1963-1967: una tesi in cristallografia per la laurea in Chimica

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1963-1967: una tesi in cristallografia per la laurea in Chimica
1963-1967: una tesi in cristallografia per la laurea in
Chimica
Angelo Gavezzotti, Università di Milano
"When electromagnetic radiation passes through a crystal
(or matter in general), the electrons are perturbed by the
rapidly oscillating electric field and are set into oscillation
about their nuclei, with a frequency identical to that of the
incident radiation. According to electromagnetic theory an
oscillating dipole acts as a source of an electromagnetic
wave. Thus, each electron in the medium acts as a source
of a radiation that travels outwards with a spherical wave
front. In other words, the incident radiation is scattered by
the medium without alteration in its frequency. This is
coherent scattering."
J.D.Dunitz, X-Ray analysis and the Structure of Organic
Molecules, 2nd Corrected Reprint, p. 25, Verlag Helvetica
Chimica Acta, Basel, 1995
"...in february 1912, P.P. Ewald came to visit me. ... during
the conversation I was suddenly struck by the obvious
question of the behaviour of waves which are short by
comparison with the lattice-constants of the space lattice.
...The fact that the lattice-constants in crystals is of an
order of 10-8 cm was sufficiently known...The order of Xray wavelengths was estimated by Wien and Sommerfeld
at 10-9 cm.... I immediately told Ewald that I anticipated
the occurrence of interference phenomena with X-rays."
Max von Laue, Nobel Lecture, nov 12, 1915
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1. Prologo
Nel 1962 si poneva la questione della mia entrata all'Università. La mia
famiglia era di origini umilissime e mio padre non c'era più, ma in qualche
modo i soldi per far studiare due figli non erano mai mancati; la vita era più
semplice e non si dava ancora il caso, come accade adesso, che la
televisione stravolgesse la suddivisione dei beni in necessari o voluttuari. Il
golf smesso da mio fratello andava ancora benissimo a me, e il telefono era
quella scatola di plastica nera appesa al muro che si usava al massimo un
paio di volte al giorno. Cibo e affitto non erano ancora regolati dalla
stravaganza il primo e dalla speculazione il secondo, sicché la famiglia
tirava la fin del mese anche pagando le tasse universitarie, peraltro
modestissime - salvo poi scoprire che per le famiglie a basso reddito
l'iscrizione era gratuita e era prevista anche una piccola cifra a mo' di
sussidio. Il vero problema era la scelta della Facoltà. Volevo qualcosa di
affine alle scienze esatte (naturalis philosophia) come compenso alle dosi
massicce di minori del Trecento, di monadi senza finestre, di aoristi e
sostantivi eterocliti, insomma di baroco e baralipton propinatemi da un
Liceo Classico di stampo medievale, e soprattutto volevo cibo solido su cui
affilare i miei denti intellettuali. Alla fine la scelta era ristretta tra il
Politecnico e Chimica Industriale; ho scelto la seconda perchè uno zio
chimico stava facendo soldi con una piccola azienda di trattamento di
materie prime organiche per l'industria farmaceutica; e nella vita, non si sa
mai.
Gran parte della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali
dell'Università di Milano era ospitata in un singolo edificio, sulla cui
facciata campeggiava la scritta 'Università' preceduta dalle tracce della
parola 'Regia', affrettatamente scalpellata e finita in discarica assieme al
prestigio della famiglia reale, che aveva signorilmente abbandonato al loro
incerto destino la capitale, l'esercito e il Paese. I locali in cui erano
alloggiati aule e laboratori erano stantii, con vecchi banchi disseminati di
bunsen rugginosi e lavandini ingialliti che ingurgitavano ogni sorta di refluo
di laboratorio. Le precauzioni erano ignote: si pipettava tetracloruro di
carbonio, e in Analitica Qualitativa si gorgogliava acido solfidrico en plein
air. Il clima culturale, come mi son reso conto più tardi, odorava ancora di
inizio secolo, con ricette rosacrociane e calcinazioni nei gooch. Il concetto
di molecola veniva dalle leggi ponderali, senza che nessuno ci avesse detto
che si trattava di insiemi tridimensionali di atomi tenuti insieme da forze
elettromagnetiche. Il legame chimico era questione di puntini da spostare
con freccette, e gli zuccheri si disegnavano con quei lunghi legami curvi o
rettangolari che accennavano al fatto che si trattava di molecole cicliche. La
terza dimensione non esisteva; del resto, le dispense si tiravano a ciclostile e
l'unico attrezzo didattico era la lavagna col gesso. La termodinamica
discendeva in due corsi separati, uno coi cicli di Carnot e l'altro con un
oscuro insieme di minacciose formule irte di incomprensibili sommatorie.
