La comunicazione interpersonale
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La comunicazione interpersonale
La comunicazione interpersonale 3.1. Messaggi analogici e codici simbolici II ritmico rumore di una tastiera fa da sottofondo al veloce comparire di parole e frasi sul monitor di un computer. Una pausa, seguita subito da un suono solo di poco più sordo, lascia immaginare che sia stato «cliccato» il tasto «invio». Qualche attimo di attesa e nello schermo azzurregnolo si materializzano altre parole e frasi in risposta alle precedenti, in un dialogo mai effettivamente pronunciato: due persone, divise solo da qualche parete o da migliaia di chilometri di cavi, stanno scambiandosi messaggi all'interno di una chat-line di Internet. In cosa questo tipo di comunicazione tra esseri umani differisce da quella che gli stessi soggetti potrebbero aver avuto seduti davanti a due fumanti caffè in un bar di periferia? La principale differenza tra le due situazioni è data dal fatto che nella comunicazione diretta in cui gli individui si trovano in un rapporto «faccia a faccia», essi sono coinvolti nel processo comunicativo nella loro totalità psico-fìsica e cioè sia con la mente che con il corpo. Nella comunicazione informatica transitano invece solo i messaggi mediati dall'attività razionalizzatrice della mente, mentre il corpo rimane sostanzialmente estraneo al processo o è presente solo attraverso i bizzarri surrogati rappresentati dagli smiles: facci-ne composte utilizzando i diversi caratteri della tastiera, utilizzate per indicare l'enfasi con cui si deve intendere il testo scritto o le emozioni provate da chi lo ha prodotto, per esempio: :-) per felicità, allegria, :-( per tristezza ecc. La situazione del dialogo via Internet ci pare un efficace esempio da cui partire per introdurre una prima e fondamentale diffe- renziazione tra le modalità attraverso cui si esprime la comunicazione umana, e cioè quella che consente di distinguere tra messaggi analogici e messaggi «numerici» (in letteratura questi ultimi sono spesso definiti anche «digitali» - per esempio, Eco 1975 - ma abbiamo qui preferito utilizzare la prima definizione per evitare sovrapposizioni con il concetto di «digitale» riferito al tipo di codifica in uso nel settore informatico e dei nuovi media). Con il termine analogico si fa riferimento a quel tipo di segnali che contengono una qualche rappresentazione o immagine del significato a cui si riferiscono. Un disegno (segno iconico) è un esempio di messaggio analogico, ma lo è anche lo strusciare del gatto contro le gambe del padrone per reclamare la propria razione di bocconcini: egli sta, in effetti, mimando (rappresentando) il comportamento che, da cucciolo, faceva spingendo la testa contro la pancia della madre per invitarla a girarsi sul dorso e ad esporre così i capezzoli. Allo stesso modo, l'abbraccio con cui una madre accoglie il proprio bambino e lo stringe a sé trasmette un messaggio di rassicurante protezione proprio perché, analogicamente, si configura come un effettivo riparo contro eventuali aggressioni del mondo esterno. «Numerici» o simbolici sono invece quei messaggi che rimandano a un sistema simbolico codificato e formalizzato di segni, la cui relazione con il significato di cui sono portatori è del tutto arbitraria. Nella parola scritta «arrosto» (e nel relativo suono, quando pronunciata) non vi è nulla che ricordi l'immagine o il profumo di un pollo ben cucinato. Il motivo per cui, utilizzandola nel fare un'ordinazione al ristorante, ci viene effettivamente portata la pietanza che desideriamo, è spiegabile con il fatto che convenzionalmente gli esseri umani che condividono il nostro stesso linguaggio hanno stabilito che quell'insieme di lettere e fonemi debba corrispondere a quel tipo di pietanza (Watzlawick, Beavin, Jackson 1971). Gli esseri umani sono l'unica specie che riesce a comunicare con i propri simili sia attraverso i segnali analogici, sia attraverso un linguaggio simbolico-«numerico». La comunicazione analogica, presente anche nel regno animale, si è sviluppata in epoche piuttosto arcaiche dell'evoluzione, mentre il linguaggio è un prodotto notevolmente più recente e ha rappresentato, insieme all'acquisizione della statura eretta e dell'opposizione del pollice alle altre dita, una delle conquiste fondamentali del processo che ha portato alla comparsa dell'Homo sapiens. Nel riferirci agli oggetti, noi possiamo fornirne una qualche rappresentazione grafica, indicarli, cercare di rappresentarne la forma attraverso i gesti oppure, molto più efficacemente, nominarli. La superiorità di quest'ultima strategia per riferirsi a oggetti lontani nello spazio o a concetti astratti non ha certo bisogno di essere evidenziata: ciascuno di noi avrà sperimentato le difficoltà che si incontrano quando si cerca di comunicare ricorrendo al linguaggio gestuale con qualcuno che non parla la nostra lingua. Per contro, è anche a tutti noto come, talvolta, alcuni gesti o espressioni del viso possano essere più esplicativi, immediati e densi di significato di mille parole. Da quanto detto sarà chiaro come la comunicazione «numerica» sia quella veicolata dal linguaggio, mentre quella analogica o corporea si generi prevalentemente attraverso le azioni corporee e la modulazione della voce. Essa è in pratica «agita» per mezzo del corpo. Più in particolare, nella nostra specie i messaggi analogici possono essere prodotti attraverso: - gli atteggiamenti posturali - la mimica facciale - la gestualità - la gestione della distanza dagli altri (prossemica) - i segni paralinguistici (il tono e più in generale la modulazione della voce). Approfondiremo meglio più avanti le caratteristiche principali di ciascuno di questi canali comunicativi, mentre cercheremo subito di esaminare i rapporti che intercorrono tra comunicazione analogica e «numerica». Non prima, tuttavia, di aver introdotto il primo basilare principio della comunicazione umana, dietro la cui apparente semplicità si celano invece implicazioni estremamente feconde e complesse, tale principio è intuitivamente desumibile da un facile ragionamento: l'atto del comunicare (sia attraverso il linguaggio analogico sia per mezzo di quello numerico-simbolico) costituisce di fatto un comportamento. Dato che è impossibile che un sistema vivente (quindi anche un'organizzazione, un gruppo di persone o un'azienda) possa non avere un comportamento, ne consegue il principio secondo cui: non è possibile non comunicare (Watzlawick, Beavin, Jackson 1971). La semplice presenza fisica di un soggetto all'interno di un certo contesto rappresenta, di fatto, un comportamento e ha quindi un effetto comunicativo: quando un essere umano rientra all'interno del fuoco percettivo di un suo simile non può non trasmettere un qualche tipo di messaggio, e quindi comunicare. Potrà non rivolgergli la parola, evitarne il contatto oculare, farsi «piccolo piccolo» e occupare un minimo di spazio per passare inosservato ecc.; ma anche così comunicherà inesorabilmente qualcosa (per esempio, che non vuole parlare e desidera passare inosservato); la sua stessa fisicità è interpretabile come un segno il cui significato minimo è appunto quello di «esserci», occupando un posto nello spazio. Sulla base di questo principio è possibile comprendere come in un normale scambio comunicativo tra due o più persone, di tipo diretto (o «faccia a faccia», e cioè nel quale i partecipanti sono fisicamente presenti nello stesso contesto situazionale, e non si scambiano messaggi attraverso qualche tipo di media), gli individui utilizzino sempre sia il linguaggio «numerico» sia quello analogico. I due tipi di linguaggio tendono costantemente a integrarsi in un gioco di reciproca complementarietà. In ogni situazione comunicativa «faccia a faccia» ciascuno di noi si trova - più o meno consapevolmente - a emettere una grande quantità di segnali analogici che accompagnano, integrano o sostituiscono quelli linguistici in un flusso «multi-codice» e «multi-canale», diversamente armonioso e coerente a seconda delle circostanze e, come vedremo, degli stati emozionali che la situazione comunicativa stessa viene a generare. Gli studi etologici hanno mostrato come la maggior parte dei messaggi che gli animali si scambiano tra loro (per esempio, marcatori del territorio, richiami amorosi, atteggiamenti di sottomissione o supremazia ecc.) non sono finalizzati a trasferire contenuti informativi rispetto a stati del mondo, quanto piuttosto a definire la natura delle relazioni tra gli «attori in gioco». Ritornando all'esempio del gattino che si struscia contro le gambe della padrona, ciò che esso effettivamente sta significando non è tanto «vorrei del latte» (pensiero astratto che sottenderebbe un'intenzionalità verso stati del mondo), quanto piuttosto «fammi da mamma» (ricerca di una relazione). Analogamente, il lupo che, sconfitto in un duello con il capobranco, porge il collo al vincitore e se ne va con la coda tra le gambe, sta riconoscendo la superiorità dell'avversario e, mostrandosi sottomesso, ne afferma e sancisce il diritto alla dominanza. La comunicazione ana- logica tra gli animali è dunque principalmente finalizzata a mediare