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Il mio kibbutz deserto a due passi dal confine
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Mercoledì stavo tornando da un viaggio in Italia con 18 ragazzi israeliani feriti negli ultimi
attentati. Un viaggio difficile, con ragazzi induriti dalla paura. Al check-in, una telefonata da
Israele: «Mamma, non preoccuparti, stiamo tutti bene». È mio figlio Yotam, soldato
nell´esercito. «Ma che stai dicendo? Che succede?». «Non hai sentito nulla? Hanno rapito due
nostri ragazzi e ne hanno uccisi sette... Qui vicino... Temevo che sentissi le notizie prima di
sentire la mia voce».
Abito nel Kibbuz Sasa, in Galilea. Dalla mia casa si vede il Libano e se si sale su in cima alla
collina, anche la Siria. All´arrivo tutti mi consigliano di restare a Tel Aviv, ma io ho un figlio
sul confine. Eppoi la mia casa è là. Resisto due giorni, poi non ce la faccio più e me ne vado
in Galilea. Per la strada mando un sms dopo l´altro a Yotam. Finalmente dopo il quarto
tentativo mi risponde. Da 35 giorni non va a casa. «Ma come fai a cambiarti, a lavarti?».
«Mamma, fossero questi i nostri problemi. Se volete potete venire a salutarmi per cinque
minuti». Non ce lo facciamo ripetere. Ci fermiamo a Horfeish, un villaggio druso, a comprare
succhi di frutta e sambusak, delle pagnottelle con formaggi e aromi tipici orientali, per Yotam
e i suoi soldati. Ci incontriamo che è già buio. L´abbraccio è lunghissimo e lui, con la sua
solita calma, ci racconta le vicende terribili degli ultimi giorni.
Quando arriviamo, il kibbutz è deserto. Nel rifugio davanti a casa nostra, l´unico posto dove
c´è una luce, ci sono più di 50 persone. Alcuni ragazzi giocano a Risiko, altri vedono la tv,
altri ancora siedono in silenzio, gli occhi cerchiati: «Ma perché non sei rimasta a Tel Aviv?
Perché non sei rimasta in Italia?». Verso le 21 iniziano i bombardamenti. Dalle due parti. La
testa sembra scoppiare. Non c´è un bambino in giro. Sono stati invitati tutti in un kibbutz
vicino a Gerusalemme. Continua così per tutta la notte. Il responsabile della sicurezza avverte
che si deve dormire nei rifugi anche se le nostre case sono fortificate. Ci risiamo. Siamo di
nuovo in guerra.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del "Rainbow Theatre" e della Fondazione
"Bereshit la Shalom".
(17 luglio 2006)
Un po' rifugio, un po' canile
C'era una volta il mio ufficio
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Nel rifugio c´è un odore difficile da sopportare, ma il fragore dei razzi è ancora più
insopportabile. Siamo seduti tutti insieme, gente di tutte le età e cani di tutte le grandezze.
«Tiger era sull´orlo dell´infarto», dice Orna, la mia vicina, insegnante di ginnastica e
istruttrice di fitness nel kibbutz, mentre accarezza con gli occhi lontani il suo cagnolino che
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trema ad ogni esplosione: «Ho telefonato al veterinario e mi ha detto di dargli una pasticca di
Valium». Non ho il coraggio di dirle che mi manca l´aria a dormire, oltre che con tutti gli altri
vicini, anche con i cani di tutte le famiglie che hanno lasciato il kibbutz verso il centro di
Israele.
Qui a Sasa c´è un rifugio ogni cinque case, ma il nostro è il più bello e il più organizzato: lo
abbiamo ricevuto due anni fa per farne l´ufficio della nostra fondazione, "Bereshit la Shalom Per educare al dialogo attraverso le arti". Ci sembrava avesse del miracoloso organizzare
attività per la pace in un rifugio antiaereo, e il paradosso ci era sembrato di buon auspicio.
Ora, a vedere queste facce scoraggiate, circondate da foto di spettacoli interpretati da ragazzi
ebrei e arabi e da articoli di giornale in tutte le lingue che descrivono la sensazione di
speranza che queste attività risvegliano, mi sembra che il paradosso si tramuti in beffa. Molti
mi hanno detto che sono una visionaria, che la pace non ci sarà mai.
Esco e vado in cima alla collina, accanto alla torre dell´acqua. Davanti a me si snoda la strada
che delinea il confine. Ad ogni boato, un sussulto e una preghiera. Arrivano razzi dappertutto
e Israele ha deciso di difendersi fino in fondo. Sulla strada passano camionette con ragazzini
di vent´anni che fantasticano sul momento in cui riabbracceranno la ragazza. 25 anni fa,
sussurravo a Gal, che portavo in ventre: «Tuo padre tornerà, usciremo presto dal Libano e
sarà la pace. E tu non dovrai indossare la divisa, perché le guerre non ci saranno più». Siamo
usciti dal Libano, e anche da Gaza. E questa guerra non finisce mai.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del "Rainbow Theatre" e della Fondazione
"Bereshit la Shalom".
(18 luglio 2006)
I bambini vanno al sud
e Haled sta chiuso in casa
di EDNA CALÒ LIVNÉ
I kibbutzim vicino a Gerusalemme hanno proposto di aiutarci. Ora è il loro turno di accogliere
i bambini in pericolo. Accompagno il mio piccolino, Or, all´autobus. «Hai portato il sacco a
pelo?», domanda Tal, una bambina vispa che sei giorni fa ha chiesto alla mamma perché non
la smettevano con i fuochi d´artificio, che le fischiavano le orecchie e le faceva male la testa.
«Ci porteranno a vedere Israele in miniatura, e la grotta delle stalagmiti di Bet Shemesh», dice
a Or con gli occhi scintillanti. La sua mamma e´ una di quelle che ha organizzato questo
viaggio: è stato molto difficile quando Tal e le sorelline hanno scoperto la vera natura di quei
rumori assordanti. Finalmente sembrano respirare, questi bambini, dopo giornate intere e notti
insonni chiusi nei rifugi. A un certo punto non sai più a che giocare, che raccontare. Tutti i
discorsi sugli aspetti negativi della Tv finiscono al vento, perché è difficile d´estate, con 38
gradi all´ombra, tenere tuo figlio chiuso tra quattro mura di cemento armato 24 ore su 24.
A casa mia si è rotto un tubo dell´acqua. Chiamo Haled, l´idraulico del kibbutz, arabo
mussulmano di Jish, un villaggio a 5 km da noi. Le sue figlie fanno parte del mio teatro
dell´Arcobaleno. Una persona stupenda. «Mi dispiace Edna - mi dice con un filo di voce -.
Abbiamo ordini di bloccare tutti i lavori, non si può andare in giro, è pericoloso». «Dimmi
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Haled, dormite nei rifugi li?». «Macché rifugi, in tutto il paese ce ne saranno tre, passiamo la
notte sulla terrazza. Tanto non si può dormire». Ebrei e Arabi della Galilea, siamo tutti uniti
nello stesso destino e nella stessa paura. Gli dico per incoraggiare sia me che lui: «Finirà
presto. Fra poco metteranno fuori uso le basi dei Katyusha». «Ma che fuori uso! - mi risponde
%u2013. Non è neanche l´inizio. Sono furbi. Aspettano che entrino i soldati, e se entreranno il
prezzo sarà alto». Sento che mi mancano le forze. Non ce la faccio ad immaginare nuovi
tranelli, mine, ordigni, morti, feriti, mutilati, vedove, orfani, lacrime.
Ieri sera è arrivata la notizia: un razzo Katyusha è caduto proprio a Jish, non lontano da casa
di Haled.
Romana, vive in Israele dal 1975. È fondatrice del «Rainbow Theatre» e della Fondazione
«Bereshit la Shalom».
(19 luglio 2006)
La vita continua,
anche sotto le bombe
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Dopo aver sistemato i ragazzi, anche gli adulti cercano un posto dove andare. Chi ha un amico
o un parente lascia Zfat, Sasa, Avivim e se ne va verso il centro di Israele. Ma il centro non è
che a 150 km, e anche lì non si è del tutto sicuri. Da Gaza continuano a sparare missili su
Ashkelon e sul Negev, tutta Israele è in allarme: allarme rapimenti, allarme kamikaze, allarme
missili di ogni tipo. Vediamo le immagini di Naharia, di Haifa e di Beirut, e il cuore è
dilaniato da un misto di rabbia, di paura per i tuoi cari, per il futuro, tra la ragione e le
emozioni che si susseguono senza sosta. È tutto bloccato, tutto fermo, tutto in dubbio.
