La comunicazione interpersonale

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La comunicazione interpersonale
La comunicazione interpersonale
3.1. Messaggi analogici e codici simbolici
II ritmico rumore di una tastiera fa da sottofondo al veloce comparire di parole e frasi sul monitor di
un computer. Una pausa, seguita subito da un suono solo di poco più sordo, lascia immaginare che
sia stato «cliccato» il tasto «invio». Qualche attimo di attesa e nello schermo azzurregnolo si
materializzano altre parole e frasi in risposta alle precedenti, in un dialogo mai effettivamente
pronunciato: due persone, divise solo da qualche parete o da migliaia di chilometri di cavi, stanno
scambiandosi messaggi all'interno di una chat-line di Internet.
In cosa questo tipo di comunicazione tra esseri umani differisce da quella che gli stessi soggetti
potrebbero aver avuto seduti davanti a due fumanti caffè in un bar di periferia?
La principale differenza tra le due situazioni è data dal fatto che nella comunicazione diretta in cui
gli individui si trovano in un rapporto «faccia a faccia», essi sono coinvolti nel processo comunicativo nella loro totalità psico-fìsica e cioè sia con la mente che con il corpo. Nella comunicazione
informatica transitano invece solo i messaggi mediati dall'attività razionalizzatrice della mente,
mentre il corpo rimane sostanzialmente estraneo al processo o è presente solo attraverso i bizzarri
surrogati rappresentati dagli smiles: facci-ne composte utilizzando i diversi caratteri della tastiera,
utilizzate per indicare l'enfasi con cui si deve intendere il testo scritto o le emozioni provate da chi
lo ha prodotto, per esempio: :-) per felicità, allegria, :-( per tristezza ecc.
La situazione del dialogo via Internet ci pare un efficace esempio da cui partire per introdurre una
prima e fondamentale diffe-
renziazione tra le modalità attraverso cui si esprime la comunicazione umana, e cioè quella che
consente di distinguere tra messaggi analogici e messaggi «numerici» (in letteratura questi ultimi
sono spesso definiti anche «digitali» - per esempio, Eco 1975 - ma abbiamo qui preferito utilizzare
la prima definizione per evitare sovrapposizioni con il concetto di «digitale» riferito al tipo di
codifica in uso nel settore informatico e dei nuovi media).
Con il termine analogico si fa riferimento a quel tipo di segnali che contengono una qualche
rappresentazione o immagine del significato a cui si riferiscono. Un disegno (segno iconico) è un
esempio di messaggio analogico, ma lo è anche lo strusciare del gatto contro le gambe del padrone
per reclamare la propria razione di bocconcini: egli sta, in effetti, mimando (rappresentando) il comportamento che, da cucciolo, faceva spingendo la testa contro la pancia della madre per invitarla a
girarsi sul dorso e ad esporre così i capezzoli. Allo stesso modo, l'abbraccio con cui una madre accoglie il proprio bambino e lo stringe a sé trasmette un messaggio di rassicurante protezione proprio
perché, analogicamente, si configura come un effettivo riparo contro eventuali aggressioni del
mondo esterno.
«Numerici» o simbolici sono invece quei messaggi che rimandano a un sistema simbolico codificato
e formalizzato di segni, la cui relazione con il significato di cui sono portatori è del tutto arbitraria.
Nella parola scritta «arrosto» (e nel relativo suono, quando pronunciata) non vi è nulla che ricordi
l'immagine o il profumo di un pollo ben cucinato. Il motivo per cui, utilizzandola nel fare un'ordinazione al ristorante, ci viene effettivamente portata la pietanza che desideriamo, è spiegabile con
il fatto che convenzionalmente gli esseri umani che condividono il nostro stesso linguaggio hanno
stabilito che quell'insieme di lettere e fonemi debba corrispondere a quel tipo di pietanza
(Watzlawick, Beavin, Jackson 1971).
Gli esseri umani sono l'unica specie che riesce a comunicare con i propri simili sia attraverso i
segnali analogici, sia attraverso un linguaggio simbolico-«numerico». La comunicazione analogica,
presente anche nel regno animale, si è sviluppata in epoche piuttosto arcaiche dell'evoluzione,
mentre il linguaggio è un prodotto notevolmente più recente e ha rappresentato, insieme
all'acquisizione della statura eretta e dell'opposizione del pollice alle altre dita, una
delle conquiste fondamentali del processo che ha portato alla comparsa dell'Homo sapiens.
Nel riferirci agli oggetti, noi possiamo fornirne una qualche rappresentazione grafica, indicarli,
cercare di rappresentarne la forma attraverso i gesti oppure, molto più efficacemente, nominarli. La
superiorità di quest'ultima strategia per riferirsi a oggetti lontani nello spazio o a concetti astratti
non ha certo bisogno di essere evidenziata: ciascuno di noi avrà sperimentato le difficoltà che si incontrano quando si cerca di comunicare ricorrendo al linguaggio gestuale con qualcuno che non
parla la nostra lingua. Per contro, è anche a tutti noto come, talvolta, alcuni gesti o espressioni del
viso possano essere più esplicativi, immediati e densi di significato di mille parole.
Da quanto detto sarà chiaro come la comunicazione «numerica» sia quella veicolata dal linguaggio,
mentre quella analogica o corporea si generi prevalentemente attraverso le azioni corporee e la
modulazione della voce. Essa è in pratica «agita» per mezzo del corpo. Più in particolare, nella
nostra specie i messaggi analogici possono essere prodotti attraverso:
- gli atteggiamenti posturali
- la mimica facciale
- la gestualità
- la gestione della distanza dagli altri (prossemica)
- i segni paralinguistici (il tono e più in generale la modulazione della voce).
Approfondiremo meglio più avanti le caratteristiche principali di ciascuno di questi canali
comunicativi, mentre cercheremo subito di esaminare i rapporti che intercorrono tra comunicazione
analogica e «numerica». Non prima, tuttavia, di aver introdotto il primo basilare principio della
comunicazione umana, dietro la cui apparente semplicità si celano invece implicazioni
estremamente feconde e complesse, tale principio è intuitivamente desumibile da un facile
ragionamento: l'atto del comunicare (sia attraverso il linguaggio analogico sia per mezzo di quello
numerico-simbolico) costituisce di fatto un comportamento. Dato che è impossibile che un sistema
vivente (quindi anche un'organizzazione, un gruppo di persone o un'azienda) possa non avere un
comportamento, ne consegue il principio secondo cui: non è possibile non comunicare (Watzlawick, Beavin, Jackson 1971).
La semplice presenza fisica di un soggetto all'interno di un certo contesto rappresenta, di fatto, un
comportamento e ha quindi un effetto comunicativo: quando un essere umano rientra all'interno del
fuoco percettivo di un suo simile non può non trasmettere un qualche tipo di messaggio, e quindi
comunicare. Potrà non rivolgergli la parola, evitarne il contatto oculare, farsi «piccolo piccolo» e
occupare un minimo di spazio per passare inosservato ecc.; ma anche così comunicherà
inesorabilmente qualcosa (per esempio, che non vuole parlare e desidera passare inosservato); la sua
stessa fisicità è interpretabile come un segno il cui significato minimo è appunto quello di «esserci»,
occupando un posto nello spazio.
Sulla base di questo principio è possibile comprendere come in un normale scambio comunicativo
tra due o più persone, di tipo diretto (o «faccia a faccia», e cioè nel quale i partecipanti sono fisicamente presenti nello stesso contesto situazionale, e non si scambiano messaggi attraverso qualche
tipo di media), gli individui utilizzino sempre sia il linguaggio «numerico» sia quello analogico. I
due tipi di linguaggio tendono costantemente a integrarsi in un gioco di reciproca complementarietà.
In ogni situazione comunicativa «faccia a faccia» ciascuno di noi si trova - più o meno consapevolmente - a emettere una grande quantità di segnali analogici che accompagnano, integrano o
sostituiscono quelli linguistici in un flusso «multi-codice» e «multi-canale», diversamente
armonioso e coerente a seconda delle circostanze e, come vedremo, degli stati emozionali che la
situazione comunicativa stessa viene a generare.
Gli studi etologici hanno mostrato come la maggior parte dei messaggi che gli animali si scambiano
tra loro (per esempio, marcatori del territorio, richiami amorosi, atteggiamenti di sottomissione o
supremazia ecc.) non sono finalizzati a trasferire contenuti informativi rispetto a stati del mondo,
quanto piuttosto a definire la natura delle relazioni tra gli «attori in gioco». Ritornando all'esempio
del gattino che si struscia contro le gambe della padrona, ciò che esso effettivamente sta
significando non è tanto «vorrei del latte» (pensiero astratto che sottenderebbe un'intenzionalità
verso stati del mondo), quanto piuttosto «fammi da mamma» (ricerca di una relazione). Analogamente, il lupo che, sconfitto in un duello con il capobranco, porge il collo al vincitore e se ne va
con la coda tra le gambe, sta riconoscendo la superiorità dell'avversario e, mostrandosi sottomesso,
ne afferma e sancisce il diritto alla dominanza. La comunicazione ana-
logica tra gli animali è dunque principalmente finalizzata a mediare contenuti relazionali, e si ritiene
che accada la stessa cosa anche per la specie umana. In ogni concreto processo comunicativo di tipo
in-terpersonale «faccia a faccia» è quindi sempre possibile distinguere tra un piano del contenuto e
un piano della relazione.