contenuti relazionali, e si ritiene che accada la stessa cosa anche per la specie umana. In ogni concreto processo comunicativo di tipo in-terpersonale «faccia a faccia» è quindi sempre possibile distinguere tra un piano del contenuto e un piano della relazione. Al primo livello vengono veicolati, prevalentemente attraverso il canale verbale e il codice simbolico, i contenuti manifesti della conversazione che corrispondono ai concetti direttamente desumibili dall'insieme delle frasi pronunciate dal soggetto. Attraverso i segnali analogici con cui si sostanzia il piano della relazione transitano invece i significati relazionali, una sorta di «istruzioni per l'uso» che il parlante fornisce, più o meno consapevolmente, ai suoi interlocutori. Grazie a queste «istruzioni» essi possono comprendere meglio come interpretare i contenuti recepiti sul piano verbale, ma anche il modo in cui il parlante si relaziona con loro, l'immagine di sé che vuole proporre e l'idea che ha della situazione comunicativa che sta avendo luogo. In pratica, mentre il piano del contenuto trasferisce le informazioni da un soggetto a un altro, il piano della relazione veicola informazioni sulle informazioni. Immaginiamo la situazione in cui un ragazzo invita a cena una ragazza con cui sta iniziando una storia. La ragazza può rispondere come nello schema a pagina seguente. Per quanto tutte e tre queste risposte siano identiche sul piano del contenuto manifesto (trattandosi della stessa frase ripetuta tre volte), esse divergono totalmente per quanto riguarda i reali significati che veicolano e gli effetti di senso che sono in grado di generare; più o meno chiunque sarebbe in grado di riconoscere che cosa volesse effettivamente dire la ragazza nei tre esempi sopra riportati. Ciascuno di noi è, infatti, perfettamente in grado di percepire e interpretare i messaggi analogici che ci provengono dai membri della nostra stessa specie. Questa nostra competenza, tuttavia, è in larga parte scarsamente sistematizzata sul piano della coscienza. Infatti, essa passa prevalentemente attraverso meccanismi percettivi che non necessitano di un grosso intervento interpretativo cosciente. I segnali della rabbia o dell'aggressività che un nostro interlocutore sta manifestando, per esempio, vengono colti a livello di sensibilità «epidermica» prima ancora che diventino oggetto della nostra consapevolezza. In termini più generali, si può dire che la nostra capacità di percepire i segnali analogici a livello cosciente è legata alla coerenza Piano del contenuto Piano della relazione Significati veicolati Linguaggio verbale Segni paralinguistici Segnali analogici Effetti di senso ________________________________________________________________________________ No,grazie, ho già un Impegno. No, grazie, ho già un impegno. Tono della voce basso e profondo,suono langiudo con note di sincero dispiacere Sono davvero dspiaciuta di non poter venire spero me lo chiederai ancora con cui questi Intenso contatto oculare pupilla dilatata,corpo e testa protesi in avanti verso l’alto. Tono secco e deciso; Contatto oculare ini- Sono decisamente voce alterata nell'intensità e leggermente zialmente intenso ma interrotto brusca- arrabbiata con te. Credi di potermi ge- tremolante (segnale mente mentre con stire come vuoi, ma d'ira). una torsione del col- non ci casco. Non lo e poi di tutto il cor- credo che la nostra po, si allontana senza relazione abbia mol- aggiungere altro. te speranze. Volto arrossato, pupille strette. No, grazie, ho già un Accentuazione tona- Movimenti della testa Voglio farti ingelosi- impegno. le e prolungamento della parola «impe- e mimica facciale enfatizzati nel pronun- re: non sei il solo che mi invita a cena e per gno». Suono della ciare la parola «impe- stasera ho preferito voce mellifluo che la- gno», con corruga- accettare l'invito di mento della fronte, qualcun altro. scia immaginare molto più di quanto non sguardo laterale e venga detto sul piano verso l'alto, leggera del contenuto. torsione della testa e innalzamento della spalla in direzione dello sguardo. accompagnano e si integrano con quanto espresso sul piano del contenuto dalla persona che ci è di fronte. Se il linguaggio corporeo accompagna sintonicamente quanto viene detto a livello verbale, la dinamica della relazione si rivela positiva e la nostra attenzione finisce per essere quasi totalmente focalizzata sugli aspetti di contenuto. Gli abili oratori sono coloro i quali, riuscendo a gestire al meglio e in maniera armonica i segnali che emettono sui vari piani, riescono a catalizzare tutta l'attenzione del pubblico non su di sé, ma su ciò che stanno dicendo. Viceversa, quando la nostra sensibilità ai segnali analogici - che rimane sempre attiva seppure a scarsi livelli di consapevolezza - coglie elementi di distonia o incoerenza tra quanto affermato a livello di contenuto manifesto e quanto invece lasciato trasparire attraverso i segnali analogici, allora la nostra attenzione tende a focalizzarsi maggiormente proprio sugli aspetti di relazione e i nostri sistemi difensivi ci mettono all'erta sul fatto che qualcosa nella comunicazione non sta funzionando. «Chi ci sta parlando non è sincero? Cerca di ingannarmi? Oppure sta per perdere le staffe? Come posso difendermi da una sua eventuale reazione violenta?». Questi sono alcuni degli interrogativi che, più o meno consapevolmente, ci poniamo quando la qualità della comunicazione in cui siamo impegnati si deteriora, e gli indicatori metacomunicativi ci allertano rispetto alle effettive intenzioni del nostro interlocutore. E facile comprendere che i nostri processi di pensiero, occupati dalla necessità di dare risposta a simili interrogativi, non potranno più focalizzarsi totalmente su quanto ci viene detto a livello verbale. Si parla in questo caso di nebbia psicologica, a suggerire l'immagine di una specie di velo che viene a porsi tra noi e chi ci sta parlando, e offusca sia la possibilità di una comunicazione efficace sia la produzione di un vero scambio di informazioni (Birkenbihc 1990). Per fare ancora un esempio, quando parliamo con qualcuno non ci preoccupiamo troppo di dove questi pone gli occhi, o del tipo di postura che assume. O almeno, non ce ne preoccupiamo a livello di coscienza. In realtà il nostro sistema di controllo subcosciente della comunicazione analogica «monitora» costantemente cosa sta succedendo su questo piano e ci avverte quando qualcosa non quadra. Se parliamo di cose personali con una persona da cui cerchiamo conforto e questa getta costantemente delle occhiate dietro le nostre spalle o all'orologio, immediatamente diverremo consapevoli di questi suoi messaggi analogici di feedback e, nonostante le sue eventuali rassicurazioni contrarie, metteremo in forte dubbio la sincerità della sua disponibilità ad ascoltarci 3.2.1 canali della comunicazione non verbale 3.2.1. La mimica facciale La faccia è certamente il più importante canale della nostra espressività, nonché il principale fuoco attenzionale della percezione altrui nelle interazioni dirette, e con cui vengono veicolati messaggi di differente natura e a diversi livelli di consapevolezza: si pensi ai segnali involontari e difficilmente controllabili come il dilatarsi delle pupille, i cambiamenti di colore dell'epidermide (l'impallidire e l'arrossire), lo schiudersi della bocca in un sorriso di piacere o in una smorfia di dolore. La complessità e ricchezza delle possibilità mimiche e segnaletiche del volto umano, straordinariamente ricco di strutture nervose e muscolari, ha indotto i ricercatori a riconoscervi tre distinte aree: la regione frontale; la parte mediana, comprendente la configurazione complessiva (Gestalt) naso, occhi; la parte inferiore, comprendente la bocca e la mascella. Prima ancora che attraverso la mimica più o meno volontaria, la conformazione stessa dei lineamenti del viso e della testa rappresenta un insieme di segnali efficaci, per quanto involontari. Vi sono volti armonici che affascinano, altri rotondi e/o paffuti che stimolano bonarietà e simpatia, altri ancora spigolosi e asimmetrici che suggeriscono antipatia e scarsa rassicurazione. In passato, alcune discipline pseudo-scientifiche come la frenologia e la fisiognomica cercavano di trovare collegamenti significativi tra i tratti caratteriali e la conformazione fisica della testa e del volto degli individui; gli esiti più grotteschi di tali tentativi possono essere osservati nella teoria di Cesare Lombroso sui tratti criminali. Tuttavia, al di là di tali forzature è possibile spiegare il motivo per cui certi volti riescono a trasmettere segnali più amichevoli e attraenti di altri. All'origine di tale fenomeno vi è la sensibilità che gli esseri umani, così come i membri di molte altre specie animali, mostrano nei confronti dei tratti infantili. Con tale termine si fa riferimento a quell'insieme di elementi che caratterizzano la conformazione corporea e i lineamenti che i cuccioli delle diverse specie mostrano alla nascita e nelle prime fasi del loro sviluppo. Tra questi possiamo ricordare la sproporzione della testa rispetto al corpo, gli occhi grandi e tondeggianti, la fronte sporgente, il naso e il mento