Untitled

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Untitled
Lucinda Riley
Il profumo
della rosa
di mezzanotte
Traduzione di
Lisa Maldera
Titolo originale:
The Midnight Rose
Copyright © Lucinda Riley, 2013
All rights reserved
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti
è puramente casuale.
http://narrativa.giunti.it
© 2014 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia
Prima edizione: febbraio 2014
Ristampa
Anno
6 5 4 3 2 1 0
2018 2017 2016 2015 2014
Per Leonora
Lascia che i miei pensieri vengano a te, quando me ne sarò andato,
come il riverbero del tramonto ai margini del silenzio stellato.
Rabindranath Tagore,
Uccelli erranti
Darjeeling
India
Febbraio 2000
Prologo
Anahita
Oggi compio cent’anni. Non solo ho vissuto un intero secolo,
ma ho persino visto l’alba del nuovo millennio.
È un pensiero talmente assurdo che non posso fare a meno
di sorridere, distesa fra i cuscini, mentre il sole del mattino
si alza sopra il monte Kanchenjunga. Se fossi un mobile, una
sedia elegante ad esempio, sarei un pezzo d’antiquariato; verrei
restaurata, lucidata ed esposta come un manufatto di pregio.
Purtroppo non vale lo stesso per la mia veste umana: col tem­
po il mogano migliora e si leviga, al contrario il mio corpo è
diventato ossuto e grinzoso.
Qualunque bellezza rimasta in me giace nascosta nel profon­
do: è la saggezza di cent’anni vissuti su questa terra, e un cuore
che ha scandito con i suoi battiti l’intero spettro delle azioni ed
emozioni umane.
Cento anni fa, in questo stesso giorno, i miei genitori con­
sultarono un astrologo per conoscere il mio destino, come pre­
vede la tradizione indiana. Conservo ancora il responso che
l’indovino diede a mia madre, fra le poche cose che mi restano
di lei. Diceva che sarei vissuta a lungo ma, nel ’900, vivere a
lungo significava arrivare a cinquant’anni, con la protezione
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degli dèi; di sicuro non avrebbero mai immaginato che ne avrei
compiuti il doppio.
Sento un leggero bussare alla porta. È Keva, la mia fidata
cameriera, con il vassoio dell’English Breakfast e un piccolo
bricco di latte freddo. Quella del tè all’inglese è un’abitudine
che non ho mai perso, nonostante viva in India – proprio a
Darjeeling – da settantotto anni.
Non le rispondo subito: è un giorno speciale e stamattina
desidero restare sola con i miei pensieri più a lungo del solito.
Di sicuro Keva avrà fretta di procedere con i preparativi e sarà
ansiosa di svegliarmi, lavarmi e vestirmi prima che comincino
ad arrivare i parenti.
Mentre il sole incendia e disperde le nuvole sopra le cime in­
nevate, scruto il cielo cercando la risposta che prego di ricevere
ogni mattina, da settantotto anni a questa parte.
Che sia oggi, vi prego, chiedo agli dèi: sono certa che mio
figlio sia ancora vivo, da qualche parte su questa terra. Se fosse
morto, l’avrei saputo nel momento della sua scomparsa, come
mi succede sempre quando se ne va qualcuno che amo.
I miei occhi si riempiono di lacrime e mi volto a guardare
l’unica fotografia che ho di lui, posata sul comodino: un bimbo
di due anni, paffuto e sorridente, seduto sulle mie ginocchia. Me
la diede la mia amica Indira, insieme al suo certificato di morte,
poche settimane dopo averne ricevuto la notizia.
È passata una vita, ormai. Ma io ne sono certa: mio figlio
oggi è un uomo anziano, e in ottobre festeggerà il suo ottantu­
nesimo compleanno. Devo ammettere, però, che mi è difficile
immaginarlo, nonostante la fantasia non mi manchi.
Distolgo lo sguardo dalla foto, so che oggi dovrei pensare
soltanto a godermi i festeggiamenti che la famiglia ha organiz­
zato in mio onore. Ma è proprio in queste occasioni, quando
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vedo mia figlia e i suoi figli e i figli dei suoi figli, che sento più
forte il dolore per quel bimbo che ho perduto.
Ovviamente tutti pensano, e hanno sempre pensato, che sia
morto settantotto anni fa.
«Maaji, questo è il suo certificato di morte: guarda! Lascialo
in pace» dice mia figlia Muna, sospirando. «Goditi la compa­
gnia di noi vivi.»
Capisco che si senta frustrata, dopo tanti anni, e ne ha tutto
il diritto; vorrebbe potermi bastare lei sola, ma perdere un figlio
lascia un vuoto incolmabile nel cuore di una madre.
Oggi, però, ho intenzione di accontentarla; siederò sulla mia
poltrona e mi godrò la compagnia della stirpe che ho generato.
Non li annoierò con i miei racconti sulla storia indiana. Quan­
do arriveranno sulle loro Jeep occidentali, insieme ai bambini
carichi di giocattoli a pile, non racconterò di come io e Indira
salivamo sulle colline attorno a Darjeeling cavalcando a pelo, né
di quando l’acqua corrente e l’elettricità non erano cose sconta­
te, né di come leggevo avidamente qualsiasi libro mi capitasse
fra le mani, per logoro che fosse. I giovani si irritano ascoltando
le storie del passato, preferiscono vivere il presente; anch’io ero
così quando avevo la loro età.
Immagino che la maggior parte dei miei familiari non fosse
entusiasta all’idea di attraversare l’India per andare a far vi­
sita alla bisnonna nel giorno del suo centesimo compleanno;
ma forse sono troppo severa. Ho riflettuto molto sul perché i
giovani non sembrino a proprio agio in compagnia degli anzia­
ni, anche se potrebbero imparare molte cose sulla vita da noi
vecchi. Credo che questo disagio dipenda da quanto la nostra
debolezza fisica ricordi loro ciò che li aspetta. In tutta la loro
forza e bellezza, riescono solo a vedere che queste qualità sva­
niranno; non sanno cosa si guadagna invecchiando.
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Come spiegare loro il nostro mondo interiore? Far capi­
re come l’animo vada rafforzandosi, l’impetuosità si plachi e
­l ’egoismo venga mitigato dall’esperienza?
Ad ogni modo, mi rendo conto che questa è la natura uma­
na in tutta la sua gloriosa complessità, e ormai ho smesso di
arrovellarmi.
Quando Keva bussa per la seconda volta, la faccio entrare.
Mentre mi sommerge con le sue chiacchiere in hindi, io sorseg­
gio il tè e ripasso mentalmente i nomi dei miei quattro nipoti
e undici pronipoti. Nonostante abbia cento anni, tengo molto
a dimostrare di avere ancora una mente lucida e perfettamente
funzionante.
I quattro nipoti che mia figlia mi ha dato sono a loro volta
diventati bravi genitori e persone in gamba. Sono sbocciati nel
nuovo mondo, nell’India libera dalla dominazione britannica,
e i loro figli hanno portato ancora più lontano il testimone. Da
quel che ricordo, almeno sei di loro hanno un’attività propria
o sono professionisti nel settore del commercio. Mi sarebbe
piaciuto che almeno uno dei miei discendenti avesse seguito
le mie orme e si fosse specializzato in medicina, ma nella vita
non si può avere tutto.
Mentre Keva mi aiuta a lavarmi, rifletto su come la mia fami­
glia abbia avuto dalla sua un insieme di fortuna, intelligenza e
forti legami di parentela. E sul fatto che la mia amata India vedrà
passare forse cent’anni, prima che i milioni di persone sofferenti
che muoiono di fame ai margini della strada raggiungano un
livello di vita accettabile. Ho sempre fatto del mio meglio per
dare una mano, ma mi rendo conto che i miei sforzi sono stati
una goccia in un oceano battuto da venti impetuosi di stenti e
indigenza.
Siedo pazientemente mentre Keva mi veste con il nuovo sa­
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ri – regalo di compleanno di Muna, mia figlia – decisa a non
lasciare spazio a questi pensieri, almeno per oggi. Ho cercato
di fare il possibile per migliorare le vite che hanno incrociato la
mia, e devo accontentarmi di quello che ho fatto.
«È bellissima, signora Chavan.»
Guardo il mio riflesso allo specchio: sta mentendo e, proprio
per questo, la adoro. Accarezzo la collana di perle che porto da
otto anni. Nel mio testamento l’ho lasciata a Muna.
«Sua figlia sarà qui alle undici, e il resto della famiglia un’ora
dopo. Dove vuole che la metta, nel frattempo?»
Le sorrido, sentendomi proprio come una vecchia sedia di
mogano. «Puoi mettermi alla finestra. Vorrei guardare le mie
montagne» dico. Mi aiuta ad alzarmi, mi guida pazientemente
verso la poltrona e mi fa accomodare.
«Desidera altro, signora?»
«No. Va’ in cucina e assicurati che il cuoco abbia tutto sotto
controllo.»
«Sì, signora.» Sposta il campanello sul tavolino accanto a me
e lascia silenziosamente la stanza.
Mi volto verso la luce che sta incominciando a filtrare attra­
verso la grande finestra panoramica del mio bungalow in cima
alla collina. Mentre mi scaldo al sole, penso alle persone che non
ci sono più e non potranno partecipare ai festeggiamenti per il
mio compleanno. La mia adorata Indira, la mia migliore amica,
è morta quindici anni fa. Confesso che è stato uno dei pochi
momenti della mia vita in cui mi sono accasciata a piangere
per la disperazione. Mi ha saputo dare più amore e amicizia di
chiunque altro, persino di mia figlia. Incostante ed egocentrica
fino al giorno della sua morte, Indira è sempre stata presente
quando ho avuto più bisogno di lei.
Mi giro verso lo scrittoio, nella nicchia dall’altra parte della
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stanza, e non posso fare a meno di pensare a cosa ci sia dentro
il cassetto chiuso a chiave. È una lettera, lunga più di trecento
pagine. È indirizzata a mio figlio e contiene la storia di tutta la
mia vita, fin dal principio. Temevo che col passare degli anni
avrei dimenticato i dettagli, avevo paura che diventassero sfocati
e confusi come la pellicola di un vecchio film muto. Se, come
credo, mio figlio è ancora vivo e un giorno tornerà da me, voglio
potergli donare la storia di sua madre e del suo infinito amore.
E delle ragioni per cui è stata costretta a separarsi da lui, tanto
tempo fa…
Ho iniziato a scriverla quando avevo circa cinquant’anni,
temendo di morire da un momento all’altro. È rimasta chiusa
là dentro per altri cinquanta, intatta e inviolata, perché lui non
è mai venuto a cercarmi e io non l’ho ancora trovato.
Nemmeno mia figlia conosce la storia della mia vita, prima
della sua nascita. A volte mi sento in colpa per non averle mai
detto la verità, ma lei ha conosciuto il mio amore, mentre a suo
fratello è stato negato, e penso che questo sia già abbastanza.
Lancio un’occhiata allo scrittoio, visualizzando la pila di
fogli ingiallita all’interno del cassetto. E chiedo agli dèi di gui­
darmi. La mia più grande paura è che, alla mia morte (che non
potrà tardare molto), possa cadere nelle mani sbagliate. Acca­
rezzo l’idea di accendere un fuoco e chiedere a Keva di gettarvi
i fogli. Ma poi scuoto la testa: no, non potrei mai, finché c’è
ancora speranza di ritrovarlo. Dopotutto ho vissuto cento anni,
e non è detto che non arrivi a centodieci.
Ma a chi potrei affidarla nel frattempo, nel caso…?
Passo mentalmente in rassegna i miei familiari, generazione
dopo generazione. Ad ogni nome aspetto un segno. Ed è quando
arrivo a uno dei miei pronipoti, che mi fermo.
Ari Malik, il primogenito del maggiore dei figli di Muna,
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Vivek. Sorrido fra me quando un brivido mi percorre la schiena:
il segno inviato dalla divinità che mi guida e conosce ciò che io
non posso. Ari, l’unico della famiglia che abbia ricevuto il dono
degli occhi blu, proprio come il mio figlio perduto.
Devo sforzarmi molto per visualizzare i suoi lineamenti; mi
consolo pensando che, con undici pronipoti, chiunque alla mia
età faticherebbe anche soltanto a ricordarne il nome. Inoltre
abitano tutti lontano, sparsi ai quattro angoli dell’India, e non
li vedo molto spesso.