Al primo livello vengono veicolati, prevalentemente attraverso il canale verbale e il codice
simbolico, i contenuti manifesti della conversazione che corrispondono ai concetti direttamente
desumibili dall'insieme delle frasi pronunciate dal soggetto.
Attraverso i segnali analogici con cui si sostanzia il piano della relazione transitano invece i
significati relazionali, una sorta di «istruzioni per l'uso» che il parlante fornisce, più o meno
consapevolmente, ai suoi interlocutori. Grazie a queste «istruzioni» essi possono comprendere
meglio come interpretare i contenuti recepiti sul piano verbale, ma anche il modo in cui il parlante
si relaziona con loro, l'immagine di sé che vuole proporre e l'idea che ha della situazione comunicativa che sta avendo luogo. In pratica, mentre il piano del contenuto trasferisce le
informazioni da un soggetto a un altro, il piano della relazione veicola informazioni sulle
informazioni.
Immaginiamo la situazione in cui un ragazzo invita a cena una ragazza con cui sta iniziando una
storia. La ragazza può rispondere come nello schema a pagina seguente.
Per quanto tutte e tre queste risposte siano identiche sul piano del contenuto manifesto (trattandosi
della stessa frase ripetuta tre volte), esse divergono totalmente per quanto riguarda i reali significati
che veicolano e gli effetti di senso che sono in grado di generare; più o meno chiunque sarebbe in
grado di riconoscere che cosa volesse effettivamente dire la ragazza nei tre esempi sopra riportati.
Ciascuno di noi è, infatti, perfettamente in grado di percepire e interpretare i messaggi analogici che
ci provengono dai membri della nostra stessa specie. Questa nostra competenza, tuttavia, è in larga
parte scarsamente sistematizzata sul piano della coscienza. Infatti, essa passa prevalentemente
attraverso meccanismi percettivi che non necessitano di un grosso intervento interpretativo
cosciente. I segnali della rabbia o dell'aggressività che un nostro interlocutore sta manifestando, per
esempio, vengono colti a livello di sensibilità «epidermica» prima ancora che diventino oggetto
della nostra consapevolezza.
In termini più generali, si può dire che la nostra capacità di percepire i segnali analogici a livello
cosciente è legata alla coerenza
Piano del contenuto
Piano della relazione
Significati veicolati
Linguaggio verbale
Segni paralinguistici
Segnali analogici
Effetti di senso
________________________________________________________________________________
No,grazie, ho già un
Impegno.
No, grazie, ho già un
impegno.
Tono della voce
basso e profondo,suono
langiudo con note di
sincero dispiacere
Sono davvero
dspiaciuta di
non poter venire
spero me lo
chiederai ancora
con cui questi
Intenso contatto oculare
pupilla dilatata,corpo e
testa protesi in avanti
verso l’alto.
Tono secco e deciso;
Contatto oculare ini-
Sono
decisamente
voce alterata nell'intensità e leggermente
zialmente intenso ma
interrotto brusca-
arrabbiata con te.
Credi di potermi ge-
tremolante (segnale
mente mentre con
stire come vuoi, ma
d'ira).
una torsione del col-
non ci casco. Non
lo e poi di tutto il cor-
credo che la nostra
po, si allontana senza
relazione abbia mol-
aggiungere
altro.
te speranze.
Volto arrossato, pupille strette.
No, grazie, ho già un
Accentuazione tona-
Movimenti della testa
Voglio farti ingelosi-
impegno.
le e prolungamento
della parola «impe-
e mimica facciale enfatizzati nel pronun-
re: non sei il solo che
mi invita a cena e per
gno». Suono della
ciare la parola «impe-
stasera ho preferito
voce mellifluo che la-
gno», con corruga-
accettare l'invito di
mento della fronte,
qualcun altro.
scia immaginare molto più di quanto non
sguardo laterale
e
venga detto sul piano
verso l'alto, leggera
del contenuto.
torsione della testa e
innalzamento della
spalla in direzione
dello sguardo.
accompagnano e si integrano con quanto espresso sul piano del contenuto dalla persona che ci è di
fronte. Se il linguaggio corporeo accompagna sintonicamente quanto viene detto a livello verbale, la
dinamica della relazione si rivela positiva e la nostra attenzione finisce per essere quasi totalmente
focalizzata sugli aspetti di contenuto. Gli abili oratori sono coloro i quali, riuscendo a gestire al
meglio e in maniera armonica i segnali che emettono sui vari piani, riescono a catalizzare tutta
l'attenzione del pubblico non su di sé, ma su ciò che stanno dicendo.
Viceversa, quando la nostra sensibilità ai segnali analogici - che rimane sempre attiva seppure a
scarsi livelli di consapevolezza - coglie elementi di distonia o incoerenza tra quanto affermato a
livello di contenuto manifesto e quanto invece lasciato trasparire attraverso i segnali analogici,
allora la nostra attenzione tende a focalizzarsi maggiormente proprio sugli aspetti di relazione e i
nostri sistemi difensivi ci mettono all'erta sul fatto che qualcosa nella comunicazione non sta
funzionando. «Chi ci sta parlando non è sincero? Cerca di ingannarmi? Oppure sta per perdere le
staffe? Come posso difendermi da una sua eventuale reazione violenta?». Questi sono alcuni degli
interrogativi che, più o meno consapevolmente, ci poniamo quando la qualità della comunicazione
in cui siamo impegnati si deteriora, e gli indicatori metacomunicativi ci allertano rispetto alle
effettive intenzioni del nostro interlocutore. E facile comprendere che i nostri processi di pensiero,
occupati dalla necessità di dare risposta a simili interrogativi, non potranno più focalizzarsi
totalmente su quanto ci viene detto a livello verbale. Si parla in questo caso di nebbia psicologica, a
suggerire l'immagine di una specie di velo che viene a porsi tra noi e chi ci sta parlando, e offusca
sia la possibilità di una comunicazione efficace sia la produzione di un vero scambio di
informazioni (Birkenbihc 1990). Per fare ancora un esempio, quando parliamo con qualcuno non ci
preoccupiamo troppo di dove questi pone gli occhi, o del tipo di postura che assume. O almeno, non
ce ne preoccupiamo a livello di coscienza. In realtà il nostro sistema di controllo subcosciente della
comunicazione analogica «monitora» costantemente cosa sta succedendo su questo piano e ci
avverte quando qualcosa non quadra. Se parliamo di cose personali con una persona da cui cerchiamo conforto e questa getta costantemente delle occhiate dietro le nostre spalle o all'orologio,
immediatamente diverremo consapevoli di questi suoi messaggi analogici di feedback e, nonostante
le sue eventuali rassicurazioni contrarie, metteremo in forte dubbio la sincerità della sua
disponibilità ad ascoltarci
3.2.1 canali della comunicazione non verbale
3.2.1. La mimica facciale La faccia è certamente il più importante canale della nostra espressività,
nonché il principale fuoco attenzionale della percezione altrui nelle interazioni dirette, e con cui
vengono veicolati messaggi di differente natura e a diversi livelli di consapevolezza: si pensi ai
segnali involontari e difficilmente controllabili come il dilatarsi delle pupille, i cambiamenti di
colore dell'epidermide (l'impallidire e l'arrossire), lo schiudersi della bocca in un sorriso di piacere o
in una smorfia di dolore.
La complessità e ricchezza delle possibilità mimiche e segnaletiche del volto umano,
straordinariamente ricco di strutture nervose e muscolari, ha indotto i ricercatori a riconoscervi tre
distinte aree: la regione frontale; la parte mediana, comprendente la configurazione complessiva
(Gestalt) naso, occhi; la parte inferiore, comprendente la bocca e la mascella. Prima ancora che
attraverso la mimica più o meno volontaria, la conformazione stessa dei lineamenti del viso e della
testa rappresenta un insieme di segnali efficaci, per quanto involontari. Vi sono volti armonici che
affascinano, altri rotondi e/o paffuti che stimolano bonarietà e simpatia, altri ancora spigolosi e
asimmetrici che suggeriscono antipatia e scarsa rassicurazione.
In passato, alcune discipline pseudo-scientifiche come la frenologia e la fisiognomica cercavano di
trovare collegamenti significativi tra i tratti caratteriali e la conformazione fisica della testa e del
volto degli individui; gli esiti più grotteschi di tali tentativi possono essere osservati nella teoria di
Cesare Lombroso sui tratti criminali. Tuttavia, al di là di tali forzature è possibile spiegare il motivo
per cui certi volti riescono a trasmettere segnali più amichevoli e attraenti di altri. All'origine di tale
fenomeno vi è la sensibilità che gli esseri umani, così come i membri di molte altre specie animali,
mostrano nei confronti dei tratti infantili. Con tale termine si fa riferimento a quell'insieme di
elementi che caratterizzano la conformazione corporea e i lineamenti che i cuccioli delle diverse
specie mostrano alla nascita e nelle prime fasi del loro sviluppo. Tra questi possiamo ricordare la
sproporzione della testa rispetto al corpo, gli occhi grandi e tondeggianti, la fronte sporgente, il naso
e il mento piccoli, i lineamenti morbidi e arrotondati. Tanto i pulcini quanto i cuccioli dei
quadrupedi e degli esseri umani condividono alla nascita questi tratti, e gli adulti delle diverse
specie sembrano geneticamente programmati per reagire istintivamente in senso protettivo e
accuditivo quando si trovano di fronte a tali tratti. Il fatto che anche nella specie umana questo tipo
di lineamenti tenda a generare tenerezza e simpatia è stato efficacemente utilizzato da molti
disegnatori di cartoons e fumetti: si pensi, per esempio, ai personaggi di Walt Disney.
