Le Carceri di Piranesi
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Le Carceri di Piranesi
Le Carceri di Piranesi Osservazioni e riflessioni In resoluta e belligera contrapposizione alle inequivoche testimonianze e orride, sia materiali, sia immateriali, d’un’epoca, quella contemporanea, irrefutabilmente contrassegnata, a mio avviso, da un infausto osceno concretarsi di una molteplicità di manifestazioni pseudoculturali sintomo d’ignoranza, miseria, deficitaria ovvero assente consapevolezza dell’immarcescibile significatività della tradizione culturale italiana, vorrei in siffatta sede proporre ex professo una serie d’inattuali e, auspicherei, stimolanti, considerazioni circa la maestosa figura dell’architetto e incisore Giovan Battista Piranesi. Nutro in seno l’intima tetragona persuasione, confortato da indefessi studi e autori la cui irreprimibile eco ancora risuona e feconda la compagine attuale, che sia necessario si proceda “controcorrente”, come recita il titolo del romanzo più conosciuto di Joris-Karl Huysmans, definito la Bibbia del Decadentismo1, contrastando con inesausta e dotta virilità l’omologante e inumana possanza di un sistema, ormai attivo a livello globale, secondo il cui tirannico arbitrio la persona debba prona soggiacere alle infernali norme di un mercato che stabilisca cosa debba essere propinato e cosa debba essere trascurato, in nome, sia chiaro, d’una perversa pedagogia volta al dominio subdolo, e per taluni impercettibile, degli individui, considerati quali meri consumatori scevri di coscienza e radici culturali. Orbene, affinché la pugna spiritualis dal sottoscritto intrapresa possa nel presente articolo palesare il proprio intento proteptico e paideutico, con l’auspicio che già il primo d’una sequela di contributi esplichi un’azione ausiliatrice, presenterò taluni fondamentali aspetti connessi alla sopra mentovata figura dell’artista preso in esame. Non riporterò in siffatta sede i particolari biografici relativi a Giovan battista Piranesi (1720, Moiano, presso Mestre, Venezia- 1778, Roma); elaborerò un discorso concernente una delle sue produzioni più suggestive e influenti in ordine alla cultura artistico-antiquaria del XVIII secolo e oltre, ovverosia la serie delle Carceri. La prima edizione è intitolata Invenzioni Capricci di carceri all’acquaforte date in luce da Giovanni Buzar [l’editore, n.d.r.] in Roma mercante al Corso (1745). Il secondo stato, rielaborazione dell’antecedente, vedrà la luce solo nel 1761 col titolo Carceri d’invenzione di G, Battista Piranesi Archit. Vene. Perché siano idoneamente compresi il genio di Piranesi e il sublime, e geometricamente ineccepibile, profondo orrore delle Carceri, occorre innanzitutto considerare il fatto che egli sia stato 1 Joris-Karl Huysmans, A ritroso, introduzione di Carlo Bo, traduzione di Ugo Dèttore, BUR, Milano 1999, p. 9. un entusiastico ed erudito sostenitore del mito di Roma. L’incondizionata e prolifera venerazione nei confronti dell’indiscussa e inconfutabile, ancorché periclitante, magnificenza delle vestigia degli antichi, si concreta in serie d’incisioni quali Prima parte di architetture e prospettive (1743), in cui il Nostro per la prima volta pone le fondamenta del suo lavoro di ricerca e rilevamento sul campo, Alcune vedute di Archi trionfali (1748), Antichità romane (1756), Della magnificenza ed architettura de’ romani (1761). In tali opere Piranesi mostra, mediante un dominio virtuosistico sia delle norme della prospettiva e, più in generale, delle cognizioni architettoniche, sia delle tecniche d’elaborazione grafica, un’incoercibile e vorace volontà di rendere oggetto di fruizione colta e filologica i fasti dell’antica Roma. Una poliedrica ed opulenta antichità che persiste nel parlare, a chi sapesse coglierne la maliosa voce, facendo pompa della propria istruttiva e notevole altiloquenza, quantunque parzialmente assediata da una Natura che quasi in ogni commessura tenda a disseminare le sue radici determinando in tal modo quel caratteristico inscindibile connubio peculiare della situazione di conservazione materiale dei monumenti in vari secoli di storia italiana. E proprio «il gusto delle rovine»2, com’ebbe a denominarlo Mario Praz, quell’insistenza erudita e morbosa per un’immane e possente classicità insidiata da una Natura sempre più concepita, preludendo al Romanticismo, quale animata da enigmatiche e all’uomo ascose forze che siano in procinto di soverchiare