Vivek, il padre di Ari, è stato il nipote che ha avuto più suc­
cesso, economicamente parlando. È sempre stato un ragazzo
sveglio, anche se un po’ indolente. È un ingegnere e ha gua­
dagnato abbastanza da permettere a moglie e figli di condurre
un’esistenza agiata. Se ben ricordo, Ari ha studiato in Inghilterra.
È sempre stato un ragazzino brillante, anche se al momento mi
sfugge cosa abbia fatto dopo gli studi. Oggi farò in modo di in­
dagare. Lo osserverò. E scoprirò se la mia intuizione è corretta.
Presa questa decisione, fiduciosa e più tranquilla all’idea di
trovare presto una soluzione al mio problema, chiudo gli occhi
e mi concedo un sonnellino.
«Dov’è finito?» sussurrò Samina Malik al suo consorte. «Mi ha
giurato che non sarebbe arrivato in ritardo, stavolta» aggiunse,
osservando gli altri parenti di Anahita. Erano già tutti raccolti
attorno all’anziana signora nell’elegante salotto del suo bunga­
low, e la stavano omaggiando con regali e complimenti.
«Sta’ tranquilla, Samina,» la confortò suo marito «nostro
figlio starà arrivando.»
«Aveva detto che si sarebbe presentato in stazione alle dieci
per salire insieme a noi… Vivek, quel ragazzo non ha nessun
rispetto per la sua famiglia, io…»
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«Calma, pyar, Ari è un uomo molto impegnato, ed è anche
un bravo ragazzo.»
«Tu credi?» domandò Samina. «Io non ne sono tanto sicura.
Tutte le volte che lo chiamo a casa mi risponde una donna diver­
sa. Sai com’è Mumbai, piena di squali e attricette di Bollywood»
sussurrò, per evitare di farsi sentire dagli altri parenti.
«Sì, e nostro figlio ha venticinque anni e gestisce un’attività
sua. Sa badare a se stesso» replicò Vivek.
«Tutto il personale sta aspettando il suo arrivo per portare
lo champagne e fare il brindisi. Keva ha paura che tua nonna
si stanchi troppo ad attendere così a lungo» sospirò Samina.
«Se Ari non si presenta entro dieci minuti, dirò di cominciare
anche senza di lui.»
«Te l’ho detto, non ce ne sarà bisogno» disse Vivek, osser­
vando il suo figliolo preferito che entrava in salotto sfoggiando
un sorriso smagliante. «Tua madre stava dando di matto come
al solito» disse, abbracciandolo calorosamente.
«Avevi promesso che ci saremmo incontrati in stazione. Ti
abbiamo aspettato un’ora! Dov’eri finito?» disse Samina guar­
dandolo con espressione accigliata, ma sapendo già che la sua
era una battaglia persa in partenza perché il fascino del suo
bellissimo figlio l’avrebbe avuta vinta di nuovo.
«Perdonami, mamma.» Ari rivolse a sua madre un sorriso
ammaliante e le prese le mani. «Il mio aereo era in ritardo; ho
provato a chiamarti ma il tuo telefono era staccato… come al
solito» disse, lanciando un’occhiata d’intesa a suo padre. Sa­
mina era famosa in famiglia per la sua scarsa confidenza con i
telefoni cellulari.
«Ad ogni modo, ora sono qui» disse, osservando il resto dei
presenti. «Mi sono perso qualcosa?»
«No, e la tua bisnonna è stata impegnatissima a parlare con
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tutti, speriamo non si sia accorta della tua assenza» rispose Vivek.
Ari si voltò a osservare la folla dei suoi consanguinei, e la
matriarca che aveva tessuto i fili invisibili dell’unione familia­
re, generazione dopo generazione. Incontrando il suo sguardo,
si accorse di avere gli occhi curiosi e scintillanti dell’anziana
donna puntati addosso.
«Ari! Alla fine hai deciso di unirti a noi, vedo.» Sorrise. «Vie­
ni a dare un bacio alla tua bisnonna.»
«Avrà anche cento anni, ma non le sfugge niente» sussurrò
Samina a Vivek.
Quando Anahita spalancò le sue fragili braccia per dare il
benvenuto ad Ari, la folla di persone attorno a lei si aprì, lo
sguardo di tutti puntato sul ragazzo. Ari la raggiunse e le si in­
ginocchiò di fronte, mostrando il suo rispetto con un profondo
pranaam, in attesa della sua benedizione.
«Nani» salutò con il nomignolo che tutti i nipoti e pronipoti
usavano da sempre per rivolgersi a lei. «Perdona il mio ritardo.
È stato un lungo viaggio da Mumbai» spiegò.
Quando alzò gli occhi, avvertì lo sguardo penetrante della
sua bisnonna passarlo da parte a parte, come se stesse saggiando
la sua anima.
«Non preoccuparti» disse, accarezzandogli la guancia con
la sua mano rugosa e minuta, leggera come un volo di farfalla.
«Anche se,» abbassò la voce in modo che soltanto lui potesse
sentirla «ho sempre trovato utile controllare di aver impostato
la sveglia correttamente, prima di andare a dormire.» Gli striz­
zò furtivamente l’occhio e gli fece cenno di alzarsi. «Noi due
parleremo più tardi. Keva mi sembra ansiosa di procedere con
i festeggiamenti.»
«Certo, Nani» disse Ari, alzandosi in piedi con le guance un
po’ arrossate. «Buon compleanno.»
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Tornando in mezzo ai parenti, si chiese come avesse fatto a
indovinare l’esatta ragione del suo ritardo.
La giornata proseguì come previsto, con il discorso com­
movente di Vivek, cui toccava l’onore in qualità di nipote più
anziano, in ricordo della vita straordinaria di Anahita. Lo cham­
pagne sciolse in fretta il tipico imbarazzo che si crea tra familiari
che si ritrovano dopo tanto tempo. La naturale competitività
tra fratelli si dissolse, come assorbita nei ranghi della gerarchia
familiare, e i cugini più giovani abbandonarono ogni timidezza
scoprendo di avere molte cose in comune.
«Guarda tuo figlio!» disse Muna, la figlia di Anahita, a Vivek.
«Le sue cugine gli ronzano tutte intorno. È ora che cominci a
pensare al matrimonio» aggiunse.
«Dubito che lui sia d’accordo» borbottò Samina alla suocera.
«Di questi tempi sembra che i ragazzi non si mettano in gioco
prima dei trenta.»
«Non potete cercargli voi una moglie?» chiese Muna.
«Ovviamente ci proveremo, ma non credo accetterà.» Vivek
sospirò. «Ari fa parte della nuova generazione, è lui il signore e
padrone del proprio universo. Ha i suoi affari e gira il mondo. I
tempi sono cambiati, mamma, e io e Samina dobbiamo lasciare
ai nostri figli la libertà di scegliere da sé i propri compagni.»
«Davvero la pensi così?» Muna alzò un sopracciglio. «Molto
“moderno” da parte tua, Vivek. Dopotutto voi due non siete
stati male assieme.»
«Sì, mamma» concordò Vivek, prendendo la mano di sua
moglie. «Hai scelto bene per me.»
«Noi nuotiamo contro una corrente impossibile da risali­
re» disse Samina. «Al giorno d’oggi i giovani fanno quello che
vogliono, e prendono decisioni per conto proprio.» Ansiosa di
cambiare argomento, lanciò uno sguardo ad Anahita. «Vostra
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madre sembra divertirsi» commentò. «È davvero una forza della
natura.»
«Sì,» disse Muna con un sospiro «ma ho paura a lasciarla
vivere qui, in mezzo alle colline, con la sola compagnia di Keva.
L’inverno è molto freddo e non fa bene alle sue ossa. Le ho chie­
sto mille volte di trasferirsi da noi a Guhagar, ma ovviamente
ha sempre rifiutato. Dice che qui si sente più vicina agli dèi e,
ovviamente, al suo passato.»
«Il suo misterioso passato.» Vivek alzò un sopracciglio.
«Mamma, credi che riusciremo mai a persuaderla a rivelarci
chi era tuo padre? So che è morto prima che tu nascessi, ma
non riesco a farmi un quadro chiaro della storia.»
«Quando ero ragazza avevo bisogno di sapere, e la sommer­
gevo di domande. Ma ormai…» Muna si strinse nelle spalle «se
vuole tenere il segreto, che lo tenga. È stata una madre premurosa,
non avrebbe potuto fare di meglio, e non voglio turbarla adesso».
Così dicendo, Muna lanciò uno sguardo pieno d’affetto a sua
madre, e Anahita approfittò del contatto visivo per chiamarla a sé.
«Dimmi, maaji, che c’è?» chiese Muna avvicinandosi.
«Sono un po’ stanca.» Anahita soffocò uno sbadiglio. «Vorrei
riposare. E vorrei che tra un’ora portassi Ari a farmi visita.»
«Certamente.» Muna aiutò sua madre ad alzarsi e l’accom­
pagnò in mezzo ai parenti. Keva, come sempre vicina alla sua
signora, le venne incontro. «Mia madre vorrebbe riposare, Keva.
Puoi accompagnarla tu?»
«Certamente. È stata una giornata intensa.»
Muna le osservò lasciare la stanza e poi tornò da Vivek e sua
moglie. «Sta andando a riposare, ma mi ha chiesto di mandarle
Ari fra un’ora.»
«Ah, sì?» Vivek aggrottò le sopracciglia. «Mi domando
perché.»
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«Chi lo sa cosa passa nella testa di mia madre…» disse Muna,
sospirando.
«Allora sarà meglio che lo avvisi, ho sentito che aveva in­
tenzione di partire fra poco. Domattina presto ha un incontro
di lavoro a Mumbai.»
«Be’, vorrà dire che per una volta sarà costretto a mettere la
famiglia al primo posto.»
Suo padre aveva ragione: quando Samina disse ad Ari che la
bisnonna voleva parlargli, non ne fu contento.
«Non posso perdere l’aereo» spiegò. «Cerca di capire, mam­
ma, ho degli affari da portare avanti.»
«Bene, allora dirò a tuo padre che riferisca a sua nonna che
il maggiore dei suoi nipoti non ha un’ora di tempo da dedicarle
nel giorno del suo centesimo compleanno.»
«Mamma…» Ari sospirò di fronte all’espressione severa di
sua madre. «Va bene» annuì. «Resto. Scusami, devo trovare un
angolo di questa casa dove c’è la linea. Provo a chiamare per
spostare la riunione.»
Samina osservò suo figlio allontanarsi fissando il cellulare.
Ari era stato una persona determinata sin dal giorno in cui era
venuto al mondo, e senza dubbio era viziato come tutti i pri­
mogeniti. Aveva dimostrato di essere speciale dal primo istante
in cui aveva aperto gli occhi e l’aveva guardata dal profondo
di quel blu, lasciandola a bocca aperta. Proprio per il bizzarro
colore degli occhi di suo figlio, Vivek l’aveva messa sotto inter­
rogatorio dubitando della sua fedeltà, fin quando Anahita non
gli aveva raccontato che anche il suo defunto nonno aveva gli
occhi dello stesso colore.
La pelle di Ari era più chiara rispetto a quella dei suoi fratelli
e il suo aspetto inconsueto aveva sempre attirato l’attenzione
di tutti. Non c’era da stupirsi che, in venticinque anni trascor­
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si fra l’ammirazione generale, fosse un tantino arrogante. Per
fortuna la sua innata dolcezza l’aveva sempre salvato: tra tutti i
suoi fratelli era sempre stato il più affettuoso, il più premuroso,
sempre presente quanto c’era stato bisogno di lui. Fino al giorno
in cui aveva annunciato che si sarebbe trasferito a Mumbai per
iniziare un’attività propria…
L’ Ari che si era presentato a quella riunione di famiglia era
più duro, più egocentrico, e a dire il vero a Samina non piaceva
affatto. Tornando da suo marito, pregò che si trattasse solo di
una fase momentanea.
«Fai entrare mio nipote» comandò Anahita, mentre Keva l’aiu­
tava a sedersi sul letto, sistemandole i cuscini dietro la schiena.
«Sì, signora. Vado a chiamarlo.»
«E che nessuno ci disturbi.»
«Certo, signora.»
«Buon pomeriggio, Nani» disse Ari entrando di fretta pochi
secondi dopo. «Spero ti senta più riposata.»
«Sì.» Anahita indicò la sedia. «Prego, Ari, siediti. Mi dispiace
aver scombussolato i tuoi programmi di lavoro per domani.»