Per questo tipo di sensibilità innata, anche negli adulti gli elementi che ricordano i tratti infantili
tendono a essere percepiti come più piacevoli e rassicuranti di quelli che invece se ne allontanano in
maniera sensibile. Da questo punto di vista, per esempio, le grandi dimensioni della mascella, che
per natura risulta mediamente più pronunciata nell'uomo che nella donna, sono percepite come
associate alla carica di virilità e aggressività del soggetto e conferiscono a chi possiede tale tratto in
modo troppo marcato un'espressione poco rassicurante.
Riguardo alla specificità della mimica facciale, ricordiamo innanzitutto il linguaggio degli sguardi,
una delle forme principali attraverso cui gli individui prendono contatto gli uni con gli altri, come
pure il mezzo attraverso cui essi si scambiano inviti, allusioni, promesse e rifiuti. La traccia
ricavabile dai movimenti oculari può rivelare, meglio di ogni altro indicatore, l'effettiva coerenza tra
le affermazioni esplicite sul piano verbale e le reali intenzioni/stati psicologici. E sono gli occhi
(«specchio dell'anima») a fornire indizi preziosi sugli stati affettivi dell'altro, sulla sua sincerità, sui
suoi reali obiettivi. Non a caso si dice che due innamorati si riconoscano innanzitutto da come si
guardano. Durante un rapporto amoroso nella sua fase nascente, i contatti oculari risultano
mediamente più frequenti e prolungati di quanto non avvenga in altre fasi del rapporto o in altri tipi
di relazioni e gli occhi tendono a risultare effettivamente più lucidi e brillanti del solito (aumento
della produzione lacrimale), mentre le pupille tendono a dilatarsi. Tali effetti sono il risultato
fisiologico della messa in circolo di ormoni connessi con il piacere e il rilassamento e vengono
interpretati dall'osservatore esterno come seducenti segnali di apertura e disponibilità. Uno sguardo
ben posizionato in avanti, aperto e stabile tende a veicolare negli altri un'immagine di sicurezza,
disponibilità ed estroversione. Viceversa, uno sguardo sfuggente o rivolto verso il basso suggerirà
un'immagine di insicurezza e introversione.
La capacità di tenere lo sguardo fìsso negli occhi dell'interlocutore è associata all'energia psicofisica
del soggetto, e più in generale alla sua forza. Non a caso, l'abbassare gli occhi è il primo segnale
con cui i bambini manifestano il proprio senso di inadeguatezza quando vengono sgridati; allo
stesso modo, riuscire a mantenere il contatto oculare con l'altro in una discussione è letto come un
segnale di sfida e di ostentazione di sicurezza che veicola, sul piano
analogico, il messaggio «non mi fai paura». Uno sguardo troppo insistente può invece rappresentare
una vera e propria forma di violenza, configurandosi come una violazione dell'intimità altrui che
suggerisce sfrontatezza e aggressività.
Sul piano propriamente relazionale, quella oculare può dunque essere considerata come una vera e
propria forma di contatto, con tutto ciò che ne consegue sul piano delle dinamiche intersoggettive.
3.2.2. Gli atteggiamenti pasturali Il modo con cui gli individui si muovono, occupano lo spazio e
gestiscono il proprio corpo rappresenta una fonte costante di segnali analogici attraverso cui essi
manifestano la propria personalità e i propri stati affettivi.
La conformazione della struttura corporea è prevalentemente il risultato del patrimonio genetico; è
altrettanto vero, tuttavia, che il corpo stesso è modellato dall'uso che ne facciamo e dalle posture
che più frequentemente assumiamo. La postura ha inoltre a che fare con lo schema corporeo che
ciascuno di noi possiede ed è quindi direttamente condizionata dai nostri atteggiamenti psichici
interiori, che sono a loro volta influenzati dallo schema corporeo stesso. Se, dunque, tutti gli esseri
umani sono in grado di stare in posizione eretta, non tutti lo fanno nello stesso modo. Gli elementi
che, interagendo tra loro, consentono di assumere la postura eretta sono la dislocazione del peso
lungo i vari tratti della colonna vertebrale e degli arti inferiori, e la maggiore o minore apertura
della postura globalmente assunta in relazione alla posizione delle braccia.
Per quanto concerne il primo elemento è evidente che i soggetti che riescono a distribuire
correttamente i carichi sulle gambe assumendo conseguentemente una posizione rilassata e dritta
vengono percepiti come individui sicuri di sé e aperti al mondo esterno. All’opposto, tenere la testa
piegata verso il basso a coprire il collo, incassandola al contempo tra le spalle, veicola il messaggio
analogico di un soggetto piuttosto introverso e remissivo, o che sta vivendo un'esperienza che gli fa
avvertire «tutto il peso della vita sulle spalle».
All'opposto, lo sbilanciamento all'indietro della testa,-caratteri-stico di chi, protendendo la parte
anteriore del torace e arretrando il collo assume una posizione nella quale sembra sempre avere uno
sguardo dall'alto verso il basso, suggerisce l'immagine di un'accentuata sicurezza e di un desiderio
di dominanza che scade facilmente in supponenza.
3.2.3. La gestualità Anche per quanto riguarda la gestualità, la profondità dell'esperienza che
ciascuno di noi ha al riguardo è sufficiente a cogliere la rilevanza di tale veicolo di comunicazione.
Mentre parliamo, le nostre mani sono costantemente impegnate in movimenti più o meno ampi e
veloci che accompagnano l'emissione vocale e i contenuti espressi a livello «numerico»,
accentuando certi passaggi, esplicitando stati emozionali interni, simulando oggetti e situazioni.
L'intensità di tali movimenti varia naturalmente da individuo a individuo, ma è influenzata in
maniera rilevante anche dalle pratiche culturali presenti presso i diversi gruppi umani. È noto come
i popoli mediterranei abbiano una gestualità molto più ricca e articolata rispetto a quelli nordici, il
cui esempio stereotipico è rappresentato dagli inglesi, famosi per la loro compostezza che a noi
italiani appare talvolta freddezza e distacco.
La gestualità, come del resto gli altri canali attraverso cui transitano segnali analogici, mostra una
forte interconnessione e sintonia con il linguaggio verbale: precedendolo sul piano della storia della
specie umana, non è stata annullata dal sorgere del linguaggio, ma piuttosto si è integrata in esso,
diventandone elemento di supporto e rinforzo espressivo. Secondo recenti ricerche, il movimento
delle mani faciliterebbe il recupero di contenuti mnemonici di tipo linguistico. Alcuni esperimenti
mostrano come soggetti invitati a ricordare il nome di oggetti poco comuni o desueti tendano a farlo
con molta maggiore facilità se hanno le mani libere di muoversi e di «simulare» la forma
dell'oggetto in questione, mentre il compito si dimostra decisamente più difficile se sono costretti a
tenere in mano una sbarra di ferro di un certo peso che impedisce loro una naturale gestualità.
Sul piano analitico, si tende a distinguere la gestualità umana in base alla velocità e l’ampiezza dei
gesti. Lo stesso tipo di movimento trasmette messaggi analogici diversi a seconda che sia effettuato
in maniera lenta e ampia oppure rapida e contratta. In linea generale, i movimenti lenti e ampi
rimandano un'impressione di sicurezza, capacità di controllo, autorevolezza e, se sono esasperati ma
in maniera credibile, persine di solennità.
Viceversa, una gestualità rapida e «minuta» suggerisce un'immagine di vivacità, velocità di
pensiero ma anche, oltre certi limiti, di eccitazione e inquietudine.
Come corollario generale, se la gestualità dell'altro è intensa ed evidente si tende a ritenere il
soggetto molto attivo sul piano affet-
tivo ed emozionale. Non a caso le discussioni animate sono accompagnate da un'intensa attività
gesticolatoria che tende a generare un effetto di rinforzo, «riscaldando» progressivamente la
situazione.
Sul piano del significato la gestualità presenta più livelli di costruzione e articolazione. A un primo
livello abbiamo i movimenti spontanei delle mani e delle braccia di cui abbiamo parlato sin qui, il
cui significato è connesso principalmente con l'espressione degli stati emozionali interni.
Su un piano più articolato, ma integrato al precedente, vi sono invece alcuni gesti che hanno un vero
e proprio valore segnico codificato sul piano culturale (è il caso, per esempio, delle due dita a «V»
che, a seconda dei contesti, indicano «vittoria» piuttosto che «ho bisogno di una toilette»).
