Impressionisti allo specchio

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Impressionisti allo specchio
-MSGR - 20 CITTA - 21 - 11/10/15-N:CITTA’
21
Arte
Domenica 11 Ottobre 2015
www.ilmessaggero.it
Da giovedì al Vittoriano le opere provenienti dal Musée d’Orsay: dall’esordio del movimento con la sua aspirazione
ad uscire dagli atelier per lavorare “en plein air” all’affermazione dei grandi. Ritratti e autoritratti da Manet a Renoir
Impressionisti allo specchio
pano anche le fotografie, non a
caso Nadar amava parecchio
proprio questi artisti.
Persone immortalate da sole, o
con i loro oggetti, come il Ritratto di donna con vaso di porcellana, sempre di Degas. Numerosi i Renoir esposti, accanto a dipinti del suo grande amico Bazille: L’altalena, di certo, è
tra i suoi migliori. Tra loro,
non sfigura certamente una
scultura di Medardo Rosso, di
poco successivo all’Impressionismo, un busto del figlio dell’industriale Mond, Alfred; o
un dipinto di John Singer Sargent, che fu loro vicino (mentre l’unica donna impressionista non francese è stata Mary
Cassat).
LA MOSTRA
na galleria di ritratti e autoritratti, in cui magari i
grandi maestri (a quel
tempo non ancora famosi) si eternano a vicenda; altri, di personaggi che erano celeIl balcone
bri o stavano per diventarlo; lo studio di qualdipinto da
che artista; squarci delManet tra il
la vita quotidiana, a ca1868 e il ’69
vallo tra l’Otto e Novecento: questi i temi della
nuova mostra degli Impressionisti al Vittoriano,
circa 60 dipinti provenienti
dalla collezione parigina del
museo d’Orsay, il “tempio” di
questo periodo dell’arte, che si
apre giovedì e durerà fino al 7
febbraio. Curata da Guy Cogeval, il direttore del museo, con
alcuni collaboratori (cat. Skira), racconta la vera peculiarità del pittori “en plein air”:
quella di annullare la barriera
tra l’atelier dell’artista e la vita
comune; di «farlo uscire dal
proprio guscio», come dice già
nel 1876 lo scrittore Edmond
Duranty che alcuni pensavano
perfino un figlio naturale di
Prosper Mérrimée.
U
LO STUDIO DI NADAR
In quel momento, il movimento
impressionista era sorto da appena due anni, in virtù di una mostra organizzata a Parigi, Boulevard des Capucines: Edgar Degas, Paul Cézanne, Claude Monet, Pierre-Auguste Renoir, Alfred Sisley, qualche altro, con
l’italiano Giuseppe De Nittis, nello studio di Nadar, cioé il fotografo Gaspard-Félix Tourmachon.
E’ il battesimo ufficiale di un
gruppo di artisti, destinato a
«modificare ogni valore sentimentale e poetico» (Pierre
Francastel).
Le opere che saranno a
Roma spaziano dal
1855 fino al 1913.
Frédéric Bazille
che eterna Renoir; Carolus-Duran, il quale immortala Edouard Manet;
LA PERSPICACIA
IL QUADRO Il giocatore di carte di Paul Cézanne (1890 - 1892)
Renoir che effigia Monet; Degas, Cézanne e Léon Bonnat si
dedicano ai propri Autoritratti;
i volti di celebri personaggi fissati sulla tela quando non erano, magari, ancora affermati:
Victor Hugo (un bronzo di Auguste Rodin), Claude Debussy,
Stéphane Mallarmé.
I PERSONAGGI
In più, Bazille ci regala il suo
atelier; Maurice Denis, Degas
con la sua modella; Renoir, il
volto di William Sisley, padre
del pittore Alfred, ricco uomo
d’affari; Cézanne la moglie. Né
mancano le sculture: uno Studio di nudo per la ballerina vestita di Degas; i bronzi del principe Paolo Troubetzkoy; un
marmo con quattro bronzi di
Rodin, di cui uno eterna il celebre pittore Pierre Puvis de Chavannes. Ed Émile Zola chiarisce: sono «pittori che amano il
loro tempo, cercano di penetrare figure prese dalla vita, con
tutto l’amore che provano per i AL PARCO
soggetti moderni».
