. Col frammento V il contrasto città/campagna genera, nella città, la formazione di un «tempo» nuovo (vv. 20-21: «Sortilegio del tempo […] o città») e l’intento di avviare sul ritmo del battito dei torrenti montani «il grido delle macchine e dei lucri» (v. 58); e nel successivo frammento VI la città è sentita come orrore di decadenza eppure capace di generare una «certezza ineluttabile del vero», ordi- Letteratura italiana Einaudi 15 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini trice di un «panno | che saldamente nel tessuto è storia e nel disegno eternamente è Dio» (vv. 26-29; non senza un ricordo, si può supporre, della prima scena del Faust). Anche in una prima parte del frammento VIII la città negativa cambia di segno e quel che «pare/cosa» è invece «spirito e cielo» («l’idea si annida agli svolti», vv. 15-16 e 20). Qui tuttavia un terzo e ultimo movimento ricompare, di negatività e passività, introdotto ancora dal «ma» oppositivo: e, nonché torrente, la vita cittadina porge similitudine a una corrente che contro una chiusa «rifiuti e bava aduna» (v. 34); immagine, questa, che riapparirà, sul finire della guerra, nella splendida lirica Vanno, datata 1918. Mentre il frammento X è un esempio di mediocre verbosa polemica contro le ideologie dominanti (umanitarismo socialista e razionalismo)36, l’XI (O carro vuoto) è meritamente famoso. La critica vi legge una «opposizione tra volontà e fede, ciecamente operose (la terra) e istanza di eternità e amore (il cielo)»37. O anche vi legge come, nella prima parte, un “particolare” preceda un commento in termini astratti, “universali”, determinando una «enfatizzazione dell’ethos» e «l’esigenza di un messaggio» che si fa «proposta di un sacrificio stoico»38. Al frammento XII, idillico e familiare, segue, col XIII una sorta di esperimento canoro, in “positivo”, quasi un breve inno alla verità, alla ingenuità e alla amicizia. Con il frammento XIV torna ancora una volta la ripugnante città industriale («scivola il vortice umano, | vibra chiuso il lavoro»; vv. 14-15) verso un superamento paradossale, impreciso e sonante, un po’ come in certe sculture di Rodin o musiche di Mahler: ma voi, rapimento e saggezza in apollinea gioia in sublime quïete [...] un’immortale bellezza uscirà dalla nostra rovina. (vv. 21-23, 31-32). Preceduto dall’appena interessante sonetto alla musica (fr. XVI), il frammento XVII, che nella edizione del 1947 recava il titolo di Sole, ha per tema la gita di un gruppo giovanile in una giornata estiva. Dice l’esaltazione erotica del paesaggio e delle presenze umane che vivono quasi al confine di una rivelazione («e passar da ogni varco»; v. 46), che è certo una delle più impressionanti figurazioni 36 È testimoniata dal fratello Piero la polemica adolescenziale contro il razionalismo paterno. CONTINI, Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Firenze 1968, p. 706. 38 R. LUPERINI, L’allegoria del moderno, Roma 1990, p. 288; si veda anche R. KINGCAID e C. KLOPP, Coupling and uncoupling in Rebora’s “O carro vuoto”, in «Italica», 1979, pp. 147-71. 37 G. Letteratura italiana Einaudi 16 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini di possibilità umana non decadentistica che si diano, come in Michelstaedter e Slataper, in aperto contrasto col panismo dannunziano. I desideri e le parole si impediscono e si impigliano («e riser tutto il dì per non sapere»; v. 52): il ritorno alla città è la fine della giovinezza. Situazione (verisimilmente autobiografica) di scacco ma non di sconfitta, che tornerà insistente (fr. XXXVIII). La primavera («Forse altrove sei bella, o primavera» (fr. XXI, v. 7) è, in città, un «ebete riflesso» (v. 2) che desta un veemente delirio di insulti alla lascivia milanese (eco foscoliana) della «città senza amore» (v. 25). Al centro un autoritratto in postura sadica davvero non lontano da quelli cosi frequenti nei pittori del coevo espressionismo tedesco, si conclude (vv. 71-74) con un movimento di furore non occasionale se destinato a ricomparire in alcune delle maggiori poesie successive alla stampa dei Frammenti (Notte a bandoliera, Fantasia di carnevale): ma giù gli sguardi con terrore, voi tronfi bastardi della primavera, civil risma di eroi: e giù il cappello! Una altrettanto stupefacente furia esplode nel frammento XLII – ma in rapporto al mancato coraggio di una dichiarazione di amore («di nessuno la colpa; | non sua che prima amò, | non mia se tardi osai»; vv. 18-20), motivo, si è già detto, ricorrente a partire dal frammento XVII – «e la pupilla storco fino al bianco | e morsico la bocca | e un non so che nel cuor torvo accoltello» (vv. 37-39). «E un non so che»: in quegli anni la nascente psicanalisi chiariva che nel profondo Clemente Rebora sapeva che cosa e chi accoltellava; ma per noi conta che egli, senza saperlo nella coscienza, ci abbia dato la figura di chi non sa, che è poi la nostra di tutti i giorni. La parte centrale dei Frammenti reca alcune delle maggiori composizioni: il frammento XXV, col tema delle «risposte senza tregua» (v. 33) e del «passo divino» (v. 58) che si approssima, testo che sembra anch’esso memore di passi del primo Faust (nella versione dello Scalvini), e corredato da consueti dantismi («come saetta ch’aria in luce stringe», v. 36) ma soprattutto ricco di enunciati psicologici («necessario e tortuoso | son dentro nella vita»; «e preciso al suo luogo spietato | con paura e dolore il presente s’incastra»; «o realtà essere in te vorrei: | ma [...] | [..]. Da te nascendo vano sfumo via»; «e matura la polpa sull’anima secca»; vv. 22-23, 26-27, 37-41, 50). Gli fa eco, poco oltre, il sonetto del frammento XXXII col suo michelangiolismo («Mentre scalpello in rintronata usanza | a colpo a colpo il tràmite dei giorni»; vv. 1-2) e l’eco di Campanella («Cristo ha ragione e Machiavelli vince»; v. 14). Notabile invece per uno di quei moti di piglio pro- Letteratura italiana Einaudi 17 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini meteico e demonico, ricorrenti in questo poeta troppo spesso interpretato come teso solo all’immagine del divino, il frammento XXIX, vv. 10-15: [...] Ma sopra, Dio feroce nello spazio guizza di luce e si sdraia sul nostro patire, e lascivo non sazio fra donne d’eternità gaia rinnova le estasi libere del suo piacere [...]