Il mio terzo figlio si prepara per un anno di volontariato prima dei tre di esercito, andrà in un
movimento giovanile che educa alla pace, al dialogo. Il seminario di preparazione doveva
essere ad Afula, ma è stato interrotto per il pericolo delle Katyusha. L´altra sera mi telefona:
«Mamma, lo faremo a Kfar Saba cosi non c´è pericolo». Sollievo, perlomeno sarà lontano da
rifugi e da boati che ti fanno scoppiare i timpani. Finché il giornale radio annuncia che tutta
Kfar Saba è in allarme: pare ci siano 8 kamikaze pronti a farsi saltare. Tutti i cittadini devono
chiudersi in casa, la città pullula di polizia alla ricerca dei terroristi.
A Naharia, Andrei Zileswky è uscito un attimo dal rifugio per prendere una boccata d´aria: un
missile lo ha preso in pieno. Era uscito per qualche minuto perché la corrente va e viene, e
quando i ventilatori smettono di girare non si respira.
Ma la vita continua: il piccolo Or mi racconta al telefono che hanno visitato la Grotta di Bet
Shemesh: «Era buffissimo, c´erano stalagmiti a forma di stella e di ippopotamo. E ora si
mangia: ci preparano cose buonissime!». E in tutta Israele bambini continuano a nascere,
negli ospedali di Ashkelon, Zfat, Haifa e Naharia. I loro padri avvolti negli scialli bianchi li
benedicono, e mentre fuori dai rifugi il mondo è in subbuglio continuano a celebrare il patto
che Abramo stipulò con il Signore.
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Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del «Rainbow Theatre» e della Fondazione
«Bereshit la Shalom»
(20 luglio 2006)
Lasagne ai soldati
e birra nei rifugi
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Hanna mi chiama da lontano: «Hai organizzato un po´ di torte per i soldati di tuo figlio?». La
guardo interdetta... non mi era mai capitato di avere un figlio in guerra. Lei sorride: «Si usa
così, chiedi a un po´ di amiche, ognuna prepara qualcosa, poi telefoni e quando lui ti dà l´ok
porti dolci e biscotti per tutti». Nel giro di pochi minuti cinque donne del kibbutz offrono il
loro aiuto. Appena ricevuto l´ok tiro fuori dal freezer pizze, lasagne e manicaretti, e portiamo
tutto alla piccola base. I ragazzi impacciati non sanno come ringraziare, dopo qualche minuto
non resta neanche una briciola. Sorrido: «Noi mamme siamo fatte così, quando vogliamo
dimostrare affetto diamo da mangiare...».
Lungo la strada del ritorno guardiamo gli alberi carichi di mele che brillano al sole. Fra
qualche giorno dovrebbe iniziare il raccolto, ma in giro non si vede una persona, un trattore,
una scala. Passiamo per il moshav Margaliot. È deserto. Il recinto del villaggio è anche il
confine con il Libano, e si è deciso di evacuare tutti. Davanti ad Avivim, dove ieri sono morte
tre persone, la strada è interrotta, i campi bruciati da Katyusha e colpi di mortaio sparati
ininterrottamente in questi giorni. Viaggiamo in silenzio. Da noi, a Sasa, il segretario ha
mandato un messaggio a tutti i membri del kibbutz: da domani si chiuderà la mensa. Si potrà
mangiare nei rifugi, verrà anche servita una birra ghiacciata insieme al pasto!». Si cerca di far
alzare il morale come si può. Dopo una lunga riunione si decide che i bambini resteranno al
centro del Paese anche Venerdi e Sabato. E intanto riceviamo telefonate da tutta Israele e mail
da tutto il mondo di gente angosciata, di amici, di persone che ci esprimono il loro affetto, la
loro desolazione, la loro speranza.
A ogni boato scorre un brivido, e quando il mio mio amico Luca che è qua da tanti giorni con
un´equipe della tv, entra nel rifugio davanti a casa mia, mi chiede: «L´ufficio di una
fondazione per la pace in un rifugio antiareo: come lo spieghi?» Gli rispondo: «È scritto: "e
trasformerete le vostre lance in vomeri d´aratro...". Noi speriamo di riuscire a trasformare i
nostri rifugi in centri di pace».
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del «Rainbow Theatre» e della Fondazione
«Bereshit la Shalom»
(21 luglio 2006)
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E' giunta l'ora di dire basta
Madri, facciamoci sentire
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Yair Lapid è uno dei migliori giornalisti israeliani. A volte riesce a dire quello che gran parte
di noi vorrebbe esprimere: la frustrazione verso la violenza che ci circonda, la tenerezza verso
le nostre famiglie che affrontano la realtà in modo quasi eroico, la rabbia per quel senso di
impotenza che ci attanaglia, l´amore per questa terra che è la nostra casa. Il suo articolo di
oggi era intitolato «Perché ci odiano a tal punto?», e poneva gli interrogativi che ci chiediamo
da sempre e che in questi giorni ci ossessionano. «Perché Nasrallah usa tutte le sue facoltà e il
suo ingegno per seminare odio contro di noi? Perché il mondo arabo considera Israele la
causa di tutti i mali del mondo? Perché bombardano citta´ come Haifa, che era ebraica gia dal
III secolo a.C., Tiberiade, che fu la sede dell´ultimo Sinedrio, o Afula, che fu fondata dai
primi pionieri russi? Perché bambini che non hanno mai visto un israeliano bruciano le
bandiere con le Stelle di David?» Interrogativi senza risposta, ai quali ormai siamo abituati.
Ce la metto tutta per pensare positivo, uso tutte le mie forze e le mie energie per continuare a
sperare, per non perdere la fiducia... le immagini di quell´esercito indiavolato che si dichiara
vincitore a ogni nostro soldato caduto mi fa rabbrividire. Sentire che Nasrallah ha dichiarato
martiri - shahid - quelle due povere anime innocenti colpite dai suoi razzi a Nazareth mi fa
venire la nausea. Ma dov´è la madre? Dove sono le madri dei bambini libanesi? Venite,
donne, venite e uniamoci per smettere questa guerra che lascerà segni indelebili su tutti noi e
su tutti i nostri figli. Venite prima che sia troppo tardi.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del «Rainbow Theatre» e della Fondazione
«Bereshit la Shalom»
(22 luglio 2006)
Timori e speranza
dei miei vicini arabi
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Ferere è il sorvegliante del villaggio turistico che, lontano dai Katyusha, ci accoglie per
questo Shabbat. A dispetto del leggero accento arabo, parla un ebraico forbito e si esprime
con una chiarezza fuori del normale. Quando gli chiedo l´origine di tutta la sua sapienza mi
dice che ha studiato all´Università di Haifa. «È una situazione difficile per tutti noi»,
esordisco. Mi guarda con rassegnazione e inizia un lungo monologo: «Tu sicuramente non sai
il motivo di tutta questa guerra, molti non lo sanno. Nel mondo islamico ci sono 73 diverse
fazioni. Sono diverse l´una dall´altra, ma gli Sciiti sono i più estremisti di tutti. Il loro scopo è
di sottomettere tutto il bacino mediterraneo, compresa Israele. E l´Iran diventerebbe il capo di
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questo impero». Lo guardo incuriosita mentre continua ad analizzare la situazione, e ammetto
che di certe cose non mai capito nulla. «Male!», mi dice: «Mi hai detto che sei un´educatrice e
lavori con ragazzi ebrei e arabi. Dovresti andartele a studiare queste cose. È importante sapere
cosa succede nel mondo arabo che vi circonda. Ci sono molte ingiustizie. Hariri ad esempio...
lo hai sentito nominare? Lui è stato assassinato. Era una grande persona, aveva investito
molto del suo denaro per incoraggiare studenti, per costruire ospedali, scuole. Ora sarà
difficile per il Libano risollevarsi. Ma questo è quel che vuole Ahmadinejad, indebolirlo per
poterlo dominare; e lo fa attraverso gli Hezbollah, che impediscono di essere chi si vuole
essere, di credere in chi ci si sente di credere... ».
Mentre mi allontano dal cancello ripensando a questo incontro inaspettato mi telefona Ruina:
«Ti chiamo da Jish. So che hai un teatro di ragazzi ebrei e arabi, vorrei iscrivere mio figlio
Muhammed». Sono interdetta, chiedo notizie del suo villaggio perché so che è stato colpito
dai Katyusha. «Certo che ci sono i Katyusha. Muhammed stava giocando a pallone quando
uno è caduto a pochi metri da lui. Ma la vita continua...». «Che il Signore ti benedica», le
dico. «Che il Signore benedica tutti noi - mi risponde con un tremolio nella voce -. Abbiamo
tutti bisogno di una grande benedizione!»