L’altalena di Renoir, a sinistra Studio di nudo per
Nel novero, alcuni piccoli capo- ballerina di Degas (tutte le immagini © photo Musée d'Orsay/RMN)
Dal liberty al design
la folle avventura
delle arti decorative
L’ESPOSIZIONE
ono «le basi per il “good design” italiano che fiorirà nel secondo dopoguerra»: «Periodo di creatività straordinaria, mentre il Paese corre verso la
catastrofe», «nelle arti decorative italiane, all’inizio del XX secolo, trionfa la gioia di vivere», spiega Guy Cogeval, presidente del
Museo d’Orsay, che in questi
giorni a Roma la fa da padrone;
sua anche la mostra al Vittoriano. Ha iniziato una ricerca sul periodo già nel 2006, quando dirigeva il Museo des Beaux-Arts di
Montréal; ora la trasfonde in una
mostra, già a Parigi, organizzata
con Palazzo delle Esposizioni, in
cui le 200 opere di “Una dolce vita? Dal liberty al design italiano,
1900 - 1940” saranno esposte dal
16 ottobre al 17 gennaio (cat. Skira). Un itinerario che spazia dall’Art Nouveau (l’Esposizione a
Torino nel 1902) al Divisionismo
S
(Gaetano Previati e Giuseppe Pelizza da Volpedo), al Futurismo
(il manifesto di Giacomo Balla e
Fortunato Depero è del 1915), al
“ritorno all’ordine”; dall’architettura, ai quadri, ai mobili: è un
“come eravamo” di sicuro effetto.
IL MUSICAL WESTERN
Con gli arredi di Carlo Bugatti, il
primo musical western: la Fanciulla del West, di Giacomo Puccini; dai quadri al cinema anche
se Mussolini realizzerà solo un
film di quelli voluti, Scipione
l’Africano. Una spensierata corsa verso l’abisso, quando all’orizzonte già si stagliano due guerre,
e un regime. L’Italia borghese «si
considerava una grande nazione» in età giolittiana: ma era arretrata e rurale. Ma le arti decorative vivono una straordinaria avventura. Gli arredamenti quelli
in soffitta, già di qualche bisnonno?); maioliche, bronzi e dipinti
di Cambellotti; l’invenzione di
lavori: Il balcone di Manet (del
1890), i ritratti di Mallarmé e
di una Angelina; Degas che dipinge tre giovani industriali
del tempo; un bozzetto per i
Giocatori di carte di Cézanne.
Come L’altalena di Renoir, sono autentici specchi di un’epoca: di una inedita sfida, carica
di psicologia e introspezione.
E’ la “nuova pittura” che, tradotta in mostre, significa anche cassetta sicura. Non è un
caso se altre due loro esposizioni sono in corso a Genova, e
a Torino.
INCONTRI INFORMALI
Il ritratto, dunque, è la prima
palestra di questi inediti campioni; Degas prende a modello
suo nonno; e se il suo capolavoro è La famiglia Bellelli, qui
Jacques-Emile Blanche ci regala un’istantanea di quella
Halévy. Degas, però, fissa anche incontri informali, come
quello con due incisori impegnati in una lastra da stampa, o
del gruppo di tre giovani imprenditori. Quadri che antici-
«Non c’è lavoro artistico che richieda altrettanta perspicacia
del busto o del ritratto», proclamava Rodin. E quadri di vita
quotidiana, frammenti di città e
di esistenza nelle vie. Ne era il
primo campione Manet, «importante per noi quanto Cimabue o
Giotto per gli italiani del Rinascimento», diceva Renoir. Il passo
d’addio del movimento saranno
forse le Ninfee di Monet, che dedica vent’anni allo stesso soggetto, e la sua pittura si stempera in
segni inarrivabili.
Il nome del movimento deriva
dal titolo di una sua opera del
1872, Impression soleil levant;
ma il D’Orsay, di suoi quadri
non ne ha mandati nemmeno
uno. Per fortuna, Renoir ce lo
mostra come era tre anni dopo
questo suo capolavoro; pare quasi uno che ha bisogno della doccia e del barbiere; questi artisti
erano spesso fatti (anche) così.
Fabio Isman
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MOLTI ARTISTI
SI ETERNANO A VICENDA
DEGAS RITRAE IL NONNO
E CÉZANNE LA MOGLIE
SQUARCI DI VITA
TRA OTTO E NOVECENTO
LA PUBBLICITÀ
Il Pupazzo Campari di Fortunato
Depero, 1925 circa, legno dipinto
a tempera (Collezione M. Carpi
© FUTUR – ISM ASSOCIAZIONE CULTURALE)
l’estero, ha certamente il pregio
della coproduzione: la versione
italiana, offre più di quella francese; e racconta anni troppo lontani, ma già storici, del nostro vivere.