piccoli, i lineamenti morbidi e arrotondati. Tanto i pulcini quanto i cuccioli dei quadrupedi e degli esseri umani condividono alla nascita questi tratti, e gli adulti delle diverse specie sembrano geneticamente programmati per reagire istintivamente in senso protettivo e accuditivo quando si trovano di fronte a tali tratti. Il fatto che anche nella specie umana questo tipo di lineamenti tenda a generare tenerezza e simpatia è stato efficacemente utilizzato da molti disegnatori di cartoons e fumetti: si pensi, per esempio, ai personaggi di Walt Disney. Per questo tipo di sensibilità innata, anche negli adulti gli elementi che ricordano i tratti infantili tendono a essere percepiti come più piacevoli e rassicuranti di quelli che invece se ne allontanano in maniera sensibile. Da questo punto di vista, per esempio, le grandi dimensioni della mascella, che per natura risulta mediamente più pronunciata nell'uomo che nella donna, sono percepite come associate alla carica di virilità e aggressività del soggetto e conferiscono a chi possiede tale tratto in modo troppo marcato un'espressione poco rassicurante. Riguardo alla specificità della mimica facciale, ricordiamo innanzitutto il linguaggio degli sguardi, una delle forme principali attraverso cui gli individui prendono contatto gli uni con gli altri, come pure il mezzo attraverso cui essi si scambiano inviti, allusioni, promesse e rifiuti. La traccia ricavabile dai movimenti oculari può rivelare, meglio di ogni altro indicatore, l'effettiva coerenza tra le affermazioni esplicite sul piano verbale e le reali intenzioni/stati psicologici. E sono gli occhi («specchio dell'anima») a fornire indizi preziosi sugli stati affettivi dell'altro, sulla sua sincerità, sui suoi reali obiettivi. Non a caso si dice che due innamorati si riconoscano innanzitutto da come si guardano. Durante un rapporto amoroso nella sua fase nascente, i contatti oculari risultano mediamente più frequenti e prolungati di quanto non avvenga in altre fasi del rapporto o in altri tipi di relazioni e gli occhi tendono a risultare effettivamente più lucidi e brillanti del solito (aumento della produzione lacrimale), mentre le pupille tendono a dilatarsi. Tali effetti sono il risultato fisiologico della messa in circolo di ormoni connessi con il piacere e il rilassamento e vengono interpretati dall'osservatore esterno come seducenti segnali di apertura e disponibilità. Uno sguardo ben posizionato in avanti, aperto e stabile tende a veicolare negli altri un'immagine di sicurezza, disponibilità ed estroversione. Viceversa, uno sguardo sfuggente o rivolto verso il basso suggerirà un'immagine di insicurezza e introversione. La capacità di tenere lo sguardo fìsso negli occhi dell'interlocutore è associata all'energia psicofisica del soggetto, e più in generale alla sua forza. Non a caso, l'abbassare gli occhi è il primo segnale con cui i bambini manifestano il proprio senso di inadeguatezza quando vengono sgridati; allo stesso modo, riuscire a mantenere il contatto oculare con l'altro in una discussione è letto come un segnale di sfida e di ostentazione di sicurezza che veicola, sul piano analogico, il messaggio «non mi fai paura». Uno sguardo troppo insistente può invece rappresentare una vera e propria forma di violenza, configurandosi come una violazione dell'intimità altrui che suggerisce sfrontatezza e aggressività. Sul piano propriamente relazionale, quella oculare può dunque essere considerata come una vera e propria forma di contatto, con tutto ciò che ne consegue sul piano delle dinamiche intersoggettive. 3.2.2. Gli atteggiamenti pasturali Il modo con cui gli individui si muovono, occupano lo spazio e gestiscono il proprio corpo rappresenta una fonte costante di segnali analogici attraverso cui essi manifestano la propria personalità e i propri stati affettivi. La conformazione della struttura corporea è prevalentemente il risultato del patrimonio genetico; è altrettanto vero, tuttavia, che il corpo stesso è modellato dall'uso che ne facciamo e dalle posture che più frequentemente assumiamo. La postura ha inoltre a che fare con lo schema corporeo che ciascuno di noi possiede ed è quindi direttamente condizionata dai nostri atteggiamenti psichici interiori, che sono a loro volta influenzati dallo schema corporeo stesso. Se, dunque, tutti gli esseri umani sono in grado di stare in posizione eretta, non tutti lo fanno nello stesso modo. Gli elementi che, interagendo tra loro, consentono di assumere la postura eretta sono la dislocazione del peso lungo i vari tratti della colonna vertebrale e degli arti inferiori, e la maggiore o minore apertura della postura globalmente assunta in relazione alla posizione delle braccia. Per quanto concerne il primo elemento è evidente che i soggetti che riescono a distribuire correttamente i carichi sulle gambe assumendo conseguentemente una posizione rilassata e dritta vengono percepiti come individui sicuri di sé e aperti al mondo esterno. All’opposto, tenere la testa piegata verso il basso a coprire il collo, incassandola al contempo tra le spalle, veicola il messaggio analogico di un soggetto piuttosto introverso e remissivo, o che sta vivendo un'esperienza che gli fa avvertire «tutto il peso della vita sulle spalle». All'opposto, lo sbilanciamento all'indietro della testa,-caratteri-stico di chi, protendendo la parte anteriore del torace e arretrando il collo assume una posizione nella quale sembra sempre avere uno sguardo dall'alto verso il basso, suggerisce l'immagine di un'accentuata sicurezza e di un desiderio di dominanza che scade facilmente in supponenza. 3.2.3. La gestualità Anche per quanto riguarda la gestualità, la profondità dell'esperienza che ciascuno di noi ha al riguardo è sufficiente a cogliere la rilevanza di tale veicolo di comunicazione. Mentre parliamo, le nostre mani sono costantemente impegnate in movimenti più o meno ampi e veloci che accompagnano l'emissione vocale e i contenuti espressi a livello «numerico», accentuando certi passaggi, esplicitando stati emozionali interni, simulando oggetti e situazioni. L'intensità di tali movimenti varia naturalmente da individuo a individuo, ma è influenzata in maniera rilevante anche dalle pratiche culturali presenti presso i diversi gruppi umani. È noto come i popoli mediterranei abbiano una gestualità molto più ricca e articolata rispetto a quelli nordici, il cui esempio stereotipico è rappresentato dagli inglesi, famosi per la loro compostezza che a noi italiani appare talvolta freddezza e distacco. La gestualità, come del resto gli altri canali attraverso cui transitano segnali analogici, mostra una forte interconnessione e sintonia con il linguaggio verbale: precedendolo sul piano della storia della specie umana, non è stata annullata dal sorgere del linguaggio, ma piuttosto si è integrata in esso, diventandone elemento di supporto e rinforzo espressivo. Secondo recenti ricerche, il movimento delle mani faciliterebbe il recupero di contenuti mnemonici di tipo linguistico. Alcuni esperimenti mostrano come soggetti invitati a ricordare il nome di oggetti poco comuni o desueti tendano a farlo con molta maggiore facilità se hanno le mani libere di muoversi e di «simulare» la forma dell'oggetto in questione, mentre il compito si dimostra decisamente più difficile se sono costretti a tenere in mano una sbarra di ferro di un certo peso che impedisce loro una naturale gestualità. Sul piano analitico, si tende a distinguere la gestualità umana in base alla velocità e l’ampiezza dei gesti. Lo stesso tipo di movimento trasmette messaggi analogici diversi a seconda che sia effettuato in maniera lenta e ampia oppure rapida e contratta. In linea generale, i movimenti lenti e ampi rimandano un'impressione di sicurezza, capacità di controllo, autorevolezza e, se sono esasperati ma in maniera credibile, persine di solennità. Viceversa, una gestualità rapida e «minuta» suggerisce un'immagine di vivacità, velocità di pensiero ma anche, oltre certi limiti, di eccitazione e inquietudine. Come corollario generale, se la gestualità dell'altro è intensa ed evidente si tende a ritenere il soggetto molto attivo sul piano affet- tivo ed emozionale. Non a caso le discussioni animate sono accompagnate da un'intensa attività gesticolatoria che tende a generare un effetto di rinforzo, «riscaldando» progressivamente la situazione. Sul piano del significato la gestualità presenta più livelli di costruzione e articolazione. A un primo livello abbiamo i movimenti spontanei delle mani e delle braccia di cui abbiamo parlato sin qui, il cui significato è connesso principalmente con l'espressione degli stati emozionali interni. Su un piano più articolato, ma integrato al precedente, vi sono invece alcuni gesti che hanno un vero e proprio valore segnico codificato sul piano culturale (è il caso, per esempio, delle due dita a «V» che, a seconda dei contesti, indicano «vittoria» piuttosto che «ho bisogno di una toilette»). Vi sono infine veri e propri linguaggi simbolici artificiali costruiti attraverso l'uso della gestualità, come quelli sviluppati per consentire ai sordomuti di esprimersi. Tali esempi specialistici, formalizzati e standardizzati, non sono ovviamente naturali e richiedono un certo periodo di apprendimento ma, andando ben oltre le capacità comunicative del linguaggio gestuale naturale, consentono alle persone svantaggiate una vita di relazione ricca e profonda. 