Ramana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del «Rainbow Theatre» e della Fondazione
«Bereshit la Shalom»
(23 luglio 2006)
La guerra, le proteste,
e la metafora del calcio
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Nimrod è il responsabile del villaggio turistico nel quale siamo ospiti. Va in giro con un
cappellone e una macchinetta elettrica: a volte si porta dietro la sua piccolina, Yaeli,
abbronzatissima, vispa e tutta riccioli come lui. «Sono tornato ora da Tiberiade. La città è
vuota. Sono caduti due Katyusha e a Haifa ci sono due morti. Da ieri a oggi ci hanno sparato
più di duecento missili, ad Akko, a Zfat, ad Avivim... ci sono decine di feriti e molti sono
arrivati agli ospedali perché sono traumatizzati. Continuano a telefonare al villaggio per
chiedere se c´è posto, se possiamo ospitarli. Scrivilo ai tuoi amici italiani... scrivi, spiega che
tipo di sensazioni viviamo qui. Voi italiani capite bene il calcio: e sai come mi sento in questo
momento? Mi sento frustrato, come se mi avessero legato le mani» - e fa il gesto incrociando
le braccia dietro la schiena. «Ieri ci sono state manifestazioni contro Israele in tutto il mondo,
e noi siamo qui a giocare una partita impari, con le braccia e i piedi legati. Gli hezbollah
giocano senza regole, possono toccare la palla con le mani, possono andare fuori campo,
sparare sui civili, nascondersi tra i civili, dare testate in petto agli altri giocatori come ha fatto
Zidane. E nessun arbitro fischia... Noi, se sbagliamo un colpo, se solo feriamo un civile anche
dopo aver chiesto con i volantini scritti in arabo di lasciare le case da dove lanciano i missili,
subito si alza il cartellino rosso. Via, fuori! Diglielo questo. Non servirà a lenire le ferite, ma
forse qualcuno capirà cosa e come stiamo vivendo. Non è un bella sensazione essere sempre
soli contro tutti».
Nimrod si ricompone, riprende la sua espressione affascinante di capo del villaggio turistico,
si rimette gli occhiali da sole e si volta per andarsene. Poi ritorna e mi dice: «Ma penso che gli
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italiani le sappiano queste cose. Sono gente coraggiosa, che ha il coraggio di guardare la
verità». Poi risale sulla sua macchinetta e se ne va, mentre i rombi dei missili risuonano
sempre più forti dalle colline della Galilea.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del «Rainbow Theatre» e della Fondazione
«Bereshit la Shalom»
(24 luglio 2006)
Ora è importante
far giocare i bambini
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Accanto alla mia testimonianza da Israele c´è spesso quella di Lina Khoury, libanese, anche
lei regista ed educatrice. Sarebbe bellissimo poter lavorare insieme. Lei scrive dal nord del
Libano e io dal nord d´Israele. Siamo tutti reclutati per aiutare. In questi giorni mi occupo di
cento famiglie del nord d´Israele che hanno dovuto lasciare le proprie case a causa degli
scontri. Sono responsabile di dare un po´ di serenità ai loro bambini.
Non ho un attimo di respiro, ci sono ragazzi di tutte le età e cerco di far divagare tutti e render
loro la vita più piacevole. Appena posso accendo la tv per sentire le notizie. Ogni volta che
vedo Beirut in fiamme ho una stretta al cuore. Ma nessuno dei reportage spiega come gli
Hezbollah abbiano speso gli ultimi sei anni a preparare grandi infrastrutture militari nelle città
e nei villaggi del sud del Libano. Molti libanesi sono stati costretti a mettere a disposizione
degli Hezbollah le loro case, scuole e ospedali per un diabolico scopo: favorire la distruzione
di Israele. Centinaia di lanciarazzi, di polveriere, di pezzi di artiglieria sono stati trovati in
case di persone comuni.
Di notte, quando sento i boati dei razzi, mi sveglio di soprassalto e penso: come faremo a
trovare le migliaia di missili nascosti sotto terra, nei palazzi, nei negozi? Come faremo a
disinnescare l´infinità di trappole preparate per i nostri soldati che entrano a cercare le basi
dalle quali vengono lanciate i Katiusha? Katiusha, che nome dolce... che paradosso!
Questa guerra non è tra Israele e il Libano. Questa guerra è contro gli Hezbollah, contro chi ci
impedisce da anni di vivere una vita normale, contro chi per un´ideologia di morte impedisce
che si possa creare, ad esempio, uno spettacolo di ragazzi israeliani e libanesi sui loro
problemi di adolescenti, sui loro amori e i loro sogni. Chissà se un giorno potrò conoscere
Lina Khoury e raccontarle i miei pensieri. Chissà che dirà.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(25 luglio 2006)
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Il terrore di Miriam
per quel figlio al fronte
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Miriam ha quattro figli. Il primo, Adam, 19 anni è di guardia sul confine. Ogni giorno lo
spostano. Ieri è arrivata al villaggio insieme a Hanna e a Reuven, altra gente del kibbutz. Mi
sono sentita male a vederli, sembravano invecchiati di 10 anni. Gli occhi cerchiati, il viso
pallidissimo. «Non abbiamo più 15 anni come ai tempi degli scout. Non è facile dormire 10
coppie tutti insieme nel rifugio. E se riesci ad addormentarti ti svegli di soprassalto per gli
spari o gli incubi», dice Hanna, la maestra dell´asilo del kibbutz. «Io non dormo più», dice
Miriam. «Un figlio soldato in tempo di guerra è una sofferenza senza pari, è un dolore fisso
che ti toglie l´aria».
Shlomi si avvicina, gli occhi lucidi, la voce incrinata: «E´ caduto un Katyusha in casa di mio
fratello, al Moshav. Glielo avevo detto, vieni qui... Non mi ha voluto ascoltare. Stanno tutti
bene ma mezza casa è andata distrutta». «La casa si ricostruisce, l´importante è che siano tutti
sani», dice Yehuda e gli dà una pacca affettuosa sulla spalla. Rimaniamo tutti in silenzio, con
uno strano sorriso che vorrebbe consolarci.
Al mattino a colazione Or, il mio piccolo, ed io mangiamo in silenzio. Mi dispiace perché
abbiamo sempre tanto da parlare con i miei figli. Ma mi sento un vuoto dentro... Mi fa
tenerezza così serio. «A che pensi Or?». «A niente di particolare», e guarda fuori della
finestra verso il lago di Tiberiade, verso le montagne della Galilea da dove ogni tanto arriva
un tuono lontano. «Non te l´ho mai chiesto Or. Hai un po´ paura della guerra?». Mi guarda
tranquillo «No, io non ho tanta paura. Le bambine della mia classe ne hanno di più! Quando
hanno detto all´altoparlante che bisognava scendere nei rifugi alcune si sono messe a piangere
poverine. Io no, io e Raz abbiamo una paura media». «Di che cosa avete paura?». Or fa
spallucce e solleva le sopracciglia come per dire «non so». Poi si rabbuia per un attimo: «Ho
paura che succeda qualcosa a te e papà, o a uno dei miei fratelli». E´ così, noi ci struggiamo
per i nostri figli e loro si struggono per noi. Gli uni proteggono gli altri, ricostruiamo le nostre
case distrutte, ringraziamo Dio di essere ancora vivi e continuiamo a ripeterci: «Siamo
sopravvissuti al Faraone in Egitto. Sopravviveremo anche stavolta».
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(26 luglio 2006)
Il biberon di papà Haim
dopo una notte piena di incubi
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di EDNA CALÒ LIVNÉ
Ogni mattina aspetto nella sala da pranzo i bambini di cui sono responsabile nel villaggio.
Racconto loro tutte le attività previste per la giornata e faccio del mio meglio per creare
un´atmosfera serena. Come se fossero veramente in vacanza alla Valtur o al Club Med. I più
piccoli sono con uno dei genitori, l´altro è al lavoro per mantenere, nei limiti del possibile,
una routine e non far impazzire i bambini già provati da notti insonni, da incubi notturni e da
paure non raccontate.
Molti dei genitori sono papà. C´è Haim, capo dell´autorimessa del kibbutz, c´è Fabio, il
professore di ginnastica e allenatore di calcio che è appena tornato dal torneo «Conosciamoci»
in Friuli, con l´ultima «creatura» della fondazione Beresheet LaShalom: la squadra Galilea, di
ebrei e arabi. C´è Lior, cuoco in un ristorante di Naharia e Eitan del Moshav Dovev, che fa il
poliziotto. Sistemano i loro bambini intorno alla tavola e porgono loro chi un biberon, chi una
fetta imburrata, accarezzano loro il capo e sorridono con pazienza. «Einav e io ci alterniamo,
un giorno va lei al lavoro e un giorno io», dice Haim. «Chi se lo immaginava di piombare in
questo inferno», dice Fabio. «In Italia ci hanno accolto tanto calorosamente. Ero tornato
rilassato e orgoglioso dei miei ragazzi cosi affiatati e uniti».