L’AVANGUARDIA
Galileo Chini, con i manifesti di
Leopoldo Metlicovitz e Marcello
Dudovich; i quadri di Felice Casorati, e i vetri o gli oli di Vittorio
Zecchin; i Severini, i Balla, i Depero: specchi d’un tempo incredibilmente gioioso; perché poi...
La metafisica annuncia una fuga
dalla realtà, o un ritorno all’antico che non c’è più? Nasce lo “stile
italiano”; ne è antesignano Gio
Ponti; come Mario Sironi lo è del
“realismo magico”. Di Tommaso
Buzzi, architetto troppo dimenticato, anche un incredibile Trionfo da tavola di un metro e mezzo,
con cui, nel 1926, ha cosparso le
Ambasciate all’estero. I primi vetri di Carlo Scarpa, le sculture di
Arturo Martini; Giuseppe Pagano e Gio Ponti creano anche un
elettrotreno, archetipo delle at-
“Mobili nella
valle” di Giorgio
De Chirico
(© Rovereto, MART –
Museo di Arte Moderna e
Contemporanea di Trento e
Rovereto) e “Piccoli
saltimbanchi”
di Antonio
Donghi (Collezione
Elena e Claudio Cerasi)
tuali Freccie Rosse: andava a 200
all’ora nel 1934. Astrazione; razionalismo; fino alle moderne
creazioni di Alessandro Mendini: come i suoi progenitori, alla
ricerca di un’utopia con cui abitare il mondo.
La mostra, in un periodo denso
di esposizioni acquistate dal-
AL PALAEXPO
UN ITINERARIO
TRA ART NOUVEAU
E FUTURISMO
CON GIO PONTI, DEPERO
BALLA E CAMBELLOTTI
-TRX IL:11/10/15
«La straordinaria fucina creativa, le cui sperimentazioni non
hanno eguali prima del 1900», afferma Cogeval: e l’elogio d’un parigino, la città della Belle Époque,
vale perfino doppio. Rileggiamoci allora i brividi di una danza,
quasi sull’orlo di un abisso. Massimo Bontempelli diceva nel
1928 che «forse l’arte è il solo
incantesimo concesso all’uomo»; e Umberto Boccioni:
«Voglio dipingere il nuovo,
frutto del nostro tempo industriale; cancellare i valori conosciuti, per ricostruire su nuove
basi». L’esposizione racconta un
Paese per noi antico, eppure, all’epoca, incredibilmente all’avanguardia. Forse l’ultima stagione
in cui è riuscito ad esserlo nel
mondo; ce lo siamo per caso dimenticato?
F.I.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
00:33-NOTE:CITTA’
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L'Evento
Domenica 11 Ottobre 2015
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La curatrice
Faietti:
«Un ritratto
inedito»
L’INTERVISTA
accontare Raffaello attraverso gli sguardi dei suoi
riconosciuti eredi. È una
prospettiva inusitata quella scelta da Marzia Faietti, direttrice del Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi e curatrice della mostra Raffaello Parmigianino Barocci, organizzata da MetaMorfosi. Professoressa, come mai una narrazione "mediata"?
«Quando mi è stato offerta
la curatela della mostra ho accettato con entusiasmo ma
non senza qualche riserva sulla scelta dell'artista, non certo
per la sua indiscussa grandezza quanto per il rischio che
una nuova esposizione contribuisse a determinare la periodica inflazione dell'urbinate.
Così ho pensato di guardarlo
attraverso gli occhi di altri artisti».
Cosa ci racconta il confronto
con Parmigianino?
«Raffaello cominciava a elaborare nuove concezioni spaziali, lo fa anche Parmigianino
scegliendo una prospettiva diversa. Non vuole rappresentare lo spazio in profondità ma
spinge le sue figure all'esterno,
verso l'osservatore, oltre i limiti del quadro, ottenendo così il
coinvolgimento diretto di chi
guarda. Ciò lo rende più vicino
a noi e all'arte del Novecento».
Più moderno, dunque?
«Era molto moderno, concettuale, colto, ribaltava ciò che
vedeva per farci spettatori.
Non è un caso che nel suo autoritratto giovanile, focalizzi l'attenzione sulla mano che lavora a ribadire come quella mano deformata sappia invece
creare angeliche figure. Manda un messaggio molto forte ai
nostri tempi, nei disegni è evidentissimo».