Nessuno ci ha mai fatto notare la meravigliosa concordanza finale dei
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ragionamenti di Clausius e di Boltzmann, nè il fatto che il calore specifico
scende dalle vibrazioni; del resto, il corso di spettroscopia era un
complementare del quinto anno, quando ormai la funzione di ripartizione
era dimenticata alle spalle. Abbiamo forse evitato per un pelo il paracoro, se
non il flogisto. In compenso avevamo cinque corsi di matematica - quattro
massicci fondamentali e i Complementi - e tre corsi di fisica, le due
Istituzioni e il laboratorio: una splendida base culturale che mi ha aiutato
per tutta la vita. Allora ho imparato che le formule producevano numeri che
potevano essere confrontati con i risultati di misure sperimentali, una
scoperta culturalmente sconvolgente; e ho maledetto in cuor mio la
memoria dei miei insegnanti di scuola superiore che mi hanno fatto perdere
anni su quistioni scolastiche e non mi hanno mai parlato di Galileo.
2. I raggi X
Naturalmente a quei tempi non si parlava di Dottorato, e tutto quello che si
poteva avere era una Laurea in Chimica, che richiedeva al minimo un anno
intero di internato presso un laboratorio di ricerca. Così mi son trovato, un
giorno d'estate del 1967, alla presenza di Vladimiro Scatturin - impegnato
in quegli anni nella minuziosa stesura dello Statuto dell'Associazione
Italiana di Cristallografia - a chiedere di poter iniziare il lavoro come
interno nel prossimo autunno; e a chiedere anche, sfrontatamente, se ci
fossero possibilità di continuare il lavoro di ricerca dopo la laurea nel suo
laboratorio. Scatturin sorrise sotto i baffi che non aveva e rispose, può darsi,
bisognerà anche che lei veda com'è il lavoro... sottintendendo, ovviamente,
bisognerà che io veda come lei lavora. Dopodichè mi affibbiò la lettura
estiva del Burger azzurro come propedeutica, e mi congedò. L'ho tradito
perchè a settembre ho scoperto che il laboratorio di Strutturistica a Chimica
Fisica cercava laureandi e mi son quindi rifugiato sotto l'ala, protettiva e
sequestrante, di Massimo Simonetta.
Il Laboratorio di Cristallografia era nel sotterraneo, l'unico luogo dove i
generatori di allora, pieni di olio ( o di PCB? non l'ho mai saputo) e pesanti
un centinaio di chili non corressero il rischio di sfondare i fragili pavimenti
del malconcio edificio. Dal pavimento di linoleum sconnesso uscivano
vapori dei solventi che i chimici organici buttavano spensieratamente nei
lavandini e quindi nelle malridotte tubature di scarico. Le cose che mi
hanno colpito maggiormente sono state, nell'ordine: un attaccapanni che
recava la scritta "riservato ai docenti"; una serie di bellissimi libri di legno
scuro, commissionati a un esperto falegname dal professor Vaciago, che
fungevano da sostegno ai libri veri; e il gabinetto del professor Cambi leggasi "gabinetto" non nel senso scientifico del termine, ma nel senso di
cesso, con tanto di tazza, bidet, vasca da bagno e boiler per l'acqua calda. I
generatori erano due, uno Rigaku, con un manuale di istruzioni che
raccomandava di indossare pantofole nella stanza per non accumulare
polvere di strada accanto al prezioso apparecchio; e uno messo assieme tra
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gli azzurri monti di Tenno. Troneggiavano due Weissenberg e una
Precession, accuratamente allineate al tubo mediante ritagli di nastro doppio
adesivo. Dalla camera oscura usciva l'odore degli acidi. Il mio
indottrinamento era subito cominciato: la legge di Bragg, la cella unitaria, la
sfera di Ewald, gli assi reciproci con la loro brava stellina, tutto disegnato
con estrema cura su carta quadrettata. Ricordo quei primi mesi come tempi
Una macchina "precession" e il relativo fotogramma.