«Davvero,» Ari si sentì avvampare per la seconda volta «non
c’è nessun problema.» Mentre lei lo studiava coi suoi occhi pe­
netranti, si domandò se avesse il potere di leggergli nel pensiero.
«Tuo padre dice che vivi a Mumbai e porti avanti la tua at­
tività con successo.»
«Be’, con successo non direi; non ancora, almeno» rispose
Ari. «Ma sto lavorando sodo perché arrivi.»
«Mi sembri un giovane ambizioso. E sono certa che un gior­
no la tua azienda darà i suoi frutti.»
«Grazie, Nani.»
Ari la vide accennare un sorriso. «Ovviamente, potrebbe
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non essere sufficiente a soddisfarti del tutto. La vita è molto di
più che lavoro e benessere economico. Un giorno lo capirai»
aggiunse. «Adesso, Ari, c’è una cosa che desidero affidarti. Per
favore, apri il cassetto dello scrittoio e prendi i fogli che sono
al suo interno.»
Ari prese la chiave dalle mani della sua bisnonna, la infilò
nella serratura ed estrasse dal cassetto un manoscritto ingiallito.
«Cos’è?» le domandò.
«La vita della tua bisnonna. L’ ho scritta per tramandarla a
mio figlio. Purtroppo, non sono mai riuscita a trovarlo.»
Ari vide gli occhi dell’anziana signora riempirsi di lacrime.
Aveva sentito quella storia da suo padre, tempo addietro: del
figlioletto di Anahita, morto in Inghilterra dopo la Prima guerra
mondiale. Se la memoria non l’ingannava, era stata costretta a
lasciarlo là per fare ritorno in India. E a quanto pareva, tutt’ora
Anahita si rifiutava di credere che fosse morto.
«Ma io pensavo…»
«Sì, sono certa che ti abbiano parlato del certificato di morte.
E che ti abbiano spiegato che sono solo una madre inconsola­
bile, e forse un po’ matta, incapace di accettare il dolore per la
perdita del proprio figlio.»
Ari cambiò posizione sulla sedia, a disagio. «Sì, ho già sentito
questa storia» ammise.
«So cosa pensano i miei familiari, probabilmente anche tu
sarai d’accordo con loro» disse Anahita in tono fermo. «Ma
credimi, ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne spieghi
un documento scritto dal pugno di un uomo. Ci sono il cuore
di una madre, e la sua anima, che le sussurrano cose impossibili
da ignorare. Mio figlio non è morto.»
«Io ti credo, Nani.»
«No. So che non è vero» Anahita alzò le spalle. «Ma non
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m’importa. Ad ogni modo, se la mia famiglia non mi crede, la
colpa è anche mia. Non ho mai raccontato a nessuno ciò che
accadde tanti anni fa.»
«Perché no?»
«Perché…» Anahita spostò lo sguardo fuori dalla finestra,
sulle sue amate montagne, e scosse leggermente il capo. «Non
sarebbe giusto dirtelo ora. È tutto scritto lì.» E indicò la pila di
fogli tra le mani di Ari. «Quando sarà il momento – quando
sentirai che è arrivato – forse leggerai la mia storia. E a quel
punto sceglierai da te se indagare o no.»
«Capisco» disse Ari, sebbene non stesse affatto capendo.
«Tutto quel che ti chiedo è di tenerlo segreto al resto della
famiglia fino al giorno della mia morte. È la mia vita che ti af­
fido, Ari. E come ben sai,» Anahita si fermò un istante «il mio
tempo su questa terra è quasi finito».
Ari la fissava, non era sicuro di cosa la sua bisnonna gli stesse
chiedendo. «Vuoi che lo legga e che indaghi su dove potrebbe
trovarsi tuo figlio?» le domandò esplicitamente.
«Sì.»
«Ma da dove dovrei cominciare?»
«Dall’Inghilterra, ovviamente» disse Anahita, fissandolo.
«Ripercorrerai i miei passi. Tutto ciò che ti occorre sapere ce
l’hai fra le mani. Inoltre, tuo padre dice che gestisci una specie
di azienda informatica. Tu, più di tutti, sai come sfruttare le
risorse della ragnatela.»
«Intendi della “rete”?» Ari trattenne una risatina.
«Sì, sono sicura che impiegherai solo pochi secondi per rin­
tracciare il posto dove tutto ha avuto inizio» concluse Anahita.
Ari seguì lo sguardo della sua bisnonna fino alle montagne
oltre la finestra. «È un magnifico panorama» disse, non trovan­
do nulla di meglio da dire.
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«Sì, è per questo motivo che rimango qui, nonostante mia
figlia disapprovi. Presto sarò in viaggio oltre quelle cime, e ne
sarò felice. Rivedrò tutte le persone per cui ho pianto in questa
vita. Ma ovviamente,» lo sguardo di Anahita tornò a posarsi sul
pronipote «non quella che desidero incontrare più di ogni altra
al mondo; almeno non per ora.»
«Come sai che è ancora vivo?»
Gli occhi di Anahita tornarono a posarsi sull’orizzonte, per
chiudersi poi con stanca lentezza. «Come ti ho detto, ogni cosa
è scritta in quei fogli.»
«Ovviamente.» Ari capì di essere appena stato congedato.
«Ti lascio riposare, Nani.»
Anahita annuì. Ari si alzò, la salutò con un pranaam e le
dette due baci sulle guance.
«Arrivederci, sono certo che ci rivedremo presto» disse, in­
camminandosi verso la porta.
«Forse» rispose lei.
Un attimo prima di uscire, Ari si voltò d’istinto verso la sua
bisnonna. «Nani, perché proprio io? Perché non affidare la tua
storia a tua figlia o a mio padre?»
Anahita lo fissò. «Perché i fogli che hai tra le mani, oltre ad
essere il mio passato sono anche il tuo futuro.»
Ari lasciò la stanza con addosso una sensazione di stanchez­
za. Attraversò il bungalow diretto all’appendiabiti sotto al quale
aveva lasciato la sua valigetta. Vi infilò la pila di fogli ingialliti e
proseguì fino al salotto. Sua nonna, Muna, gli andò immedia­
tamente incontro.
«Perché ha voluto vederti?»
«Ah,» rispose Ari con leggerezza «è convinta che suo figlio sia
ancora vivo e vuole mandarmi in Inghilterra a investigare.» Alzò
gli occhi al cielo per comunicarle la sua opinione a riguardo.
24
«Ancora!?» Muna imitò il nipote alzando a sua volta lo
sguardo, esasperata. «Ascoltami bene: se vuoi posso mostrarti
il certificato. Suo figlio è morto quando aveva tre anni. Ti prego,
Ari,» Muna appoggiò la mano sopra la spalla del nipote «fa’
come se non ti avesse detto niente. Va avanti da anni con questa
storia. Purtroppo sono solo fantasticherie di un’anziana signo­
ra, non sprecarci tempo prezioso; dammi retta, l’ho già sentita
miliardi di volte. Ora,» sua nonna sorrise «vieni a bere l’ultima
coppa di champagne insieme alla tua famiglia.»
Ari prese l’ultimo volo da Bagdogra a Mumbai. Sull’aereo tentò
di concentrarsi sulle cifre davanti a sé, ma il volto di Anahita
continuava a tornargli alla mente. Sua nonna sosteneva che
quella di Anahita fosse solo un’illusione, probabilmente non
a torto, ma… c’erano cose che gli aveva detto, quando si erano
trovati in privato, cose su di lui, che non si spiegava come facesse
a sapere. Forse scorrendo velocemente la sua storia avrebbe
trovato qualcosa… magari poteva dare un’occhiata veloce, una
volta arrivato a casa.
All’aeroporto di Mumbai, nonostante fosse già mezzanotte
passata, trovò la sua nuova ragazza, Bambi, ad aspettarlo. Si
intrattennero piacevolmente tutta la notte nello splendido ap­
partamento di Ari, affacciato sul Mar Arabico.
Quando il giorno seguente si svegliò era già in ritardo per
la riunione, perciò disfece la valigetta e tolse i fogli che Anahita
gli aveva affidato.
Prima o poi troverò il tempo di leggerli, pensò, infilando il
manoscritto nell’ultimo cassetto della scrivania e precipitan­
dosi fuori.
25
Un anno dopo
…Ricordo. Nelle notti quiete, il più leggero accenno di brezza era
una benedizione e un sollievo dal caldo torrido di Jaipur. Spesso
salgo insieme alle altre donne e alle bambine della zenana sui
tetti del Moon Palace, e mi sdraio lassù. Mentre sono distesa a
fissare le stelle sento il suono dolce e puro di quel canto; significa
che una delle persone che amo è appena stata presa da questa
terra e sollevata verso l’alto…
Mi sveglio di soprassalto e mi ritrovo nella mia stanza a
Darjeeling, non su un tetto di Jaipur. È stato solo un sogno,
cerco di rassicurarmi, disorientata dal canto che continua a ri­
suonarmi in testa, sebbene adesso sia sveglia.
Cerco di raccapezzarmi e mi rendo conto di cosa significhi:
se sono sveglia, allora qualcuno che amo sta morendo proprio
ora. Mentre i battiti del mio cuore accelerano, chiudo gli occhi
e passo in rassegna la mia famiglia: la mia seconda vista mi dirà
di chi si tratta.
Ma per la prima volta fallisco. È strano, credo, perché gli dèi
non si sono mai sbagliati prima d’ora.
Ma chi…?
Chiudo gli occhi e inspiro profondamente, concentrandomi
sull’ascolto.
E poi capisco. Ne sono certa.
26
Mio figlio… il mio adorato figlio, sta salendo verso l’alto.
I miei occhi si riempiono di lacrime e guardo il cielo fuori
dalla finestra, in cerca di conforto. Ma è notte e oltre il vetro
c’è solo oscurità.
Sento un leggero bussare alla porta e Keva entra con una
espres­sione preoccupata.
«Signora, l’ho sentita piangere. Sta male?» mi domanda av­
vicinandosi al letto, e subito sente le mie pulsazioni.
Scuoto la testa senza proferire parola, mentre lei cerca un
fazzoletto per asciugare le lacrime che mi scorrono sulle guance.
«No,» la rassicuro «non mi sento male.»
«Allora cosa succede? Ha avuto un incubo?»
«No» alzo lo sguardo su di lei, so già che non potrà capire.
«È appena morta la mia creatura.»
Keva mi guarda sconcertata. «Come fa a sapere che la signo­
ra Muna è morta?»
«Non si tratta di mia figlia, Keva, ma di mio figlio. Quello
che abbandonai in Inghilterra tanti anni fa. Aveva ottantadue
anni» mormoro. «Perlomeno ha vissuto una lunga vita.»
Di nuovo Keva mi guarda con un’espressione confusa e mi
preme la mano sulla fronte, per controllare che non abbia la
febbre. «Signora, suo figlio è morto tanti anni fa. Credo che
abbia fatto solo un brutto sogno» dice, cercando di convincere
se stessa quanto me.
«Forse» dico gentilmente, per non allarmarla. «Ma in ogni
caso vorrei che annotassi l’ora e la data. È un momento che
desidero ricordare con precisione. Perché, vedi, adesso non ho
più nulla da aspettare» dico, sorridendo debolmente.
Keva esaudisce la mia richiesta, scrivendo data e ora su un
pezzo di carta che mi porge.
«Bene, adesso puoi andare. Non preoccuparti per me.»
27
«Sì, signora» risponde lei, incerta. «Ma è sicura di star bene?»
«Sì. Buonanotte Keva.»
Quando lascia la stanza raccolgo la penna posata sul como­
dino, scrivo una breve lettera di seguito alla sua annotazione
e tiro fuori dal cassetto il vecchio e logoro certificato di morte
di mio figlio. Domani chiederò a Keva di mettere tutto in una
busta e spedirla al notaio che si occuperà del mio testamento.
Chiudo gli occhi cercando di dormire, ma è come se all’im­
provviso fossi completamente sola su questa terra. Capisco di
essere sopravvissuta fino ad ora solo in attesa di questo mo­
mento. E adesso che mio figlio è morto, sono pronta a seguirlo.
Tre giorni dopo, Keva bussò alla porta della padrona al solito
orario. Non si preoccupò quando non ricevette risposta, perché
negli ultimi tempi la signora Chavan aveva preso l’abitudine di
sonnecchiare fino a tardi. Decise di lasciarle un’altra mezz’o­
ra e andò a sbrigare le faccende. Quando tornò a bussare, di
nuovo silenzio. Aprì piano la porta e la vide, profondamente
addormentata. Solo dopo essere entrata e aver tirato le tende,
inondando la stanza con le sue solite chiacchiere, Keva si rese
conto che la signora Chavan non le avrebbe mai più risposto.