. Giustamente Paolo Giovannetti ha posto in evidenza i frammenti XXXIV, XXXV e XXXVI come quelli che porgono «al lettore una sintesi relativamente stabile del […] percorso speculativo»39 di Rebora. In particolare il frammento XXXVI tocca un tema insolito e importante: «Il poeta, messo di fronte al “gonzo pecorume | dei ragazzi di scuola”, esprime dolorosamente la propria estraneità»; e il suo gli sembra un «sacrificio muto»40. A questo punto interviene un rovesciamento, quello dei ragazzi di scuola gli appare come «freschezza irrequieta» e la sua una «ascesi segreta» e positiva (vv. 40, 42, 44). Tale volontarismo etico tuttavia, da questo luogo centrale dei Frammenti, comincia a essere messo in dubbio nella seconda metà; risalendo da regressioni e depressioni, il poeta tende a trasferire il conflitto fra il sé e la società in un movimento non più personale ma collettivo e anonimo e che progressivamente coinvolge l’intero universo. Un breve idillio può per un attimo invitare l’«anima» a cantare a se stessa la ninna nanna d’infanzia (fr. XLIV); ma segue (fr. XLV, vv. 14-17) un quadro di pioggia al crepuscolo, convulso di traffico e tensione erotica, «dove furtive negli occhi | snellezze di donne | e uomini bramosi | accendono il sangue», tema che tornerà assai più potentemente nello straordinario finale del terzo dei Movimenti di poesia, dell’ottobre 1914 (poi rifiutato dal poeta). Alla coscienza della fugacità e contraddittorietà del reale si lega, invece e ancora, un senso di mancanza e peccato; e il personaggio della voce poetante, in perdita di identità, è incapace di immaginare un futuro (fr. XLV). Un altro temporale, evento topico e allegorico, cui seguirà – qui si dice – la ripetizione della pena dell’essere (fr. XLVI). Un risveglio sul lago: al moto dell’altrui lavoro corrispondono spavento e rimorso, consapevolezza di una separazione – nonostante la energia giovanile del proprio corpo – dalla esistenza altrui; l’appello alla realtà fisica del sé si congiunge alla certezza dell’inevitabile decadimento (fr. XLVII). La speranza però non si estingue, al gril39 P. 40 GIOVANNETTI, Clemente Rebora, in «Belfagor», XLII (1987), 4, p. 410. Ibid., p. 411. Letteratura italiana Einaudi 18 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini lo del focolare la voce poetante promette venturo fuoco e calore (fr. XLVIII). Una poetica «di sterco e di fiori» (fr. XLIX, v. 31) esaltata di contraddizioni, fa della poesia, del suo verso «lucido», «livido», «inviolabile» (vv. I, 6, 11), un controcanto delle stagioni, la negazione del male ma anche la sua dichiarazione («terror della vita, presenza di Dio»; v. 32); e la formula finale, esclamativa (la poesia è «cittadina del mondo catenata!»; v. 34) restituisce un’altra definizione di sé, cara a Rebora, quella della libertà nella prigionia. Con il lungo frammento L, uno dei più apertamente autobiografici (di scarso rilievo poetico ma rivelatore di una contorta “retorica del sé” che accompagna, suo malgrado, il poeta), la situazione è della imminenza dei ritorno dal paesaggio lacustre, ben presto notturno, alla città «dove non è concesso titubare» (v. 27) e si evocano gli affetti domestici a soccorso dell’angoscia della impotenza e della negatività, fino a supporre che la generazione dei padri abbia prodigato nelle lotte risorgimentali anche le energie dei figli («Forse d’Italia negl’impeti immensi | il sangue prodigaste anche di noi | e balenò in sacri àttimi vasti | la vita di cent’anni, o padri eroi?»; vv. 58-61), dove per un attimo l’autore sembra intravvedere l’immagine di un padre, il suo proprio, divoratore del figlio; che potrebbe anche essere quello che egli chiama «l’orco che ci sbrana» e che si vorrebbe «uccidere» (v. 87). Dal furore per l’efferatezza degli uomini («Se la ferocia ha modo | d’inferocire, | l’inganno d’ingannare, | il fallir di fallire» vv. 69-72) e dalle domande senza risposta dello «smanioso pensiero (v. 91), con un rovesciamento non infrequente nei Frammenti, viene una sorta di trasfigurazione positiva («meravigliosi doni: | esistere e pensare, | cinger di sé l’ignoto | universo e amare»; vv. 102-5), accompagnata dal richiamo, sempre positivo, alla madre («evanescenze materne»; v. 117). Analoga esperienza esistenziale di sottrazione della realtà è dichiarata nel frammento LI, costruito secondo uno schema consueto: raffigurazione del moto con insistiti verbi di azione («sibila», «scivola», «si riversa», «corrono», «svoltan», «s’orientano», «spia», «si trae», «s’amplia») nei primi dodici versi, cui segue nei successivi undici in forma esclamativa e assertiva la dichiarazione di uno stato di spossessamento: Quel che vicino mi sta ravvolto in sé non m’incita: spettro è nel mezzo l’inesplicabil momento; quel che da lungi m’invita, va sempre più in là: e nulla è mio al passaggio. (vv. 17-23). Letteratura italiana Einaudi 19 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini Questo “saccheggio” del sé (che Montale ricorderà bene) ricomparirà nella epigrafe del commiato (fr. LXXII: Nihil fere sui) e nel titolo dei Canti anonimi (1922): ma qui è assunto a valore integralmente positivo, come già in uno degli ultimi versi del così importante frammento LXX: «dal basso che ignora all’alto che spoglia» (v. 59). Il frammento LII è da leggersi (come la scena di temporale del fr. III) quale raffigurazione allegorica e dichiaratamente barocca di una forza di natura sovrastante l’arco del cielo come una costellazione. Al disotto stanno le immagini della «vita che bramisce» (v. 9). La figurazione dell’Autunno apre e chiude, ogni volta con sei versi, una serie di versi più veloci e convulsi dove si agita la vita dell’industria metropolitana e dei «traffici». Ci sembra una delle più lucenti composizioni di Rebora: una sorta di visione panoramica dall’alto, quale si dà, in quegli anni, in artisti che molto probabilmente egli non aveva avuto occasione o interesse a conoscere, Chagall, Kokoschka, Ensor; quel suo Autunno col «viso giallo e il corpo di bitume» e la «umile terra | che trema di pianto» (vv. 3 e 5-6) hanno una forza di disegno e di colore che è frequente nel trapasso fra il gusto verbale dei decadenti e quello delle avanguardie. Rivelatore della esitazione, che Rebora assume coscientemente per movimentare e contrastare il suo testo complessivo, è il frammento LIV, ultima (e maggiore) fra le composizioni in quartine rimate. Il tema è quello già di altre occasioni, l’incontro elusivo con un possibile amore, simbolo di una mancata capacità di vivere e in questo caso evocato in una notte che circonda gli amanti ma scava « il nulla» (vv. 4-5) intorno a chi è solo. Si direbbe che un testo come questo sia un commiato dalle forme “chiuse” che Rebora ritroverà solo nei testi più devozionali dei suoi ultimi anni. Dannunziano è certo l’interrogativo «Perché si figurò l’anima miti | confidenze nel tempo che verrebbe | [...]