Vi sono infine veri e propri linguaggi simbolici artificiali costruiti attraverso l'uso della gestualità,
come quelli sviluppati per consentire ai sordomuti di esprimersi. Tali esempi specialistici, formalizzati e standardizzati, non sono ovviamente naturali e richiedono un certo periodo di apprendimento
ma, andando ben oltre le capacità comunicative del linguaggio gestuale naturale, consentono alle
persone svantaggiate una vita di relazione ricca e profonda.
3.2.4. La prossemica Con il termine prossemica (che letteralmente significa «linguaggio della
prossimità») si intende quell'insieme di regole e strategie comportamentali in base alle quali gli
individui agiscono e gestiscono lo spazio che li circonda quando si trovano in presenza dei propri
simili.
Il comportamento finalizzato a tenere alla dovuta distanza gli altri membri della propria specie è
comune a quasi tutti gli animali superiori, e ha a che fare sia con la territorialità sia, nel caso degli
animali sociali, con il rispetto delle gerarchie all'interno del gruppo. Nei primati, il maschio
dominante è l'unico che può avvicinarsi alle femmine adulte, mentre i giovani sono relegati in
posizioni spaziali periferiche. Allo stesso modo, gli esemplari di uno stormo di uccelli posatosi sui
fili della luce tendono a mantenere una distanza l'uno dall'altro che pare calcolata al centimetro.
Anche gli esseri umani si dimostrano estremamente sensibili all’uso che dello spazio fanno i propri
simili e ai messaggi relazionali che tale uso veicola.
Per comprendere queste dinamiche, si usa tradizionalmente visualizzare lo spazio prossemico
all'interno del quale si muovono gli individui come costituito da sfere virtuali concentriche, di
natura «psico-relazionale», aventi come centro il corpo.
Seguendo questo schema, possiamo riconoscere nel primo livello, il più prossimo al corpo, lo
spazio intimo. Tale spazio, partendo e comprendendo la superficie corporea, si estende fino a circa
40-50 centimetri da essa, più o meno la distanza di mezzo braccio. Questa prima sfera relazionale non a caso definita intima - è quella maggiormente carica di valenze affettive e psicologiche.
Configurandosi quasi come un'estensione della nostra pelle, o meglio, come una seconda
epidermide di natura socio-relazionale, quello intimo è lo spazio minimo di cui un individuo ha
bisogno per potersi sentire al sicuro. Solo le persone di cui ci fidiamo ciecamente possono accedere
alla nostra sfera intima senza che questa ci appaia come una minaccia. All'interno di tale spazio il
soggetto si sente protetto e quindi cerca in ogni modo, più o meno consapevolmente, di assicurarsi
che non venga invaso da altri individui senza un suo esplicito o tacito consenso. La zona intima può
essere considerata il territorio dell'affettività, all'interno del quale ciascuno di noi è sovrano.
L'accogliere l'altro nel proprio spazio intimo rimanda a una situazione relazionale carica di
significati affettivi e/o eretico-sessuali; solo i nostri familiari più stretti (genitori, figli, fratelli) e il
partner sono quindi legittimati a entrarvi. L'invasione dello spazio intimo da parte di soggetti non
autorizzati viene vissuta istintivamente come una minaccia, se non come una vera e propria forma
di violenza, e attiva tutta una serie di meccanismi di difesa sia di tipo fisiologico (scariche di ormoni
attivatori che preparano il corpo a una reazione di attacco o di fuga), sia cosciente. Naturalmente la
sensazione negativa connessa con la violazione dello spazio intimo è in genere commisurata
all'intenzionalità ravvisata nel comportamento intrusivo e al suo concreto realizzarsi. Il disagio di
chi utilizza una metropolitana affollata, dove i corpi sono inevitabilmente schiacciati gli uni contro
gli altri, è da ricondursi proprio a un riflesso fisiologico di difesa connesso con l'invasione del
proprio spazio intimo. L'evidente non intenzionalità della situazione fa sì che il disagio sia in questo
caso relativamente modesto. Ciononostante, in risposta ad esso gli individui si impegnano in
complicati irrigidimenti del
corpo finalizzati a evitare il contatto con gli altri o a far sì che questo sia comunque chiaramente
percepito come non intenzionale.
Un'altra circostanza in cui i soggetti sono spesso obbligati a invadere lo spazio intimo dell'altro si
verifica in ascensore. L'imbarazzato silenzio che incombe non appena si sono esaurite le due o tre
battute che il copione prevede («buongiorno», «a che piano?» ecc.), è il vissuto psicologico
connesso all'anomalia prossemica di tale situazione. In genere, solo le persone intime si avvicinano
così tanto l'una all'altra, per parlottare amichevolmente o per scambiarsi effusioni amorose. La
risposta comportamentale a tale circostanza, nonostante qualche elemento di variabilità tra cultura e
cultura, è in genere caratterizzata dalla regola non scritta di ignorare l'altro, evitandone
accuratamente il contatto oculare (da cui il vagare degli occhi tra la punta delle scarpe, l'orologio e
la spia luminosa che indica il piano raggiunto), quasi a miniare reciprocamente di essere soli e
ristabilire in questo modo una virtuale normalità prossemica.
Da queste forme minime e involontarie di invasione dello spazio intimo sino alle sue manifestazioni
più violente, quali l'aggressione fisica e lo stupro, si dipana tutta una serie di situazioni relazionali
concrete nelle quali la distanza che separa gli altri dal nostro spazio intimo viene costantemente
monitorata e contrattata, seppure quasi sempre in modo scarsamente consapevole.
Si pensi, per esempio, a come il progredire di una relazione tra due persone che si stanno
innamorando sia contrassegnata dalle diverse tappe connesse all'avvicinamento alle rispettive
intimità, e dai messaggi analogici che favoriscono tale processo. Fanno parte di questi scambi
comunicazionali i contatti fintamente casuali con cui all'inizio di una storia ci si sfiora al fine di
comprendere - dalla maggiore o minore rigidità di risposta - l'effettiva disponibilità dell'altro.
Queste schermaglie, che solitamente procedono per tappe successive (il bacio, il petting, sino al
rapporto sessuale completo), costituiscono la trama di un vero e proprio fraseggio amoroso condotto
in gran parte attraverso i canali analogici del linguaggio corporeo. Allo stesso modo, l'inizio di una
crisi sentimentale viene spesso avvertita prima a livello fisico (con sensazioni di fastidio in risposta
agli approcci dell'altro e alla sua corporeità) e solo successivamente riconosciuta a livello cosciente.
Da un punto di vista più strettamente sociologico, la gestione dello spazio intimo ha a che fare con
la dislocazione del potere tra i vari
membri del gruppo di riferimento. L'area della sfera intima risulta tanto più ampia quanto più
elevata è la collocazione sociale del soggetto. Viceversa, la possibilità di invadere il territorio più
prossimale dell'altro, anche indipendentemente dalla sua volontà, si configura come una chiara
dimostrazione ed esercizio di potere. La madre che prende suo figlio sulle ginocchia nonostante
questi abbia ormai 13 anni, o che gli accarezza amorevolmente i capelli in presenza di estranei
nonostante il visibile disagio del ragazzo, costituisce un esempio di questa forma, a volte subdola, di
abuso di potere.
Box 1 Sfera intima e modi di dire
I modi di dire, in quanto forme sedimentate della conoscenza sociale, sono molto indicativi circa il
rapporto tra la qualità della relazione in-terpersonale e la prossimità psicologica rispetto alla propria
zona intima. «Mi sta sempre addosso», o «Mi soffoca» si dice di una persona più presente di quanto
non dovrebbe essere, tanto da risultare «invadente». «Non mi lascia spazio» è utilizzato invece per
un partner o un collega di lavoro che non concedono sufficiente autonomia o libertà. Similmente,
molti aggettivi dispregiativi sono costruiti a partire da sensazioni tattili e cinestesiche negative che
si proverebbero nel caso di un contatto ravvicinato con i soggetti a cui le attribuiamo. È il caso di
«viscido», «appiccicoso», «sfuggente». Le persone che ci sono antipati-che vengono spesso indicate
attraverso il linguaggio con immagini che tendono a rappresentarle come elementi estranei e
fastidiosi all'interno del nostro spazio intimo, se non addirittura in un contatto quanto mai
ingombrante e doloroso con le nostre parti del corpo. È il caso di varie e colorite espressioni che
non è il caso qui di riportare.
A un secondo livello di prossimità dal corpo si estende la sfera personale, che inizia dove finisce lo
spazio intimo e termina a circa un metro di distanza dal corpo. Si usa indicare tale area come quella
entro cui si lasciano entrare le persone che hanno confidenza con noi e verso cui riponiamo una
certa fiducia, ma non tanto da consentir loro di accedere al nostro spazio intimo. I familiari meno
stretti, i veri amici e i colleghi verso i quali nutriamo sentimenti di affetto sono in genere i soggetti
ammessi all'interno del nostro spazio personale.
Anche per quanto riguarda la distanza personale vale la regola secondo cui quanto maggiore è la
posizione sociale del soggetto, tanto più ampia è l'area personale di cui egli dispone.