di matite, gomme, temperamatite e righelli. Si passava anche del tempo in
biblioteca a sfogliare le riviste per annotare gli articoli di interesse
cristallografico: una schedina ciclostilata per ogni articolo, nomi degli
autori, citazione, nome del cristallo, dati di cella e gruppo spaziale. Avere
una fotocopia significava inoltrare domanda al responsabile, averne un
bigliettino con autorizzazione scritta accordata a sua discrezione, portarlo in
biblioteca, e attendere che il personale ti riconsegnasse in cambio un
pacchettino di fogli unti dai quali ogni traccia di scrittura svaniva al
semplice tocco d'un pollice un poco umidiccio.
Ogni laureando veniva associato a un cristallo, dato che raccogliere dati e
risolvere una struttura era impresa che poteva richiedere da un minimo di
qualche mese a un massimo di un'eternità. Io ero stato appiccicato al DTE,
1,1-di-p-toliletilene, molecola che suscitava l'ilarità dei miei di casa che
pensavano che si trattasse di un nome cinese. Come ho saputo poi, si
trattava di un progetto rischioso perchè non c'erano atomi più pesanti del
carbonio, e nessuno sapeva esattamente a cosa si andava incontro in tale
caso; fortunatamente dopo una laboriosa scelta del campione cristallino e la
sua prima esposizione ai raggi X s'era capito che si trattava di un cristallo
centrosimmetrico, P21/c, e tutti hanno tirato un sospiro di sollievo (anche se
io non sapevo ancora perchè). Ecco che i laureandi venivano utili, perchè si
trattava di montare pellicole singole e pellicole a pacchi nella camera
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Weissenberg, facendo attenzione al malefico angolino ritagliato che doveva
stare proprio in quell'angolino, e a non rompere la carta nera avvitando il
tappo del contenitore; piacevolezze la cui gestione malaccorta poteva
risultare in lastre esposte a rovescio o dotate di generosi sbaffi neri. Ma
ricordo ancora l'emozione provata misurando con un righello la distanza tra
due filari di un fotogramma di cristallo rotante e ricavandone, con l'aiuto
della sola calcolatrice, la lunghezza di un lato di cella del mio cristallo; o il
calcolo dell'angolo cui inclinare il cursore della Weissenberg per
raccogliere la diffrazione da ciascun singolo strato. Fisica, matematica,
formule, e un numero da confrontare con un risultato sperimentale!... E poi,
le sere passate a osservare l'andirivieni del carrello tra due scatti
dell'interruttore di cambio direzione, e la promessa maliziosa fatta alla
fidanzatina di farle vedere un vero cristallo - e la sua espressione di orrore
alla vista di quel granellino biancastro annegato in una goccia di colla
viscida in cima a un capillare da 0.5 millimetri.
Una camera per film e un fotogramma da cristallo rotante
In realtà, il laboratorio disponeva di un nuovissimo diffrattometro
automatico chiamato PAILRED, acquistato in compartecipazione con il
laboratorio di Scatturin, ma si trattava di una macchina bizzosa e ritenuta,
forse non a torto, poco affidabile. Idealmente, tale gioiello avrebbe dovuto
raccogliere automaticamente le intensità diffratte pilotando e allineando da
solo il cristallo mediante un ingegnoso sistema geometrico; i risultati
dovevano essere automaticamente trasferiti su scheda perforata. In pratica,
il maledetto affare trovava modo di piantarsi per le ragioni più svariate, dato
che l'elettronica era approssimativa e le parti meccaniche traballanti. La più
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divertente (si fa per dire) delle sue performances era quella di incastrare le
schede nella perforatrice, in modo che tutti i riflessi raccolti nella notte
venivano perforati sulla stessa scheda, che veniva estratta il mattino
successivo come se fosse passata attraverso una trebbiatrice. Dopo aver
gettato l'anima oltre l'ostacolo per qualche settimana, i dati raccolti sono
stati ritenuti inaffidabili e si è deciso (non da me, certamente) di procedere a
una nuova raccolta fotografica. Daccapo, quindi, alle Weissenberg, alle
lastre, e alla camera oscura.