Nasrallah ha creato uno stato nello stato. Un piccolo stato terrorista sotto l´egida dell´Iran, che
ci ha già scaraventato addosso tremila missili e stamattina ha minacciato di colpire oltre
Haifa. Israele è paralizzata per un terzo. Ogni giorno due milioni di Haim, di Fabio e di Einav
rimangono a casa, nei rifugi, nei kibbuzim, a casa di un amico, perché potrebbero non
ritornare a casa dal lavoro. Ogni giorno Israele ha una perdita di 50 milioni di shekel. Ogni
giorno, oltre ai soldati e ai civili, muoiono mucche, polli, galline, vengono bruciati frutteti nati
dalla lotta senza riposo contro la siccità. Haifa è deserta, Tiberiade è deserta. Come è possibile
che l´umanità non sia capace di respingere un dittatore che sta distruggendo il suo popolo, che
ha trascinato noi in una guerra non voluta e che se non verrà fermato realizzerà il suo macabro
sogno di un mondo uniformato in un´unica fede?
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit LaShalom
(27 luglio 2006)
"I have a dream" Il sogno spezzato
di un seminario per la pace
di EDNA CALÒ LIVNÉ
La Fondazione Beresheet LaShalom ti invita al seminario «I have a dream - Una settimana di
tutti colori» per ragazzi dai 14 ai 20 anni. Un festival di arti e spirito per creare operatori di
pace in seno a tutte le culture e le etnie: ebrei arabi, cristiani, ebrei e mussulmani, religiosi e
laici. Per scoprire la forza che c´è in ognuno di noi di trasformare un sogno in realtà e
contribuire alla creazione di un mondo di pace attraverso la responsabilità e la partecipazione
viva. Il seminario si doveva svolgere al kibbutz Sasa dal 23 al 28 luglio 2006 con, oltre ai
ragazzi del Teatro Arcobaleno, ebrei e arabi della Galilea, ospiti di altri paesi. Durante il
seminario si doveva fare teatro, leggere brani di Martin Luther King, Giussani, Gandi, Rabin e
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di operatori di pace che hanno donato alla storia la speranza, fare musica, meditazione,
capoeira, incontro con discipline orientali, immaginazione guidata, cucinare cibi di ogni paese
e tradizione dei partecipanti.
Era tutto pronto. Si erano iscritti molti ragazzi. Non vedevano l´ora di riincontrarsi dopo un
mese lontani gli uni dagli altri dall´inizio delle vacanze estive. Ora tutti i ragazzi
dell´Arcobaleno sono sparsi per Israele, quelli che sarebbero dovuti venire dall´estero non
sono arrivati. Il boschetto davanti al confine del Libano dove avremmo dovuto piantare le
tende da campo è rimasto vuoto, scosso dai boati che turbano quel silenzio che speravamo di
infondere nei cuori per riuscire a migliorare seppure di un po´ il nostro futuro. E non ne
sapevamo nulla mentre preparavamo il programma di queste giornate che sarebbero dovute
essere magiche, che tutto questo sarebbe successo... È che il desiderio di pace ce l´abbiamo
fisso nel cervello, e l´educazione al dialogo è ormai parte di noi e della vita quotidiana e chi
ha visto gli spettacoli che scaturiscono dal cuore di questi ragazzi l´ha potuto toccare con
mano. Allora cara Lina, non possiamo arrenderci. Ho sentito tra le righe che sei una persona
coraggiosa..... magari nel luglio del 2007 faremo insieme questo seminario!!! Con l´aiuto
degli uomini e di Dio, Beezrat HaShem, Inshallah!
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit LaShalom
(28 luglio 2006)
Un fiocco rosa e il sogno
di un sabato di vera pace
di EDNA CALO LIVNE
Come capisco Lina. Anch'io in questo momento ho un nodo alla gola. È venerdì, il giorno che
introduce il sabato, il più importante della tradizione ebraica. Si inizia dal pranzo a fare torte,
a pulire la casa, a preparare la cena di festa. Poi, al calar delle stelle si accendono due lumi e
la casa si riempie di luce, si benedice e si ringrazia con il vino e ci si siede intorno alla tavola
imbandita. I soldati in Israele si arruolano a 18 anni e si congedano dopo tre anni: quando
arrivano a casa per il venerdì è una festa. Decine di famiglie stasera sederanno insieme ma
senza gioia: quelle dei nonni, dei cognati, dei genitori delle ragazze che aspetteranno invano
una telefonata d'amore.
Il mio telefono non smette di squillare, da Tel Aviv, da Gerusalemme, da Eilat, mi chiamano
artisti, cantanti, giocolieri, musicisti che si offrono di venire a dare un po' di serenità ai 1200
"profughi dei rifugi della Galilea" di cui sono responsabile. "Verremo volentieri li da voi per
farvi ballare, per far divagare un po' genitori e bambini.... siamo in otto e partiremo dopo lo
spettacolo!".
Quasi non riesco a rispondere dall'emozione al pensiero della forza che lega questo popolo.
Mi chiamano dalla reception del Kibbuz Degania: "Keren Migdal ha partorito stamattina! Una
bella bambina!"
Salgo in macchina e corro a Degania dove ci sono una trentina delle famiglie di cui mi
occupo. Nella stanza 40 c'è una culletta tutta rosa e un profumo di orchidee e gardenie. Sulla
porta un cartellone: benvenuta Shani!" Arriva il neo papà, emozionatissimo e confuso: "La
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vogliamo chiamare Shani, da shonè, diverso, perché in questi giorni abbiamo cambiato tante
case e speriamo sia buon auspicio di un cambiamento positivo!" Al ritorno mi ritorna in
mente una canzone che cantavamo in gioventù: "Erano belle le notti sul lago di Tiberiade,
quando passeggiavamo tra Degania e Kinneret e tu mi dicesti di ricamarti un fiore d'oro".
Era una canzone del '48, lei aveva ricamato quel fiore e lui non era più tornato. Noi, dal '48,
dal 135 avanti Cristo, dal 586 avanti Cristo, da prima ancora, continuiamo ad augurarci ogni
venerdì: "Shabbat Shalom", un sabato di pace. Siamo sicuri che quel sabato alla fine verrà.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom)
(29 luglio 2006)
Famiglie arabe in fuga
nel convento di don bosco
di EDNA CALO LIVNE
La nostra amica Simonetta Della Seta, direttrice dell'Istituto italiano di cultura a Tel Aviv, ci
chiama preoccupata per chiederci come va da noi al Nord. Le raccontiamo che abbiamo
dovuto annullare il seminario "I have a dream". "Vi ho telefonato anche per questo, non
possiamo annullare il campeggio "Italia in Israele" che si deve svolgere a Sasa alla fine di
agosto. Sarebbe un peccato. Ho pensato che potremmo spostarlo. C'è un convento dei
salesiani sulle colline di Gerusalemme, si chiama Beit Jamal, un posto magico. Perché non
fate un salto a vederlo?". Da Maagan a Gerusalemme ci sono 300 km.
Chiedo a Nimrod di prendere il mio posto con i miei "profughi dei rifugi", mio marito ed io
saltiamo in macchina e partiamo. Beit Shemesh sembra veramente un sogno: immerso in un
bosco scintillante di ulivi, circondato da viti. Tutto in pietra, è là dal 1873. Era stato concepito
da Don Bosco come orfanotrofio e scuola agricola, poi ha accolto turisti, ora rifugiati. "Siete
del nord?", ci domanda Don Antonio, che è qui in Terra Santa da 40 anni. "Proprio ieri sono
partite 30 famiglie di arabi cristiani di Haifa, le abbiamo ospitate dall'inizio del conflitto. Ora
ne arriveranno altre". I kibbuzim ospitano le persone in pericolo degli altri kibbuzim, i
conventi danno asilo alle famiglie di Nazaret, S. Giovanni D'Acri e delle altre cittadine dove
vivono gli arabi. La guerra unisce chi insegue la pace. Ad Abu Gosh troviamo Kfir che dirige
un centinaio di ragazzi di 15 anni in un seminario per giovani guide del movimento
"Hashomer Hatzair-La giovane guardia". Sono divisi in gruppi e cercano di rispondere alla
domanda: "a che cosa dobbiamo fare la guardia"? Con l'aiuto dei più grandi arrivano alle
risposte: compiere ogni sforzo per conservare i valori umani come responsabilità,
partecipazione, dialogo tra i popoli, rispetto reciproco. Racconto della nostra attività di
Beresheet Lashalom e mi rendo conto, mentre vedo tanti occhi gonfi tra il pubblico, che la
nostra compagnia di teatro multiculturale ha un'importanza immane, ora più che mai.