Più o meno dove finisce la sfera personale ha inizio quella sociale, che è la distanza alla quale
percepiamo corretto tenere tutte le persone verso le quali non siamo coinvolti affettivamente, e
quindi gli estranei ma anche i colleghi di lavoro, i conoscenti o le persone con cui ci capita
casualmente di parlare. Anche in questo caso il superamento di questa distanza da parte di un
soggetto non autorizzato genera fastidio e irritazione, che si traducono di solito in messaggi
analogici di risposta e in comportamenti atti a ristabilire le giuste distanze, come per esempio:
arretramenti, irrigidimento del corpo, cambiamenti del tono della voce, che tendono a farsi più duri
e a manifestare una certa dose di aggressività (si pensi all'atteggiamento invadente di certi venditori
ambulanti).
Oltre lo spazio sociale si estende la zona pubblica, che è la distanza oltre la quale un soggetto
parlante tende a tenere il proprio pubblico quando questo ha una certa consistenza numerica. È il
caso dell’'insegnante che parla in aula, del conferenziere, dell'avvocato che tiene un'arringa ecc. Per
quanto
concerne
le
effettive
dimensioni
della
sfera
pubblica
è
possibile
stabilirne
approssimativamente l'inizio rispetto all'individuo, calcolabile in qualche metro. Molto più difficile
è individuare il limite di tale sfera, dato che i moderni sistemi di amplificazione della voce e
trasmissione mediatica dei suoni e delle immagini possono dilatarla praticamente all'infinito.
Ampliando appena un poco la prospettiva, è facile rendersi conto del ruolo segnico e
comunicazionale con cui utilizziamo gli oggetti al fine di renderli «marcatori territoriali». Come gli
animali delimitano il proprio territorio attraverso varie modalità (tracce odorose prodotte con l'urina
o attraverso specifiche ghiandole, oppure segni lasciati sulla corteccia degli alberi), così gli esseri
umani utilizzano gli oggetti per occupare e delimitare gli spazi all'interno dei quali si trovano ad
agire. Il taccuino lasciato sulla sedia nella pausa di una conferenza, o il cappotto sulla poltrona del
cinema sono un chiaro e inequivocabile segno indicante una presa di possesso del posto, la cui
mancanza di rispetto da parte di altri si traduce non di rado in veri e propri scontri verbali.
Quanto siano importanti i segni della territorialità sia sul piano affettivo che su quello
comunicativo, può essére ancor meglio evi-
denziato ricordando come la stanza di un adolescente venga spesso «addobbata» con manifesti e
oggetti di vario genere. Tali oggetti, molti dei quali caricati di significati simbolici e psicologici,
rappresentano per certi versi dei prolungamenti esterni di un Sé in via di formazione, che ha ancora
bisogno di ausili esterni per potersi riconoscere, riconfermare e consolidare. Questi elementi hanno,
cioè, un ruolo comunicativo in primo luogo nei confronti del soggetto stesso, in quanto specchio
delle sue passioni e dei suoi miti, o rappresentano momenti passati e dotati di valore dai quali non ci
si vorrebbe mai separare. Ma hanno, evidentemente, anche un ruolo comunicativo nei confronti di
coloro che vengono ammessi all'interno della stanza dell'adolescente. Spesso l'intera stanza è
vissuta come un'estensione della zona intima e, come tale, viene protetta dalle potenziali violazioni
esterne, soprattutto da parte dei genitori. Allo stesso modo, alcuni oggetti possono essere vissuti
come estrofles-sioni della sfera intima: è il caso del diario (anche quello scolastico), la cui
«apertura» da parte di persone non autorizzate viene vissuta dal proprietario come una vera e
propria violazione del sé, mentre la concessione del «diritto di lettura» corrisponde a un'apertura all’altro della propria intimità in senso affettivo e amoroso.
3.2.5.7 I segnali paralinguistici Sono segni paralinguistici tutte quelle componenti della produzione
vocale che concretamente danno forma al nostro modo di parlare: il tono della voce, il ritmo, l'uso
delle pause e dei vocalizzi di iterazione. Per comprendere l'importanza di tale segni, basti pensare
all'impressione di inquietante artificiosità che suscitano in noi le voci dei robot androidi nei film di
fantascienza di qualche decennio fa. La loro freddezza e disumanità è data dalla mancanza di alcuni
elementi paralinguistici (le variazioni tonali) e dall'uso distorto di altri (in particolare del ritmo).
L'espressività verbale umana si attua attraverso una capacità, in larga parte inconsapevole, di
gestione e modulazione sia dell'emissione vocale, sia del ritmo con cui i contenuti espressi vengono
accompagnati e marcati sul piano affettivo. Nelle interazioni verbali, gli esseri umani adattano
costantemente il tono della voce, l'intensità dell'emissione sonora e il ritmo del parlare in relazione
ai diversi significati veicolati e allo stato emozionale suscitato dai contenuti stessi e dalla situazione.
Contenuti allegri o tristi, situazioni rilassate o momenti carichi di tensione, si accompagnano e
stimo-
lano variazioni del tono di voce, dell'intensità e dell'uso delle pause decisamente diversi, e
facilmente distinguibili anche dall'osservatore meno attento. I bambini, che sono molto sensibili ai
messaggi analogici e non verbali, sono probabilmente i più abili a cogliere anche il minimo segno
d'irritazione o di preoccupazione nella voce dei genitori. Ma anche per gli adulti le competenze
inconsapevoli rispetto a tali segnali restano elevate. Si pensi a com'è difficile dire volontariamente
una bugia, soprattutto per la necessità di utilizzare, in maniera consapevole e strategica, un tono di
voce il più «naturale» possibile.
Indice di insicurezza è anche l'incapacità di gestire le pause e i silenzi che si generano naturalmente
nell'alternarsi dei turni di parola. Coloro che parlano molto velocemente, quasi senza respirare, e
che in presenza di altri sono sempre alla ricerca di qualcosa da dire per sfuggire alla «caduta del
silenzio», sono spesso soggetti ansiosi che cercano in questo modo di esorcizzare l'incapacità di
ascoltare la propria interiorità; ma così facendo, proprio attraverso questo comportamento e i
relativi segni paralinguistici, trasmettono a coloro che li circondano un diffuso senso di agitazione.
L'utilizzo dei segni paralinguistici, come del resto tutta la comunicazione interpersonale in quanto
azione situata, non è indipendente dal contesto entro cui si svolge la conversazione. Ciascuna
occasione relazionale prevede e prescrive un determinato uso dei segni paralinguistici, e
disattendere tali regole non scritte genera sanzioni sociali più o meno evidenti e intense. Ecco allora
che, per esempio, a un oratore è richiesto di parlare con una certa intensità di voce (adatta a
occupare la scena pubblica), a modulare il tono dell'eloquio in modo da enfatizzare i passaggi più
interessanti e a focalizzare l'attenzione dei presenti sui concetti da ricordare: a tutti sarà capitato di
assistere a conferenze o lezioni in cui l'oratore, per quanto bravo e preparato, utilizzava poco le
variazioni tonali risultando terribilmente noioso in quanto, appunto, mono-tono. I segni di
disinteresse, in genere espressi attraverso la comunicazione non verbale, che ben presto si
diffondono nella sala in situazioni di questo tipo (sbadigli trattenuti, colpi di tosse, sguardi che
vagano altrove o si perdono nel nulla ecc.), rappresentano di fatto una sanzione che il gruppo, più o
meno consapevolmente, infligge all'oratore che non è in grado di catturare l'attenzione.
3.3 L’agire comunicativo
In questo paragrafo cercheremo di vedere più da vicino come gli elementi basilari della
comunicazione umana interagiscano nei concreti scambi comunicativi. Per semplicità prenderemo
in esame il caso di un'interazione elementare nella quale sono coinvolte solo due persone, che
comunque mette in luce l'estrema complessità delle dinamiche che vengono a crearsi.
Immaginiamo, dunque, da una parte il soggetto A, caratterizzato da riferimenti culturali,
atteggiamenti e dinamiche psicologiche e connotato da determinate caratteristiche fisiche (sesso,
età, conformazione corporea, tratti del volto), abbigliamento, atteggiamenti posturali ecc.; dall'altra
il soggetto B, con le sue specificità su ognuna di queste caratteristiche.
Un terzo elemento è rappresentato dalla «scena» in cui si svolge l'incontro, cioè dal quadro di
riferimento entro cui concretamente e simbolicamente si svolge la comunicazione. Definiamo la
scena come il risultato dell'interagire di due aspetti fortemente in-terrelati, che solo a livello
analitico possono essere tenuti separati: il contesto e la situazione.
Per contesto intendiamo lo spazio concreto in cui si svolge un dato evento comunicativo,
comprensivo delle relative componenti fisiche e ambientali quali, tra l'altro, le condizioni
atmosferiche, la rumorosità del luogo, il suo affollamento, la distanza fisica tra i parlanti, la
presenza di eventuali elementi di disturbo alla comunicazione ecc. Da questo punto di vista, per
esempio, sarà diverso conversare comodamente seduti in un bar tranquillo e riservato piuttosto che
in una metropolitana gremita e rumorosa.