3.2.4. La prossemica Con il termine prossemica (che letteralmente significa «linguaggio della prossimità») si intende quell'insieme di regole e strategie comportamentali in base alle quali gli individui agiscono e gestiscono lo spazio che li circonda quando si trovano in presenza dei propri simili. Il comportamento finalizzato a tenere alla dovuta distanza gli altri membri della propria specie è comune a quasi tutti gli animali superiori, e ha a che fare sia con la territorialità sia, nel caso degli animali sociali, con il rispetto delle gerarchie all'interno del gruppo. Nei primati, il maschio dominante è l'unico che può avvicinarsi alle femmine adulte, mentre i giovani sono relegati in posizioni spaziali periferiche. Allo stesso modo, gli esemplari di uno stormo di uccelli posatosi sui fili della luce tendono a mantenere una distanza l'uno dall'altro che pare calcolata al centimetro. Anche gli esseri umani si dimostrano estremamente sensibili all’uso che dello spazio fanno i propri simili e ai messaggi relazionali che tale uso veicola. Per comprendere queste dinamiche, si usa tradizionalmente visualizzare lo spazio prossemico all'interno del quale si muovono gli individui come costituito da sfere virtuali concentriche, di natura «psico-relazionale», aventi come centro il corpo. Seguendo questo schema, possiamo riconoscere nel primo livello, il più prossimo al corpo, lo spazio intimo. Tale spazio, partendo e comprendendo la superficie corporea, si estende fino a circa 40-50 centimetri da essa, più o meno la distanza di mezzo braccio. Questa prima sfera relazionale non a caso definita intima - è quella maggiormente carica di valenze affettive e psicologiche. Configurandosi quasi come un'estensione della nostra pelle, o meglio, come una seconda epidermide di natura socio-relazionale, quello intimo è lo spazio minimo di cui un individuo ha bisogno per potersi sentire al sicuro. Solo le persone di cui ci fidiamo ciecamente possono accedere alla nostra sfera intima senza che questa ci appaia come una minaccia. All'interno di tale spazio il soggetto si sente protetto e quindi cerca in ogni modo, più o meno consapevolmente, di assicurarsi che non venga invaso da altri individui senza un suo esplicito o tacito consenso. La zona intima può essere considerata il territorio dell'affettività, all'interno del quale ciascuno di noi è sovrano. L'accogliere l'altro nel proprio spazio intimo rimanda a una situazione relazionale carica di significati affettivi e/o eretico-sessuali; solo i nostri familiari più stretti (genitori, figli, fratelli) e il partner sono quindi legittimati a entrarvi. L'invasione dello spazio intimo da parte di soggetti non autorizzati viene vissuta istintivamente come una minaccia, se non come una vera e propria forma di violenza, e attiva tutta una serie di meccanismi di difesa sia di tipo fisiologico (scariche di ormoni attivatori che preparano il corpo a una reazione di attacco o di fuga), sia cosciente. Naturalmente la sensazione negativa connessa con la violazione dello spazio intimo è in genere commisurata all'intenzionalità ravvisata nel comportamento intrusivo e al suo concreto realizzarsi. Il disagio di chi utilizza una metropolitana affollata, dove i corpi sono inevitabilmente schiacciati gli uni contro gli altri, è da ricondursi proprio a un riflesso fisiologico di difesa connesso con l'invasione del proprio spazio intimo. L'evidente non intenzionalità della situazione fa sì che il disagio sia in questo caso relativamente modesto. Ciononostante, in risposta ad esso gli individui si impegnano in complicati irrigidimenti del corpo finalizzati a evitare il contatto con gli altri o a far sì che questo sia comunque chiaramente percepito come non intenzionale. Un'altra circostanza in cui i soggetti sono spesso obbligati a invadere lo spazio intimo dell'altro si verifica in ascensore. L'imbarazzato silenzio che incombe non appena si sono esaurite le due o tre battute che il copione prevede («buongiorno», «a che piano?» ecc.), è il vissuto psicologico connesso all'anomalia prossemica di tale situazione. In genere, solo le persone intime si avvicinano così tanto l'una all'altra, per parlottare amichevolmente o per scambiarsi effusioni amorose. La risposta comportamentale a tale circostanza, nonostante qualche elemento di variabilità tra cultura e cultura, è in genere caratterizzata dalla regola non scritta di ignorare l'altro, evitandone accuratamente il contatto oculare (da cui il vagare degli occhi tra la punta delle scarpe, l'orologio e la spia luminosa che indica il piano raggiunto), quasi a miniare reciprocamente di essere soli e ristabilire in questo modo una virtuale normalità prossemica. Da queste forme minime e involontarie di invasione dello spazio intimo sino alle sue manifestazioni più violente, quali l'aggressione fisica e lo stupro, si dipana tutta una serie di situazioni relazionali concrete nelle quali la distanza che separa gli altri dal nostro spazio intimo viene costantemente monitorata e contrattata, seppure quasi sempre in modo scarsamente consapevole. Si pensi, per esempio, a come il progredire di una relazione tra due persone che si stanno innamorando sia contrassegnata dalle diverse tappe connesse all'avvicinamento alle rispettive intimità, e dai messaggi analogici che favoriscono tale processo. Fanno parte di questi scambi comunicazionali i contatti fintamente casuali con cui all'inizio di una storia ci si sfiora al fine di comprendere - dalla maggiore o minore rigidità di risposta - l'effettiva disponibilità dell'altro. Queste schermaglie, che solitamente procedono per tappe successive (il bacio, il petting, sino al rapporto sessuale completo), costituiscono la trama di un vero e proprio fraseggio amoroso condotto in gran parte attraverso i canali analogici del linguaggio corporeo. Allo stesso modo, l'inizio di una crisi sentimentale viene spesso avvertita prima a livello fisico (con sensazioni di fastidio in risposta agli approcci dell'altro e alla sua corporeità) e solo successivamente riconosciuta a livello cosciente. Da un punto di vista più strettamente sociologico, la gestione dello spazio intimo ha a che fare con la dislocazione del potere tra i vari membri del gruppo di riferimento. L'area della sfera intima risulta tanto più ampia quanto più elevata è la collocazione sociale del soggetto. Viceversa, la possibilità di invadere il territorio più prossimale dell'altro, anche indipendentemente dalla sua volontà, si configura come una chiara dimostrazione ed esercizio di potere. La madre che prende suo figlio sulle ginocchia nonostante questi abbia ormai 13 anni, o che gli accarezza amorevolmente i capelli in presenza di estranei nonostante il visibile disagio del ragazzo, costituisce un esempio di questa forma, a volte subdola, di abuso di potere. Box 1 Sfera intima e modi di dire I modi di dire, in quanto forme sedimentate della conoscenza sociale, sono molto indicativi circa il rapporto tra la qualità della relazione in-terpersonale e la prossimità psicologica rispetto alla propria zona intima. «Mi sta sempre addosso», o «Mi soffoca» si dice di una persona più presente di quanto non dovrebbe essere, tanto da risultare «invadente». «Non mi lascia spazio» è utilizzato invece per un partner o un collega di lavoro che non concedono sufficiente autonomia o libertà. Similmente, molti aggettivi dispregiativi sono costruiti a partire da sensazioni tattili e cinestesiche negative che si proverebbero nel caso di un contatto ravvicinato con i soggetti a cui le attribuiamo. È il caso di «viscido», «appiccicoso», «sfuggente». Le persone che ci sono antipati-che vengono spesso indicate attraverso il linguaggio con immagini che tendono a rappresentarle come elementi estranei e fastidiosi all'interno del nostro spazio intimo, se non addirittura in un contatto quanto mai ingombrante e doloroso con le nostre parti del corpo. È il caso di varie e colorite espressioni che non è il caso qui di riportare. A un secondo livello di prossimità dal corpo si estende la sfera personale, che inizia dove finisce lo spazio intimo e termina a circa un metro di distanza dal corpo. Si usa indicare tale area come quella entro cui si lasciano entrare le persone che hanno confidenza con noi e verso cui riponiamo una certa fiducia, ma non tanto da consentir loro di accedere al nostro spazio intimo. I familiari meno stretti, i veri amici e i colleghi verso i quali nutriamo sentimenti di affetto sono in genere i soggetti ammessi all'interno del nostro spazio personale. Anche per quanto riguarda la distanza personale vale la regola secondo cui quanto maggiore è la posizione sociale del soggetto, tanto più ampia è l'area personale di cui egli dispone. Più o meno dove finisce la sfera personale ha inizio quella sociale, che è la distanza alla quale percepiamo corretto tenere tutte le persone verso le quali non siamo coinvolti affettivamente, e quindi gli estranei ma anche i colleghi di lavoro, i conoscenti