Quando arriviamo a Maagan sul Lago di Tiberiade incontro Haim, il direttore dell'autorimessa
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del kibbutz: "Da domani non mi alternerò più con mia moglie per accudire ai bambini. Dovrà
farlo da sola, ho ricevuto il "comando 8". Hanno richiamato in riserva tutti gli ufficiali". Sento
di nuovo le lacrime salire. "Dove andrai?", domando. "Mi devo presentare a Iftach". Einav,
sua moglie, siede pensosa su un muretto. Io devo avere gli occhi lucidi. Haim sorride:
"Tranquilla, iyé beseder! Andrà tutto bene". Amen caro Haim, amen.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(30 luglio 2006)
Che cosa significa per noi
la parola vittoria?
di EDNA CALO LIVNE
Ogni giorno arriva via e-mail a tutti coloro che si curano dei bambini dei rifugi una circolare
del ministero dell'Educazione dove gli educatori e gli animatori ricevono idee e direttive su
come riempire le lunghe giornate dei ragazzi. Oggi iniziava così: "Per poterci difendere da
Nasrallah dobbiamo sforzarci di continuare a mantenere i nostri valori!". A volte penso che ci
sono molti eroi in questa guerra: ci sono i bambini, che si struggono di nostalgia per il loro
lettino, per il cagnolino che è rimasto a casa, per i propri giochi e gli amici sparsi in giro per il
Paese. Ci sono i genitori dei figli di tutte le età, dei soldati, delle coppie che dovrebbero
sposarsi in questi giorni, ci sono le mamme in attesa, i padri al fronte. Ci sono gli artisti che
vanno in giro per i villaggi del nord a rallegrare la gente. Per me sono eroi perché quando ti
senti un bersaglio, quando sai che da anni qualcuno sta cercando di cancellarti dalla faccia
della terra, è molto difficile rimanere "bello di animo". E' difficile mantenere la calma, lo
spirito, gli ideali di pace, di dialogo e di accoglienza. E' un impegno.
Quando Meira con voce tremula dice: "Non so se puoi capirmi, io vivo da sola nel kibbutz,
non ho famiglia. Di notte non ce la faccio più a sentire i boati dei cannoni. Tremo di paura e
prego Dio con gli occhi spalancati che se mi dovesse colpire un missile, che avvenga
velocemente". Quando Niva racconta: "Mia madre non si è voluta muovere da Shomrat. Dice
che è sopravvissuta ad Auschwitz. Non saranno i missili degli Hezbollah a spezzarla".
Quando senti Nimrod che dice: "Abbiamo forse mai attaccato la Giordania? Abbiamo forse
mai aggredito la Siria? L'Egitto? No, ci è sempre bastato ciò che avevamo, abbiamo sempre
curato la nostra terra con amore, vogliamo solo vivere in pace. Nasrallah vuole spazzarci via".
Quando senti queste cose devi riempirti della storia d'Israele, devi farti un bagno nella Bibbia,
devi cospargerti di Salmi per continuare a credere che ce la faremo anche stavolta. Stamattina
Nasrallah ha dichiarato: "Stiamo vincendo la guerra!". La mia amica Anat mi telefona:
"Chiedi lì al villaggio cosa significa vincere la guerra e scrivi ciò che ti rispondono". Non ho
bisogno di chiedere a molti. Michal, 20 anni, fino a due mesi fa era all'esercito, mi risponde:
"Per Nasrallah vincere la guerra significa distruggere Israele. Per noi vincere la guerra
significa raggiungere finalmente la pace e la sicurezza che abbiamo sempre desiderato".
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
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(31 luglio 2006)
Nessun rifugio
per i martiri del Libano
di EDNA CALO LIVNE
Mi sveglio con un dolore forte al petto. Esco veloce di casa per parlare con qualcuno, per
condividere con altri l'ennesimo dolore di questa guerra. Altra gente uccisa, altre anime
innocenti trasformate in martiri.
Gli Hezbollah bombardano e colpiscono ospedali dove sono ricoverati malati, case dove
abitano persone, strade dove camminano civili, fabbriche dove lavorano operai con il solo
scopo di fare più vittime possibile.
Israele colpisce i palazzi e le case dove sono sistemati i razzi Katiusha, Kassam, Zilzal, El
Fajer. Lo fa per difendersi, e dopo aver chiesto ai civili di uscire. Se potessimo proteggere
anche i loro figli lo faremmo. I nostri sono nei rifugi, sono lontani dal pericolo, sono come
poveri vagabondi in questi giorni, ma li teniamo stretti sotto le nostre ali. Con la speranza che
tutti gli angeli del mondo ci vengano in aiuto.
Stiamo tornando da Gerusalemme. Abbiamo lasciato per poche ore le famiglie di cui ci
occupiamo per andare a Yad VaShem, il Museo della Shoah per girare delle scene di un film
del Teatro dell'Arcobaleno su Anna Frank. Alla fine delle riprese invito i miei ragazzi arabi ed
ebrei della Compagnia a mangiare qualcosa. Siamo in un grande centro commerciale. Una
donna religiosa col capo coperto si avvicina: "Siete del nord?". La guardo stupita.. "Sì,
perché?". Sorride, ci chiede da dove veniamo e dice: "Si vede dai vostri volti. Noi qui a
Gerusalemme vi sentiamo, vi abbiamo dentro di noi!". Poi si alza e si avvicina e con
delicatezza chiede: "Potrei offrirvi il pranzo? Sarei tanto felice". Io non riesco più a parlare
dall'emozione. Lei sorride: "Non è nulla, credetemi... Voi siete lì a sopportare per tutti noi, e
oggi siete a Gerusalemme. Ricevete, per favore, la nostra benedizione portatela con voi là
sulle montagne della Galilea".
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(1 agosto 2006)
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Quante cose si possono capire
dalla divisa infangata di un figlio
di EDNA CALO LIVNE
Sento un tocco leggero sulla spalla, mi giro e vedo Morli. E' insegnante di medicina
alternativa e qui nel villaggio si divide tra il servizio a tavola e massaggi di shiatzu e
riflessologia. "Volevo dirti che domani sera ci vedremo nello spiazzo sul lago per una
preghiera tutti insieme, porteremo un Deej, uno strumento australiano che si usa per chiamare
alla raduno, proprio come il nostro Shofar, il corno, e cercheremo di inviare le nostre
preghiere tutti insieme con l'augurio di aprire le porte del cielo.
Domani è il 9 di Av, il giorno in cui fu distrutto il secondo Tempio di Gerusalemme nel 70 D.
C. Ognuno di noi deve rafforzare il Grande Tempio dentro di sé. Trovare la pace dentro di sé.
Pregheremo per i nostri ragazzi che ci fanno da guardia giorno e notte sul confine. Affinché
tutte le energie del mondo li proteggano". Anat, accanto a me sorride e mi racconta: "Ieri il
mio soldato è arrivato a casa a notte tarda. Gli ho preparato subito qualcosa di buono come
piace a lui ed è andato subito a dormire spossato e io sono rimasta lì con tutte le domande di
madre che è proibito domandare. Ho aperto il suo zaino, con la biancheria che mi aveva
chiesto di lavare.
Mentre aprivo calzino dopo calzino cercavo di indovinare dove era stato in questi giorni mio
figlio. Piccole spine, sassolini, tanta polvere... quanto aveva camminato? Ho cercato di
indovinare i luoghi nei quali era passato attraverso la conoscenza di botanica e di geologia,
tutto quel che avevo imparato nelle mie gite di gioventù. Poi ho preso in mano i pantaloni, ho
visto che sul punto delle ginocchia erano pieni di fango ed erano strappati e mancavano dei
bottoni. Ho provato ad immaginarlo mentre strisciava in terra o mentre cercava di
nascondersi. E' come se mio figlio fosse l'attore principale di un film di guerra, di quei film
che non vedo mai!".
E intanto ha partorito anche Marat e oggi abbiamo portato Sigal sulla barca a pedali, era
felice. "Chissà, può darsi che anch'io partorirò finalmente!".
Io non so quando tutto questo finirà. Ma ringrazio Dio ogni giorno, ogni santo giorno per la
forza che ci dà.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(2 agosto 2006)
Che ci importa di vincere
se domani potremmo morire
di EDNA CALO LIVNE
Forse non è ancora chiaro: a noi, alla maggior parte degli israeliani, non importa di vincere la
guerra. A noi importa di vincere la pace.
La morale del nostro popolo, il rispetto della nostra storia e i comandi della nostra Bibbia ci
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impediscono di mostrare le immagini della nostra carne dilaniata, di corpi senza testa,
insanguinati e smembrati. Nelle nostre tv è vietato mostrare queste immagini devastate e
devastanti perché un padre, una madre, un fratello potrebbero accendere la televisione
nell'attimo in cui, sorda sia quest'ora (come si usa dire da noi ebrei romani) appare sullo
schermo il braccio del proprio caro o la sua maglietta sbrindellata, un dito con il suo anello di
fidanzamento. No, non vogliamo vincere le guerre in questo modo. Anzi non le vogliamo
proprio fare le guerre.