Le componenti dello spazio fisico, le strutture architettoniche, gli arredi e persine gli oggetti
influenzano dunque i modi e le forme dell'interazione comunicativa. Riprendendo quanto già detto a
proposito dell'uso segnaletico-territoriale degli oggetti, è evidente come un incontro con B, gestito
da A all'interno del proprio ambiente di lavoro (per esempio, seduto su di una scrivania dirigenziale
coperta di oggetti in uno spazioso e solenne ufficio di una grande azienda), assumerà una
configurazione diversa da quello che potrebbe aver luogo se lo stesso scambio comunicativo si fosse verificato in casa di B o a una cena cui entrambi i soggetti erano invitati.
La situazione, concettualmente più complessa, può essere definita come la risultante di una serie ài
elementi e significati di carattere sociale, relazionale e psicologico che agiscono sull'evento
comunicativo e di cui gli attori coinvolti sono consapevoli a livelli diversi di coscienza. Aspetto
costitutivo delle situazioni è la loro natura relazionale: non esistono situazioni preesistenti ai
soggetti che, interagendo, le generano (Mantovani 1995, p. 19). E, d'altra parte, ogni azione e quindi
anche ogni processo comunicativo, non può che avvenire all’interno di un certo contesto
situazionale. Si può quindi affermare che ogni azione comunicativa è un'azione situata. Ciò
significa in primo luogo riconoscere l'orizzonte della significazione come l'ambiente elettivo
all'interno del quale agiscono le nostre menti.
Lotman (1985) definisce tale ambiente «semiosfera», intendendo «quello spazio semiotico al di
fuori del quale non è possibile la semiosi» (significazione). Esprimendo lo stesso tipo di concetto,
Morin afferma che, così come le piante hanno generato l'ossigeno atmosferico indispensabile alla
vita, allo stesso modo le culture umane hanno prodotto simboli, idee, miti divenuti indispensabili
alla nostra vita di animali sociali generando in questo modo «un universo - noosfera - all'interno del
quale le nostre menti abitano» (Morin 1991, cit. in Volli 1994, p. 263).
Gli esseri umani entrano nel mondo all'interno di un certo contesto socio-culturale che fornisce loro
gli strumenti simbolici e linguistici attraverso cui concettualizzare e comprendere la realtà. Tale
universo simbolico è pervasivo rispetto alle possibilità di significazione degli individui,
rappresentando contemporaneamente la risorsa primaria di riferimento per ogni possibile attività
interpretativa e creativa, ma anche l'insuperabile «orizzonte degli eventi» oltre il quale non è
consentito spingere la significazione. Dato, quindi, che le nostre menti «abitano all'interno della
significazione», una situazione può essere pensata come un luogo specifico di questo spazio; una
configurazione circoscritta e contestualizzata di significati aventi certe coordinate spazio-temporali
e relazionali.
Quindi, il soggetto A e il soggetto B, impegnati in un'esperienza comunicativa faccia a faccia, non
si troveranno ad agire in un vuoto semiotico, ma saranno inevitabilmente inscritti in un sistema di
significazione fatto di reciproche aspettative, convenzioni relazionali, sociali, culturali e linguistiche
alle quali dovranno fare riferimento, sia pure per prenderne le distanze e cercare di affermare la
propria originale soggettività. Da questo punto di vista, un modo per pensare la situazione è quello
di immaginarla come «un repertorio di informazioni possibili, un immenso database» contenente
innumerevoli risorse di significazione sull'evento all'interno del quale ci troviamo ad agire e a
comunicare (Mantovani 1995, p. 19).
Di tutte le innumerevoli implicazioni di senso che qualsiasi concreta circostanza potenzialmente
offre, gli attori in essa impegnati selezionano e percepiscono solo quelle più direttamente
rispondenti ai propri stati affettivi e ai propri attuali scopi.
Immaginiamo A come una studentessa in fila a una mensa universitaria, e B come un ragazzo un
po' sfrontato sempre in cerca d'avventure. Quest'ultimo, passandole vicino, nota che lei ha
sottobraccio un testo di un esame che lui ha già sostenuto e, utilizzando il libro come pretesto,
attacca discorso. Il contesto è quello affollato e un po' caotico di gente, suoni e odori di una mensa
universitaria. Ma dal punto di vista delle possibilità situazionali, tale ambiente appare molto ricco e
complesso. Basta immaginare gli innumerevoli punti di vista da cui questa stessa scena potrebbe
essere percepita: il direttore della mensa, per esempio, noterebbe il lavoro svolto dai suoi sottoposti;
lo studente in ritardo alla lezione coglierebbe le dinamiche e i tempi della fila; un tecnico impegnato
nella verifica dei parametri di sicurezza nei luoghi di lavoro noterebbe l'adeguatezza o meno della
struttura a un tale affollamento, e così via.
Il ragazzo B ha invece ritagliato, dall'universo di tutti gli elementi portatori di significato presenti
nel contesto, quella ragazza graziosa con il libro sottobraccio, e le molteplici possibilità situazionali
di quello stesso ambiente si coagulano per lui nella percezione di una particolare interpretazione
complessiva della situazione. Nello specifico, la situazione all'interno della quale egli percepisce di
essere in quel momento è qualcosa del tipo «tentativo di primo approccio». Sintonizzatosi sulla
lunghezza d'onda più appropriata a quella determinata situazione comunicativa e relazionale, il
ragazzo utilizzerà un repertorio di atti comunicativi che gli sono suggeriti dai propri universi
simbolici e comportamentali di riferimento.
Analogamente, la ragazza reagirà alla situazione comunicativa faccia a faccia con il ragazzo
partecipandovi in base ai propri scopi e all'interpretazione che essa darà a ciò che sta succedendo.
Se non ha un compagno, oppure se percepisce nelle parole o nella comunicazione non verbale del
ragazzo dei tratti di eccessiva aggressività o vol-
garità, la sua impressione globale della situazione cambierà radicalmente, oscillando tra i due
possibili estremi interpretativi «un piacevole incontro» oppure «uno scocciatore che mi importuna».
Una situazione, dunque, è data da quel sottoinsieme di significati e risorse simboliche (rispetto agli
innumerevoli possibili) che gli attori impegnati in un certo evento comunicativo attualizzano sulla
base dei propri scopi.
Ogni evento comunicativo e relazionale è, di fatto, un processo di natura sistemica, caratterizzato da
proprietà non riconducibili alle caratteristiche delle sue singole componenti. Tali proprietà sono,
infatti, il frutto del processo comunicativo stesso nel suo svolgersi all'interno di una situazione.
Come suggeriscono alcune recenti teorie psicologiche di orientamento costruttivista, il
comportamento del soggetto B non è ri-conducibile a una qualche sua realtà profonda e stabile nel
tempo, quanto piuttosto alle circostanze situazionali e comunicative nelle quali egli, in quel
determinato momento, è coinvolto; B metterà in gioco nella comunicazione solo quelle parti del Sé
che quella specifica situazione e il comportamento percepito di A, nel loro concreto svilupparsi,
tenderanno a stimolare in lui. I Sé situazionali messi in gioco dai soggetti comunicanti non sono
cioè indipendenti dal contesto, ma ne rappresentano in larga misura un prodotto. E il contesto
situazionale, per come viene interpretato dai partecipanti al processo comunicativo, ciò che
suggerisce loro il ruolo sociale e psicologico che dovranno adottare, come pure il copione sulla cui
base dovrebbe più o meno svolgersi l'incontro. È il tipo di situazione in cui il soggetto si percepisce
inserito ciò che ne orienta i comportamenti e gli atteggiamenti mentali nei confronti degli altri,
facendogli assumere le prescrizioni di ruolo che la cultura di riferimento prevede per quella data
circostanza.
Oltre alle prescrizioni di ruolo, la situazione fornisce anche indicazioni piuttosto precise riguardo
alle modalità con cui dovrebbe svolgersi una storia canonica relativa a un certo tipo d'incontro interpersonale.
Ciascuno di noi possiede, avendolo acquisito attraverso la socializzazione, un repertorio di
situazioni possibili nelle quali potrà venirsi a trovare, e sarà consapevole del tipo di stile
comportamentale e comunicativo adatto a ciascuna di esse. Nel caso dell'esempio sopra riportato,
tanto il ragazzo che la ragazza hanno un'idea
di massima di quale potrebbe essere la «storia» nella quale più o meno volontariamente si sono
trovati coinvolti e del tipo di copione che dovranno «recitare».
Box 2 I ruoli sociali
Un ruolo sociale può essere pensato come l'insieme degli atteggiamenti e dei comportamenti che,
all'interno di una certa cultura e di un determinato gruppo sociale, ci si attende da un individuo in
relazione alla sua collocazione sociale e/o relazionale. Tutti gli atteggiamenti e i comportamenti non
scritti ma comunque tacitamente attesi da un padre (per esempio, che sia affettuoso con i propri figli
e dedichi loro del tempo, cerchi di proteggerli dai pericoli e sia capace di dialogare con loro in
modo aperto ma allo stesso tempo educativo) sostanziano il ruolo riconosciuto a tale figura
all'interno della società. L'uso sociologico del concetto di ruolo corrisponde molto da vicino a
quello utilizzato nel linguaggio quotidiano in riferimento alla posizione occupata da un certo
soggetto all'interno di una squadra sportiva. Giocare nel ruolo di terzino piuttosto che come ala
esterna, significa di fatto orientare le proprie performance secondo le aspettative riposte dagli altri
nei confronti di tale funzione, e il non conformarsi ad esse può tradursi nell'assegnazione a un altro
ruolo, nei casi più fortunati, o nell'esclusione dalla squadra in quelli più probabili.