Anche la nuova agonia, come dio volle, ha avuto un termine. Una volta
ottenuto un bel pacco di lastre nitide e asciutte, si trattava di stimare a vista
le intensità delle macchie. Noi laureandi eravamo stati istruiti a compiere
una specie di integrazione visiva, ammucchiando tutto il nero di ogni
singola macchia e confrontandolo col nero (anch'esso doverosamente
ammucchiato) di una serie di macchie di opacità crescente preparate su una
apposita scala graduata, dato che il microdensitometro veniva giudicato
strumento meno affidabile dell'occhio umano (anche di un laureando). Il
risultato è stato, dopo settimane di lavoro, una serie di quaderni recanti, per
ogni macchia, gli indici di Miller e l'intensità visiva approssimativa. Il tutto
da trasferire, questa volta a mano, riflesso dopo riflesso, alla perforatrice trun, trun, trun, trun - su schede di carta. Ma a dispetto delle lunghe ore
trascorse in compiti noiosi e in procedure macchinose, con mezzi spesso di
fortuna, il morale era eccellente. Aleggiava per il laboratorio un'aria
pionieristica; stavamo facendo qualcosa che non molti avevano fatto prima
con successo, e si citavano nomi come Bragg, Perutz, Kendrew, Hodgkin. E
soprattutto, la ricompensa finale di molti sforzi sarebbe stata non una
polverina, non un grafichetto, non un numerino. Sapevamo che se fossimo
stati abili e perseveranti, avremmo visto gli atomi.
3. I calcolatori: o meraviglia!
Gironzolando per il Laboratorio avevo un giorno scoperto due magnifiche
scatole di legno di noce, pressappoco della forma di due vasi da gerani,
contenenti una incredibile quantità di striscioline di carta recanti una ancor
più incredibile quantità di numeri scritti a macchina. Si trattava delle
famose strisce di Beevers e Lipson, e i numerini non erano altro che i valori
di 2πhx per ogni valore possibile di h e di x. La dose di pazienza richiesta
per portare a termine somme di Fourier con quel mezzo mostruosamente
inefficiente testimonia della testardaggine umana, quando sia in gioco una
motivazione che trascende ogni ostacolo - quella della scoperta scientifica.
Nelle lunghe ore passate in laboratorio senza qualcosa di preciso da fare,
avevo cominciato a prender confidenza con la meraviglia di quei tempi, che
troneggiava in uno stanzone del nostro sotterraneo: l'IBM 1620. Questa
strabiliante macchina consisteva di due grossi armadi e forniva una potenza
di calcolo trascurabile; disponeva di un compilatore Fortran, ma in tal caso
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la memoria era quasi tutta occupata dalle routines di sistema e l'utilizzatore
aveva a disposizione non più di 7500 parole (un modesto PC odierno ne
immagazzina 500.000.000). Per avere a disposizione più memoria, di
conseguenza, ho cominciato a imparare il linguaggio simbolico e il base,
che consiste nel prendere una parola per volta e indirizzarla, spostarla,
mascherarla, applicargli flags, insomma, vezzeggiarla come se fosse un
neonato. Calcolare una radice quadrata richiedeva qualche decina di
istruzioni. Questo esercizio, al giorno d'oggi prerogativa dei soli sistemisti,
Le strisce di Beevers e Lipson
mi ha dato una comprensione intima del modus operandi delle macchine
calcolatrici. Per ovvi motivi, i cristallografi sono stati tra le prime categorie
di scienziati ad avere una assoluta necessità di disporre di mezzi di calcolo,
dovendo maneggiare larghe quantità di dati numerici con calcoli ripetitivi,
ma eravamo nella condizione di falegnami che dovessero costruirsi viti e
chiodi. Quando, più tardi, il laboratorio ha deciso di dotarsi di un sistema
coordinato di programmi per il trattamento di dati cristallografici, ho
passato lunghe giornate aiutando a organizzare tutta la faccenda: in
compenso, ho imparato in ogni minimo dettaglio cosa significa correggere,
scalare e ordinare i dati, risolvere il problema della fase, calcolare sintesi di
Fourier e raffinare parametri posizionali e termici. Slater diceva che
programmare un computer è la più rigida delle scuole intellettuali, perchè
insegna che nulla funziona finche tutto non è perfetto in ogni minimo
dettaglio. Chi interpreta la cosa in maniera più pedestre considera che
programmare è come risolvere le parole incrociate. Naturalmente al giorno
d'oggi si comprano pacchetti di programmi a scatola chiusa, comprese le
deviazioni standard che possono dipendere (e spesso dipendono) dalla
generosità del programmatore.