?» (vv. 21-22) e l’esclamativo «O strano giorno | di chiuso ardore, giorno senza artiglio!» (vv. 27-28) e anche gli esibiti dantismi («Come per vento chini fronte e ciglio», «feci come chi avanzi il passo stretto | se dietro senta alcun che l’avvicina»; vv. 25 e 19-20). Mentre invece nella chiusa e nelle sue rime complesse (riflessi: flessuosi; misteriosi : sommessi) sembra di cogliere cadenze e immagini che in quegli anni stavano penetrando le poesie di Rilke e di Blok. Attraverso Onofri, si direbbe che quei colori siano pervenuti, poco più di venti anni dopo, al Luzi di Avvento notturno. Ma senza dubbio quello era per Rebora un ritorno indietro, una forma che non assumerà mai più. Il frammento LV (come pure il successivo LVI) ha un significato prevalentemente autobiografico, ancora il tormento per gli amori altrui («e un rider sento Letteratura italiana Einaudi 20 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini d’uomini e di donne | che nel lavoro preparan le voglie») quando più grave è la solitudine («ma il dolore non basta | e l’amore non viene»). Di ben altro rilievo i frammenti LVII e LVIII, l’uno e l’altro riconducibili alla struttura prosodica del madrigale, non senza echi del Tasso, del Campanella e anche dell’ultimo Leopardi. La sapiente incertezza del lirismo tassiano è nella formula del penultimo verso del frammento LVII («Cader così vorrei dietro il mio cuore»), dove «dietro» può anche valere ‘perseguendo i miei desideri, che mi precedono’. Più severo il LXIII, con la nitida parabola della «storia del mondo» (fr. LVIII, v. 9); e il mare ne aveva proposto già una immagine allegorica, nel frammento LVIII, senza più distinzione fra storia umana e natura, con l’acuto senso, e anche prezioso, di sostanze minerali (come il «bitume» del fr. LII) quali l’«amianto», il «tufo», e dei colori (l’«ebano») e la natura antropomorfa («vertebre e fauci»; vv. 1, 7 e 6). Il frammento LIX è un esempio di certa ricorrente facilità patetica che si ritrova anche nell’idillico LX, di campagna lacustre. E se il LXI pare un esperimento di manierismo classicistico («leggiadro e saldo», «agli occhi miei bramosi», «lo spirito fulgido», «roridi sguardi», «divina allegrezza»; vv. 1, 6, 9, 24, 30), il frammento LXII già appartiene come tematica e struttura al gruppo degli ultimi dieci e maggiori. Il «lavoro di Dio», «invisibile amore» (vv. 25 e 22), modella tutta la realtà. È già presente la certezza unitaria del mondo come spirito-materia nella immagine dello spazio «poroso e assetato» che «dissipa come riceve» (vv. 1 e 4) l’affannarsi degli uomini incapaci di superare il proprio io. Alla metà della lunga strofe (vv. 14-20) si apre una serie di vocativi («Stella... notte.., goccia... rupe... pianta... forza.., rozza») a cose e animali perché dicano «l’arcana maniera | dell’invisibile amore» (vv. 21-22). La lunga composizione LXIII ha uno svolgimento complesso per l’intento di legare tre temi che altrove il poeta ha percorso separatamente: il paesaggio pacificante e ristoratore, con l’appello ad un «divin senso» (v. 35) che compensa delle frustrazioni, l’evocazione della famiglia e degli amici e finalmente, nonostante la condizione di dispogliato («Io non ho numi né glorie, | io non ho donne né bimbi, | io non ho lucri né mete, | ma un vasto cuore intero»; vv. 55-58), un altro «ma» avversativo introduce l’ultimo terzo della composizione con l’esaltazione dei «combattenti dell’usato giorno» che sono «poeti» e «sapienti» essi soli, «ignoti eroi» (vv. 66, 70, 71, 74). Il paesaggio iniziale torna nella chiusa: un «indicibile fervore» «dai tronchi ai rami ascende» (vv. 77 e 79), l’inerzia della terra e dell’anima vince se stessa. Il tema della salita percorre, d’altronde, la maggior parte delle composizioni conclusive dei Frammenti. È anche quello del successivo madrigale, il frammento Letteratura italiana Einaudi 21 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini LXIV, ma qui sforzato e vanamente concettoso. Quanto al LXVI, se si tolgono alcuni singolari esiti di una sperimentazione espressivistica sempre più acuminata, esso sembra notabile solo perché il tema della luce solare dell’alba estiva (che con i suoi raggi infuocati evapora la guazza notturna ed estrae la ragia dai tronchi mentre la vita uscendo dalla notte si ricrea e i borghi tornano al lavoro) conclude con la bizzarra e sinistra figurazione di un Dio che «se scende, ignoto tramonta | nell’ingannevol natura; | se monta, vuoto svapora nel nulla» (vv. 26-28); dove il contrasto, teologico o filosofico, fra panteismo e platonismo, si dissolve in un crepuscolo oscuro e grottesco dove il grande Nome è come annichilito da aggettivi quali «ignoto», «ingannevol», «vuoto» e verbi come «tramonta» e «svapora». Sembra importante accennare qui ad un aspetto poco messo in evidenza dalla critica e che sarebbe opportuno chiamare demoniaco. Non sembra un residuo di satanismo, quale ritroviamo, ereditato dalla Scapigliatura e dai tardi baudelairiani, anche in Lucini e in certo futurismo. Potrebbe definirsi invece come l’assunzione a livello di coscienza poetica (e solo di rado razionale) di una componente di violenza, insulto, oltraggio, sconsacrazione e bestemmia. Per quanto è della biografia, non mancherebbero riscontri nell’epistolario. È quel che Rebora chiama «perversione» ed emergerà, subito dopo i Frammenti, nella esperienza erotica, sotto forma di un cifrario sovreccitato, soprattutto nella corrispondenza e nei rapporti con Sibilla Aleramo, che certo deve aver svolto anche un ruolo di “infiammatrice”41. Dal frammento LXVII al LXXII – che è un commiato – i primi quattro fanno parte di un unico blocco di ispirazione e sono da considerare come una sequenza unica. Questa sale verso il frammento LXX, che è, a sua volta, la descrizione lirica di una ascesa. Il LXVII è una visione di decadenza e disfacimento e corruzione di una «sostanza» dimentica della luce e della fede; «chi viver non può senza raggio» considera con disprezzo «l’inconscia folla angusta, | la vegetante natura» (vv. 22, 29, 31-32): uno dei non infrequenti spunti di origine nietzschiana e persino dannunziana. Gli si oppongono i frammenti LXVIII e LXIX. La grande ode LXX è stata analizzata dallo studio di Fernando Bandini42 nel41 «Ingigantita beatitudine solcata da strisce di terrore. La mia carne è la mia anima; e riconosco ora crudele e gioioso nella mia sensualità l’onnipresente spirito che nutrii di tutto il mio sangue che fuma luccica fluttua vermiglio, con cattiveria e bontà vividissime come questo ampliarsi luminoso intorno sereno e folle per la città; e che io vi intensifico nell’offerta delle mie parole»: C. REBORA, Lettera a Sibilla Aleramo del 18 luglio 1914, in ID., Lettere cit., pp. 22526 (ma anche, al limite dell’equivoco, la successiva, del 25 luglio 1914, ibid., pp. 227-28). E cfr. la lettera a Giuseppe Prezzolini del 15 gennaio 1914, ibid., p. 206: «Adoratore del “senso” e della “perversità”, li conosco senza averli mai praticati: e n’ho, spesso, veemente e rovinosa potenza». I Frammenti, a questa data, sono già editi; e tuttavia ci sembra che questa componente corra anche lungo i loro versi. 