Siamo stufi di facce sconvolte di bambini che al suono delle sirene si aggrappano alle gambe
delle proprie madri. Siamo stufi di ingegneri di morte che piantano i loro quartier generali in
cittadine dichiarate patrimonio dell'Unesco come Baalbek, siamo stanchi di chiedere perdono
ogni volta che restituiamo uno schiaffo a chi ci riempie di botte.
Siamo saturi di odio, di intolleranza, di volgari trucchi mediatici per commuovere un mondo
che non si sforza di capire il dolore di tutti. Di tutti. Oggi, in un'ora ci sono cadute addosso 70
katiushe. Noi siamo ancora vivi, altri no.
Potrei non essere qui domani a scrivere questo diario. Che può importarmene di vincere la
guerra finché non avrò un po' di sicurezza per i miei figli?
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(3 agosto 2006)
Le nostre lacrime
per le vittime innocenti
di EDNA CALO LIVNE
In questi giorni ho ricevuto delle lettere che sono state un vero "balsamo per tutte le ferite",
come avrebbe scritto Etty Hillesum e che mi hanno aiutato a riempirmi di energia nei
momenti più difficili. Purtroppo frasi come "i vostri figli uccidono bambini innocenti" oppure
"basta con le vostre vendette, basta con la vostra sete di sangue, che vi ostinate a chiamare
giustizia" o ancora: "pensi davvero al dolore che le vostre armi provocano in un'area del
mondo dove siete stati imposti?", mi infondono una sensazione di tristezza e di frustrazione
pensando agli innumerevoli sforzi che Israele compie da anni per evitare non solo le sue
guerre ma il dilagare di una guerra che potrebbe distruggere il mondo intero.
Chi scrive queste cose non si è mai chiesto come ha fatto Israele a sopravvivere per 4 mila
anni. Non sa che il 9 del mese di Av, che cade proprio oggi, nel 70 d. C. l'imperatore romano
Tito distrusse Gerusalemme e portò in esilio gli ebrei che l'avevano costruita, creando un
popolo nomade che ha dato il meglio di se stesso in ogni luogo nel quale ha abitato
nonostante sia stato braccato, perseguitato e massacrato senza nessun'altra ragione se non il
razzismo cieco ed intollerante.
I figli d'Israele piangono, piangono lacrime amare, quando sanno che è stato colpito un solo
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bambino innocente. Si disperano quando vengono messi in condizione di non potersi più
confrontare con la loro coscienza perché sono stati cresciuti per educare, per costruire, per
sconfiggere la siccità e le malattie, perché difendersi è un diritto. Nessun figlio di Israele si è
mai vendicato contro i nazisti, contro i pogrom degli Zar. I figli d'Israele, anche se colpiti
vanno avanti, continuano a costruire la loro piccola terra, le proprie case e le proprie famiglie
e la loro forza consiste nella buona fede, nella positività e nell'impegno del Tikkun Olam, che
è l'unica cosa che manterrà sano il mondo.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(4 agosto 2006)
Per fortuna
ci sono gli angeli
EDNA CALO LIVNE
Sono un po' iper in tutto: iperattiva, ipersensibile... ma in questi giorni ho toccato livelli mai
raggiunti. I genitori del villaggio mi chiamano "energizer", i bambini arrivano alla fine della
giornata esausti dopo i giochi, le simulazioni teatrali e tutte le altre attività che creiamo per
loro insieme ad un team infaticabile. Mi rendo conto della stanchezza solo quando arrivo
finalmente al letto e sento tutti i muscoli indolenziti e gli occhi che mi bruciano. Ma non c'è
nulla di paragonabile allo sguardo colmo di gratitudine di una madre che non ha più la forza
di inventare fiabe per i propri figli, non c'e nulla che possa darti più energia della
consapevolezza di aver aiutato a migliorare, seppure di un minimo, la sensazione di chi hai
intorno.
Parlo con tutti, ascolto, chiedo, prego i miei amici, e a volte gente appena conosciuta, di
raccontarmi cosa provano in questo momento. Molti mi guardano imbarazzati: non tutti sono
abituati a raccontare i propri sentimenti; alcuni provano a descrivere la loro nostalgia per i
propri figli soldati, ma non riescono a finire la prima frase perché l'emozione li soffoca
lasciandoli senza respiro, alcuni confidano la loro paura e la loro ansia ed è come se un
macigno scenda dalle loro spalle.
In questi tempi di guerra è come se gli angeli ti stiano accanto per renderti forte, per poter dar
forza a chi hai intorno. Come al Kibbuz Mishmar Ha Emek, dove sono ospiti tutti i bambini di
Sasa con i propri genitori e dove la generosità ha raggiunto l'apice con 1.200 persone, membri
del kibbutz, che organizzano turni per aiutare nei bagnetti dei neonati, per preparare le torte
dello Shabbat, e venire incontro ad ogni minimo bisogno dei propri ospiti. Sono miracoli che
avvengono qui davanti ai nostri occhi, mentre suonano le sirene che ti strappano le viscere,
mentre ascolti alla radio che è morto un altro civile o un altro soldato e mentre il mondo
sembra disintegrartisi addosso. Il mio primogenito mi dice: "Mamma, l'abbiamo già persa
questa guerra... dal momento che è morta la prima persona l'abbiamo persa". Ho un nodo alla
gola e sento che anche questo è un miracolo perché sono fiera di questo mio figlio soldato per
cui la vita vale più di ogni altro bene.
Romana, vive in israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
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(5 agosto 2006)
Quel pupazzo da salvare
mentre suona l'allarme
EDNA CALÒ LIVNÈ
SONO le 15,30. L'altoparlante avverte che entro le 16 bisogna entrare nei rifugi, c'è un
allarme dal quartier generale. Sono andata a leggermi i diari di Lina Khouri. Ho sentito il suo
amore per l'arte, la sua voglia di pace. E ho letto una lettera di un giovane padre di Haifa alla
sua bambina di 18 mesi: "Cara piccola Noy, abbiamo imparato a cambiarti i pannolini, a
preparati il biberon, ci siamo preparati allo spuntare dei tuoi primi dentini... ma non ci siamo
preparati a spiegarti cosa sia la guerra".
Non so come farò a riprendere tutte le attività del mio teatro. Abbiamo in programma una
tournée in Italia in ottobre, ma i miei ragazzi sono sparsi per Israele. Ieri Michael mi ha
scritto: "Se partiremo, se la guerra sarà finita, potremo andare in uno di quei grandi parchi che
ci sono in Italia?" Mi vien da piangere, perché non so come farò a organizzare tutto, perché
sono morti altri innocenti, perché non c'è un posto sicuro, perché ricevo tante lettere di
solidarietà ma anche tante colme di livore e accuse, perché non sono a casa mia da più di 20
giorni... Perché nessuno sa quando tutto questo finirà.
Alle 16 suona la sirena. Una bimba piange disperatamente, la madre la tira per una mano. Le
seguo da lontano e vedo che tornano indietro. Quando arrivano al rifugio la bimba è ancora
rossa di pianto, ha in mano un pupazzo. "Non voleva lasciarlo in stanza, aveva paura che gli
succedesse qualcosa".
Ose shalom ufros sukkat shalom al kol Israel veal haolam kullò, amen - Fai la pace e stendi la
tua capanna di pace sul popolo d'Israele e sul mondo tutto, Amen.
Romana, vive in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(6 agosto 2006)
Come mettersi al riparo
in tv scorrono le istruzioni
EDNA CALO LIVNE
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Inizia un'altra settimana. Stiamo cercando di organizzare le attività della giornata, Yaakov
entra agitatissimo: "Accendete la televisione... ci sono 10 morti a Kiryat Shmone, bisogna
mandare tutti immediatamente giu al rifugio. C'è allarme dappertutto: Tiberiade, Akko,
Carmiel, Haifa, Afula...". Una scritta scorre sotto le immagini: "Allarme in tutto il nord di
Israele - I cittadini sono pregati di rimanere nei rifugi o nelle stanze fortificate - In caso di
sirena e di bombardamenti, entrare immediatamente nella stanza più interna lontana da
finestre, porte ed entrate di ogni genere - Per chi si trova in strada in un luogo non protetto,
stendersi immediatamente in terra o appiattirsi verso il muro - Evitare di raggrupparsi in un
unico luogo - Incendi in tutti i boschi e i frutteti della Galilea - Gravi danni a case e palazzi".
May, una quindicenne del Teatro dell'Arcobaleno, mi dice: "Io non sono coraggiosa, sono una
di quelle che muoiono di paura quando ci sono le sirene". E sorride timidamente, mentre la
abbraccio, quasi per giustificarsi. "Ho paura per i miei fratellini. Sai, sono molto agitati e
tremo al pensiero che succeda loro qualcosa, che non si riprendano più dalla paura...
Dobbiamo fare qualcosa, Edna, dobbiamo far vedere al mondo intero il nostro spettacolo.