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I dati di diffrazione del mio DTE erano finalmente pronti, sotto forma di
una grossa scatola con qualche migliaio di schede perforate. La prima cosa
da fare era mediare i dati da diffrattometro con quelli da vista e portare tutti
i riflessi indipendenti sotto un'unica scala assoluta. Questo compito veniva
eseguito da un programma chiamato "Scalatura III" (chissà che ne era stato
di I e II) che funzionava così: innanzitutto si poneva sul lettore il pacco di
schede col programma e si azionava l'apposito tasto per caricarlo
(l'equivalente del moderno sistema operativo!). L'operazione richiedeva una
decina di minuti. A quel punto la macchina accendeva un bottone rosso che
diceva "reader no feed": ho fame di dati. Allora si caricavano con gran cura
le schede con le intensità dei riflessi e si schiacciava di nuovo il bottone di
lettura. Un sibilo meccanico annunciava l'introduzione della prima scheda:
si estraevano gli orologi e si cronometrava il tempo necessario a elaborarla,
mentre le decine di lucette sulla "faccia" del computer ammiccavano
accendendosi e spegnendosi a velocità folle. Dopo una decina di secondi, si
sentiva entrare la seconda scheda, e così via. Ogni tanto il perforatore di
schede si animava improvvisamente e deponeva con cautela nel cestino
sottostante una scheda con un riflesso indipendente mediato. Tutto ciò
avveniva di sera, perchè la scalatura durava tutta la notte, sempre ammesso
che non ci fossero intoppi come ad esempio una scheda mal posizionata che
si stracciava entrando nel lettore. Si favoleggiava di un collega che per non
perdere la notte di calcolo aveva sostituito la cinghia di trasmissione del
motore del lettore con una bretella improvvisata....
Il mitico IBM 1620 con lettore di schede, consolle e stampante
(ossia macchina per scrivere)
A questo punto si poneva il problema scientifico vero: risolvere il
problema della fase, ossia, nel nostro caso, determinare i segni "più" o
"meno" da porre davanti a ciascuna intensità nella sintesi di Fourier (o
lettore moderno sotto i trent'anni: sai tu perchè nel mio caso la fase era solo
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un segno?) Si sentiva parlare di "metodi diretti", ma i cristallografi più
anziani sembravano conceder loro più o meno le stesse possibilità di
successo dell'elisir di Dulcamara. In realtà si trattava innanzitutto di
disporre di un calcolatore in grado di elaborare il programma scritto da
Robert Long, del gruppo di ricerca di Ken Trueblood all'Università della
California, per l'applicazione del metodo di Sayre ai gruppi spaziali
centrosimmetrici. Per fortuna il centro di calcolo dell'Istituto di Matematica
si era appena dotato di un IBM 7040, che funzionava così: bisognava
rivolgersi in segreteria, ottenere una prenotazione di tempo di calcolo,
portare il proprio pacchetto di schede, e ritirare il risultato l'indomani
mattina, sotto forma di un tabulato di carta a scorrimento continuo formato
40x25 centimetri (!). Se il tabulato era troppo sottile, significava che per
qualche motivo il programma non aveva potuto funzionare; se il tabulato
era troppo spesso, significava disastro sotto forma di qualche "loop"
indesiderato.