Il telefono si mise a squillare proprio mentre Ari stava guidando
in mezzo al caotico traffico di Mumbai. Rispose solo perché
era una chiamata di suo padre, che non sentiva da settimane.
«Papà!» rispose in tono squillante. «Come stai?»
«Ciao, Ari, io sto bene ma…»
Ari avvertì subito la nota cupa nella voce di suo padre.
«Che succede?»
«Si tratta della tua bisnonna. È morta stamattina presto.»
«Oh, papà, mi dispiace tanto.»
28
«Anche a me. Era una donna meravigliosa, ci mancherà
molto.»
«Sì. Perlomeno ha vissuto a lungo» disse Ari in tono con­
solatorio, sterzando bruscamente per evitare il taxi che aveva
appena frenato di colpo davanti alla sua auto.
«Già. Il funerale sarà fra quattro giorni, per dare tempo a tut­
ti i familiari di organizzarsi. Ci saranno tutti, anche tuo fratello
e tua sorella. Spero sarai presente» aggiunse Vivek.
«Intendi questo venerdì?» si informò Ari, trattenendo il re­
spiro.
«Sì, a mezzogiorno. Sarà cremata al ghaat di Darjeeling,
una cerimonia riservata ai parenti stretti. Organizzeremo una
commemorazione più tardi, per tutte le persone che desiderano
ricordarla.»
«Papà,» disse Ari sospirando «per me venerdì è impossibile
esserci. Ho un potenziale cliente che arriva dagli Stati Uniti per
trattare l’acquisto di un software. Siamo in perdita, ma se questa
cosa andasse in porto il bilancio della compagnia passerebbe
all’attivo nel giro di una notte. Si tratta di diventare i numeri
uno al mondo, non posso venire a Darjeeling venerdì.»
All’altro capo della linea suo padre rimase in silenzio. «Ari,»
disse infine «persino io so che in certi momenti la famiglia de­
ve venire prima di tutto, anche degli affari. Tua madre non ti
perdonerebbe mai, tanto più sapendo che Anahita ti considera­
va speciale, come ti ha dimostrato il giorno del suo centesimo
compleanno.»
«Mi dispiace papà,» disse Ari in tono deciso «non posso
farci niente.»
«È la tua ultima parola?»
«Sì.»
Ari sentì la cornetta sbattere all’altro capo del telefono.
29
Il venerdì seguente, Ari tornò a casa euforico. L’ incontro con
gli americani era andato così bene che avevano firmato il con­
tratto su due piedi. Dato che aveva programmato di festeggia­
re con Bambi, decise di fare un salto a casa per una doccia e
cambiarsi d’abito. Prese la posta dalla buca e spinse il pulsante
dell’ascensore per il sedicesimo piano. Una volta entrato nel suo
appartamento aprì la busta distrattamente, mentre si dirigeva
in camera, e lesse.
Kahn & Cauhan Studio Notarile
p.zza Chowrasta
Darjeeling
Bengala Occidentale
India
2 marzo 2001
Gentile Signore,
come da istruzioni della mia cliente, Anahita Chavan, le invio
questa busta. Immagino sia già al corrente del fatto che la signora
Chavan è morta pochi giorni fa.
Le porgo le mie più sentite condoglianze,
Devak Khan
Ari si mise a sedere sul letto: l’eccitazione per l’affare andato
in porto gli aveva fatto passare di mente il funerale della sua
bisnonna. Nell’aprire la busta del notaio sospirò, sapendo che
la sua famiglia non lo avrebbe perdonato per non essersi preso
nemmeno il disturbo di fare una telefonata.
«Be’, così sia» disse Ari fra sé in tono cupo, spiegando il
pezzo di carta contenuto nella busta. Lesse:
30
Mio caro Ari,
Quando leggerai questa lettera io non ci sarò più. Ti invio i dettagli
della morte di mio figlio Moh: giorno e ora esatti del suo decesso,
oltre al suo certificato di morte originale. Come potrai notare le
date non combaciano; ciò potrebbe non significare nulla per te,
mio caro ragazzo, ma in futuro, se deciderai di indagare sulla
storia della sua scomparsa, potrebbero tornarti utili.
In attesa di incontrarci in un altro luogo, ti mando tutto il mio
affetto. Ricorda sempre che non siamo noi gli unici artefici del
nostro destino. Usa le orecchie, per sentire, e gli occhi, per vedere,
sono certa che sapranno guidarti.
Con amore,
La tua bisnonna, Anahita
Ari sospirò. Non era certo dell’umore adatto per arrovellarsi
sugli enigmi di sua nonna, né aveva voglia di farsi passare il
buonumore pensando a quanto la sua famiglia potesse avercela
con lui. Era fermamente deciso a non farsi guastare la serata.
Aprì l’acqua, mise su un cd e si infilò sotto il getto della doc­
cia, abbandonandosi alle frequenze basse della musica techno.
Indossò uno dei suoi completi di sartoria e spense lo stereo,
ma prima di uscire, mentre attraversava la stanza, la lettera di
Anahita catturò la sua attenzione. Istintivamente ripiegò il fo­
glio e lo infilò nel cassetto della scrivania che già conteneva il
manoscritto. Poi spense le luci e chiuse la porta alle sue spalle.
31
Londra
Luglio 2011
1
Rebecca Bradley premette il viso contro il vetro del finestrino,
mentre l’aereo planava su Londra. Tutto era coperto da macchie
di varie tonalità di verde, che luccicavano di rugiada inondata
di sole nello splendido mattino estivo. Quando la City apparve
sotto di lei, la vista del Big Ben e del Palazzo di Westminster
le fecero sembrare Londra una città giocattolo, in confronto ai
grattacieli di New York.
«Signorina Bradley, la faremo scendere per prima» la infor­
mò la hostess.
«Grazie» rispose Rebecca, sforzandosi di sorridere. Cercò
nella sua tracolla gli occhiali da sole che sperava l’avrebbero aiu­
tata a mascherare i segni della stanchezza, anche se era impro­
babile che ci fossero fotografi ad aspettarla. Era stata costretta a
partire prima del previsto, perciò aveva chiamato la compagnia
aerea per anticipare il volo da New York.
Provava una certa soddisfazione nel sapere che nessuno, né
il suo agente, né Jack, avesse idea di dove si trovava. Jack aveva
preso un aereo nel primo pomeriggio per tornare a Los Ange­
les. Non era stata in grado di dargli la risposta che aspettava; le
occorreva un po’ di tempo per pensarci, aveva detto.
Frugò di nuovo dentro la tracolla ed estrasse il cofanetto di
velluto viola. L’ anello che le aveva regalato era senza dubbio un
35
oggetto di valore, sebbene un po’ troppo appariscente per i suoi
gusti. Ma a Jack piaceva fare le cose in grande, come si confà
a una delle star del cinema più ricche e famose del pianeta.
Inoltre non poteva presentarsi con qualcosa di meno vistoso,
dal momento che, se lei avesse accettato la sua proposta, la foto
sarebbe finita su tutti i giornali. Lei e Jack Heyward erano una
delle coppie più in vista di Hollywood e la stampa li cercava di
continuo.
Rebecca richiuse il cofanetto e si mise a fissare distrattamen­
te fuori dal finestrino, mentre l’aereo si preparava all’atterrag­
gio. Da quando aveva conosciuto Jack girando una commedia
romantica, l’anno precedente, lei aveva cominciato a sentirsi
ostaggio di quelle persone che non si accontentavano di parte­
cipare alla sua attività sul set, ma volevano anche un ruolo nella
sua vita privata. In verità – Rebecca si morse il labbro, mentre
l’aereo proseguiva la sua discesa – la relazione da sogno su cui
la gente fantasticava era finta quanto quelle che metteva in scena
davanti alla macchina da presa.
Dal canto suo, Victor, il suo agente, incoraggiava la relazio­
ne con Jack. Le aveva già ripetuto un’infinità di volte quanto
avrebbe giovato alla sua carriera.
«Il pubblico adora le vere coppie di Hollywood, tesoro» le
aveva detto. «E se le tue quotazioni di attrice dovessero preci­
pitare, potrai sempre farti fotografare con i bambini al parco.»
Rebecca fece il calcolo del tempo che lei e Jack avevano
trascorso effettivamente insieme nell’ultimo anno. Lui viveva a
Hollywood, lei a New York, e spesso le fitte agende di entrambi
li avevano tenuti lontani per settimane di fila. E anche quando
erano insieme, non avevano un secondo di pace perché tutti
davano loro la caccia. Come il giorno prima; seduti a pranzo in
un ristorantino italiano, erano stati assediati dai clienti a cac­
36
cia di foto e autografi. Jack aveva finito per portarla a Central
Park per farle la proposta. Sperava che lì, almeno, nessuno li
avrebbe visti…
Il crescente senso di soffocamento che più tardi l’aveva as­
salita, sul taxi verso SoHo, con Jack che faceva pressioni per
avere una risposta, alla fine l’aveva convinta ad anticipare il volo.
Avere sempre puntati addosso gli occhi di tutti, e sentirsi giu­
dicata a ogni sua mossa le era ormai diventato insopportabile.
La totale mancanza di privacy che accompagna le relazioni fra
personaggi famosi, come l’impossibilità di fermarsi in un bar a
bere un caffè senza essere assaliti da ammiratori e curiosi, stava
cominciando a pesarle troppo.
Il giorno in cui era rientrata a casa ed era corsa a chiudersi a
chiave in bagno, rannicchiandosi sul pavimento in preda a una
crisi isterica, il dottore le aveva prescritto il Valium. Il tranquil­
lante aveva fatto effetto, ma Rebecca sapeva che era una strada
che non portava da nessuna parte. Su di lei incombeva lo spettro
della dipendenza, perché senza medicine non era in grado di
convivere con la pressione alla quale era sottoposta. E Jack lo
sapeva fin troppo bene.
All’inizio della loro relazione le aveva assicurato che per lui
la cocaina non era una dipendenza: poteva smettere quando
voleva; lo aiutava semplicemente a rilassarsi. Ma in seguito, Re­
becca aveva scoperto che le cose non stavano proprio così. Jack
diventava aggressivo e litigioso ogni volta che lei si lamentava
di quanto sniffasse o di quanto bevesse. E come tutte le persone
che bevono poco e non hanno mai fatto uso di droghe in vita
loro, Rebecca detestava che lui fosse fatto o ubriaco.
All’inizio della loro relazione pensava che non avrebbe po­
tuto chiedere di meglio dalla vita: una carriera in ascesa e un
compagno bellissimo e pieno di talento con il quale condivi­
37
derla. Ma, fra droghe, lontananza e il lento svelarsi dell’insicu­
rezza di Jack – culminata in una rabbiosa scenata quando, sei
mesi prima, lei era stata nominata al Golden Globe, mentre lui
no – le lenti rosa con cui vedeva il mondo avevano finito per
tingersi di grigio.
La proposta di recitare in un film inglese, La quiete della notte, ambientato negli anni Venti e basato sulle vicende di una fa­
miglia aristocratica, non sarebbe potuta arrivare in un momento
più opportuno. Non soltanto il ruolo che le avevano proposto
era di gran lunga migliore dei personaggi che interpretava di
solito nelle commediole romantiche hollywoodiane, ma essere
stata scelta dal famoso regista anglosassone Robert Hope, era
per lei un grande onore. Jack era riuscito a guastarle persino
questa soddisfazione personale, dicendole che il regista aveva
semplicemente bisogno di un nome di Hollywood sul cartellone
per tenere buoni i produttori. E poi aveva infierito spiegandole
che in costume sarebbe stata magnifica… probabilmente l’unico
motivo per cui l’avevano ingaggiata.
«Sei troppo bella per essere presa sul serio, tesoro» aveva
aggiunto riempiendosi l’ennesimo bicchiere di vodka.
Quando l’aereo atterrò a Heathrow, non appena le spie si
spensero, Rebecca si slacciò la cintura.
«È pronta, signorina Bradley?» domandò la hostess.
«Sì, grazie.»
«Ci vorrà solo qualche altro minuto.»
Rebecca si pettinò al volo i lunghi capelli scuri e li raccolse
in un nodo alla base del collo: il “look alla Audrey Hepburn”,
come lo chiamava Jack; e in effetti era il paragone preferito dalla
stampa. Circolavano persino voci di un remake di Colazione
da Tiffany.