Ancora più "stretto" il confronto tra Raffaello e Barocci?
«I contemporanei sottolineavano la comune patria di Urbino. Un collegamento che merita di essere indagato. Ho maturato la convinzione che in
quella teoria potrebbe esserci
qualcosa di vero. Urbino era,
per posizione, portata al dialogo con le altre città, in particolare Milano, Firenze, il litorale
adriatico, e questo facilitava
scambi e confronti. Sia Raffaello che Barocci hanno il dono
della sintesi, che potrebbe dunque essere sì una sorta di eredità, non tra persone però. È su
questo spirito del luogo che
vorrei concentrare il prossimo
studio».
Anche lui rivoluzionario?
«Barocci riflette un'epoca diversa da quella di Raffaello,
pure per il potere di Urbino. In
comune, hanno la capacità di
far dialogare istanze artistiche
molto diverse. Il cromatismo
veneto, il chiaroscuro lombardo, il disegno fiorentino sono
componenti ideali riassorbite
da Barocci che, lontano dalle
accademie, elabora la sua sintesi culturale. Non scrive testi,
la mostra nelle opere: è la sua
reazione ai canoni dell'epoca».
V.A.
R
IL TRATTO
Raffaello, “Trasporto
di Cristo” e a fianco,
del Parmigianino,
“Due teste di profilo”
AUTORITRATTO
A destra il celebre
autoritratto di Raffaello
conservato agli Uffizi
Qui sopra Parmigianino,
“Canefora” (Vienna, Albertina)
In alto. Barocci,
“Annunciazione”
(Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi)
(Città del Vaticano, Musei Vaticani)
Ai Musei Capitolini fino al 10 gennaio “Raffaello, Parmigianino, Barocci - metafore dello sguardo”
Una mostra che racconta, con disegni e stampe, il maestro attraverso il tratto dei suoi emuli posteriori
Dalle donne dell’urbinate solenni come Madonne alle bellezze materiche e pudiche dei suoi “eredi”
Nel segno del genio
L’ESPOSIZIONE
e donne di Raffaello, solenni come Madonne o Veneri,
comunque celesti nella proiezione del loro essere idea
e ideale. Le bellezze concretamente materiche di Parmigianino, che perfino quando
si fanno allegoria non perdono
la morbidezza della carne, né la
sua seduzione. E quelle pudiche
ma "umanamente" sorridenti di
Barocci. Ancora, gli spazi studiati e meditati che Raffaello concede alla sua libertà creativa, quelli
battagliati di Parmigianino e
quelli sintetizzati di Barocci. Sono gli sguardi a illustrare le affinità e le distanze tra Raffaello,
Francesco Mazzola detto il Parmigianino e Federico Barocci: teso all'ideale il primo, concentrato sulla realtà il secondo, attratto
dall'armonia della sintesi il terzo. E a questi tre differenti modi
di guardare e, più ancora, far vedere è dedicata la mostra Raffaello Parmigianino Barocci. Metafore dello sguardo, ospitata ai Musei Capitolini, a Roma, fino al 10
gennaio, con l'intento di osservare il maestro urbinate attraverso
le opere dei suoi "eredi", tra disegni e stampe, per rintracciare, influenze, emulazioni, differenze
e, perfino, rivoluzioni. Di tratto e
visione.
L
EREDI
Vicini nel tempo ma distanti per
contesto storico, sentimento, intuizione e intenzione, Parmigianino e Barocci raccolgono lezione e testimone dell'urbinate, considerati suoi eredi già dai con-
temporanei. Di Parmigianino, a
Roma si diceva addirittura che
ospitasse nel suo corpo l'anima
trasmigrata di Raffaello. E Urbino, patria comune, era ritenuta
"prova" sufficiente, di fatto confermata dalla grazia della mano,
della continuità tra Sanzio e Barocci. Così l'esposizione indaga
quelle "vicinanze", fin dall'immagine che gli artisti hanno - e mostrano - di se stessi, elevando i rispettivi autoritratti a manifesto
delle loro estetiche e filosofie.