A quei tempi nessuno si sarebbe sognato di usare un programma senza
capirne il funzionamento in dettaglio. Armato di matita e gomma (ancora
matite!) e di un rotolo di vecchia carta da tracciato del PAILRED (di cui
usavo il retro bianco) ho passato un'intera settimana a decifrare il codice
istruzione per istruzione, ammirando l'incredibile ingegnosità del
programmatore che aveva fatto vere e proprie acrobazie per contenere dati e
programma nella sola, scarsa memoria centrale. C'erano, è vero, delle scelte
da fare e degli indicatori da indirizzare; ma siccome nessuno aveva
esperienza, abbiamo finito per affidarci al caso. La richiesta di tempomacchina voleva indicato, ovviamente, quanto tempo: non avevamo idea,
chiedemmo qualche ora, anche se avrebbe potuto essere benissimo
necessario qualche giorno.
Numero di
cicli
11
9
11
13
10
Numero di
segni "+"
85
105
93
92
92
Numero di
segni "-"
112
92
104
105
105
Indice di
consistenza
0.79873
0.75657
0.74502
0.71139
0.70068
Gli indici di consistenza più alti nella storica prima volta di uso del
programma di Robert Long per l'applicazione dei metodi diretti (1968)
Il mio tabulato, una mattina di primavera del 1968, era dello spessore
giusto, circa una cinquantina di pagine (si scriveva parecchio, a quei tempi)
e portava alla fine una tabella con sedici possibili tentativi e sedici indici di
consistenza. L'indice più alto non era poi così tanto più alto degli altri
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quindici, sicché il mio entusiasmo per il successo del calcolo non era molto
condiviso dai miei supervisori, che guardavano al risultato con occhio assai
scettico.
Il passo successivo era l'assegnazione manuale dei segni ai riflessi e il
calcolo di una sintesi di Fourier (la cosidetta "E-map"). Questo si poteva
fare sul nostro 1620, ma il programma richiedeva che i dati fossero disposti
in una ben precisa sequenza di indici di Miller (diciamo, tutti gli l per dati
hk, tutti i k per un dato h, etc.) sicché era indispensabile ricorrere ai servigi
di uno straordinario apparato, conservato presso il Politecnico, chiamato
selezionatore di schede. La macchina era un grosso armadio alto circa un
metro e largo due, con una serie di rulli attraverso i quali le schede
scorrevano a velocità folle, cadendo nei raccoglitori sottostanti a seconda
di dove fossero i fori in ciascuna colonna. Programmare ogni fessura per
selezionare la scheda relativa era affare dell'utente, ovviamente. La cosa ha
richiesto una mezza mattinata di grattacapi (conditi da qualche esternazione
da carrettiere e da una manciata di schede stracciate dal Moloch) ma alla
fine il nostro pacchetto era pronto, ben selezionato - ma ahimè, c'era in
corso un progetto dei chimici teorici per qualche calcolo di orbitale
molecolare (diciamo per l'etilene), il 1620 era prenotato per diversi giorni, e
il progetto di un laureando non aveva una priorità particolarmente alta,
sicché i segni del metodo di Sayre son rimasti una settimana circa sullo
scaffale. Ma alla fine è giunto il dì fatidico, e una mattina entrando in
laboratorio ho trovato un lungo ricciolo di carta a rullo della macchina per
scrivere del 1620 con una lunghissima serie di numeri: la mia tanto
sospirata Fourier.
Armato di forbici e colla, ho cominciato a tagliare le pagine e a
ricomporre le varie sezioni con le coordinate appropriate, e a tracciare a
matita delle isoipse che contornavano le zone di alta densità. Alla fine della
giornata avevo una lista approssimativa di coordinate atomiche
corrispondenti a un certo numero di picchi, ma, ovviamente, non era
disponibile alcun mezzo per vedere se questa serie di punti tracciasse
qualche pezzo della mia molecola di DTE. L'entusiasmo aguzza l'ingegno:
disegnata su un largo pezzo di carta una base di cella nel piano xz, con
l'appropriato angolo monoclino, dopo averla quadrettata ho tracciato le
coordinate relative, ottenendo un disegno in proiezione che però rivelava
ben poco di preciso. Mi serviva la terza coordinata; in un angolo c'era una
serie di spilloni da calza con palline di carta nera, evidentemente
ammucchiati lì da qualche laureando precedente che aveva avuto la mia
stessa idea. Le palline nere andavano infilzate sugli spilloni all'altezza
giusta, e lo spillone andava conficcato nel graticcio di base alle coordinate
giuste. Dopo un'oretta, guardavo il risultato di questa strana operazione con
occhio dubbioso e inesperto.