42 F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora cit., pp. 26-28. Letteratura italiana Einaudi 22 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini le sue simmetrie sapientemente calcolate. Elaborata a lungo, anche per la sua collocazione strategica, ha come proprio limite quello di una forse eccessiva esemplarità, come di un testo che si vuole perfetto e memorabile, frutto più di volontà che di libertà immaginativa. Si pone come un riassunto di un itinerario del mondo fisico, allegorico di quello morale, racchiuso nell’elementare rapporto fra “basso” e “alto”. Ogni momento del percorso corrisponde ad una fase di sviluppo del modo di essere e di produrre ma la forma della realtà spirituale moderna è raffigurata nel moto, dalla sequenza delle preposizioni articolate. Moto ascensionale ma non verticale, roteante invece e obliquo. Dinamismo che è delle arti figurative di quel primo ventennio del secolo, in particolare nel nesso fra art nouveau, espressionismo e futurismo; si ricordi il movimento ascensionale-trasversale in Carrà, Boccioni, Russolo, Sant’Elia. La conclusione è eroicista, il gelo costringe la vetta, ridotta alla sua natura minerale e astratta, dove il “bene” è nella sofferenza e nella ascesi. Il gesto oratorio procede per quarantacinque versi prima che compaia il soggetto del lunghissimo periodo, che si conclude con tre versi monorimi (in vetta : vedetta : costretta); tanto più lungo in quanto folto di figure e di antitesi. L’inizio è «delle schiave pianure» (v. 2), poi si passa (v. 10) alle «ignare colline» e alle «avide giogaie» prealpine (v. 18), per venire alle «tragiche catene» delle montagne più alte e nude (v. 26). Tutto il paesaggio è antropomorfo, le pianure «sfogano» (v. 4), le colline si sforzano, le giogaie invocano, le catene «guatano addentano | serran[o]» (vv. 31-32), hanno «braccia e torsi» e finalmente la vetta è un corpo gigantesco e un’anima (figurazione di martirio, anche prometeico, e trasposto autoritratto del poeta), verso cui muove «ogni cosa» e che essa «aspetta» (v. 60) per redimere e adempiere. L’altezza che era «vietata» alla pianura e «fiutata» dalle colline (vv. 3 e 11) è «sperata» (v. 19) da sistemi montuosi, «giogaie», risonanti dei muggiti delle stalle e «avide» di una ascesa ulteriore, che invocano dalla propria vetta più alta (il «più fier dei loro monti»; v. 20), attraverso le anime semplici («cuori rudi»; v. 21), i boschi, i pascoli intatti («salvi»; ibid.) nelle conche dei poggi che si aprono sotto quelle zone di pietre rovinate (le «pietraie»; v. 22), che segnano spesso il confine fra l’alta montagna, dove ancora ci sono tracce di lavoro umano e di piante o arbusti, e quella di nuda roccia. I laghi e le fontane sono appassionatamente consenzienti («fra consensi [...] ansiosi»; vv. 23-24) a quelle invocazioni, come ripercosse di valle in valle. L’ultimo grado della ascesa, che si conclude nella «vetta» (v. 61), è quello delle «catene» (vv. 62 e 26) o serie di montagne nude e perciò «tragiche» (v. 26) (ma l’aggettivo induce anche il senso non metaforico di «catene»), che ormai appaio- Letteratura italiana Einaudi 23 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini no come un assalto (al cielo). Il “messaggio” di questa composizione (che è poi anche quello dell’intero testo dei Frammenti) pone la questione dei limiti della riflessione spirituale di Rebora, com’è inevitabile per ogni poesia apertamente gnomica. Egli racconta nella forma dell’inno o dell’ode e in figura di allegoria una vicenda universale di ascesa al meglio, di progresso della natura tutta che, come secondo l’Epistola ai Romani (8, 22) di san Paolo, «geme e è in travaglio», tema che ricomparirà in Mario Luzi. Lo racconta tuttavia con un sistema metrico e lessicale, con una scansione e una tensione che dicono piuttosto la radicale infelicità dell’io loquente, la contraddizione psichica irrisolvibile contratta nel furore stilistico, Con l’epigrafe Nihil fere sui, «quasi nulla di sé», che annuncia il titolo della seconda raccolta (Canti anonimi, 1922) il commiato dal lettore (fr. LXXII) nelle prime quattro delle cinque strofe enuncia definizione di sé e del proprio fare poetico, come inizio (strofa 1), confine (strofa 2), strumento (strofa 3), sentimento affaticante. La circolarità dell’esistenza ha nella poesia («Il mio verso [...]», «Il mio canto [...]»; vv. 11 e 15) il momento iniziale e profetico, giovanneo (la «prima corda»; v. 13). La clausola latineggiante («e consentire ti giovi») è di grande rilievo come quella che distanzia e pacifica nella figura del Consenso come accettazione, ubbidienza, devozione all’«immenso» macrocosmo raccolto e intero nel microcosmo del «breve suono» (vv. 20 e 19). Rebora fa conflittare43, contro la tradizione, versi parisillabi e imparisillabi; sì che la partitura del frammento LXII va letta come suggerimento di due voci: la prima dice il verso primo della 1a e della 2a strofe e i primi tre versi delle strofe 3a 4a e 5a; la seconda, come la voce di un “a-parte”, dice la doppia serie di «altri« (vv. 2-5 e 7-10) e le clausole «ed altre aspettano ancora», «e domandava la vita», «e consentire ti giovi» (vv. 14, 18, 22). 4. Modelli e fonti. 4.1. La scelta originaria è per una versificazione alta e “tragica” che abbia come tema la situazione umana nel tempo e nella società. I modelli sono perciò quelli della poesia di pensiero piuttosto che di sentimenti, cui è estraneo il momento dell’ironia, dello scherzo e dell’idillio se separato dalla presenza del destino e del43 Tipico esempio quello del penultimo frammento, il LXXI, dove ai primi quattro versi ottonari seguono due settenari poi due ottonari per proseguire con una sequenza di sedici settenari; alternanza che continua sino alla inserzione di endecasillabi. Letteratura italiana Einaudi 24 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini le scelte fondamentali. Tale poesia di forte densità ragionativa e filosofica si sceglie a modelli Dante44 e Leopardi. Ma anche Jacopone e Michelangelo. Poi, quasi seguendo una delle due maggiori linee tracciate da Francesco De Sanctis, vi si distingue la lettura dei poeti-pensatori barocchi, come Giordano Bruno (Rebora era un ammiratore dei suoi Heroici furori) e Tommaso Campanella, da cui – e soprattutto da quest’ultimo – ha appreso contorti modi e asprezze stravolte. Naturalmente Leopardi, soprattutto quello della Ginestra, è una presenza costante; ma, a differenza di quanto accade con Dante, Leopardi gli porge modi, ritmi, movimenti, interrogativi, non altro, l’ethos suo divergendo radicalmente da quello reboriano. Giacomo Magrini ha giustamente ricordato che la discussione critica sul dantismo di Rebora tende ad arrestarsi ad una serie di rinvii di modi lessicali o di ritmi o di vere e proprie citazioni, dove invece sarebbe necessario andare oltre l’attenzione alle convergenze e agli strati dei testi identificati come “fonti” e il testo del poeta considerato; e mettere in evidenza le dissonanze fra quelli e questo, ricche di senso, che si stabiliscono a partire da una serie di consonanze e che testimoniano proprio perciò di un rapporto più profondo e dunque, anche, conflittuale. Quanto a Leopardi «sempre presente, lo è a patto di essere violentemente attualizzato, contaminato, stravolto»45. E mi pare doveroso indagare anche i rapporti con Tommaseo, questo maestro “trasversale” di cui si sa che Rebora frequentava assiduamente il vocabolario. Quanto a D’Annunzio, essa