Non doveva dare retta a Jack, non doveva permettergli di
38
minare ulteriormente la sua autostima. Gli ultimi due film di
Jack erano stati dei flop, e la sua stella non brillava più come un
tempo. La triste verità era che lui era invidioso del suo succes­
so. Respirò profondamente cercando di calmarsi. Qualunque
cosa avesse detto di lei, era determinata a dimostrare di essere
molto più che un bel faccino: quella sceneggiatura era la sua
occasione.
Inoltre, durante il ritiro forzato, tra le sperdute lande della
campagna inglese, sperava di trovare tempo e spazio per pen­
sare. Al di là di tutti i suoi problemi, nascosto da qualche parte,
c’era il Jack che amava. Ma a meno che non fosse pronto a fare
qualcosa per la sua dipendenza dalla droga, sapeva di non po­
tergli dire sì.
«Siamo pronti per accompagnarla fuori dall’aereo, signorina
Bradley» disse l’addetto alla sicurezza in completo scuro che era
apparso al suo fianco.
Rebecca si mise gli occhiali e uscì dalla cabina di prima clas­
se. Seduta nell’area vip in attesa che le portassero i bagagli, riflet­
té sul fatto che la sua storia con Jack era arrivata al capolinea, a
meno che lui non ammettesse i suoi problemi. E probabilmente,
pensò, fissando lo schermo del suo cellulare, avrebbe dovuto
dirglielo apertamente.
«Signorina Bradley, il suo bagaglio è stato caricato in auto»
disse l’addetto alla sicurezza. «Ma temo che fuori dall’aeroporto
ci sia uno sbarramento di fotografi pronti ad assalirla.»
«Non ci posso credere!» Lo guardò con aria sgomenta.
«Quanti sono?»
«Tanti» rispose lui. «Non si preoccupi, penserò io a loro.»
Le fece cenno di andare e Rebecca si alzò.
«Non me l’aspettavo» commentò, diretta verso l’uscita. «Ho
preso un volo diverso da quello che avevo prenotato.»
39
«Be’, è arrivata a Londra il mattino del grande annuncio.
Posso farle le mie congratulazioni?»
Rebecca rimase immobile sul posto. «Quale “annuncio”?»
gli chiese bruscamente.
«Il suo… fidanzamento con Jack Heyward, signorina
Bradley.»
«Ma… oh Gesù» mormorò.
«C’è una splendida foto a Central Park mentre il signor
Heyward le infila l’anello al dito. È sulle prime pagine di quasi
tutti i giornali. Bene,» si fermarono davanti alla porta scorrevole
«è pronta?»
Mentre lacrime di rabbia le scorrevano dietro gli occhiali
scuri, Rebecca annuì.
«Sì, cerchiamo di fare il più rapidamente possibile.»
Quindici minuti dopo, allontanandosi da Heathrow, fissava
impotente la fotografia sua e di Jack, che troneggiava sulla prima
pagina del Daily Mail, sotto al titolo:
jack e becks: è ufficiale!
L’ immagine sgranata mostrava Jack che le infilava l’anello al di­
to a Central Park, mentre Rebecca lo fissava con un’espressione
che lei sapeva essere la faccia del panico, ma che i giornalisti
avevano interpretato come di “lieta sorpresa”. La cosa peggiore
di tutte era la dichiarazione rilasciata da Jack, di sicuro poco
dopo essere uscito dal suo appartamento, il pomeriggio prece­
dente. Confermava di averle chiesto di sposarlo, e che dovevano
solamente scegliere la data.
Cercò con le mani tremanti dentro la borsa e tirò fuori il
cellulare. Vide che c’erano diversi messaggi di Jack, del suo agen­
te e di alcuni giornalisti, perciò lo spense e lo gettò di nuovo
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dentro la borsa. Non era in grado di rispondere a nessuno. Ed
era furiosa con Jack perché non si era pronunciato su ciò che
era successo in Central Park.
I media si sarebbero lanciati immediatamente in una gara
a indovinare chi le avrebbe disegnato il vestito da sposa, dove
si sarebbe tenuta la cerimonia e, molto probabilmente, se era
già incinta.
Rebecca chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Aveva
ventinove anni e fino alla sera precedente l’idea di sposarsi e
avere dei figli non l’aveva praticamente mai sfiorata, se non
immaginando un ipotetico e lontano futuro.
Ma Jack si avvicinava ai quaranta, era stato a letto con quasi
tutte le attrici con le quali aveva recitato e, come le aveva spie­
gato, per lui era tempo di sistemarsi. Lei invece non aveva mai
avuto altre storie importanti dopo quella durata molti anni con
il fidanzatino dell’adolescenza. La sua carriera e la fama crescen­
te avevano distrutto anche quella storia d’amore.
«Temo ci vorrà qualche ora per raggiungere il Devon, signo­
rina Bradley» disse amichevolmente l’autista. «A proposito, io
mi chiamo Graham, e se avesse bisogno di fermarsi per qua­
lunque ragione non esiti a chiedere.»
«Lo farò» disse Rebecca, che avrebbe voluto chiedergli di
guidare fino a una landa africana desolata, irraggiungibile da
fotografi, giornali e segnali telefonici.
«È piuttosto isolato il posto dove è diretta, signorina Bradley»
commentò Graham, come se le avesse letto nel pensiero. «Nel
Dartmoor farà fatica a trovare negozi e insegne illuminate» pro­
seguì. «Indubbiamente è un posto magnifico per girare un film,
sembra uscito da un’altra epoca. Non credevo che qualcuno
vivesse ancora in luoghi del genere. Ad ogni modo, per me
la campagna sarà un piacevole diversivo, glielo garantisco. Di
41
solito porto avanti e indietro gli attori dagli studios in mezzo al
traffico di Londra.»
Le parole dell’autista la confortarono un po’. Forse in quel
luogo desolato i giornalisti l’avrebbero lasciata in pace.
«Sembra che una moto ci stia seguendo, signorina Bradley»
disse Graham guardando lo specchietto retrovisore e distrug­
gendo così tutti i suoi sogni di privacy. «Non si preoccupi, la
semino in autostrada.»
«Grazie» disse Rebecca, cercando di calmarsi. Si abbandonò
sullo schienale, chiuse gli occhi e cercò di dormire.
«Ci siamo quasi, signorina Bradley.»
Dopo quattro ore e mezzo di macchina passate a sonnec­
chiare, Rebecca iniziò a sentire il jet lag. Gettò uno sguardo
intontito fuori dal finestrino. «Dove siamo?» chiese, osservando
il paesaggio aspro della brughiera tutt’intorno.
«Nel Dartmoor. Con il sole di oggi è gradevole, ma d’inverno
è piuttosto cupo. Mi scusi,» disse Graham quando il telefono si
mise a squillare «è il direttore di produzione. Accosto un attimo
per rispondere.»
Mentre Graham parlava al telefono, Rebecca aprì la por­
tiera e scese sull’erba che costeggiava il ciglio della stradina.
Inspirò profondamente l’aria tiepida e dolce. La brughiera era
accarezzata da un venticello fresco e all’orizzonte si stagliavano
ammassi di rocce frastagliate. Non c’era un solo essere umano in
vista. «Il paradiso» sussurrò, salendo in macchina mentre Gra­
ham rimetteva in moto. «C’è una tale pace qui…» commentò.
«Sì,» concordò Graham «ma sfortunatamente la telefonata era
per avvisarci che c’è già una schiera di fotografi intorno all’hotel
dove alloggia il cast. Stanno aspettando il suo arrivo. Perciò sug­
gerirei di andare direttamente ad Astbury Hall, sul set.»
42
«Bene.» Rebecca si morse il labbro sempre più disperata.
«Mi spiace, signorina Bradley» disse l’autista mostrandole
comprensione. «Dico sempre ai miei figli che essere star del
cinema ricche e famose non è una passeggiata come sembra.
Dev’essere dura per lei, specialmente in momenti come questo.»
La sua empatia le fece salire un nodo alla gola. «Lo è, a volte»
rispose.
«La buona notizia è che durante le riprese nessuno potrà
avvicinarsi. La villa è circondata da parecchi ettari di terreno
privato, e l’entrata si trova a non meno di un chilometro dal
perimetro.»
Rebecca capì che erano arrivati quando si trovò davanti a
un alto cancello in ferro battuto, controllato da un agente della
sicurezza. Graham gli fece un segnale e la guardia aprì. Rebecca
si guardò intorno incantata, mentre percorrevano il viale co­
steggiato da grandi querce, faggi e castagni.
In fondo si ergeva la villa, più simile a un palazzo a dire il
vero, di quelle che aveva visto solo nei documentari di storia in
tv. Una costruzione barocca di pietra scolpita e colonne tortili.
«Accidenti» bisbigliò.
«Spettacolare, non è vero? Ma la bolletta del gas dev’essere
terrificante» scherzò Graham.
Avvicinandosi e scorgendo l’immensa fontana di marmo
che troneggiava di fronte alla casa, Rebecca avrebbe desiderato
possedere un vocabolario di termini architettonici più ampio
per descrivere la bellezza che aveva davanti. L’ aggraziata sim­
metria dell’edificio, costituito da un corpo centrale sormontato
da una cupola, e due eleganti ali laterali, quasi le tolse il respiro.
Il sole illuminava i vetri delle finestre, che scintillavano come
diamanti sulla facciata principale; nella pietra, fra una finestra
e l’altra, erano scolpiti urne e cherubini. Sotto l’imponente por­
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tico centrale, sorretto da quattro gigantesche colonne, scorse
un sontuoso portone di quercia.
«Principesco, non trova?» disse Graham, girando attorno al­
la casa e diretto verso un cortile laterale, dove erano già parcheg­
giati diversi camion e furgoni. Una quantità di persone faceva
avanti e indietro per portare telecamere, luci e cavi all’interno
della villa. «Mi hanno detto che sperano di iniziare le riprese già
domani» disse Graham, parcheggiando la macchina.
«Grazie» rispose Rebecca, uscendo dall’auto e dirigendosi
verso il bagagliaio per prendere la valigia.
«Non ha nient’altro, signorina Bradley? Di solito le attrici si
portano appresso un intero container» scherzò amabilmente.
«Avevo fretta quando ho fatto i bagagli» ammise Rebecca,
seguendolo attraverso il cortile in direzione della casa.
«Be’, signorina Bradley, sappia che io sono a sua disposizio­
ne per tutto il periodo delle riprese, perciò se avesse bisogno
di andare da qualche parte non esiti a chiamarmi. È stato un
piacere conoscerla.»
«Ah, ce l’ha fatta!» Un ragazzo giovane e allampanato le stava
venendo incontro a passo spedito. «Benvenuta in Inghilterra,
signorina Bradley. Mi chiamo Steve Campion, sono il direttore
di produzione. Mi spiace che i nostri orribili paparazzi l’abbiano
presa di mira, stamattina. Almeno qui è al sicuro.»
«Grazie. Sa per caso quando potrò raggiungere l’hotel? Avrei
proprio bisogno di una doccia e di un po’ di riposo» disse Re­
becca, sudata e in disordine dopo il lungo viaggio.
«Ovviamente. Non volevamo che si ripetesse l’attacco all’ae­
roporto di stamattina» disse Steve. «Perciò, per ora, Lord Astbu­
ry si è gentilmente offerto di mettere a sua disposizione una
camera all’interno della casa, fin quando non troveremo una
sistemazione alternativa. Come avrà notato,» Steve indicò l’edi­
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ficio, sorridendo a trentadue denti «lo spazio qui non manca.
Robert, il regista, è ansioso di iniziare le riprese e desidera che
nulla disturbi la concentrazione dei suoi attori.»
«Mi dispiace causare così tanti problemi» disse Rebecca ar­
rossendo, assalita da un improvviso senso di colpa.
«Be’, non si preoccupi, è il giusto prezzo da pagare per avere
nel cast un’attrice giovane e famosa come lei. Bene, la gover­
nante ha detto di chiamarla quando fosse arrivata; penserà lei
ad accompagnarla nella sua stanza. Alle cinque è prevista una
riunione del cast al completo, perciò ha qualche ora a sua di­
sposizione per riposare.»
«Grazie» ripeté Rebecca, cogliendo una certa sfumatura nel­
la voce di Steve. Era già stata bollata come “problema” ed era
sicura che i talentuosi attori britannici del cast – nessuno dei
quali arrivava a sfiorare i suoi incassi al botteghino, né la sua
fama – sarebbero stati d’accordo con lui.