o le persone con cui ci capita casualmente di parlare. Anche in questo caso il superamento di questa distanza da parte di un soggetto non autorizzato genera fastidio e irritazione, che si traducono di solito in messaggi analogici di risposta e in comportamenti atti a ristabilire le giuste distanze, come per esempio: arretramenti, irrigidimento del corpo, cambiamenti del tono della voce, che tendono a farsi più duri e a manifestare una certa dose di aggressività (si pensi all'atteggiamento invadente di certi venditori ambulanti). Oltre lo spazio sociale si estende la zona pubblica, che è la distanza oltre la quale un soggetto parlante tende a tenere il proprio pubblico quando questo ha una certa consistenza numerica. È il caso dell’'insegnante che parla in aula, del conferenziere, dell'avvocato che tiene un'arringa ecc. Per quanto concerne le effettive dimensioni della sfera pubblica è possibile stabilirne approssimativamente l'inizio rispetto all'individuo, calcolabile in qualche metro. Molto più difficile è individuare il limite di tale sfera, dato che i moderni sistemi di amplificazione della voce e trasmissione mediatica dei suoni e delle immagini possono dilatarla praticamente all'infinito. Ampliando appena un poco la prospettiva, è facile rendersi conto del ruolo segnico e comunicazionale con cui utilizziamo gli oggetti al fine di renderli «marcatori territoriali». Come gli animali delimitano il proprio territorio attraverso varie modalità (tracce odorose prodotte con l'urina o attraverso specifiche ghiandole, oppure segni lasciati sulla corteccia degli alberi), così gli esseri umani utilizzano gli oggetti per occupare e delimitare gli spazi all'interno dei quali si trovano ad agire. Il taccuino lasciato sulla sedia nella pausa di una conferenza, o il cappotto sulla poltrona del cinema sono un chiaro e inequivocabile segno indicante una presa di possesso del posto, la cui mancanza di rispetto da parte di altri si traduce non di rado in veri e propri scontri verbali. Quanto siano importanti i segni della territorialità sia sul piano affettivo che su quello comunicativo, può essére ancor meglio evi- denziato ricordando come la stanza di un adolescente venga spesso «addobbata» con manifesti e oggetti di vario genere. Tali oggetti, molti dei quali caricati di significati simbolici e psicologici, rappresentano per certi versi dei prolungamenti esterni di un Sé in via di formazione, che ha ancora bisogno di ausili esterni per potersi riconoscere, riconfermare e consolidare. Questi elementi hanno, cioè, un ruolo comunicativo in primo luogo nei confronti del soggetto stesso, in quanto specchio delle sue passioni e dei suoi miti, o rappresentano momenti passati e dotati di valore dai quali non ci si vorrebbe mai separare. Ma hanno, evidentemente, anche un ruolo comunicativo nei confronti di coloro che vengono ammessi all'interno della stanza dell'adolescente. Spesso l'intera stanza è vissuta come un'estensione della zona intima e, come tale, viene protetta dalle potenziali violazioni esterne, soprattutto da parte dei genitori. Allo stesso modo, alcuni oggetti possono essere vissuti come estrofles-sioni della sfera intima: è il caso del diario (anche quello scolastico), la cui «apertura» da parte di persone non autorizzate viene vissuta dal proprietario come una vera e propria violazione del sé, mentre la concessione del «diritto di lettura» corrisponde a un'apertura all’altro della propria intimità in senso affettivo e amoroso. 3.2.5.7 I segnali paralinguistici Sono segni paralinguistici tutte quelle componenti della produzione vocale che concretamente danno forma al nostro modo di parlare: il tono della voce, il ritmo, l'uso delle pause e dei vocalizzi di iterazione. Per comprendere l'importanza di tale segni, basti pensare all'impressione di inquietante artificiosità che suscitano in noi le voci dei robot androidi nei film di fantascienza di qualche decennio fa. La loro freddezza e disumanità è data dalla mancanza di alcuni elementi paralinguistici (le variazioni tonali) e dall'uso distorto di altri (in particolare del ritmo). L'espressività verbale umana si attua attraverso una capacità, in larga parte inconsapevole, di gestione e modulazione sia dell'emissione vocale, sia del ritmo con cui i contenuti espressi vengono accompagnati e marcati sul piano affettivo. Nelle interazioni verbali, gli esseri umani adattano costantemente il tono della voce, l'intensità dell'emissione sonora e il ritmo del parlare in relazione ai diversi significati veicolati e allo stato emozionale suscitato dai contenuti stessi e dalla situazione. Contenuti allegri o tristi, situazioni rilassate o momenti carichi di tensione, si accompagnano e stimo- lano variazioni del tono di voce, dell'intensità e dell'uso delle pause decisamente diversi, e facilmente distinguibili anche dall'osservatore meno attento. I bambini, che sono molto sensibili ai messaggi analogici e non verbali, sono probabilmente i più abili a cogliere anche il minimo segno d'irritazione o di preoccupazione nella voce dei genitori. Ma anche per gli adulti le competenze inconsapevoli rispetto a tali segnali restano elevate. Si pensi a com'è difficile dire volontariamente una bugia, soprattutto per la necessità di utilizzare, in maniera consapevole e strategica, un tono di voce il più «naturale» possibile. Indice di insicurezza è anche l'incapacità di gestire le pause e i silenzi che si generano naturalmente nell'alternarsi dei turni di parola. Coloro che parlano molto velocemente, quasi senza respirare, e che in presenza di altri sono sempre alla ricerca di qualcosa da dire per sfuggire alla «caduta del silenzio», sono spesso soggetti ansiosi che cercano in questo modo di esorcizzare l'incapacità di ascoltare la propria interiorità; ma così facendo, proprio attraverso questo comportamento e i relativi segni paralinguistici, trasmettono a coloro che li circondano un diffuso senso di agitazione. L'utilizzo dei segni paralinguistici, come del resto tutta la comunicazione interpersonale in quanto azione situata, non è indipendente dal contesto entro cui si svolge la conversazione. Ciascuna occasione relazionale prevede e prescrive un determinato uso dei segni paralinguistici, e disattendere tali regole non scritte genera sanzioni sociali più o meno evidenti e intense. Ecco allora che, per esempio, a un oratore è richiesto di parlare con una certa intensità di voce (adatta a occupare la scena pubblica), a modulare il tono dell'eloquio in modo da enfatizzare i passaggi più interessanti e a focalizzare l'attenzione dei presenti sui concetti da ricordare: a tutti sarà capitato di assistere a conferenze o lezioni in cui l'oratore, per quanto bravo e preparato, utilizzava poco le variazioni tonali risultando terribilmente noioso in quanto, appunto, mono-tono. I segni di disinteresse, in genere espressi attraverso la comunicazione non verbale, che ben presto si diffondono nella sala in situazioni di questo tipo (sbadigli trattenuti, colpi di tosse, sguardi che vagano altrove o si perdono nel nulla ecc.), rappresentano di fatto una sanzione che il gruppo, più o meno consapevolmente, infligge all'oratore che non è in grado di catturare l'attenzione. 3.3 L’agire comunicativo In questo paragrafo cercheremo di vedere più da vicino come gli elementi basilari della comunicazione umana interagiscano nei concreti scambi comunicativi. Per semplicità prenderemo in esame il caso di un'interazione elementare nella quale sono coinvolte solo due persone, che comunque mette in luce l'estrema complessità delle dinamiche che vengono a crearsi. Immaginiamo, dunque, da una parte il soggetto A, caratterizzato da riferimenti culturali, atteggiamenti e dinamiche psicologiche e connotato da determinate caratteristiche fisiche (sesso, età, conformazione corporea, tratti del volto), abbigliamento, atteggiamenti posturali ecc.; dall'altra il soggetto B, con le sue specificità su ognuna di queste caratteristiche. Un terzo elemento è rappresentato dalla «scena» in cui si svolge l'incontro, cioè dal quadro di riferimento entro cui concretamente e simbolicamente si svolge la comunicazione. Definiamo la scena come il risultato dell'interagire di due aspetti fortemente in-terrelati, che solo a livello analitico possono essere tenuti separati: il contesto e la situazione. Per contesto intendiamo lo spazio concreto in cui si svolge un dato evento comunicativo, comprensivo delle relative componenti fisiche e ambientali quali, tra l'altro, le condizioni atmosferiche, la rumorosità del luogo, il suo affollamento, la distanza fisica tra i parlanti, la presenza di eventuali elementi di disturbo alla comunicazione ecc. Da questo punto di vista, per esempio, sarà diverso conversare comodamente seduti in un bar tranquillo e riservato piuttosto che in una metropolitana gremita e rumorosa. Le componenti dello spazio fisico, le strutture architettoniche, gli arredi e persine gli oggetti influenzano dunque i modi e le forme dell'interazione comunicativa. Riprendendo quanto già detto a proposito dell'uso segnaletico-territoriale degli oggetti, è evidente come un incontro con B, gestito da A all'interno del proprio ambiente di lavoro (per