è una relazione di antagonismo e di polemica ma anche (o necessariamente) di assunzione amplissima di modi, ritmi e situazioni46. Più che di “fonti” bisognerebbe parlare di un incrocio di echi ed influenze, cui non sono estranei, oltre a Boine, Lucini o Buzzi. Ma ricordiamo, anche per la data assai alta, 1960, l’importanza del rilievo di G. Bàrberi Squarotti: Rebora è stato una miniera a cielo aperto di modi, spunti, nessi lessicali per quasi tutta la poesia successiva47. Considerata l’ampiezza di quella quasi mai confessata influenza e della “ricaduta” dei Frammenti sulla poesia del nostro secolo (Onofri, Montale, Caproni, Cardarelli, Betocchi, Pasolini e altri ancora) si può dire che quel libro abbia restituita, diffondendoli in modo inavvertito ma profondo, una energia assorbita da una molteplicità di riferimenti, provenienti tanto dalla tradizione letteraria italiana quanto da un ampio orizzon44 Cfr. G. MAGRINI, La trottola di Rebora cit. Poeti italiani del Novecento (1978), a cura di P. V. Mengaldo, Milano 19812, p. 251. 46 Cfr. G. MUSSINI, Dannunzianesimo e antidannunzianesimo in Clemente Rebora cit. 47 Cfr. G. BÁRBERI SQUAROTTI, Tre note su Clemente Rebora (1957), in ID., Astrazione e realtà, Milano 1960, pp. 195-219. 45 Letteratura italiana Einaudi 25 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini te di cultura europea non strettamente letteraria ma saggistica e filosofica. Questo non sarebbe stato possibile fuor delle condizioni politico-culturali del ceto colto italiano nell’ultimo decennio dell’Ottocento e in quei «primi dieci anni del Secolo Ventesimo» cui i Frammenti sono dedicati48; condizioni di una circolazione intellettuale senza precedenti, per ampiezza e varietà, e richiamante semmai, ma su scala maggiore, l’età del «Conciliatore». Sì che il riferimento a «La Voce», che per Rebora è restrittivo e convenzionale, è giustificato se con quel nome si vuole alludere ad un complesso movimento di opinioni, idee e riferimenti culturali eccedente la pubblicazione in questione; come (lo si dice per mera analogia non per un confronto) trentacinque anni più tardi avverrà con la sigla di «Il Politecnico». 5. Valutazione critica. 5.1. L’intento poematico di Rebora, per opporsi alla disgregazione della integrità personale guarda a un passato anteriore al decadentismo; a modelli del maggiore romanticismo europeo, soprattutto a quelli relativi alle cosmologie spiritualistiche, umanitarie e profetiche del primo trentennio del XIX secolo. Bergson, che gli è ben presente (ricordiamo che Materia e memoria è del 1896 e L’evoluzione creatrice del 1907) si situa, è certo, contro la tradizione positivistica, cara al padre di Rebora, ma nient’affatto contro il pensiero del vitalismo e naturalismo romantici. D’altronde, la descrizione della tematica dei Frammenti, quand’anche si accompagni all’analisi delle modalità linguistiche e metriche, è insufficiente a rendere conto del loro senso complessivo. E neppure sembra decisivo che tale senso sia preveduto dalla organizzazione intenzionale, dall’ordine di successione delle settantadue liriche e dalle dichiarazioni di poetica. Anzi, queste ultime, con loro esplicito richiamo ad un “appello” o “missione”, e con le loro esortazioni ideologiche, è quasi fatale che ostacolino la vista della meta poetica di Rebora, non diversamente da chi, leggendo l’Inferno, finisse con identificare il senso del poema negli enunciati del personaggio itinerante. L’intenzione immediatamente leggibile dell’opera è di mostrare un poema articolato in un sistema di ritorni e di echi tematici, dotato di una direzione dominante, chiara però solo nell’ultima parte: la proposizione di una “sapienza” cosmica. Per dirla in breve con un titolo di Arturo Onofri, Zolla ritorna cosmo e l’u48 Si rilevino in C. REBORA, Lettera ad Antonio Banfi del 16 aprile 1923, in ID., Lettere cit., p. 452, alcuni dei nomi di autori di cui Rebora vorrebbe antologizzare pagine per una sua iniziativa editoriale (I Libretti di vita), autori e libri che certo riflettono letture in gran parte compiute in età universitaria: oltre a Maimonide, Boehme, Vico, Bruno, Cardano e Swedenborg, ci sono Guyau, Nietzsche, Emerson, Whitman, Michelet, Eliphas Levi. Letteratura italiana Einaudi 26 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini mano soggetto terrestre tende ad identificarsi con l’universo naturale e col suo autoricrearsi. Tale è la finalità etico-religiosa del “messaggio” reboriano. Ma non meno evidente è l’intenzione – attestata, come abbiamo già detto, dalla corrispondenza di Rebora – di riprodurre all’interno di molte composizioni il disegno e proposito esemplare complessivo, rispecchiandolo fino alle cellule delle metafore e a quelle, sonore, delle omofonie e dei ritmi. Le torsioni espressivistiche mimano la contorsione dello spirito e dei corpi verso il proprio oltrepassamento. L’esempio dantesco è qui, ancora una volta, manifesto nella contraddizione fra itinerario psichico, organizzato dal poeta con la sua sequenza, e sistema di bruschi ostacoli e dislivelli che impegnano il lettore e lo aggrediscono nel corso della lettura. L’intenzione di fornire una sorta di “libro d’ore” o di “itinerario dell’anima” o “romanzo” (mai venuta meno in età romantica e simbolista e poi di molta letteratura del decadentismo) qui però fallisce perché priva di un riconoscibile o afferrabile schema o decorso narrativo-temporale. Se si eccettuano (in parte) gli ultimi dieci “frammenti”, gli altri si sviluppano ognuno per proprio conto. «Mentre rotolo dentro»: questa clausola (fr. LVI, v. 18), che dice rovello interiore e anche violenza di implosione, di cedimento, pare metafora del raggrumarsi di ogni singolo “frammento” in coaguli, quasi in emboli, nonostante, anzi contro, lo sviluppo apparentemente fluido delle sequenze. Quello che convenzionalmente chiamiamo l’espressionismo reboriano è dunque un intento o volontà formale che, disponendo di un repertorio amplissimo di figure di discorso, determina all’interno del verso, per eccesso e ingorgo, una serie di pressioni e decompressioni violente e avvolge di torsioni continue lungo le strofe ininterrotte; che sono, quelle, la maggioranza dei “frammenti”. Con poche eccezioni (soprattutto i madrigali e il commiato, che annunziano alcune prove successive fino ai Canti anonimi inclusi) quelle pressioni e torsioni si dànno anche nelle composizioni “chiuse” che pure, metricamente e tematicamente, dovrebbero fungere da momenti di rallentamento e distensione, prima del rilancio delle tensioni. Le pause non riescono insomma ad essere tali; perché all’origine, al moto di avvio, di quasi tutte le composizioni sta un’attitudine di aggressivo antagonismo, di combattimento esacerbato. Di qui l’abuso del «ma» avversativo nei Frammenti: alla disgregazione di cui la città moderna (rispecchiata e duplicata dalla disgregazione del soggetto) è immagine dominante si oppone un gesto di volontà e di positività, un “nonostante tutto”, ben diverso, aggiungiamo, dal «ma» concessivo e limitativo che sarà in Sereni49. Tutta l’opera di Rebora, anche nella raffigu49 Mentre in Sereni le negazioni modulano le affermazioni, le alterano, in Rebora sono di pari forza e si aggredisco- Letteratura italiana Einaudi 27 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini razione della sconfitta e dell’orrore partecipa del grande ottimismo della cultura europea del Sette e dell’Ottocento, dove la volontà etica dovrebbe vincere ogni rassegnazione e ironia. La vulgata psicanalitica potrebbe parlare di edipo irrisolto e di rimorso e colpa per la rimozione degli istinti omicidi e suicidi. Ad esempio, quando l’immagine paterna («i padri eroi») latrice della ratio e del dover essere è contigua a quella dell’«orco che ci sbrana» e che si vorrebbe annientare. (E d’altronde il medesimo plurale «eroi» compare sarcastico in «civil risma di eroi» (fr. XXI, v. 73). Un «orco» interiore che assumerà spaventosa realtà oggettiva di lì a poco quando nell’«aria sbranata» (Voce di vedetta morta, v. 3), l’«appetito della morte» (Fantasia di carnevale, fr. XI, v. 42)50 di cui i padri si fanno gloria, si sazierà di infanti trasformati in soldati e l’augurio sarà quello di «assenti figlioli di giorni presenti a divorare il padre» (Coro a bocca chiusa, p. 213). Di qui anche la rappresentazione di sé in prima persona come calma padronanza di sé («la concretezza nel pensier mio calmo», fr. LXXI, v. 58) oppure come violenza e demenza («forsennato» è uno dei suoi aggettivi significativi) e fino alla identificazione di sé con Ugolino e Caino: Oh, se avvelenati denti mi saettassero fuor dalla bocca per morder cuore e cervello su te, mentre la gola rugghiasse a sterminio il terrore del mal che m’infosca e drizzasser le mani ogni nocca in artigli selvaggi a squarciare Dio e i scellerati buoni! Oh, se fuggendo trovassi regioni dov’occhio non mi veda né conosca [...]. (fr. XXI, vv. 40-49). Il risultato è che mentre le singole composizioni (o almeno quelle che paiono di maggiore ricchezza e profondità) hanno un faticoso svolgimento, un interno percorso che quella tensione graduano e orientano, le sequenze e l’insieme del libro risultano invece un unico intrico, un fascio di linee-forza che si annullano a vicenda, una voce antimelodica resa stridula e finalmente coatta e incapace di silenzio, quindi di articolazione, dalla propria medesima concitazione ininterrotta. Se si aggiungono le analogie con i futuristi e i cubisti, il libro ha maggiore somiglianza con la musica atonale e col dinamismo futurista che non con le figurazioni del no, come draghi, a vicenda. 50 Fantasia di carnevale è pubblicato nel febbraio 1915, Voce di vedetta morta nel gennaio 1917, Coro a bocca chiusa nel maggio 1917. Letteratura italiana Einaudi 28 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini decadentismo e tardo simbolismo che pure sono il suo punto di partenza. E un decorso analogo è quello nelle arti figurative di quel decennio. Da questo punto di vista, Rebora è molto più “contemporaneo” delle coeve avanguardie europee di quanto possa, ad una prima impressione, parere. 5.2. Nell’area della consapevolezza, il suo discorso è quello, intensamente e vitalmente contraddittorio, di una soggettività dolorosa che vuole superarsi nella oggettività di un progresso spirituale e religioso, si è già detto, dell’intera realtà umana e naturale. A un livello meno razionale e consapevole, è tensione fra un informe magmatico pathos vitale (e anche cecità, violenza, autonegazione e morte) e un dover essere mascherato da poema ossia risolto in un oggetto linguistico. La vicenda biografica, con una sua esemplare situazione familiare, può confermare quel che i testi dichiarano con la monotonia implacabile degli stilemi di infrazione e frattura, aggressività e scacco: il padre legislatore gli si radica dentro e lo induce alla repressione ascetica e poi alla rivolta e alla autopunizione; mentre la madre-rifugio sarà recuperata dalla certezza che a condurlo sulla via della fede sia stata la Madonna. Si può dunque dire che per la sua visione di una identità di destino e tendenza fra l’uomo e la realtà naturale, Rebora è di fatto proprio all’interno della visione positivistico-utopistica che riteneva di detestare. Bruno e Campanella gli proponevano la figura neoplatonica dell’Anima mundi, gli utopisti scientisti e religiosi la figurazione del mondo quale un’immane creatura umana. Un tale panpsichismo egli lo visse piuttosto come intuizione e immaginazione che come sistema ideologico o filosofico; senza tuttavia che si sia autorizzati a ritenerlo (almeno fino alle vicende belliche) di flebile costituzione filosofica, come accade di leggere. Nel suo pensiero incertezze e contraddizioni possono venir rilevate proprio perché la sua si vuole poesia filosofica o ragionativa. L’oggetto e il movente o “missione” della sua poesia non è la volontà di ordinare il caos e di leggerlo come ragione superiore e nido di armonia possibile: questo è semmai l’oggetto e il movente della sua persona filosofica, morale e pratica. Alimento e meta del suo operare poetico è invece quello di raffigurare la passione per la volontà etico-intellettuale. Il lettore è così convitato ad accogliere in un medesimo tratto la conoscenza (o si dica visione del mondo), riassumibile in un (tragico) progresso cosmico verso la positività, e l’impeto (e la volontà) verso quella conoscenza, che si fonda nell’atto lirico del linguaggio. La specificità poetica di Rebora è quindi nella rappresentazione di quell’impeto, nella creazione di un personaggio drammatico di veemenza e di “felicità ol- Letteratura italiana Einaudi 29 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini tre le catene” ottenuta per concrezione e accumulo di stilemi. Di qui il frequente ritorno dell’immagine di una energia anche fisica prigioniera e incatenata (la poesia come «cittadina del mondo catenata»). Di qui il michelangiolismo di cui spesso ha parlato la critica. Le punte estreme di quella tensione si leggono tuttavia al di là dei Frammenti e precisamente nei versi dell’anno successivo, il 1914, e in alcune lettere. 