«Aspetti un momento, vado a cercare la signora Trevathan»
disse Steve, lasciando Rebecca impalata nel bel mezzo del corti­
le, mentre lo staff faceva avanti e indietro attorno a lei portando
dentro il materiale.
Un minuto dopo, una grassottella signora di mezz’età, con
riccioli grigi e gote rosa, si affrettò fuori dalla porta per andarle
incontro.
«Signorina Rebecca Bradley?»
«Sì.»
«Oh, ma certo che sì, mia cara.» La donna le rivolse un ampio
sorriso. «L’ ho riconosciuta immediatamente. E lasci che glielo
dica: dal vivo è ancora più bella. Ho visto tutti i suoi film, è
un vero piacere conoscerla. Io sono la signora Trevathan, la
governante. Mi segua, l’accompagno nella sua stanza. Ci vorrà
un po’, temo. Penserà Graham a portarle la valigia» disse, ve­
45
dendo Rebecca afferrare il suo bagaglio. «Non ha idea di quanti
chilometri faccia al giorno.»
«Immagino» concordò Rebecca, stentando a capire l’accento
del Devonshire. «Questa casa è davvero fantastica.»
«Un po’ meno per me, che devo occuparmene praticamente
da sola. Non ho un momento di tregua. Tanti anni fa ci lavora­
vamo in trenta, qui, ma ora le cose sono cambiate.»
«Sì, immagino di sì» disse Rebecca, seguendo la signora Tre­
vathan attraverso una serie di porte che la condussero dentro
un’ampia cucina, dove una donna vestita da infermiera beveva
caffè seduta al tavolo.
«Le scale di servizio sono la via più veloce per le camere da
letto, passando dalla cucina» disse la signora Trevathan, per­
correndo gli stretti e ripidi gradini. «L’ ho sistemata in una bella
stanza sul retro della casa. Ha una vista deliziosa sul giardino
e sulla brughiera. È stata una vera fortuna che Lord Astbury le
abbia concesso una stanza. Non ama avere ospiti. È una cosa
triste, in verità: una volta ci dormivano comodamente in qua­
ranta; ma ormai, quei giorni sono andati…»
Alla fine sbucarono attraverso una porticina in un ampio
piano ammezzato. Rebecca alzò gli occhi per un momento e
osservò ammirata la cupola sopra la sua testa, poi seguì la si­
gnora Trevathan lungo un corridoio ampio e buio.
«È questa» disse, aprendo la porta su una stanza spaziosa
e dal soffitto altissimo, in cui troneggiava un gigantesco letto
matrimoniale. «Fa un po’ fresco: avevo aperto le finestre per
dare aria. Sempre meglio dell’odore di polvere. C’è un camino
elettrico se ha freddo.»
«Grazie. Dov’è la toilette?» chiese.
«Intende dire il bagno, cara?» disse la signora Trevathan con
un sorriso. «Due porte più in là, sulla sinistra, dall’altra parte
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del corridoio. Purtroppo non abbiamo stanze con i servizi in
camera al momento. La lascio riposare.»
«Sarebbe possibile avere un bicchier d’acqua?» domandò
Rebecca, timidamente.
La signora Trevathan si fermò sulla porta, si voltò e le sorrise
amichevolmente. «Ma certo. Dev’essere esausta. Ha mangiato
niente?»
«No, non sono riuscita a fare colazione in aereo.»
«Le andrebbe allora del pane tostato e una bella tazza di tè?
Ha l’aria un po’ sbattuta.»
«Sarebbe stupendo» la ringraziò Rebecca, sentendosi im­
provvisamente girare la testa e lasciandosi cadere su una pol­
trona accanto al camino elettrico.
«Bene, vado a prepararglielo.» La signora Trevathan la guar­
dò con gentilezza. «Dietro tutto quel fascino c’è una personcina
fragile, non è vero, cara? Ora, si riprenda un attimo, io sarò di ri­
torno fra un minuto.» Le sorrise dolcemente e uscì dalla stanza.
Poco dopo, Rebecca percorse il corridoio e dopo una serie
di tentativi falliti, in cui si infilò prima in un ripostiglio e poi
in un’altra stanza, trovò il bagno, al centro del quale era siste­
mata un’antica vasca in ghisa. Una catenella semi arrugginita
pendeva dalla cisterna sopra il wc e, dopo aver bevuto un
po’ d’acqua dal rubinetto, tornò in camera. Passando accanto
alle ampie finestre, decise di dare un’occhiata al paesaggio.
Il giardino oltre l’ampia terrazza che fiancheggiava il retro
della villa era estremamente curato. Piante ornamentali e ar­
busti crescevano rigogliosi lungo il perimetro e il rosa pallido
dei ciliegi in piena fioritura addolciva il colpo d’occhio verde
dell’immenso prato. Oltre l’alta siepe di tasso che recintava
il giardino, correva la brughiera, il cui aspetto selvaggio era
in netto contrasto con l’erba perfettamente rasata lì sotto. Re­
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becca si sfilò le scarpe e si distese sul letto, ammorbidito da
anni e anni di utilizzo.
Quando la signora Trevathan entrò in camera dieci minuti
dopo, la trovò profondamente addormentata. Posò il vassoio
sul tavolino, la coprì e uscì senza fare rumore.
48
2
«Signore e signori, do a tutti voi il benvenuto ad Astbury Hall
che, sono certo concorderete, è l’ambientazione perfetta per
girare La quiete della notte. Lavorare in una tra le ville private
più maestose di tutta l’Inghilterra è per me un grande onore,
e spero che il nostro tempo, qui, sarà tanto piacevole quanto
produttivo.»
Robert Hope, il regista, sorrise cordialmente agli attori riu­
niti. «Credo che queste vecchie mura tremeranno, scosse dall’e­
norme quantità di talento ed esperienza presenti. La maggior
parte di voi si conosce già, ma vorrei riservare uno speciale
benvenuto a Rebecca Bradley, che si è unita al cast per ravvivare
noi vecchi inglesi ammuffiti con il suo tocco hollywoodiano.»
Gli occhi di tutti si spostarono su Rebecca che, intimorita
dalla presenza di quei grandi attori, era andata a nascondersi in
un angolo. «Salve» disse con un sorriso imbarazzato.
«Vi lascio a Hugo Manners, la cui splendida sceneggiatura,
sono certo, tirerà fuori il meglio da ognuno di voi» proseguì
Robert. «Il copione definitivo verrà distribuito fra poco, fresco
di stampa. Steve, il direttore di produzione, fornirà a ciascuno
di voi anche la tabella di marcia delle riprese. A questo punto
non mi resta che augurare buon lavoro a tutti. Vi lascio nelle
mani di Hugo.»
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L’ entrata di Hugo Manner, sceneggiatore già premiato con
l’Oscar, scatenò un concitato applauso. Rebecca sentì a ma­
lapena qualche parola di tutto il discorso, improvvisamen­
te sopraffatta dalla sfida che le si presentava davanti. La sua
maggiore preoccupazione era l’accento: a New York era an­
data a lezione di dizione e pronuncia per due mesi, e aveva
fatto del suo meglio per imparare a parlare come una vera
inglese. Ma sapeva fin troppo bene che l’aver accettato quella
parte significava camminare sul filo senza rete di sicurezza.
Distruggere la performance dell’ultima attricetta americana
da quattro soldi, arrivata con la pretesa di recitare la parte di
un’inglese: la stampa di tutto il Regno Unito non aspettava
altro. Specialmente se l’attricetta in questione aveva notevoli
incassi al botteghino.
Il fatto che a New York avesse vinto una borsa di studio alla
famosa scuola d’arte drammatica Juilliard, oltre al premio come
miglior attrice dell’anno, nella parte di Beatrice in Molto rumore
per nulla di Shakespeare, pareva non importare a nessuno. Ogni
stella di Hollywood si considerava “seria”, che lo fosse o no;
per Rebecca non era così. Sapeva che quella era la sua grande
occasione per dimostrare alla critica di essere anche una brava
interprete, seria e preparata.
Quando Hugo ebbe terminato il suo discorso partì un altro
applauso e Steve, il direttore di produzione, iniziò a distribuire
i copioni e la tabella di marcia personale a tutti.
«Sarà felice di sapere che domani la sua presenza sul set non
è richiesta, Rebecca. In mattinata il suo programma prevede
un incontro con la stilista per le prove degli abiti, dopodi­
ché sarà il turno del trucco. Robert suggerisce anche un’ora
di lezione con l’insegnante di dizione prima dell’inizio delle
riprese.»
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«Ottimo. Ha idea di quando potrò trasferirmi in hotel? Vor­
rei disfare la valigia e sistemarmi.»
«Pare che i fotografi stiano ancora accerchiando l’albergo,
perciò Lord Astbury le permetterà di fermarsi qui per la notte,
mentre noi cercheremo un posto tranquillo in cui sistemarla.
Beata lei,» aggiunse Steve «a me hanno rifilato una stanza sopra
il pub del paese. E inoltre, dormire circondata da quest’atmo­
sfera le permetterà di calarsi meglio nella parte.»
Un uomo bellissimo e affascinante le si avvicinò porgendole
la mano. «La signorina Bradley, presumo. Salve, sono James
Waugh. Recito la parte di Lawrence e a quanto pare io e te –
posso darti del tu? – abbiamo parecchie scene… intime, per
così dire.» Lui le strizzò l’occhio, e Rebecca studiò a fondo i suoi
magnetici occhi blu, che di certo l’avevano aiutato a uscire dal
mucchio dei giovani attori inglesi.
«È un vero piacere conoscerti, James» lo salutò, stringendogli
la mano.
«Povera cara» disse con affetto. «Essere accolta dall’assalto
dei giornalisti per il tuo fidanzamento con Jack Hayward dev’es­
sere stato uno shock.»
«Io…» Rebecca non sapeva bene cosa dire. «Direi di sì» ri­
spose debolmente.
«A proposito: congratulazioni.» James le teneva ancora la
mano. «È un uomo molto fortunato.»
«Grazie» disse lei, rigida come un blocco di marmo.
«Nel caso volessi provare insieme qualche scena prima di
iniziare le riprese, fammelo sapere. Personalmente sono terro­
rizzato» le confidò. «Lavorare con tutti questi “geni” del cinema
e del teatro mette soggezione.»
«Ti capisco» commentò Rebecca, sentendosi leggermente
confortata dalle sue parole.
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«Be’, sono certo che sarai meravigliosa; e dato che siamo tutti
qui inchiodati nel bel mezzo del nulla, fammi pure un fischio
se mai ti andasse un po’ di compagnia.»
«Lo farò, e grazie.»
James le lanciò un’ultima occhiata – come se non fosse stato
già abbastanza esplicito – e si allontanò.
Troppo timida per andare a chiacchierare con gli altri at­
tori, Rebecca si sedette e iniziò a studiare il suo programma,
riflettendo sull’abilità di James nel congratularsi per il suo fi­
danzamento facendole allo stesso tempo capire che gli sarebbe
piaciuto “conoscerla meglio”.
«Rebecca, il cast e la troupe rientreranno in albergo fra pochi
minuti per la cena» disse Steve, comparendo improvvisamente
al suo fianco. «Domattina arriverà il catering sul set, ma per
stasera dovrò chiedere alla sua nuova migliore amica, la signora
Trevathan, di prepararle qualcosa. Era molto preoccupata per
lei, ha detto che aveva bisogno di rimettersi in forze.»
«Che carina; comunque stasera sarò impegnata a leggere il
copione, perciò non c’è problema» rispose.
«Tutto bene, Rebecca?» gli occhi di Steve erano pieni di
preoc­cupazione.
«Sì, forse soffro un po’ il jet-lag e, a essere onesta, sono so­
praffatta dalla presenza di tutti questi attori incredibili. Ho pau­
ra di non essere all’altezza» confessò.
«Capisco; ma, se può confortarla, sappia che lavoro con
Robert da anni e non ha mai sbagliato un casting. Sono certo
che abbia piena fiducia nelle sue capacità. Se così non fosse,
potrebbe essere anche l’attrice più famosa al mondo, ma ora
non si troverebbe qui.»
«Grazie mille, Steve. E diamoci del tu, per favore» disse lei,
piena di gratitudine.
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«Bene allora, ci vediamo domani. E goditi la tua notte a pa­
lazzo. Di sicuro qui dentro sei al riparo dai giornalisti.»