esempio, seduto su di una scrivania dirigenziale coperta di oggetti in uno spazioso e solenne ufficio di una grande azienda), assumerà una configurazione diversa da quello che potrebbe aver luogo se lo stesso scambio comunicativo si fosse verificato in casa di B o a una cena cui entrambi i soggetti erano invitati. La situazione, concettualmente più complessa, può essere definita come la risultante di una serie ài elementi e significati di carattere sociale, relazionale e psicologico che agiscono sull'evento comunicativo e di cui gli attori coinvolti sono consapevoli a livelli diversi di coscienza. Aspetto costitutivo delle situazioni è la loro natura relazionale: non esistono situazioni preesistenti ai soggetti che, interagendo, le generano (Mantovani 1995, p. 19). E, d'altra parte, ogni azione e quindi anche ogni processo comunicativo, non può che avvenire all’interno di un certo contesto situazionale. Si può quindi affermare che ogni azione comunicativa è un'azione situata. Ciò significa in primo luogo riconoscere l'orizzonte della significazione come l'ambiente elettivo all'interno del quale agiscono le nostre menti. Lotman (1985) definisce tale ambiente «semiosfera», intendendo «quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile la semiosi» (significazione). Esprimendo lo stesso tipo di concetto, Morin afferma che, così come le piante hanno generato l'ossigeno atmosferico indispensabile alla vita, allo stesso modo le culture umane hanno prodotto simboli, idee, miti divenuti indispensabili alla nostra vita di animali sociali generando in questo modo «un universo - noosfera - all'interno del quale le nostre menti abitano» (Morin 1991, cit. in Volli 1994, p. 263). Gli esseri umani entrano nel mondo all'interno di un certo contesto socio-culturale che fornisce loro gli strumenti simbolici e linguistici attraverso cui concettualizzare e comprendere la realtà. Tale universo simbolico è pervasivo rispetto alle possibilità di significazione degli individui, rappresentando contemporaneamente la risorsa primaria di riferimento per ogni possibile attività interpretativa e creativa, ma anche l'insuperabile «orizzonte degli eventi» oltre il quale non è consentito spingere la significazione. Dato, quindi, che le nostre menti «abitano all'interno della significazione», una situazione può essere pensata come un luogo specifico di questo spazio; una configurazione circoscritta e contestualizzata di significati aventi certe coordinate spazio-temporali e relazionali. Quindi, il soggetto A e il soggetto B, impegnati in un'esperienza comunicativa faccia a faccia, non si troveranno ad agire in un vuoto semiotico, ma saranno inevitabilmente inscritti in un sistema di significazione fatto di reciproche aspettative, convenzioni relazionali, sociali, culturali e linguistiche alle quali dovranno fare riferimento, sia pure per prenderne le distanze e cercare di affermare la propria originale soggettività. Da questo punto di vista, un modo per pensare la situazione è quello di immaginarla come «un repertorio di informazioni possibili, un immenso database» contenente innumerevoli risorse di significazione sull'evento all'interno del quale ci troviamo ad agire e a comunicare (Mantovani 1995, p. 19). Di tutte le innumerevoli implicazioni di senso che qualsiasi concreta circostanza potenzialmente offre, gli attori in essa impegnati selezionano e percepiscono solo quelle più direttamente rispondenti ai propri stati affettivi e ai propri attuali scopi. Immaginiamo A come una studentessa in fila a una mensa universitaria, e B come un ragazzo un po' sfrontato sempre in cerca d'avventure. Quest'ultimo, passandole vicino, nota che lei ha sottobraccio un testo di un esame che lui ha già sostenuto e, utilizzando il libro come pretesto, attacca discorso. Il contesto è quello affollato e un po' caotico di gente, suoni e odori di una mensa universitaria. Ma dal punto di vista delle possibilità situazionali, tale ambiente appare molto ricco e complesso. Basta immaginare gli innumerevoli punti di vista da cui questa stessa scena potrebbe essere percepita: il direttore della mensa, per esempio, noterebbe il lavoro svolto dai suoi sottoposti; lo studente in ritardo alla lezione coglierebbe le dinamiche e i tempi della fila; un tecnico impegnato nella verifica dei parametri di sicurezza nei luoghi di lavoro noterebbe l'adeguatezza o meno della struttura a un tale affollamento, e così via. Il ragazzo B ha invece ritagliato, dall'universo di tutti gli elementi portatori di significato presenti nel contesto, quella ragazza graziosa con il libro sottobraccio, e le molteplici possibilità situazionali di quello stesso ambiente si coagulano per lui nella percezione di una particolare interpretazione complessiva della situazione. Nello specifico, la situazione all'interno della quale egli percepisce di essere in quel momento è qualcosa del tipo «tentativo di primo approccio». Sintonizzatosi sulla lunghezza d'onda più appropriata a quella determinata situazione comunicativa e relazionale, il ragazzo utilizzerà un repertorio di atti comunicativi che gli sono suggeriti dai propri universi simbolici e comportamentali di riferimento. Analogamente, la ragazza reagirà alla situazione comunicativa faccia a faccia con il ragazzo partecipandovi in base ai propri scopi e all'interpretazione che essa darà a ciò che sta succedendo. Se non ha un compagno, oppure se percepisce nelle parole o nella comunicazione non verbale del ragazzo dei tratti di eccessiva aggressività o vol- garità, la sua impressione globale della situazione cambierà radicalmente, oscillando tra i due possibili estremi interpretativi «un piacevole incontro» oppure «uno scocciatore che mi importuna». Una situazione, dunque, è data da quel sottoinsieme di significati e risorse simboliche (rispetto agli innumerevoli possibili) che gli attori impegnati in un certo evento comunicativo attualizzano sulla base dei propri scopi. Ogni evento comunicativo e relazionale è, di fatto, un processo di natura sistemica, caratterizzato da proprietà non riconducibili alle caratteristiche delle sue singole componenti. Tali proprietà sono, infatti, il frutto del processo comunicativo stesso nel suo svolgersi all'interno di una situazione. Come suggeriscono alcune recenti teorie psicologiche di orientamento costruttivista, il comportamento del soggetto B non è ri-conducibile a una qualche sua realtà profonda e stabile nel tempo, quanto piuttosto alle circostanze situazionali e comunicative nelle quali egli, in quel determinato momento, è coinvolto; B metterà in gioco nella comunicazione solo quelle parti del Sé che quella specifica situazione e il comportamento percepito di A, nel loro concreto svilupparsi, tenderanno a stimolare in lui. I Sé situazionali messi in gioco dai soggetti comunicanti non sono cioè indipendenti dal contesto, ma ne rappresentano in larga misura un prodotto. E il contesto situazionale, per come viene interpretato dai partecipanti al processo comunicativo, ciò che suggerisce loro il ruolo sociale e psicologico che dovranno adottare, come pure il copione sulla cui base dovrebbe più o meno svolgersi l'incontro. È il tipo di situazione in cui il soggetto si percepisce inserito ciò che ne orienta i comportamenti e gli atteggiamenti mentali nei confronti degli altri, facendogli assumere le prescrizioni di ruolo che la cultura di riferimento prevede per quella data circostanza. Oltre alle prescrizioni di ruolo, la situazione fornisce anche indicazioni piuttosto precise riguardo alle modalità con cui dovrebbe svolgersi una storia canonica relativa a un certo tipo d'incontro interpersonale. Ciascuno di noi possiede, avendolo acquisito attraverso la socializzazione, un repertorio di situazioni possibili nelle quali potrà venirsi a trovare, e sarà consapevole del tipo di stile comportamentale e comunicativo adatto a ciascuna di esse. Nel caso dell'esempio sopra riportato, tanto il ragazzo che la ragazza hanno un'idea di massima di quale potrebbe essere la «storia» nella quale più o meno volontariamente si sono trovati coinvolti e del tipo di copione che dovranno «recitare». Box 2 I ruoli sociali Un ruolo sociale può essere pensato come l'insieme degli atteggiamenti e dei comportamenti che, all'interno di una certa cultura e di un determinato gruppo sociale, ci si attende da un individuo in relazione alla sua collocazione sociale e/o relazionale. Tutti gli atteggiamenti e i comportamenti non scritti ma comunque tacitamente attesi da un padre (per esempio, che sia affettuoso con i propri figli e dedichi loro del tempo, cerchi di proteggerli dai pericoli e sia capace di dialogare con loro in modo aperto ma allo stesso tempo educativo) sostanziano il ruolo riconosciuto a tale figura all'interno della società. L'uso sociologico del concetto di ruolo corrisponde molto da vicino a quello utilizzato nel linguaggio quotidiano in riferimento alla posizione occupata da un certo soggetto all'interno di una squadra sportiva. Giocare nel ruolo di terzino piuttosto che come ala esterna, significa di fatto orientare le proprie performance secondo le aspettative riposte dagli altri nei confronti di tale funzione, e il non conformarsi ad esse