Naturalmente ciascun individuo non è portatore di un unico ruolo, ma si muove all'interno di una
pluralità di ruoli sulla cui base orienta il proprio comportamento, in relazione alle diverse occasioni
in cui si trova coinvolto. Un soggetto maschio di 39 anni, per esempio, può essere al tempo stesso
un docente universitario, un marito, un padre, ma anche un figlio, un componente di un'associazione
di genitori e un difensore in una squadra di calcio di dilettanti.
Utilizzando la metafora narrativa, potremmo affermare che il ruolo è dato dall'insieme delle storie
legittimamente associate a una determinata collocazione sociale e relazionale. Essere adeguati al
ruolo significa, in fondo, possedere il repertorio dei copioni e delle storie più appropriate a un certo
ruolo ed essere in grado di utilizzarli correttamente quando si è chiamati dalla situazione a
impersonare quella parte.
E proprio nella necessità di passare da un ruolo a un altro, modulando nel giusto modo i diversi
atteggiamenti, stili relazionali e comunicativi in sintonia con le diverse occasioni, è possibile
riconoscere una fonte dello stress di cui oggi tutti sono più o meno vittime.
In sintesi, ogni situazione comunicativa intenzionale è un'esperienza coinvolgente e situata.
Coinvolgente, nel significato letterale del termine, significa che essa interessa l'individuo, più o
meno coscientemente e profondamente, nella sua totalità psicologica e culturale, anche nel caso in
cui l'interazione è minima. Anche un piccolo scambio di battute, purché intenzionale, più che un
meccanismo riflesso è il concretizzarsi di un portato esperienziale che rimanda ai modelli culturali
di un certo gruppo di riferimento, come pure ai tratti psicologici e valoriali dei soggetti che vi
partecipano. L'insieme di questi fattori agisce e influenza sia i processi di produzione ed emissione
dei messaggi comunicativi, sia quelli di ricezione e interpretazione degli stessi. Ciascun soggetto
impegnato in un processo comunicativo percepirà le altre persone, i contenuti veicolati e la
situazione stessa, attraverso i «filtri» psico-cognitivi, linguistici e culturali che la propria specifica
collocazione esistenziale gli consente. E lo stesso faranno gli altri.
Ma una comunicazione, come abbiamo visto, è sempre anche un'azione situata, dato che non può
svolgersi se non in un certo spazio di significazione preesistente. Ed è un'azione situata che si
svolge sotto forma di processo, in primo luogo per la dimensione temporale sequenziale entro la
quale si svolge. Una conversazione, per esempio, è un «farsi nel tempo» che vede i soggetti
impegnati prendere la parola secondo la regola dell'alternanza dei turni. Ma è un processo anche per
una ragione più profonda. I contenuti espressi dal soggetto al proprio turno, così come i segnali che
egli emetterà a livello di relazione, sono il risultato (oltre che della personalità globale del soggetto
e delle caratteristiche della situazione, già ricordate) di come si è svolta la comunicazione sino a
quel momento e costituiscono, al contempo, lo stimolo di riferimento a cui gli interlocutori
reagiranno nel proseguimento della stessa. Decisivo a questo proposito è il concetto di feedback
(letteralmente «effetto retroattivo di un messaggio o di un'azione su chi li ha promossi»). Ogni
azione comunicativa percepita, per esempio, da B genera in lui una qualche forma, pur minimale, di
reazione. Reazione che ha a sua volta una valenza comunicativo-informativa percepibile da A
(l'emittente iniziale) e rappresenta appunto il feedback (un messaggio di ritorno) della sua azione
comunicativa, che non può lasciarlo indifferente. E questo anche se, per esempio, il destinatario
della prima mossa comunicativa (B)
non fornisce alcuna risposta evidente. Il messaggio di feedback che A recepisce potrà essere, in
questo caso: «B non mi ha sentito» oppure «B non vuole parlarmi, e mi ignora». I messaggi
analogici che avranno accompagnato la «non risposta» di B sono in genere sufficienti per
comprendere quale delle due alternative corrisponda effettivamente alle intenzioni di B.
È evidente come tale processo si replichi continuamente a ogni presa di turno, e ogni messaggio
emesso, tanto a livello di contenuto quanto di relazione, diventa un anello di una complessa catena
di azioni e reazioni comunicative e interazionali.
Attraverso tale «catena», i soggetti impegnati in una comunicazione si propongono, come abbiamo
visto, da una parte di trasmettere informazioni e concetti (piano del contenuto), dall'altro, più o
meno consapevolmente e strategicamente, di suggerire definizioni della situazione, del proprio
ruolo (sociale e psicologico) e di quello degli altri individui impegnati nello scambio comunicativo.
È attraverso questo continuo «farsi» relazionale che gli esseri umani, con i loro scambi
comunicativi, costruiscono e contrattano costantemente definizioni del proprio sé e di quello altrui,
situazioni, eventi e aspetti della realtà, in un processo che, pur svolgendosi a livello microsociale
(interazione tra singoli individui e piccoli gruppi), ha effetti poderosi e sostanziali nella costruzione
del mondo sociale.
La comunicazione stessa, nel suo farsi processuale, contribuisce dunque a modificare la situazione
percepita dai soggetti in essa coinvolti. Una conversazione amichevole e intima può trasformarsi
progressivamente in un diverbio aperto nel momento in cui, per esempio, uno dei partecipanti si
accorge che l'altro sta mentendo e si propone di ingannarlo per sottrargli del denaro. La situazione
percepita dal soggetto tradito si è rapidamente trasformata sotto i suoi occhi nel corso e a causa
della comunicazione stessa.
La centralità che il ruolo dell’interpretazione assume nello strutturarsi della situazione configura un
elemento fortemente problematizzante e cruciale dell'evento comunicativo: non necessariamente,
infatti, le interpretazioni dei partecipanti a un certo scambio comunicativo coincidono. Potremmo,
anzi, sostenere che esse non coincidono mai sino in fondo, per lo meno nella misura in cui a ciascun
attore restano opachi gli stati mentali (affettivi e intenzionali) degli altri.
Chiedersi qual era la «vera» situazione all'interno della quale un certo evento comunicativo si è
svolto non ha evidentemente alcun senso, dato che non esiste alcuna entità denominabile «verità
della situazione» relazionale. Nel mondo della significazione vale il detto secondo cui «di tutte le
forme di realtà, la Verità è solo la più presuntuosa». Gli individui vivono, infatti, all'interno dei
mondi generati dalle proprie interpretazioni ed è rispetto a tali mondi che agiscono, gioiscono e
soffrono.
Ciascun soggetto coinvolto in un processo comunicativo è, di fatto, necessariamente portatore di
una propria prospettiva sul mondo e sulla situazione. Gran parte dei messaggi analogici e simbolici
che gli esseri umani si scambiano sono proprio rivolti alla contrattazione delle diverse
rappresentazioni, sia della situazione, sia dei ruoli che ciascun soggetto possiede e propone agli
altri. Ogni comunicazione interpersonale è pensabile come un processo attraverso cui gli attori, più
e oltre che scambiarsi informazioni, negoziano (in modo più o meno aperto e conflittuale)
definizioni del mondo e della relazione che li lega. E tale gioco di contrattazione si attua sui diversi
livelli su cui si sostanzia la soggettività degli individui, a partire da quelli più intrapsichici e
profondi sino a quelli maggiormente connessi con le situazioni sociali e pubbliche.
Per tornare ancora all'esempio del ragazzo e della ragazza alla mensa universitaria, il tipo di
reazione di quest'ultima agli approcci di lui potrebbe essere condizionato da un suo vissuto
emozionale che la fa sentire a disagio ogni volta che si trova in un luogo troppo affollato; come
pure, su un piano più «superficiale», da una sua particolare sensibilità alle convenzioni sociali che
le fa categoricamente rifiutare un approccio maschile in un ambiente dove tutti possono vedere le
sue reazioni.
Negli scambi comunicativi interpersonali vengono dunque negoziati i significati che, a vari livelli
(psicologico, relazionale, sociale, pubblico), i soggetti colgono e interpretano nella situazione e negli altri.
Vi sono vari modi attraverso cui le diverse prospettive teoriche che si sono occupate di
comunicazione interpersonale hanno descritto questo processo di negoziazione.
Secondo la teoria sistemica elaborata, tra gli altri, da Watzlawick e colleghi (1971), gli attori di uno
scambio comunicativo possono
interagire sulla base di due diverse modalità psico-relazionali: assumendo una posizione simmetrica
oppure complementare.
Nel caso di un'interazione diadica, si ha una relazione simmetrica quando entrambi i soggetti
tendono a «rispecchiare» il modello relazionale proposto dall'altro e a minimizzare le possibili differenze. La relazione diventa invece complementare quando gli atteggiamenti comunicazionali
assunti dai soggetti tendono a differenziarsi e uno dei due assume una posizione di supremazia e
dominanza (posizione one-up) e l'altro quella di sottomissione/dipendenza (posizione one-down).