Steve si allontanò, accompagnando il gruppo di attori fuori
dal salone. Quando tutti se ne furono andati, Rebecca per la
prima volta poté davvero guardarsi attorno. Il sole di giugno
penetrava con i suoi raggi attraverso le enormi finestre, renden­
do meno austeri i mobili di mogano che occupavano la stanza.
Divani e poltrone erano disposti lungo le pareti della stanza, e
un imponente camino ne dominava il centro. Rebecca desiderò
che fosse acceso, rabbrividendo per l’aria fresca della sera.
«Eccola qui, mia cara.» La signora Trevathan apparve sulla
soglia e le andò incontro. «Steve mi ha detto che deve ancora
cenare. Ho un pasticcio di carne e rognoni con contorno di
patate, rimasto dall’ora di pranzo.»
«Non ho molta fame. Non ci sarebbe un’insalatina?»
«Capisco.» La signora Trevathan la studiò con i suoi occhietti
brillanti. «Immagino lei sia una di quelle sempre a dieta. Se mi
permette, signorina, è così magra che prima o poi il vento se
la porta via.»
«Lo so. Ma devo stare attenta alle calorie» rispose Rebecca,
imbarazzata dalla constatazione della governante.
«Come preferisce, ma starebbe molto meglio facendo un vero
pasto, una volta ogni tanto. Vuole che le porti la cena in camera
da letto?»
«Sarebbe molto gentile da parte sua, grazie.»
Quando la governante se ne fu andata, Rebecca ripensò alle
sue parole aggrottando la fronte. Certo che calcolava ogni ca­
loria dei suoi pasti, ma che altro poteva fare? La sua carriera
dipendeva anche dalla sua linea.
Uscì dalla sala e si ritrovò nell’ampio ingresso, di fronte allo
scalone che conduceva alle camere da letto. Si fermò a osservare
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lo splendore della cupola, da cui la luce filtrava andando ad
accarezzare il pavimento di marmo ai suoi piedi.
«Buonasera.»
Al suono di una profonda voce maschile Rebecca ebbe un
sussulto e si voltò. Fissò l’uomo sulla cinquantina in piedi sulla
soglia: indossava una vecchia giacca di tweed e dei pantaloni
di velluto a coste tutti lisi, infilati dentro un paio di stivali di
gomma. I capelli brizzolati, ispidi e arruffati, avrebbero avuto
bisogno di una bella spuntata.
«Salve» rispose con voce incerta.
«Mi chiamo Anthony, e lei è…?»
«Rebecca. Rebecca Bradley.»
«Ah.» Nei suoi occhi si accese una scintilla. «La star america­
na. Dicono sia molto famosa, ma temo di non aver mai sentito
parlare di lei. Non sono un grande cinefilo, deve scusarmi»
spiegò con un’alzata di spalle.
«La prego, non si scusi, non c’è ragione per cui dovrebbe
conoscermi.»
«In effetti no. Ad ogni modo ora devo andare.» L’ uomo con­
tinuava a spostare il peso da un piede all’altro, palesemente a
disagio. «Ho parecchio lavoro da fare, prima che sia buio.» Le
rivolse un cenno del capo prima di scomparire uscendo dalla
porta.
Rebecca attraversò l’ingresso e salì la scalinata, ammirando
i dipinti a olio degli antenati di casa Astbury che tappezzavano
le pareti. La signora Trevathan comparve sul piano ammezzato
reggendo un vassoio e seguì Rebecca in camera sua.
«Eccoci qui, mia cara; le ho portato un po’ di minestra calda
e un po’ di pane fresco imburrato. Oh, e anche una fetta della
mia torta alla crema» aggiunse, togliendo il coperchio con un
gesto plateale.
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«Grazie.»
«C’è altro che posso fare?»
«No, grazie mille. Questa casa è davvero bellissima…»
«Lo so, cara, lo so. E non ha idea dei sacrifici che ho dovuto
fare per mantenerla in questo stato» disse la governante, sospi­
rando debolmente.
«Posso immaginare. A proposito, ho conosciuto il giardinie­
re poco fa, di sotto» aggiunse Rebecca.
«Il giardiniere?» disse la signora Trevathan alzando un so­
pracciglio. «Al piano di sotto, dentro casa?»
«Sì.»
«Be’, c’è un ragazzo che viene una volta alla settimana a fal­
ciare il prato. Forse stava cercando sua Signoria. Bene, la lascio
mangiare in pace. A che ora desidera la colazione domattina?»
«Non faccio una vera colazione, mi basta un succo di frutta
e uno yogurt.»
«Be’, vedrò cosa posso fare.» Mentre usciva, la signora Treva­
than manifestò la sua disapprovazione per le abitudini alimen­
tari di Rebecca sbuffando, ma prima di richiudere la porta alle
sue spalle si voltò per rivolgerle un sorriso di conforto. «Buo­
nanotte, mia cara. Dorma bene.»
«Buonanotte.»
Rebecca gustò la minestra di porri e patate e il pane croccan­
te spalmato di burro fresco. Ma una volta finita aveva ancora
fame, perciò decise di assaggiare una cucchiaiata dello strano
dolce che le aveva portato la signora Trevathan. Dopo il primo,
delizioso boccone non riuscì più a smettere e finì anche quello,
per poi lasciarsi cadere sul letto in preda al senso di colpa; si
ripromise di non divorare mai più un pasto completo all’inglese,
per quanto gustoso.
Quando il suo stomaco si fu assestato, rotolò su un fianco per
55
frugare dentro la borsa e trovò a tentoni il cellulare; lo accese
per ascoltare i messaggi, ma il telefono non riusciva a collegarsi
alla rete. Provò a tirare fuori l’iPad, ma vide che non c’era wi-fi.
A quel punto, sulle sue labbra spuntò un sorrisetto. A quanto
pareva il suo desiderio di scappare in un posto in cui nessuno
fosse in grado di contattarla era stato esaudito, almeno per una
notte. Tornò a distendersi e contemplò l’avanzare del crepuscolo
fuori dalla finestra, mentre il sole si nascondeva lentamente
dietro la brughiera. Tutt’a un tratto si rese conto di trovarsi
immersa nel silenzio.
Raccolse il copione dal comodino e iniziò a sfogliarlo. Il suo
ruolo era quello di Lady Elizabeth Sayers, la bellissima sorella
minore della famiglia. Correva l’anno 1922 e l’Età del jazz era
in pieno fermento. Suo padre voleva obbligarla a sposare un
ricco proprietario terriero, ma Elizabeth aveva altri piani. Il
film era incentrato sul ruolo dell’aristocrazia britannica in un
mondo in fase di profondi cambiamenti, tra le prime lotte per
l’emancipazione femminile e una classe lavoratrice stanca di
essere sottomessa. Elizabeth si innamorava di Lawrence, poeta
senza un soldo, conosciuto a Londra durante una breve fuga
bohémien. La scelta obbligata fra il vero amore e il disonore
della famiglia era una storia già sentita, ma la splendida sceneg­
giatura di Hugo Manners era un piccolo capolavoro.
Come sempre, il programma delle riprese non partiva dal­
l’inizio della storia; la prima scena di Rebecca era insieme a
James Waugh, che recitava la parte del suo innamorato: una
scena all’aperto, con tanto di bacio appassionato. Rebecca emise
un sospiro. A dispetto della sua professionalità e delle decine di
volte in cui era stata sedotta di fronte alla telecamera, odiava do­
ver girare scene d’amore con partner che conosceva a malapena.
Con la coda dell’occhio colse un movimento in giardino. Si
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spostò alla finestra e vide il giardiniere seduto su una panchi­
na: c’era qualcosa di triste in lui, come un senso di solitudine,
percepibile anche a distanza. Rebecca rimase a osservarlo, fer­
mo e impassibile come una statua, fissare dritto di fronte a sé
l’avanzare del crepuscolo.
Dopo essersi fatta un lungo bagno, si infilò sotto le lenzuola
inamidate e riprese a leggere il copione. E mentre si esercitava
con lo smozzicato accento inglese degli anni Venti, distesa in
quel letto, dentro quella stanza, si sentì davvero come al tem­
po della sceneggiatura: era impressionante quanto poco fosse
cambiato rispetto a quell’epoca.
Quando si accorse che erano le dieci passate, pur convinta
che non sarebbe riuscita a prendere sonno a causa del jet-lag,
Rebecca allungò la mano e spense la luce. Con sua grande sor­
presa dormì tutta la notte, svegliandosi solo quando, alle otto
del giorno dopo, la signora Trevathan si presentò con il vassoio
della colazione.
Alle dieci scese al piano di sotto e si recò al guardaroba per
la prova costume. Non appena la vide, Jean, la stilista scozzese,
disse: «Mia cara, ma tu sembri fatta apposta per questa parte!
Hai proprio la bellezza d’inizio Novecento. Sappi che ho una
sorpresa per te!».
«Davvero?»
«Sì. Ieri ho parlato con la governante e mi ha detto che nella
villa c’è una collezione di abiti da sera degli anni Venti; appar­
tenevano a una parente di Lord Astbury e dopo di lei nessuno
li ha mai più indossati. Ho chiesto se potevo dare un’occhiata,
per curiosità, e ovviamente,» disse, strizzandole l’occhio «per
cercare qualcosa che potesse andarti bene. Ho pensato che sa­
rebbero stati perfetti per il film.»
«Sono pienamente d’accordo» rispose Rebecca.
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«Allora…» con un gesto teatrale, Jean tirò indietro il drappo
di seta che nascondeva l’appendiabiti «dai un’occhiata qui.»
Di fronte allo splendore degli abiti da sera che le apparvero
davanti agli occhi, Rebecca rimase a bocca aperta. «Accidenti,»
disse senza fiato «sono stupendi.»
«E conservati alla perfezione. Non si direbbe che abbiano no­
vant’anni. La maggior parte sono di stilisti francesi del­l ’epoca,
Lanvin, Vionnet… un piccolo tesoro» tenne a precisare Jean,
osservando Rebecca che sfiorava affascinata i meravigliosi ve­
stiti. «All’asta verrebbero una fortuna. Non vedo l’ora di farteli
provare, dovrebbero starti a pennello. Sembra che la vecchia
proprietaria avesse la tua stessa corporatura.»
«Ma, anche se dovessero andarmi, abbiamo il permesso di
utilizzarli?» domandò Rebecca.
«In realtà non lo so. La governante era dubbiosa, doveva
chiedere prima il permesso a Lord Astbury. Intanto noi provia­
moli, non si sa mai.» Jean tirò fuori una gruccia dall’appendia­
biti: «Che ne diresti di questo, per la scena di domani?».
Dieci minuti dopo, Rebecca si trovava di fronte allo spec­
chio. Era dai tempi della Juilliard che non indossava un costume
d’epoca; nei suoi film a Hollywood aveva sempre recitato la
parte della ragazza moderna, giovane e spigliata, più tipo da
jeans e maglietta che da abito lungo. Il vestito di Lanvin che
stava provando, invece, era in seta e chiffon, ornato con delicati
ricami di perline. L’ orlo asimmetrico della gonna, tagliata poco
sopra la caviglia, accompagnava i suoi movimenti con aggraziati
svolazzi.
«Bene, se necessario pregherò Lord Astbury in ginocchio,
ma tu devi avere questi vestiti» disse Jean con decisione. «Pro­
viamone un altro.»
Dopo che Rebecca ebbe sfilato con l’intera collezione, Jean la
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guardò con un sorriso smagliante. «Direi che ci siamo. Parlerò
con la governante prima possibile. Mia cara, ti assicuro che
in questo film sarai un sogno» commentò, aiutando Rebecca
a togliersi l’ultimo vestito. «E dopo il trucco e l’acconciatura
giusti sembrerai apparire direttamente dagli anni Venti!» disse
strizzandole l’occhio in segno d’intesa. «Sono proprio in fondo
al corridoio a destra.»
«Avrei bisogno di un gps per orientarmi in questa casa»
disse Rebecca sorridendo, mentre andava verso la porta. «Mi
perdo di continuo.»
Uscì dal guardaroba e percorse il corridoio fino alla sala
trucco. Quando fu seduta davanti allo specchio, la hair stylist
prese fra le dita uno dei neri, lucidi, lunghi boccoli di Rebecca.
«Come ti senti all’idea di fare taglio e colore, domani?» chiese.
Era stato l’argomento di un acceso dibattito fra lei e il suo
agente, Victor: il contratto prevedeva che acconsentisse a farsi
decolorare e acconciare i capelli in un bob anni Venti, per asso­
migliare all’interprete di sua madre, bionda naturale.