può tradursi nell'assegnazione a un altro ruolo, nei casi più fortunati, o nell'esclusione dalla squadra in quelli più probabili. Naturalmente ciascun individuo non è portatore di un unico ruolo, ma si muove all'interno di una pluralità di ruoli sulla cui base orienta il proprio comportamento, in relazione alle diverse occasioni in cui si trova coinvolto. Un soggetto maschio di 39 anni, per esempio, può essere al tempo stesso un docente universitario, un marito, un padre, ma anche un figlio, un componente di un'associazione di genitori e un difensore in una squadra di calcio di dilettanti. Utilizzando la metafora narrativa, potremmo affermare che il ruolo è dato dall'insieme delle storie legittimamente associate a una determinata collocazione sociale e relazionale. Essere adeguati al ruolo significa, in fondo, possedere il repertorio dei copioni e delle storie più appropriate a un certo ruolo ed essere in grado di utilizzarli correttamente quando si è chiamati dalla situazione a impersonare quella parte. E proprio nella necessità di passare da un ruolo a un altro, modulando nel giusto modo i diversi atteggiamenti, stili relazionali e comunicativi in sintonia con le diverse occasioni, è possibile riconoscere una fonte dello stress di cui oggi tutti sono più o meno vittime. In sintesi, ogni situazione comunicativa intenzionale è un'esperienza coinvolgente e situata. Coinvolgente, nel significato letterale del termine, significa che essa interessa l'individuo, più o meno coscientemente e profondamente, nella sua totalità psicologica e culturale, anche nel caso in cui l'interazione è minima. Anche un piccolo scambio di battute, purché intenzionale, più che un meccanismo riflesso è il concretizzarsi di un portato esperienziale che rimanda ai modelli culturali di un certo gruppo di riferimento, come pure ai tratti psicologici e valoriali dei soggetti che vi partecipano. L'insieme di questi fattori agisce e influenza sia i processi di produzione ed emissione dei messaggi comunicativi, sia quelli di ricezione e interpretazione degli stessi. Ciascun soggetto impegnato in un processo comunicativo percepirà le altre persone, i contenuti veicolati e la situazione stessa, attraverso i «filtri» psico-cognitivi, linguistici e culturali che la propria specifica collocazione esistenziale gli consente. E lo stesso faranno gli altri. Ma una comunicazione, come abbiamo visto, è sempre anche un'azione situata, dato che non può svolgersi se non in un certo spazio di significazione preesistente. Ed è un'azione situata che si svolge sotto forma di processo, in primo luogo per la dimensione temporale sequenziale entro la quale si svolge. Una conversazione, per esempio, è un «farsi nel tempo» che vede i soggetti impegnati prendere la parola secondo la regola dell'alternanza dei turni. Ma è un processo anche per una ragione più profonda. I contenuti espressi dal soggetto al proprio turno, così come i segnali che egli emetterà a livello di relazione, sono il risultato (oltre che della personalità globale del soggetto e delle caratteristiche della situazione, già ricordate) di come si è svolta la comunicazione sino a quel momento e costituiscono, al contempo, lo stimolo di riferimento a cui gli interlocutori reagiranno nel proseguimento della stessa. Decisivo a questo proposito è il concetto di feedback (letteralmente «effetto retroattivo di un messaggio o di un'azione su chi li ha promossi»). Ogni azione comunicativa percepita, per esempio, da B genera in lui una qualche forma, pur minimale, di reazione. Reazione che ha a sua volta una valenza comunicativo-informativa percepibile da A (l'emittente iniziale) e rappresenta appunto il feedback (un messaggio di ritorno) della sua azione comunicativa, che non può lasciarlo indifferente. E questo anche se, per esempio, il destinatario della prima mossa comunicativa (B) non fornisce alcuna risposta evidente. Il messaggio di feedback che A recepisce potrà essere, in questo caso: «B non mi ha sentito» oppure «B non vuole parlarmi, e mi ignora». I messaggi analogici che avranno accompagnato la «non risposta» di B sono in genere sufficienti per comprendere quale delle due alternative corrisponda effettivamente alle intenzioni di B. È evidente come tale processo si replichi continuamente a ogni presa di turno, e ogni messaggio emesso, tanto a livello di contenuto quanto di relazione, diventa un anello di una complessa catena di azioni e reazioni comunicative e interazionali. Attraverso tale «catena», i soggetti impegnati in una comunicazione si propongono, come abbiamo visto, da una parte di trasmettere informazioni e concetti (piano del contenuto), dall'altro, più o meno consapevolmente e strategicamente, di suggerire definizioni della situazione, del proprio ruolo (sociale e psicologico) e di quello degli altri individui impegnati nello scambio comunicativo. È attraverso questo continuo «farsi» relazionale che gli esseri umani, con i loro scambi comunicativi, costruiscono e contrattano costantemente definizioni del proprio sé e di quello altrui, situazioni, eventi e aspetti della realtà, in un processo che, pur svolgendosi a livello microsociale (interazione tra singoli individui e piccoli gruppi), ha effetti poderosi e sostanziali nella costruzione del mondo sociale. La comunicazione stessa, nel suo farsi processuale, contribuisce dunque a modificare la situazione percepita dai soggetti in essa coinvolti. Una conversazione amichevole e intima può trasformarsi progressivamente in un diverbio aperto nel momento in cui, per esempio, uno dei partecipanti si accorge che l'altro sta mentendo e si propone di ingannarlo per sottrargli del denaro. La situazione percepita dal soggetto tradito si è rapidamente trasformata sotto i suoi occhi nel corso e a causa della comunicazione stessa. La centralità che il ruolo dell’interpretazione assume nello strutturarsi della situazione configura un elemento fortemente problematizzante e cruciale dell'evento comunicativo: non necessariamente, infatti, le interpretazioni dei partecipanti a un certo scambio comunicativo coincidono. Potremmo, anzi, sostenere che esse non coincidono mai sino in fondo, per lo meno nella misura in cui a ciascun attore restano opachi gli stati mentali (affettivi e intenzionali) degli altri. Chiedersi qual era la «vera» situazione all'interno della quale un certo evento comunicativo si è svolto non ha evidentemente alcun senso, dato che non esiste alcuna entità denominabile «verità della situazione» relazionale. Nel mondo della significazione vale il detto secondo cui «di tutte le forme di realtà, la Verità è solo la più presuntuosa». Gli individui vivono, infatti, all'interno dei mondi generati dalle proprie interpretazioni ed è rispetto a tali mondi che agiscono, gioiscono e soffrono. Ciascun soggetto coinvolto in un processo comunicativo è, di fatto, necessariamente portatore di una propria prospettiva sul mondo e sulla situazione. Gran parte dei messaggi analogici e simbolici che gli esseri umani si scambiano sono proprio rivolti alla contrattazione delle diverse rappresentazioni, sia della situazione, sia dei ruoli che ciascun soggetto possiede e propone agli altri. Ogni comunicazione interpersonale è pensabile come un processo attraverso cui gli attori, più e oltre che scambiarsi informazioni, negoziano (in modo più o meno aperto e conflittuale) definizioni del mondo e della relazione che li lega. E tale gioco di contrattazione si attua sui diversi livelli su cui si sostanzia la soggettività degli individui, a partire da quelli più intrapsichici e profondi sino a quelli maggiormente connessi con le situazioni sociali e pubbliche. Per tornare ancora all'esempio del ragazzo e della ragazza alla mensa universitaria, il tipo di reazione di quest'ultima agli approcci di lui potrebbe essere condizionato da un suo vissuto emozionale che la fa sentire a disagio ogni volta che si trova in un luogo troppo affollato; come pure, su un piano più «superficiale», da una sua particolare sensibilità alle convenzioni sociali che le fa categoricamente rifiutare un approccio maschile in un ambiente dove tutti possono vedere le sue reazioni. Negli scambi comunicativi interpersonali vengono dunque negoziati i significati che, a vari livelli (psicologico, relazionale, sociale, pubblico), i soggetti colgono e interpretano nella situazione e negli altri. Vi sono vari modi attraverso cui le diverse prospettive teoriche che si sono occupate di comunicazione interpersonale hanno descritto questo processo di negoziazione. Secondo la teoria sistemica elaborata, tra gli altri, da Watzlawick e colleghi (1971), gli attori di uno scambio comunicativo possono interagire sulla base di due diverse modalità psico-relazionali: assumendo una posizione simmetrica oppure complementare. Nel caso di un'interazione diadica, si ha una relazione simmetrica quando entrambi i soggetti tendono a «rispecchiare» il modello relazionale proposto dall'altro e a minimizzare le possibili differenze. La relazione diventa invece complementare quando gli atteggiamenti comunicazionali assunti dai soggetti tendono a differenziarsi e uno dei due assume una posizione di supremazia e dominanza (posizione one-up) e