Quelle frasi che diciamo sono cosi importanti per tutti: Quando c'è guerra la libertà non
esiste più - Non c'è nessun posto sicuro - Mio Dio, deve esserci una soluzione, deve esserci
una speranza, non può finire tutto cosi. O forse dobbiamo inventarci un nuovo spettacolo,
qualcosa che faccia capire che non ne possiamo più, che abbiamo bisogno di aiuto, che non
vogliamo più vedere morti".
Da lontano si sente la sirena a Tiberiade. La abbraccio di nuovo e provo a prometterle: "Finirà
presto, vedrai, e noi faremo il nostro seminario a Sasa, come avevamo programmato, il nostro
"I have a dream". Racconteremo i nostri sogni, quelli difficili da raccontare e quelli che ci
danno la forza di continuare, e ce ne andremo in giro per il mondo a dire basta. Basta con i
titoli in prima pagina, basta con le accuse, basta con l'ansia. E lo diremo con la musica, come
abbiamo imparato. Ti voglio bene".
Romana, vive in israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della fondazione
Bereshit la Shalom
(7 agosto 2006)
Lo sceicco ci bombarda?
"Andiamo a parlargli"
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Da tempo non sento la mia amica palestinese Samar. Cisiamo conosciute tre anni fa, quando
la incontrai a Gerusalemme est a casa di sua madre, e da quel giorno siamo diventate come
sorelle. È la direttrice di un orfanotrofio a Betania, in zona palestinese. Abbiamo girato
insieme l'Italia raccontando della nostra esperienza di educatrici alla pace, ognuna nella sua
terra, ognuna con la propria fede, nonostante i dolori degli ultimi anni.
Stasera le ho telefonato: "Non mi crederai, non puoi credermi, ma stavo per scriverti. Come
sono felice di sentirti... Come stai? Sono cosi preoccupata!" "Ti credo, Samar". Certo che le
credo. A legarci è qualcosa di molto grande: una profonda buona fede, un grande rispetto
l'una per le sofferenze dell'altra, l'amore per i nostri figli. "Ti ho pensato tanto", mi dice: "Ho
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tanta paura per te, per il tuo popolo. Avete intorno una moltitudine che vuole distruggervi,
tanto odio... Ma ora è il momento di essere forti, di combattere con il vostro spirito, di
affrontare il male. Ora il nostro impegno per la pace è più forte che mai".
Samar fa una pausa poi esordisce: "Dobbiamo andare da Nasrallah. Tu ed io. Dobbiamo
chiedere aiuto. Rivolgiamoci a Mario Mauro: sicuramente ci aiuterà". Mario Mauro è il
vicepresidente dell'Europarlamento, lo scorso anno era con noi a Betania quando
organizzammo la Giornata del Pane della Pace nel panificio di Samar. "Andremo da Nasrallah
- prosegue la mia amica - e gli chiederemo di desistere dal suo intento di distruggere Israele,
lo convinceremo a smettere questa guerra che danneggia anche la sua gente". Samar parla con
determinazione, con fede.
Tutto quel che abbiamo fatto insieme l'abbiamo sempre fatto con entusiasmo... Ma stavolta
resto in silenzio, e di nuovo mi sento soffocare. Questi sono i momenti in cui vorrei fuggire,
in cui vorrei non esserci, in cui non mi riconosco più... "Non credo che si possa parlare con
Nasrallah, Samar, non credo che esista qualcuno che possa ragionare con lui". "Provaci! Ora è
il momento di prendersi le responsabilità e lottare per il futuro di tutti noi. Qui in Medio
Oriente e nel resto del mondo".
Romana, vive in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della fondazione
Bereshit la Shalom
(8 agosto 2006)
Siniora asciughi le lacrime
e si impegni per la pace
di EDNA CALO' LIVNE'
ORLY è al settimo mese di gravidanza, ogni mattina alle sei va al lavoro insieme a Nili e i
loro figli restano con me al villaggio con tutti gli altri bambini. Orly con la fronte lucida e la
voce tremante racconta: "Ieri è stato allucinante, mentre tornavamo qui dal lavoro è iniziata
una pioggia di missili, si sentivano le sirene di tutti i centri abitati intorno a noi. Abbiamo
viaggiato a 140 all'ora, io gridavo e pregavo. Quando sono arrivata a Maagan mio marito era
agitatissimo, mi ha detto che avremmo dovuto immediatamente fermarci e stenderci in un
fosso". Nili ha un sorriso amaro: "Sembra facile ma quando sei in una situazione simile
l'unica cosa che ti viene in mente è fuggire". "Sono preoccupatissima", dice Bat Chen. "Ronen
ha ricevuto la chiamata 8 da Zahal, è tutto il giorno che è in giro". Le domando se è in prima
linea ma Bat Chen mi spiega che suo marito è ufficiale, parla perfettamente l'arabo e il suo
compito in questi giorni è girare per i villaggi arabi della Galilea e addestrare i cittadini su
come comportarsi in caso di allarme. Lidia è un'assistente sociale e lavora all'ospedale di Zfat,
il più importante della Galilea. Racconta che i medici, gli psicologi e gli assistenti sociali sono
reclutati come se avessero ricevuto la chiamata 8. Ci sono centinaia di feriti e di persone sotto
trauma, l'ospedale stesso è stato bombardato. In tutta questa tragedia il reparto maternità è un
raggio di gioia ma le giovani mamme, che non comprano gli abitini dei neonati fin dopo la
nascita (perché così si usa per scaramanzia), ora non possono acquistare gli indumenti di cui
hanno bisogno perché tutti i negozi sono chiusi. Lidia è di origine russa, ha un volto
dolcissimo e mentre parla i suoi occhi di mare sono lucidi: "E' la terza guerra mondiale e
l'Europa non se ne accorge".
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Donne in guerra. Mogli, madri, protagoniste di un copione di cui nessuno conosce il finale,
dove non esistono comparse ma solo protagonisti, dove ogni piccolo pensiero, ogni nostalgia,
ogni segno di vita hanno un valore inestimabile. Donne forti che si danno coraggio l'una con
l'altra. "Che Siniora si asciughi le lacrime e cominci ad attivarsi, il futuro del Libano è nelle
sue mani", ha detto oggi Tzipi Livni, ministro degli Esteri israeliano. Asciughiamoci tutti le
lacrime ed aiutiamoci l'uno con l'altro. Abbiamo tanto lavoro. Abbiamo tanto da ricostruire.
Romana, abita in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
(9 agosto 2006)
Quel concerto nel bunker
mentre fuori si bombarda
di EDNA CALO LIVNE
UN SMS MI COMUNICA: "Oggi alle 13.00 - Ehud Banai al rifugio di Sasa, birra libera". Da
22 giorni non vado a casa, penso al basilico che avevo piantato con tanto amore, ai miei amici
del kibbutz di cui sento una grande nostalgia. Per cui salgo in macchina e parto. Arrivo a Sasa
passando dal Monte Meron, dove appaiono enormi chiazze di bosco incendiato.
Mentre parcheggio un altoparlante minaccioso inizia a fischiare e riconosco la voce di Uri, il
responsabile della sicurezza, che con voce ferma annuncia: "Tutti gli abitanti sono pregati di
entrare immediatamente nei rifugi". Panico. Volevo passare prima da casa per vedere. Decido
di passare lo stesso: il basilico è completamente secco... Non faccio in tempo a varcare la
soglia di casa che un boato inimmaginabile mi riduce il cuore come uno di quei palloncini che
si sgonfiano e restano senza aria.
Il rifugio centrale è gremito di gente, ragazzi in divisa, vecchi che hanno deciso di non
abbandonare la loro casa. Ehud Banai, insieme a George Saman, il primo ebreo l'altro arabo,
iniziano il loro concerto. Ehud è uno degli artisti più amati d'Israele, canta di amore, di pace,
canta per chi non c'è piu'; da un po' di tempo ha scoperto George, hanno tradotto l'uno le
canzoni dell'altro e insieme cantano in ebraico e in arabo. In questi giorni fanno 7-8 concerti
al giorno nei rifugi della Galilea. Mentre cantano, i muri del rifugio tremano per i
bombardamenti. Guardo i volti intorno a me, c'è una gratitudine che trasfigura tutti...
Sabato sera, a Maagan, avevano suonato i "Gaya", trascinando tutti i mille sfollati in un coro
di "Od yavò shalom aleinu", la pace arriverà su di noi e sul mondo intero. Sono momenti
come questi che ci danno la forza di andare avanti.
Romana, vive in israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della Fondazione
Bereshit la Shalom
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(10 agosto 2006)
Guerra o pace,
dipende tutto dalla scuola
di EDNA CALO LIVNE
Apro gli occhi, guardo l'ora: le sei del mattino. Dopo aver controllato alle tre, alle quattro e
alle cinque è arrivato il momento di alzarsi. Automaticamente accendo la televisione:
raccontano una ad una le storie di 15 riservisti rimasti uccisi ieri in un'imboscata. 15 padri in
meno, mi sento cosi pesante che non riesco a muovermi.