l’individuo, euforico e disorientato al medesimo tempo, costituirà uno dei fulcri vitali della magistrale espressività artistico-filosofica delle Carceri, nonché una chiave ermeneutica impreteribile per capirne i reconditi segreti. Si direbbe che gli edifici e le reliquie dell’antichità latina, per Piranesi, lungi dall’essere ridimensionati nel loro irresistibile e coartante potere di fascinazione dalla presenza d’una Natura insidiosa, ne traggano paradossalmente maggiore venustà e virtù, all’insegna d’una poetica e geniale tensione ossimorica tra il paradigma dell’eterna firmitas e l’inesorato palesarsi del tempo e delle sue ingiurie, fra la tetragone e adamantina solidità delle strutture e il fluire incessante e metamorfico, tra il perpetuo e il transeunte. Le incisioni delle Carceri trasudano siffatto dinamico complesso equilibrio anche attraverso l’esibizione virtuosa e proto-romantica della diade permanente-provvisorio, ove a monumentali, e spaventevoli a vedersi, strutture architettoniche, di perspicua ascendenza romana, s’integrano elementi, quali scale, funi, travi lignee, orridi ed enormi strumenti di tortura, che lasciano intendere come, all’interno degli interminati spazi di cui è capace la prolifica inquieta fantasia piranesiana, prenda corpo una degenere e criminale attività umana, e s’innesti, in una sorta di oppiaceo prodigio, un coacervo d’irriferibili e sordide vessazioni nelle pulsanti nervature d’ambienti artificiali materiati d’assiduità e rigore nello studio meticoloso dell’arte latina e d’incontroversa sapienza progettuale. L’altro imprescindibile fulcro ermeneutico delle Carceri è costituito dal dinamico e fecondo connubio tra la finitudine e l’infinitudine, palese ove s’osservi come persista nell’intera opera, con pervicace ossessività, il tema delle strutture architettoniche (archi, volte, pilastri) che si moltiplichino senza fine in una squisita bramosia cerebrale d’incrementare all’infinito il potenziale della scienza prospettica, indissolubilmente correlato, tale tema, a quello, in apparenza contraddittorio, della segregazione, della incubica e compulsiva claustralità, dell’immensa ipogea segreta che, pur essendo scevra di limiti, in eloquenti minacciosi particolari (verbigrazia, gli strumenti di tortura) confermi la propria ferina e crudele oppressione. 2 Giovan Battista Piranesi, Le Carceri, Introduzione di Mario Praz. Con uno scritto di Henri Ficillon, ABSCONDITA, Milano 2011, p. 21 Le Carceri di Piranesi trasportano fuori dall’universo delle armoniose simmetrie che costituì la nota dominante dell’arte europea prima del Settecento. Nelle Carceri, come ha acutamente osservato Marguerite Yourcenar: «L’impossibilità di discernere un piano d’insieme aggiunge un altro elemento al malessere che ci causano le Carceri: non abbiamo quasi mai l’impressione d’essere all’asse dell’edificio, ma soltanto su un raggio vettore; la predilezione del barocco per le prospettive diagonali finisce qui, per dare il senso d’esistere in un universo asimmetrico. […] Questo mondo aggomitolato su se stesso è matematicamente infinito»3. Attraverso il parto, eminentemente mentale, d’oscuri ed efferati luoghi d’indefinita ubicazione, coartati entro la possanza di mura tetragone e solo per volontà dell’artista non impenetrabili, ove l’erudita filologia architettonica e il dominio magistrale delle norme della scienza della prospettiva determinano un surreale, onirico mondo che potrebbe implementarsi all’infinito senza contravvenire al cogente e codificato rigore della matematica, e nel medesimo tempo con inequivoca voce proclama la propria natura concentrazionaria, nella quale sia possibile perpetrare qualsivoglia crimine, Piranesi, 3 Le cerveau noir de Piranèse, prefazione a una ristampa delle Prisons imaginaires, di cui la Nouvelle Revue Française ha fornito una versione abbreviata nel numero del gennaio 1961. Ripubblicata nel volume Sous bénéfice d’inventaire, Gallimard, Paris 1963 (versione italiana Con beneficio d’inventario, Bompiani, Milano 1985). «le noir cerveau de Piranèse», com’ebbe a denominarlo Victor Hugo, aprì la strada al romanzo nero, o gotico, in cui fattori ineludibili sono l’angoscioso labirinto tetro e gravido di presenza spettrali, l’atmosfera claustrale, la vessazione reiterata e inumana cui sono sottese le pulsioni sadiche della persona, la malvagità inopinata. Ferrara, li 13/12/2014 Samuele Muscolino
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