5.3. Bandini ha sintetizzato la sua ricerca sul verbo in Rebora indicando la «prevaricazione della sfera verbale su quella nominale»51. Il primato del verbo sul sostantivo e, fra i verbi, di quelli di operazione violenta non può essere interpretato solo come un atteggiamento rivolto all’azione. Il verbo, che è temporalità, sequenza, svolgimento, si oppone alla spazialità dei nomi, alla loro immobilità. Qui si scorge un importante punto di contatto fra la postura fondamentale dell’eloquio reboriano e le proposte di poetica del futurismo riassunte nella sua maggiore parola d’ordine, il “dinamismo”. È vero che, a differenza dei futuristi marinettiani, la ricerca di una imitazione verbale della tensione e della velocità non solo non è vitalismo fine a se stesso ma si accompagna, anzi si arricchisce, del senso dello scacco e della sconfitta (per un evidente apporto, come in Michelstaedter, di origine schopenhaueriana). Tuttavia la prevalenza del verbo manifesta l’intento intensamente esortativo e mobilitante di queste liriche e dà ragione delle sequenze di versi brevi, i «movimenti», come egli li chiamerà in testi successivi ai Frammenti. Nei componimenti “liberi” i versi di lunghezza inferiore all’endecasillabo sono più del doppio di tutti gli altri. In questo moto i mutamenti di velocità e gli effetti di alterazione del ritmo hanno la funzione di organizzare – contro la “melodia” delle composizioni “chiuse” – una polifonia, una prospettiva di piani che non è senza analogia con gli effetti visivi “sghembi”, perseguiti dai futuristi e dal “modernismo”; non cubista, quindi, ma semmai cubo-futurista. Di qui una innografia sussultante, innervata da invocazioni e da effetti di crescendo continuamente ripreso e potenzialmente interminabile, che non è più quello delle variazioni armoniche ma traspone il sempre rinnovato infrangersi del desiderio e della aspirazione, l’interrogazione inesausta; come nel Wagner del Tristano, secondo una esperienza giovanile che deve essere stata indimenticabile52. Come la concretezza e oggettività naturali e corporee sono evocate, nella 51 F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora cit., p. 18. in un eccitamento formidabile dello Spirito. Mi si scatena impetuoso, dà in balzi possenti che mi annientano, rugge, si ribella, si placa improvvisamente; poi di nuovo si divincola, instabile, immenso e piccino, assurdo, irreale, terribile. Sono stato al Tristano e Isotta […]. È stata una combustione, una conflagrazione di tutto me stesso». (C. REBORA, Lettera a Daria Malaguzzi del 1° febbraio 1907, in ID., Lettere cit., p. 16). 52 «Sono Letteratura italiana Einaudi 30 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini espressione, in modo immediato coesistente e coesteso ai concetti (per il “realista” Rebora, gli universali hanno una esistenza altrettanto solida quanto quella delle “cose”), così le verità dichiarate (sapienziarie, sociali o etico-psicologiche) sono, in questa poesia, intenzionalmente inseparabili dalla concitazione lirica. La lettura di Rebora ci rende sensibile e concreta una tipicità che è, sì, storicamente determinata (e, come tale, raffigura un momento del nostro passato con la capacità sintetica che non può essere quella della indagine e della scrittura storiografica) ma si propone come ausilio alla rappresentazione del nostro presente o di una sua parte, modellizzatore e ordinatore di nostra esperienza. Rebora ci parla nella misura in cui la nostra condizione nella società e nel mondo può riconoscersi nell’Io lirico che porta il suo nome. Che quel rispecchiamento sia possibile e fruttuoso sta a dimostrarlo una crescente fortuna critica. L’opera di Rebora – tutta, comprese quindi anche le poesie dell’ultimo periodo della sua vita – abita la prima metà del XX secolo accanto a quella di Saba, Gozzano, Ungaretti e Montale e va assumendo sempre più il volto di una guida sofferente e fraterna. 6. Nota bibliografica. La migliore edizione esistente dei Frammenti è quella che si legge alle pp. 9-123 di C. REBORA, Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano 1988. Non è una edizione critica, come a p. 483 chiariscono i curatori; il testo dei Frammenti è esemplato sulla prima edizione, quella del 1913, curata dall’autore, tuttavia tenendo presenti le tre successive, la seconda a cura di P. Rebora (Firenze 1947), la terza a cura di V. Scheiwiller (Milano 1961), che ne pubblicò una quarta (Milano 1982). Viene da questa l’ultima, con alcune modifiche grafiche e interpuntive che Gianni Mussini discute nella Nota sul testo da lui siglata alle pp. 481526 della edizione citata. Una rilevante differenza, come si è già detto, fu tra l’edizione 1913 e quella fiorentina del 1947, dove il poeta sostituì (o accettò il consiglio di chi volle sostituire) alla numerazione romana dei singoli frammenti altrettanti titoli: una sorta di interpretazione autentica che l’edizione del 1961 omise, restituendo la numerazione del 1913, che è quella leggibile nel volume del 1988. L’omissione fu assai discussa da chi considerava l’apposizione dei titoli volontà di autore. E (come ebbe ad osservare O. MACRÌ, La poesia di Clemente Rebora nel secondo tempo o intermezzo (1953 -1920) tra i «Frammenti lirici» e le «Poesie religiose», in «Paradigma», n. 3 (1980), pp. 281-87, e n. 4 (1982), pp. 177-78) sarebbe stato oppor- Letteratura italiana Einaudi 31 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini tuno che quei titoli fossero stati almeno riprodotti nell’apparato critico della edizione più recente. In maggioranza, si trattava di titoli che identificavano un momento temporale (Mattinata, Ultime luci, L’ora intima, Sera estiva) o un luogo (Pioggia in città, Marina) ma altri si fanno importanti elementi di paratesto (Strutture di monti, Cosmo, Tempera, O ignoti eroi, Il consolatore, Cantico famigliare). Si aggiunga che è stata l’edizione 1947, con i titoli, quella di cui i lettori del secondo dopoguerra, e la critica, ebbero a disporre fra quella data e il 1961, ossia per un quindicennio, dopo che la prima edizione, nel periodo più che trentennale che la seguì, era divenuta una rarità da antiquariato. Una bibliografia degli scritti di Rebora è alle pp. 528-42 della citata edizione delle Poesie e a quella si rimanda il lettore. Per quanto è invece della fortuna critica dei Frammenti, sono memorabili – precedute dalla ripulsa di Emilio Cecchi (in «La Tribuna» del 12 novembre 1913) – le due recensioni che ne aprirono la storia: A. MONTEVERDI, Recensione in «La Voce», VI (1914), 7, pp. 42-51, e, soprattutto, ricca di impeto e di geniali intuizioni dei dati fondamentali dell’opera, G. BOINE, Recensione in «La Riviera Ligure», XX (1914), 33, p. 321 (ora in ID., Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano 1983, pp. 115-20). Boine non si limita a parlare, per i Frammenti, di «grandezza», ma elenca, fra Dante e Leopardi, i veri modelli della poesia reboriana: Michelangelo, Campanella e Bruno. Si può dire che il silenzio quasi assoluto della critica nel ventennio successivo ha la sua origine nel giudizio negativo che gli eredi dell’età “vociana” (si pensi a Piero Gobetti) erano indotti a dare dello spiritualismo teosofico e poi dell’avvicinamento al cattolicesimo. Importante, in questo senso, il silenzio di Eugenio Montale; che scriverà di Rebora solo in occasione della sua morte (in «Corriere della Sera», 2 novembre 1957, e in «La Gazzetta di Parma», 25 novembre 1957; ora in E. MONTALE, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, pp. 303-6), e che, trent’anni prima, lo aveva nominato («La fiera letteraria», 1° aprile 1928) con Boine e Gozzano fra i poeti di «impegno severo» di cui «il tempo rispetterà certamente qualcosa». Quel poco spiegabile