L’ETICA DEL RIFLESSO
«Guardati nello specchio - scrive
Plutarco - e se ti pare d'esser bello opera cose degne della tua bellezza; se poi ti credi deforme fa di
ammendare i difetti del volto coi
virtuosi costumi». L'etica del riflesso diventa, nell'iter espositivo, ideale guida all'estetica del
tempo. Volto efebico, labbra
morbide, "mollezza" della torsione: è nella perfezione classica
della kalokagathia, che del bello
fa sinonimo di bene, il modello
cui guarda Raffaello per comporre il suo autoritratto. Una visione idealizzata a fare icona del
suo stesso aspetto e simbolo di
quella grazia che, attribuitagli
dalla cronaca contemporanea,
diventerà prima letteratura e poi
GLI IDEALI ESTETICI
DI PERFEZIONE
CLASSICA
DEL TEMPO: VOLTO
EFEBICO, MOLLEZZA
DELLA TORSIONE
addirittura canone. Immagine
ben diversa dall'autoritratto giovanile allo specchio convesso di
Francesco Mazzola, non esposto
ma riconosciuto fondamento del
confronto, dove la delicatezza
del volto fa da "sfondo" alla deformazione della mano che dipinge in primo piano, monumentale per grandezza nel riflesso,
ma soprattutto per talento nell'
intenzione dell'artista, che della
bellezza vuole essere creatore e
non semplice esempio. E che, in
questo suo percorso di rilettura,
anche di se stesso, viene rappresentato in mostra nel suo raffigurarsi "salvatico", come disse Vasari. Poi, l'armonia del viso di Federico Barocci, che ingentilisce
la "mezz'età" del suo autoritratto, bilanciando la luce interiore
con il buio esterno. L'immagine
di sé diventa simbolo e metro del
rapporto che ogni artista ha con
il Bello e la sua rappresentazione, dalla figura femminile alla
natura, dall'architettura alla più
generale riappropriazione dello
spazio scenico, tra azione e personale espressione. E se la figura
rispecchia canoni precisi, per
epoca e sensibilità, è nello spazio
che ognuno riserva a se stesso la
misura delle rispettive rivoluzioni, nella battaglia contro codici e
costrizioni del tempo, a partire
dalla "gabbia" della finestra albertiana, che teorizza la costruzione pittorica del quadrangolo
come recinto per la visione personale dell'autore.
DIFFERENZE
Raffaello, profilo femminile
Raffaello studia la regola, medita e inizia il suo scardinamento.
Parmigianino, più irruente e dinamico, procede allo "sfondamento" della cella, concettuale e
dipinta, dimostrando come ormai quello spazio sia diventato
eccessivamente esiguo per contenere l'immaginario dell'artista. E in questo sconfinamento
ribalta il punto di vista, rifuggendo dalla tensione alta dell'urbinate deciso a conquistare il cielo,
per protendersi invece verso l'uomo, in una ricerca di dialogo tra
opera e osservatore che è indice
e base della modernità. Barocci,
invece, si libera della prigione
del canone, conducendo la sua
silenziosa ma non meno evidente rivolta contro le norme di gusto del suo tempo. Al "legislatore" dell'estetica Vasari, che riba-
diva la supremazia del disegno
dell'Accademia fiorentina su
quella che definiva l'assenza di
disegno dei veneti, Barocci si oppone con le sue opere, in una rivoluzionaria sintesi delle diverse scuole italiane, che non spiega
ma illustra il potere della pittura. Una rivoluzione che affonda
le sue radici nella lezione di Raffaello che aspirava alla sintesi
tra le arti. Figure umane, natura
e architettura si uniscono a comporre un orizzonte chiaro che è
figlio della visione che i tre artisti
portano negli occhi e nella mano, decisi a rivoluzionare lo
sguardo di chi osserva. E si lascia
osservare.
ASSIMILAZIONE
Sono proprio i disegni, nella loro
velocità e urgenza, a raccontare
il segno. È "pulita", diretta
espressione della sua grazia,
l'esecuzione di Raffaello, attenta
all'armonia di forme e composizione. Sacralizzata nella distanza dall'uomo comune. Più drammatica, specie nei lavori a pietra
rossa, la mano del Parmigianino
che sperimenta e osa un pathos
carnale, concretamente sofferente o compiaciuto nel dinamismo
di azione e ispirazione, dunque
rappresentazione. Minimale e
moderno nelle linee accennate o
sovrapposte il tratto di Barocci.
Ed è nella "finestra" aperta dalla
mostra la consacrazione di questa eredità: mai semplice emulazione, ma assimilazione e reinterpretazione. Monumento al
Bello, nelle sue pressoché infinite manifestazioni.
Valeria Arnaldi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
-TRX IL:10/10/15
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Marzia Faietti
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