Nessuna delle due situazioni relazionali è necessariamente migliore dell'altra, ma entrambe mostrano possibili aree problematiche e degenerazioni. Inoltre ciascun soggetto può passare, nell'ambito
della stessa occasione comunicativa, da un ruolo a un altro in relazione al procedere della comunicazione stessa. Di solito sono migliori quelle relazioni che alternano frequentemente dinamiche
simmetriche e complementari e in cui i soggetti agiscono, più o meno alternativamente, nelle due
posizioni possibili della complementarietà. Senza entrare nel merito delle possibili patologie
descritte da questo approccio, è evidente come in ogni situazione comunicativa le dinamiche
relazionali simmetriche o complementari, come pure le due possibili posizioni di dominanza e
sottomissione, sono costantemente messe alla prova e negoziate attraverso il processo comunicativo
stesso. Quante volte, per esempio, ci è capitato di non voler accettare la proposta di dominanza di
un nostro interlocutore e abbiamo fatto di tutto per dimostrare il nostro maggior valore su questo o
quello specifico aspetto (atteggiamento simmetrico), in un gioco al rialzo sempre più scoperto e
conflittuale? Riuscire ad essere in una posizione di dominanza o avere l'ultima parola in una
relazione simmetrica corrisponde, sul piano strategico, a conquistare la possibilità di definire la situazione in relazione al proprio punto di vista e alle proprie aspettative, imponendola agli altri.
Un altro modo per descrivere i processi di contrattazione presenti nella situazione comunicativa è
quello proposto dall’ analisi transazionale. Tale approccio, sviluppato da Eric Berne (1986) si
propone di esaminare gli scambi comunicativi (transazioni) a partire dagli stili psicologico-affettivi
adottati dai partecipanti. Richiamandosi alla psicoanalisi freudiana, ma anche alla teoria sistemica
sopra citata, l'analisi transazionale afferma che ogni rapporto co-
municativo con l'altro, può essere condotto a partire da tre diversi possibili «stati dell'Io»: quello
dell'«Io Genitore», quello dell'«Io Adulto» e quello dell'«Io Bambino». Nelle situazioni
comunicative concrete ciascun individuo passa costantemente da uno stato dell’ Io a un altro,
modificando coerentemente con essi, di solito inconsapevolmente, le forme del proprio interloquire
e i messaggi veicolati attraverso il linguaggio non verbale. Dato che anche gli altri soggetti
impegnati nel processo comunicativo possono agire sulla base dei tre diversi stati del loro Io, si
generano in questo modo diverse possibili configurazioni relazionali. In ufficio un collega dice
all'altro: «Uffa, non ne posso più di questa pratica! Facciamo una pausa caffè», e l'altro risponde:
«No, preferisco finire questo lavoro: prima il dovere e poi il piacere». Il primo soggetto comunica
attraverso il proprio «Io Bambino» (principio del piacere, desiderio di soddisfazione immediata del
bisogno ecc.), mentre il secondo risponde ponendosi come un «Io Genitore» (valore morale e normativo). L'analisi transazionale descrive le caratteristiche, e gli eventuali elementi di
disfunzionalità, delle diverse possibili configurazioni comunicative che possono determinarsi
dall'intersezione dei diversi «Io» messi in gioco dagli individui nelle loro relazioni. Come si vede,
anche questo modello mette in risalto la contrattazione costantemente attuata dai diversi soggetti per
affermare il proprio stato dell'Io in relazione a quello altrui.
Ma l'approccio che forse più diffusamente di altri si è soffermato sulle strategie dell'interazione
comunicativa da un punto di vista psico-sociale è quello fondato da Erving Goffman (1969), noto
come «modello drammaturgico». L'analisi di questo autore si indirizza proprio sulle strategie
utilizzate dalle persone impegnate nelle comunicazioni faccia a faccia al fine di controllare e
negoziare la definizione della situazione in rapporto ai propri scopi. Questi gravitano
principalmente intorno alla necessità di gestire strategicamente la «rappresentazione» o «facciata»
che l'individuo vuole (intenzionalmente o involontariamente) mostrare di sé nelle diverse occasioni
relazionali e comunicative.
Secondo Goffman, la facciata è in parte determinata dai tratti fisici ed espressivi, quali il sesso,
l'età, la conformazione, la struttura corporea e i lineamenti del volto, il modo di parlare e di vestire
ecc., che accompagnano l'individuo nel corso della propria esistenza. Ma essa è data anche dai
comportamenti e dalle espressioni assunte dal
soggetto in una data occasione relazionale per segnalare il tipo di ruolo che egli si propone di
svolgere, suggerendo in questo modo una definizione della situazione e degli altri soggetti coinvolti
in essa (facciata situazionale o maniera),
In questo tipo di modello, l'obiettivo primario degli individui è quello di gestire e mantenere la
facciata in relazione a esigenze di tipo psicologico, relazionale e sociale tra cui la necessità di
garantire un certo livello di coerenza alla propria identità, il bisogno di integrazione con gli altri, il
desiderio di essere apprezzati e stimati in modo da accedere ai diversi tipi di risorse socialmente
distribuite (denaro, approvazione sociale ecc.).
L'insieme di queste esigenze fa sì che, nei rapporti con gli altri, ciascuno si ponga costantemente
l'obiettivo di gestire la propria facciata, in parte deliberatamente e in parte inconsapevolmente. E lo
facciamo attraverso le impressioni che cerchiamo di suggerire di noi, del nostro modo di essere e
del contesto situazionale in cui riteniamo di trovarci. Secondo Goffman, questi obiettivi sono
perseguiti, sia attraverso le espressioni «assunte intenzionalmente», sia per mezzo di quelle
«lasciate trasparire». Le prime corrispondono alla comunicazione veicolata attraverso il linguaggio
verbale (piano del contenuto), ed è quella che l'individuo usa deliberatamente per generare negli altri gli effetti di senso che si è proposto in relazione ai propri obiettivi. L'espressione lasciata
trasparire ha, invece, natura presumibilmente non intenzionale e corrisponde in larga misura ai
messaggi emessi a livello di comunicazione analogica (piano della relazione). Gestendo, con diversi
gradi di consapevolezza, le espressioni intenzionali e quelle lasciate trasparire, gli individui sono
costantemente impegnati a «recitare» una certa parte all'interno di un gioco relazionale che può
essere pensato come una vera e propria rappresentazione teatrale (da qui il termine di metafora
drammaturgica).
Per poter affrontare i ruoli nei quali, di volta in volta, gli individui si trovano impegnati, essi devono
innanzitutto conoscere i copioni più appropriati per quel tipo di situazione e gli stili di «recitazione»
richiesti. Ma devono anche procurarsi gli «attrezzi del mestiere» e gli abiti di scena indispensabili a
una certa messa in scena. Fanno parte di questi «abiti di scena», per esempio, tanto le «divise»
caratteristiche di molte professioni, quanto, più in generale, il modo di abbigliarsi ritenuto consono
per le diverse figure sociali e professionali. Un professore universitario di una certa età, impegnato
in un impor-
tante convegno, desterebbe qualche perplessità se fosse abbigliato come un ragazzine; mentre se in
ospedale ci si avvicinasse un signore e ci parlasse della patologia di una persona cara ricoverata in
quel reparto, noi non lo riconosceremmo come medico se non indossasse un camice o un qualche
segno di identificazione.
La metafora drammaturgica proposta da Goffman ci mostra, in pratica, che anche l'abbigliamento,
gli accessori, l'arredo e il modo stesso di gestire lo spazio entro cui si svolge una relazione comunicativa vengono utilizzati dagli individui e dai gruppi come ausili per la definizione e contrattazione
della situazione.
È importante sottolineare come tutte le proposte teoriche qui brevemente riportate concordino nel
riconoscere la straordinaria complessità della comunicazione interpersonale e delle dinamiche che
la sostanziano. Anche un piccolo evento comunicativo faccia a faccia è in realtà una situazione
altamente complessa, composta da elementi di significazione/interpretazione che coinvolgono
l'individuo nella sua totalità psicologica, relazionale e culturale. Ogni piccolo evento relazionale
ingloba dentro di sé una certa dose di conflitto, più o meno apertamente guerreggiato, la cui posta in
palio è rappresentata dalla possibilità, da parte dei partecipanti, di definire la situazione e i rispettivi
ruoli. Ogni minimo evento comunicativo, d'altro canto, rappresenta un'occasione in cui i significati
condivisi, sui quali si fonda la possibilità stessa di organizzazione sociale, vengono costantemente
riscoperti, rielaborati e riconfermati.
Letture consigliate
Birkenbihc V.F., Segnali del corpo, Angeli, Milano 1990.
Dennet D., La mente e le Menti. Verso la comprensione della coscienza, Sansoni, Milano 1997.
Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, II Mulino, Bologna 1969.
Mantovani G., Comunicazione e identità, II Mulino, Bologna 1995.
Morris D., Il comportamento intimo, Mondadori, Milano 1972.
Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio,
Roma 1971.