l'altro quella di sottomissione/dipendenza (posizione one-down). Nessuna delle due situazioni relazionali è necessariamente migliore dell'altra, ma entrambe mostrano possibili aree problematiche e degenerazioni. Inoltre ciascun soggetto può passare, nell'ambito della stessa occasione comunicativa, da un ruolo a un altro in relazione al procedere della comunicazione stessa. Di solito sono migliori quelle relazioni che alternano frequentemente dinamiche simmetriche e complementari e in cui i soggetti agiscono, più o meno alternativamente, nelle due posizioni possibili della complementarietà. Senza entrare nel merito delle possibili patologie descritte da questo approccio, è evidente come in ogni situazione comunicativa le dinamiche relazionali simmetriche o complementari, come pure le due possibili posizioni di dominanza e sottomissione, sono costantemente messe alla prova e negoziate attraverso il processo comunicativo stesso. Quante volte, per esempio, ci è capitato di non voler accettare la proposta di dominanza di un nostro interlocutore e abbiamo fatto di tutto per dimostrare il nostro maggior valore su questo o quello specifico aspetto (atteggiamento simmetrico), in un gioco al rialzo sempre più scoperto e conflittuale? Riuscire ad essere in una posizione di dominanza o avere l'ultima parola in una relazione simmetrica corrisponde, sul piano strategico, a conquistare la possibilità di definire la situazione in relazione al proprio punto di vista e alle proprie aspettative, imponendola agli altri. Un altro modo per descrivere i processi di contrattazione presenti nella situazione comunicativa è quello proposto dall’ analisi transazionale. Tale approccio, sviluppato da Eric Berne (1986) si propone di esaminare gli scambi comunicativi (transazioni) a partire dagli stili psicologico-affettivi adottati dai partecipanti. Richiamandosi alla psicoanalisi freudiana, ma anche alla teoria sistemica sopra citata, l'analisi transazionale afferma che ogni rapporto co- municativo con l'altro, può essere condotto a partire da tre diversi possibili «stati dell'Io»: quello dell'«Io Genitore», quello dell'«Io Adulto» e quello dell'«Io Bambino». Nelle situazioni comunicative concrete ciascun individuo passa costantemente da uno stato dell’ Io a un altro, modificando coerentemente con essi, di solito inconsapevolmente, le forme del proprio interloquire e i messaggi veicolati attraverso il linguaggio non verbale. Dato che anche gli altri soggetti impegnati nel processo comunicativo possono agire sulla base dei tre diversi stati del loro Io, si generano in questo modo diverse possibili configurazioni relazionali. In ufficio un collega dice all'altro: «Uffa, non ne posso più di questa pratica! Facciamo una pausa caffè», e l'altro risponde: «No, preferisco finire questo lavoro: prima il dovere e poi il piacere». Il primo soggetto comunica attraverso il proprio «Io Bambino» (principio del piacere, desiderio di soddisfazione immediata del bisogno ecc.), mentre il secondo risponde ponendosi come un «Io Genitore» (valore morale e normativo). L'analisi transazionale descrive le caratteristiche, e gli eventuali elementi di disfunzionalità, delle diverse possibili configurazioni comunicative che possono determinarsi dall'intersezione dei diversi «Io» messi in gioco dagli individui nelle loro relazioni. Come si vede, anche questo modello mette in risalto la contrattazione costantemente attuata dai diversi soggetti per affermare il proprio stato dell'Io in relazione a quello altrui. Ma l'approccio che forse più diffusamente di altri si è soffermato sulle strategie dell'interazione comunicativa da un punto di vista psico-sociale è quello fondato da Erving Goffman (1969), noto come «modello drammaturgico». L'analisi di questo autore si indirizza proprio sulle strategie utilizzate dalle persone impegnate nelle comunicazioni faccia a faccia al fine di controllare e negoziare la definizione della situazione in rapporto ai propri scopi. Questi gravitano principalmente intorno alla necessità di gestire strategicamente la «rappresentazione» o «facciata» che l'individuo vuole (intenzionalmente o involontariamente) mostrare di sé nelle diverse occasioni relazionali e comunicative. Secondo Goffman, la facciata è in parte determinata dai tratti fisici ed espressivi, quali il sesso, l'età, la conformazione, la struttura corporea e i lineamenti del volto, il modo di parlare e di vestire ecc., che accompagnano l'individuo nel corso della propria esistenza. Ma essa è data anche dai comportamenti e dalle espressioni assunte dal soggetto in una data occasione relazionale per segnalare il tipo di ruolo che egli si propone di svolgere, suggerendo in questo modo una definizione della situazione e degli altri soggetti coinvolti in essa (facciata situazionale o maniera), In questo tipo di modello, l'obiettivo primario degli individui è quello di gestire e mantenere la facciata in relazione a esigenze di tipo psicologico, relazionale e sociale tra cui la necessità di garantire un certo livello di coerenza alla propria identità, il bisogno di integrazione con gli altri, il desiderio di essere apprezzati e stimati in modo da accedere ai diversi tipi di risorse socialmente distribuite (denaro, approvazione sociale ecc.). L'insieme di queste esigenze fa sì che, nei rapporti con gli altri, ciascuno si ponga costantemente l'obiettivo di gestire la propria facciata, in parte deliberatamente e in parte inconsapevolmente. E lo facciamo attraverso le impressioni che cerchiamo di suggerire di noi, del nostro modo di essere e del contesto situazionale in cui riteniamo di trovarci. Secondo Goffman, questi obiettivi sono perseguiti, sia attraverso le espressioni «assunte intenzionalmente», sia per mezzo di quelle «lasciate trasparire». Le prime corrispondono alla comunicazione veicolata attraverso il linguaggio verbale (piano del contenuto), ed è quella che l'individuo usa deliberatamente per generare negli altri gli effetti di senso che si è proposto in relazione ai propri obiettivi. L'espressione lasciata trasparire ha, invece, natura presumibilmente non intenzionale e corrisponde in larga misura ai messaggi emessi a livello di comunicazione analogica (piano della relazione). Gestendo, con diversi gradi di consapevolezza, le espressioni intenzionali e quelle lasciate trasparire, gli individui sono costantemente impegnati a «recitare» una certa parte all'interno di un gioco relazionale che può essere pensato come una vera e propria rappresentazione teatrale (da qui il termine di metafora drammaturgica). Per poter affrontare i ruoli nei quali, di volta in volta, gli individui si trovano impegnati, essi devono innanzitutto conoscere i copioni più appropriati per quel tipo di situazione e gli stili di «recitazione» richiesti. Ma devono anche procurarsi gli «attrezzi del mestiere» e gli abiti di scena indispensabili a una certa messa in scena. Fanno parte di questi «abiti di scena», per esempio, tanto le «divise» caratteristiche di molte professioni, quanto, più in generale, il modo di abbigliarsi ritenuto consono per le diverse figure sociali e professionali. Un professore universitario di una certa età, impegnato in un impor- tante convegno, desterebbe qualche perplessità se fosse abbigliato come un ragazzine; mentre se in ospedale ci si avvicinasse un signore e ci parlasse della patologia di una persona cara ricoverata in quel reparto, noi non lo riconosceremmo come medico se non indossasse un camice o un qualche segno di identificazione. La metafora drammaturgica proposta da Goffman ci mostra, in pratica, che anche l'abbigliamento, gli accessori, l'arredo e il modo stesso di gestire lo spazio entro cui si svolge una relazione comunicativa vengono utilizzati dagli individui e dai gruppi come ausili per la definizione e contrattazione della situazione. È importante sottolineare come tutte le proposte teoriche qui brevemente riportate concordino nel riconoscere la straordinaria complessità della comunicazione interpersonale e delle dinamiche che la sostanziano. Anche un piccolo evento comunicativo faccia a faccia è in realtà una situazione altamente complessa, composta da elementi di significazione/interpretazione che coinvolgono l'individuo nella sua totalità psicologica, relazionale e culturale. Ogni piccolo evento relazionale ingloba dentro di sé una certa dose di conflitto, più o meno apertamente guerreggiato, la cui posta in palio è rappresentata dalla possibilità, da parte dei partecipanti, di definire la situazione e i rispettivi ruoli. Ogni minimo evento comunicativo, d'altro canto, rappresenta un'occasione in cui i significati condivisi, sui quali si fonda la possibilità stessa di organizzazione sociale, vengono costantemente riscoperti, rielaborati e riconfermati. Letture consigliate Birkenbihc V.F., Segnali del corpo, Angeli, Milano 1990. Dennet D., La mente e le Menti. Verso la comprensione della coscienza, Sansoni, Milano 1997. Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, II Mulino, Bologna 1969. Mantovani G., Comunicazione e identità, II Mulino, Bologna 1995. Morris D., Il comportamento intimo, Mondadori, Milano 1972. Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971.