Dato lo scarso livello di stima di cui godevano le mie probabilità di
successo, nessuno si interessava alle mie manipolazioni. Tuttavia, uno dei
supervisori, entrando per caso nella stanza, ha osservato con fare casuale
che cinque palline nere, tra la dozzina circa che avevo sistemato, formavano
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un pezzo di esagono. L'interesse dei "seniors" si è risvegliato di colpo: dopo
una seconda occhiata a quelle cinque palline, sapevamo che la mia tesi si
sarebbe conclusa con successo e che nel giro di un tempo relativamente
breve si sarebbe potuto preparare un buon articolo su una rivista
cristallografica di prestigio.
1,1,-di-p-toliletilene
Grafica molecolare stile 1967
La conferma definitiva, comunque, doveva venire da un calcolo di fattori di
struttura. Venne apprestato in tutta fretta un pacchettino con un centinaio di
riflessi "di fiducia" (a quei tempi ogni riflesso aveva una sua storia, e li si
conosceva quasi di persona), e il calcolo relativo passò in priorità assoluta
in quanto foriero di un grande evento nel laboratorio e in tutto l'Istituto.
Persino i chimici teorici e gli impiantisti misero il naso nella stanza del
1620 per vedere cosa succedeva. Dopo una mezz'oretta, ingoiata l'ultima
scheda, la macchina per scrivere si risvegliò per scrivere il fattore di scala;
sapevamo che quello era il prologo. Dopo un'altra agonia di un paio di
minuti, il click-click-click annunciò: R = 15.64. Era fatta.
4. Epilogo
Il successo col DTE ci aveva talmente ringalluzziti che ci siamo messi a
progettare un programma di calcolo di analisi conformazionale basato sui
nuovissimi risultati diffrattometrici e spettroscopici. In uno dei primi
congressi dell'Associazione Italiana di Cristallografia, a Torino (1970) mi
avevano concesso un paio di minuti per rispondere a domande sulla nostra
comunicazione. Mentre qualcuno nell'uditorio sembrava interessarsi
blandamente alle mie costanti di stretching e alle trasformazioni di
coordinate, si è improvvisamente sentita una voce tonante dal fondo della
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sala: "Signori, vorrei ricordare che questo è un Congresso di
Cristallografia!" Il commento era ancora pienamente giustificato; ma il
termine "cristallografia" era destinato a mutare ben presto significato, per
divenire il dogma principale della nuova chimica strutturale.
Qualcuno potrebbe pensare che aver speso mesi di tempo per fare cose
che oggi sono interamente fatte dalle macchine, e per portare a termine
compiti ingrati come il confronto di centinaia di macchioline nere con una
scala graduata, sia cosa che rendesse infelici. Al contrario, avevamo la
magnifica sensazione di avere a che fare con un problema ben definito,
difficile ma non impossibile, la cui soluzione avrebbe portato nuova
significativa conoscenza nell'arena chimica: il modo in cui due anelli
benzenici legati allo stesso atomo di carbonio si contorcono per evitare
l'impedimento sterico. La felicità umana è sempre un gradiente, mai un
livello. Io sono stato particolarmente fortunato, perchè una mano benevola
ha messo quell'indice di consistenza in testa alla lista, mentre c'è chi in
quegli stessi anni ha speso gli stessi mesi e portato a termine gli stessi
ingrati compiti senza aver la soddisfazione di "vedere gli atomi". Ma
abbiamo tutti condiviso la straordinaria fortuna di aver assistito allo
sviluppo iniziale di un metodo di ricerca che nel giro di pochi anni avrebbe
cambiato il modo di pensare chimico, trasferendo per sempre le molecole
da Flatlandia al mondo degli oggetti reali.
Giugno 2007
Desidero ringraziare Riccardo Bianchi, Gianluigi Casalone, Riccardo
Destro, Giuseppe Filippini, Carlo Maria Gramaccioli, Carla Mariani,
Angelo Mugnoli e tutti gli altri colleghi della "compagnia del seminterrato".
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