Vorrei riaddormentarmi e ricominciare la giornata in un altro modo, ma devo alzarmi presto:
oggi ho un incontro importante a Tel Aviv con il ministro dell'Educazione, Yuli Tamir. Un
anno fa, per "La giornata del pane della pace", mi rivolsi a lei per ottenere i permessi a entrare
in zona palestinese, e da allora c'è tra noi un profondo rapporto di amicizia. È uno dei
personaggi più belli d'Israele: determinata, aperta a iniziative e a nuove idee, una persona per
la quale l'essere umano ha un valore primario.
Quando arriviamo c'è grande agitazione: il ministro del Tesoro ha appena comunicato che ci
saranno tagli drammatici, a partire dagli stanziamenti per l'educazione. Tamir spiega che
l'anno scolastico deve iniziare assolutamente il 1 settembre come ogni anno, anche se gli
alunni dovranno studiare nei rifugi, anche se si dovranno organizzare viaggi speciali per non
passare sul confine, anche se molte scuole sono state danneggiate o distrutte, e anche se
insegnanti, alunni e genitori hanno vissuto un'estate traumatica. Il ministro trova comunque il
tempo per accoglierci con affetto, per dimostrarci la sua solidarietà.
Quando usciamo riceviamo la notizia dei terroristi arrestati a Londra. Rivedo il volto di una
bimba libanese dal capo coperto che ieri in tv diceva: "Da grande anch'io mi arruolerò negli
Hezbollah e sarò felice di morire combattendo!". È una questione di educazione, a quanto
pare: educazione alla pace o educazione alla guerra.
Romana, vive in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della fondazione
Bereshit la Shalom
(11 agosto 2006)
Così si vive aspettando brutte notizie
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Ora inizia il momento più difficile, il momento in cui siamo tutti con i nervi tesi e il cuore in
tumulto, con il cellulare acceso, la televisione accesa, la radio accesa, terrorizzati al solo
pensiero di ricevere una notizia nefasta. Israele è piccola e si dice che quando si parla con
qualcuno, nel giro di pochi minuti si trova un conoscente o un amico in comune. Quel ragazzo
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del kibbuz Gazit che è morto ieri in Libano era il figlio del miglior amico di Serge, il nostro
cuoco. Stamattina, quando l'ho incontrato, aveva il volto livido di pianto. Kedem Levi è stato
ferito, era in classe con Avital, che è seduta qui vicino a me e non riesce a calmarsi mentre
cerca freneticamente un numero di telefono per domandare in quale ospedale è ricoverato e in
che condizioni si trova.
Al villaggio la vita diventa ogni giorno più impossibile. Non so più cosa inventare. Dopo tre
settimane di attività per ragazzi di tutte le età ho improvvisamente degli attimi di vuoto, come
se la mia fantasia non riuscisse a stare al passo con gli eventi che ci stanno travolgendo. Molti
bambini hanno paura di partecipare ai giochi che organizzo fuori dai rifugi, perché da lontano
si sentono le sirene e i boati dei missili e le madri arrivano sconvolte intimando loro di entrare
al riparo. Non tutti sanno dominare la propria paura. Ieri sera abbiamo portato un team di
psicologhe perché i genitori potessero sfogarsi e raccontare le loro preoccupazioni.
Quanto a me, sento che davanti c'è un arsenale preparato con cura nel corso di questi ultimi
sei anni, un severo addestramento congegnato per attentare alle vite, all'economia, alla psiche
di tutti gli abitanti di questo Paese, senza distinzione di provenienza, di religione o di
appartenenza. E sento tanta tristezza e delusione.
Romana, vive in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della fondazione
Bereshit la Shalom
(12 agosto 2006)
Spero mio figlio torni presto
di EDNA CALO' LIVNE'
"Fra un po' si torna a casa", mi dice Nili. "Forse questa volta il cessate il fuoco ci sarà
veramente". Ha un'espressione stanca, di chi vuole convincersi che un bel sogno sta per
avverarsi. Si parla solo di questo, si spera di riabbracciare presto i propri cari, di tornare al
proprio lavoro, alla propria casa, al paesaggio verde della Galilea.
Domani è il compleanno del mio secondogenito Yotam: quando provo a chiamarlo mi
risponde a monosillabi, e sento che ha la mente affollata di pensieri. Mi chiede come va a
Sasa, e quando gli dico i nomi di chi ha ricevuto la chiamata 8, quella di emergenza
all'esercito, inizia un lungo monologo: "Ma ti sembra giusto mamma? Ti sembra giusto che
Moshé, che ha 35 anni e due bimbi a casa, e Haggai, con una neonata di pochi mesi, debbano
affrontare questa guerra? Hanno gia fatto il loro servizio 10, 15 anni fa! Quando senti dire
"lascia moglie e due bambini" è terribile. Non siamo abbastanza, sono in tanti contro di noi...
Ma mi fa male sapere che tanti padri di famiglia lasciano la loro casa per cercare una
soluzione contro il lancio di questi razzi. E l'offensiva ora è su tutti i fronti... ci sono missili da
Gaza, tafferrugli nella West Bank.... non se ne parla perché sono tutti occupati con il nord".
Poi continua: "Oggi ho finito di leggere il libro di Igal Allon. Dovresti leggerlo mamma,
Sipario di sabbia, c'è una frase bellissima: "Per creare un esercito forte bisogna educare i suoi
soldati a odiare la guerra". Scrive che si deve educare ai valori di rispetto, di responsabilità, al
coraggio e alla profonda aspirazione per la pace. Ti piacerà, sono i valori di cui parli tu. Si
capisce dalle sue parole che Tsahal deve essere un esercito di difesa, di difesa di Israele".
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Mentre Yotam parla, io piango in un silenzio soffocato e cerco di non dire nulla per non
turbarlo. Quando lo saluto, benedico con tutta me stessa lui e gli altri ragazzi, e riesco solo a
dire: "Auguri amore mio, sappi solo che sono orgogliosa di te". Lo sento sorridere dall'altra
parte e spero solo di riabbracciarlo presto.
Romana, vive in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della fondazione
Bereshit la Shalom
(13 agosto 2006)
Dopo un mese si torna a respirare
adesso occupiamoci dei bambini
di EDNA CALÒ LIVNÉ
Si torna a casa. Oggi i semafori di Kiryat Shmone e di Nahariya hanno ripreso a funzionare e
le strade, deserte fino a ieri sera, hanno rivisto la vita. La gente esce dai rifugi dopo giorni e
giorni di paura, e sembra di tornare a respirare.
Da tutta Israele intere famiglie si preparano a raccogliere gli indumenti, i giochi dei bambini,
le pentole, i libri sparsi nelle case degli amici, dei parenti, di coloro che hanno dato loro asilo
in questi giorni che resteranno incisi nelle memorie, nelle menti e negli animi di tutti: ebrei,
arabi, circassi, drusi d'Israele. Ora bisogna iniziare a ricostruire la serenità dei bambini, la
sicurezza delle madri, il lavoro interrotto, le strade, le case e, entro il primo settembre, gli asili
e le scuole. Ci si convince ad essere ottimisti, a credere che tutto sia finito e che
quest'ennesima guerra sia stata l'ultima, ma le sirene e i bombardamenti di questi 30 giorni
hanno risvegliato antichi fantasmi che sembravano ormai spariti e che ora tornano ad affollare
i sogni di madri cresciute ad Avivim, a Shlomi, a Dovev o a Misgav Am, dove le katyusha
cadevano anche prima della guerra, dove i rifugi sono rimasti sempre aperti e pronti in caso di
attacchi terroristici, di deltaplani carichi d'esplosivo o spari improvvisi.
Ieri ho girato per i villaggi sul Lago di Tiberiade dove sono alloggiate le persone di cui sono
responsabile, insieme a due assistenti sociali e una psicologa, per aiutare le famiglie a
raccogliere le forze e prepararsi al ritorno nelle proprie case. Molti hanno paura di tornare e
trovare brutte sorprese, molti non credono che tutto sia finito e temono che i bombardamenti
ricomincino appena saranno tornati nelle case. Molti, però, hanno scoperto in questi giorni
anche tanti amici: una vicina con la quale non avevano mai parlato e che nel rifugio preparava
il cuscus per tutti, o un vicino con cui andare al lavoro sotto la pioggia dei razzi. I legami si
sono rinforzati e le amicizie approfondite. Ora aspettiamo di risvegliarci da questo incubo, e
di ritrovare anche questa volta la forza di andare avanti...
(Romana, vive in Israele dal 1975. Fondatrice del Rainbow Theatre e della fondazione
Bereshit laShalom)
(15 agosto 2006)
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