silenzio mostra oggi non solo la rilevanza dei Frammenti per il poeta ligure (fra l’altro, Ossi di seppia avrebbe dovuto intitolarsi Rottami) ma anche una singolare vicinanza nel modo di “attraversare” D’Annunzio). L’opera di Rebora venne riproposta alla generazione dell’ermetismo dal giovane G. CONTINI, Due poeti anteguerra. Dino Campana, Clemente Rebora (1937), poi con il titolo Due poeti degli anni vociani. I. Clemente Rebora, in ID., Esercizî di lettura, Torino 19743, pp. 3-15 (Contini tornerà a scrivere di Rebora in Letteratura italiana Einaudi 32 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini ID., Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Firenze 1968, pp. 705-6). Lo studio di Contini, da cui procederà Bandini trent’anni più tardi, è di grande rilievo, soprattutto per le definizioni linguistiche. Ciò nonostante un altro ventennio dovette trascorrere prima che si imprendesse una adeguata collocazione dell’opera nella storia della lirica del Novecento. Era stata la vicenda biografica del poeta, con la sua conversione, a suscitare un interesse talvolta più devozionale che letterario, rivolto piuttosto alle poesie dell’estremo periodo della vita di Rebora (i Canti dell’infermità, pubblicati nel 1957, due mesi prima della morte del loro autore) che non ai Frammenti. P. P. PASOLINI, I «Canti dell’infermità» di Rebora (1956), in ID., Passione e ideologia, Milano 1960, pp. 326-27, fin dal 1950 attento alle indicazioni di Contini, avrebbe nel 1956 definito il significato di Rebora e degli altri «maestri in ombra» dell’età vociana in funzione della propria poetica. Quando nel 1960 comparve la biografia della Marchione (M. MARCHIONE, L’immagine tesa. La vita e l’opera di Clemente Rebora, prefazione di G. Prezzolini, Roma 1960; ristampa anastatica ampliata con lettere inedite, Roma 1974), l’opera era di solito interpretata come un progressivo avvicinamento al sacerdozio; e d’altronde si disponeva solo della edizione fiorentina del 1947, di limitata circolazione e non di poi ristampata. Ne scrissero, fra gli altri, A. ROMANÒ, Sulla poesia di Clemente Rebora, in «aut aut», n. 45 (1958), pp. 138-42; P. BIGONGIARI, L’oggetto come evento in Clemente Rebora (1958), in ID., Poesia italiana del Novecento, Milano 1960, pp. 35-52; G. BÁRBERI SQUAROTTI, Tre note su Clemente Rebora (1957), in ID., Astrazione e realtà, Milano 1960, pp. 195-219. Nel 1962, su «Questo e altro», in uno scritto di grande intelligenza critica, Giovanni Raboni, rifacendosi ad una nota di Pasolini del 1956, affermò il carattere non-metafisico della poesia reboriana: «Le parole di Rebora – voglio dire la sua lingua, la sua sintassi, la sua metrica, il tipo della sua metafora – sono parole pesanti, parole trattenute e bilanciate a terra dal piombo del loro significato quotidiano e storico [...] un materiale trovato e di cui non rifiuta niente [...] una poesia che non vuole trionfare sulla realtà e vuole invece salvarne dentro di sé le dimensioni concrete, gli spigoli vivi, le parti opache, le profonde spaccature [...]» (G. RABONI, Clemente Rebora (1962), poi col titolo Rebora e la storia, in Letteratura italiana. I Contemporanei, diretta da G. Grana, II, Milano 1979, pp. 154752; la citazione, passim, a partire da p. 1549). Una nuova strada per la lettura dei Frammenti fu aperta dal rilevantissimo studio, che più volte abbiamo citato, di F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, in AA.VV., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea. Rebora, Saba, Ungaretti Montale, Pavese, presentazione di G. Folena, Padova 1966 Letteratura italiana Einaudi 33 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini («Quaderni del circolo filologico linguistico padovano»), pp. 3-35. L’analisi linguistica consentiva di uscire dai termini biografici e psicologici e di ripensare la situazione storica di quella poesia da un punto di vista non confessionale, grazie anche alla pubblicazione, nel 1976 del primo volume delle Lettere, a cura di M. Marchione, prefazione di C. Bo, Roma 1976 (relative agli anni 1893-1930; il secondo volume, 1931-57, è a cura di M. Marchione, prefazione di C. Riva, Roma 1982). Nelle rispettive antologie, F. FORTINI, I poeti del Novecento, Roma-Bari 1977, pp. 30-40, e P. V. MENGALDO, Poeti italiani del Novecento, Milano 1978, pp. 249-74, situavano i Frammenti fra i massimi “libri” di poesia italiana del nostro secolo. Pier Vincenzo Mengaldo aveva posto in evidenza il debito di Rebora verso Lucini per «densità timbrica sul registro aspro», «espressività violenta nel dominio verbale» e tendenza ad «assorbire ed annullare il linguaggio aulico» onde Rebora «lima ciò che Lucini ha fabbricato», compiendo ciò che qui «è solo incoato»; ma anche le «soluzioni linguistiche» reboriane che «anticipano – e spesso puntualmente – Montale»; «Senza Rebora io non riesco a spiegarmi né L’Allegria di Ungaretti né – come sarebbe ora di chiarire – Montale» (P. V. MENGALDO, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano 1975, pp. 111 e 116). Questa di Rebora («l’espressione lirica più alta del clima “vociano”») sembra a Mengaldo «aggressività e incandescenza stilistica [...] anteriore alla messa in opera del testo poetico, una specie di dato biologico [...]. In pochi poeti come in Rebora lo stile, più che riflettere un’ideologia, è immediatamente ideologia, anzi si direbbe la surroghi e ne colmi i vuoti con una sorta di gesticolazione psicologica e morale che da un lato veicola l’attivismo del soggetto, dall’altro mima il caos peccaminoso della realtà rugosa [...]» (P. V. MENGALDO, Poeti italiani del Novecento cit., pp. 254 e 252). A questo sommario di critica reboriana vanno naturalmente aggiunti i riferimenti e i titoli citati nelle nostre note (tra cui: G. GETTO, L’ultimo Rebora (1956), poi con il titolo Nota su Clemente Rebora, in ID., Letteratura religiosa dal Due al Novecento, Firenze 1967, pp. 415-24; M. GUGLIELMINETTI, Clemente Rebora, Milano 1961). Dovessimo ora suggerire un testo monografico recente ed equilibrato su tutto Rebora, che dei Frammenti dà un disegno persuasivo ed esauriente, crediamo dover ricordare quello di P. GIOVANNETTI, Clemente Rebora, in «Belfagor», XLII (1987), 4, pp. 405-30. Le sue parole conclusive ci sembrano da sottoscrivere: «La filosofia e la religione, nel miglior Rebora, assumono uno spessore materiale e terreno, acquistano il loro più vero significato solo se sottoposte a controspinte che ne estenuino la troppo facile predi- Letteratura italiana Einaudi 34 «Frammenti lirici» di Clemente Rebora - Franco Fortini cabilità; e nelle pieghe di pagine che sembrano spesso negarsi alla chiarezza e all’equilibrio il lettore moderno potrà scoprire – caso forse unico nella poesia italiana del Novecento – il progetto di una lirica che nell’impurità della storia e del corpo ha saputo ricercare (e individualmente, forse, inverare) le promesse d’una possibile pacificazione». Letteratura italiana Einaudi 35