«Mah, bene credo.» Rebecca alzò le spalle. «Ricresceranno,
voglio sperare.»
«Certo. E alla fine delle riprese posso rifarti la tinta del tuo
colore. Sai, è un sollievo sentirtelo dire» disse soddisfatta la ra­
gazza. «Al tuo posto la maggior parte delle attrici avrebbe fatto
un sacco di storie. E ti assicuro che potresti persino piacerti:
il caschetto anni Venti sembra fatto apposta per esaltare i tuoi
lineamenti delicati.»
«E magari, bionda, la gente non mi riconoscerà» rifletté Re­
becca.
«Purtroppo mi sa che non ti sarà di grande aiuto» commentò
la truccatrice, andando a sedersi accanto a Rebecca. «Hai un
viso inconfondibile. Allora, com’è Jack Heyward di persona?
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Sullo schermo è un dio! È bello anche la mattina appena sve­
glio?» scherzò.
Rebecca ci pensò un attimo. «È molto carino anche quando
si sveglia, sì.»
«Lo sapevo.» La truccatrice sorrise. «Scommetto che non ci
credi neanche tu che stai per sposarlo.»
«Sai, hai proprio ragione: effettivamente non ci posso crede­
re. Ci vediamo domattina per il taglio!» Sorridendo per masche­
rare il sarcasmo, Rebecca si alzò e uscì dalla stanza salutando
le ragazze con la mano. Guardò l’orologio e vide che erano le
tre: aveva ancora due ore libere prima dell’appuntamento con
l’insegnante di dizione.
Una delle costumiste le aveva detto che in un certo punto
del giardino c’era copertura di rete, perciò salì al piano di sopra
a prendere il suo cellulare. Vide che nel salone le riprese erano
già iniziate, e attraversando la sala da pranzo per uscire sulla
terrazza sentì lo stomaco contrarsi per la paura: domani ci sa­
rebbe stata lei, davanti alla macchina da presa.
Scese le consunte scale di pietra che conducevano in giardino
e lo attraversò a passo di marcia. Si sedette sulla panchina dove
aveva avvistato il giardiniere la sera prima; sul suo cellulare c’era
una sola tacca intermittente.
«Dannazione!» disse, cercando inutilmente di ascoltare i
messaggi in segreteria.
«Va tutto bene?»
Rebecca ebbe di nuovo un sobbalzo, sentendo quella voce, e
si voltò verso il roseto: di nuovo vide il giardiniere, con un paio
di cesoie in mano.
«Sì, tutto bene, grazie. Non riesco a trovare un punto in cui
si riesce a telefonare.»
«Mi dispiace. Non abbiamo una buona copertura, qui.»
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«In realtà la cosa non mi disturba troppo. Anzi, ne sono
quasi felice» gli confidò. «Le piace lavorare qui?» domandò poi
educatamente.
Lui la guardò in maniera strana, e poi annuì. «Non l’avevo
mai considerato da questa prospettiva, ma immagino che in
un certo senso sia così. Ad ogni modo, non riesco a pensare di
vivere da un’altra parte.»
«Questo posto dev’essere il sogno di ogni giardiniere. Le
rose sono splendide, hanno dei colori magnifici, specialmente
quella che sta potando. È di un viola così scuro che sembra
quasi nero.»
«Sì,» concordò lui «si chiama Midnight Rose, la rosa di mez­
zanotte, ed è una varietà piuttosto misteriosa. È qui da quando
sono in questa casa e ormai dovrebbe essere morta. Invece, ogni
anno rifiorisce come se fosse appena stata piantata.»
«Io ho solo qualche pianta in vaso» commentò Rebecca.
«Le piace il giardinaggio?»
«Quando ero una ragazzina avevo un pezzetto di terra da
coltivare, a casa dei miei. Era il mio rifugio.»
«Senza dubbio vi è qualcosa, nel lavorare la terra, che aiu­
ta a liberarsi dalle frustrazioni» disse il giardiniere, annuendo.
«Come si trova qui, lei che è americana?»
«È totalmente differente rispetto a qualsiasi posto in cui sia
mai stata, ma stanotte mi sono riposata come non mi accadeva
da anni. C’è una tale pace. Purtroppo domani mi trasferiranno
in un hotel. Credo che Lord Astbury non voglia ospiti in casa.
Ma a me» confessò Rebecca «piacerebbe molto restare. Mi sento
al sicuro qui».
«Be’, non si sa mai, Lord Astbury potrebbe anche cambiare
idea. A proposito,» indicò il suo cellulare «può chiedere alla
signora Trevathan di usare la linea del suo studio.»
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«Ah, grazie mille. Lo farò» disse Rebecca alzandosi in piedi.
«Ci vediamo.»
«Tenga» il giardiniere recise un esemplare perfetto di Midnight Rose e gliela porse. «Per la sua camera. Ha un profumo
meraviglioso.»
«Grazie» rispose lei, commossa da quel gesto. «Vado subito
a metterla in acqua.»
Andò a cercare la signora Trevathan e la trovò in cucina;
le chiese sia un vaso per il suo fiore, sia il permesso di usare il
telefono dello studio, come le aveva suggerito il giardiniere. La
signora Trevathan l’accompagnò in una stanzetta buia, con i
muri tappezzati di libri e una scrivania ingombra di scartoffie
disordinate.
«Ecco qui, ma se chiama in America cerchi di fare telefonate
brevi. Sua Signoria va su tutte le furie quando la bolletta è trop­
po alta. Più tardi le porto la rosa in camera.»
Mentre la signora Trevathan usciva dalla stanza, Rebecca
pensò che “sua Signoria” doveva essere proprio un orco.
Si sedette e scorse la rubrica del suo cellulare, afferrando la
cornetta dell’antiquato telefono a disco. Con qualche difficoltà
compose il numero di Jack, e quando sentì rispondere la segre­
teria telefonica tirò un sospiro di sollievo.
«Ciao, sono io, sono finita in un posto dove non arrivano
né internet, né il cellulare. Domani mi trasferiscono in hotel,
perciò ci sentiamo quando arrivo. Io tutto bene, comunque…»
Rebecca ebbe un attimo di esitazione, pensando a quello che
avrebbe voluto dirgli, ma l’argomento da affrontare era così
delicato e complesso che non sapeva da dove iniziare. Perciò
disse solo: «Ci sentiamo presto».
Poi compose il numero di Victor, il suo agente, e lasciò un
messaggio simile anche alla sua segreteria.
62
Uscendo dallo studio andò in cerca di Steve, determinata
a capire una volta per tutte dove avrebbe alloggiato. Lo trovò
accanto al furgone del catering, parcheggiato nel cortile laterale.
«Lo so, lo so, Rebecca, vuoi sapere dove ti trasferiremo» disse
Steve, con aria esasperata. «Stavo appunto venendo a cercarti
per portarti buone notizie. Lord Astbury è venuto da me cinque
minuti fa e mi ha detto che puoi restare qui. Mi ha sorpreso
abbastanza, in realtà, visto che all’inizio era totalmente con­
trario all’idea» precisò. «Avevamo anche trovato un bed and
breakfast in un paesino qui a fianco, ma a essere onesto non
è esattamente all’altezza di una stella del cinema. Oltretutto i
paparazzi finirebbero per scovarti. Perciò decidi tu.»
«Okay, posso pensarci un attimo?» Nonostante apprezzasse
molto la tranquillità di quella sistemazione, non era sicura di
voler alloggiare con il misterioso Lord Astbury.
«Certo» rispose Steve; il suo walkie talkie gracchiò. «Perdo­
nami, mi vogliono sul set.»
Tornata in camera, Rebecca ripassò le sue battute prima
dell’incontro con l’insegnante di dizione. In quel momento
aveva soprattutto bisogno di pace per concentrarsi sulla sua
performance. Da quel ruolo dipendeva tutta la sua carriera.
Dopo l’ora di dizione, trovò Steve in terrazza e gli disse che si
sarebbe fermata ad Astbury Hall con piacere.
«Date le circostanze, credo anch’io che questa sia la deci­
sione migliore» rispose lui sollevato. «E la signora Trevathan
ha detto che sarà felice di provvedere alle tue cene. Sembra
che abbia deciso di prenderti sotto la sua ala protettiva» disse
sorridendo.
«Oh, ma io non mangio quasi mai a cena, perciò…»
«Buonasera a tutti» disse una voce alle loro spalle.
63
Rebecca vide il giardiniere avanzare verso di loro.
«Buonasera, Lord Astbury. La signorina sarà felice di restare
in villa» disse Steve. «È davvero molto gentile da parte sua fare
quest’eccezione.»
«Mi chiami Anthony, la prego» rispose lui.
Scioccata, Rebecca guardò prima Steve e poi Anthony.
«Forse la signorina sarà felice di darmi una mano con il
giardinaggio, quando non sarà impegnata con le riprese» disse,
e un guizzo d’ironia attraversò i suoi occhi.
Sentì le guance avvampare. «Sono imbarazzatissima, mi scu­
si ma non avevo capito chi fosse.»
«No, be’, forse non era così che immaginava un Lord» ri­
spose Anthony in tono pacato. «Purtroppo, di questi tempi la
nobiltà decaduta deve fare il lavoro sporco con le proprie mani.
Abbiamo appeso lo smoking al chiodo. Ora, se volete scusarmi,
ho dei laburni da potare.»
Si voltò e si incamminò verso il retro della casa.
«Oh, mia cara.» Steve si mise a ridere. «Un classico! Non so
come vada negli Stati Uniti, ma la moderna aristocrazia inglese
è trasandata per definizione. Indossare vestiti logori e guidare
auto disastrate è una specie di segno distintivo, esibito con mol­
to onore. Nessun membro della nobiltà sognerebbe di vestirsi
elegante in casa propria. Fanno tutti così.»
«Capisco» rispose Rebecca, sentendosi stupida e fuori posto.
«Ad ogni modo, la tua ingenuità pare gli sia piaciuta» con­
tinuò Steve, dato che lei non riusciva più a dire nulla. «Ti ha
addirittura concesso di restare in casa sua.»
In quel momento vide che James Waugh le stava venendo
incontro con passo rilassato. «Rebecca, volevo chiederti, hai
impegni per stasera? Pensavo che magari avremmo potuto man­
giare qualcosa insieme per conoscerci un po’ meglio. Domani
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abbiamo la nostra prima scena ed è piuttosto – come dire –
ravvicinata» disse, con un ampio sorriso.
«In verità stavo pensando di andare a letto presto» rispose.
«Sono sicuro che Graham può venire a prenderti in macchi­
na non appena avremo finito.»
«Preferirei di no. Sai, la stampa…»
«Se ne sono andati tutti quanti stamattina» disse James. «E
non puoi certo lasciare che qualche giornalista comprometta la
tua interpretazione, ti pare?»
«No. Certo che no. Va bene.» Alla fine Rebecca acconsentì,
più che altro per timore di apparire sostenuta.
«Bene» sorrise James. «Ci vediamo alle otto in hotel. E non
preoccuparti, farò in modo che ci riservino un tavolo appar­
tato.»
Non appena James se ne fu andato, Steve le fece l’occhiolino.
«Sembra che tu abbia fatto conquiste anche sul suolo inglese.
Stai attenta, ha una reputazione da dongiovanni.»
«Lo farò. Grazie, Steve.» E così dicendo, se ne andò a testa
alta.
Una volta tornata in camera sentì bussare alla porta.
«Avanti.»
Era la signora Trevathan. «Mi scusi se la disturbo, Rebecca,
ma so che ha conosciuto sua Signoria.»
«Sì, è così» mormorò lei, continuando ad appendere nell’ar­
madio i pochi vestiti che aveva portato.
«Lasci che ci pensi io» disse la signora Trevathan.
«No, non si preoccupi…»
«Si sieda e facciamo due chiacchiere mentre finisco di met­
tere via le sue cose.»
Rebecca obbedì e si sedette sul letto.
«Non ha portato molti vestiti, mia cara» commentò. «Ad
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ogni modo, sono venuta per dirle che sua Signoria l’ha invitata
a cenare con lui stasera. Alle otto precise.»
«Oh no… temo di non potere. Ho già preso un impegno.»
«Capisco. Be’, sua Signoria non sarà affatto contento della
cosa. Soprattutto dopo averle gentilmente concesso di restare
qui durante le riprese del film.»
Rebecca avvertì il tono di disapprovazione della governante.
«La prego, si scusi da parte mia e gli dica che sarò felice di cenare
con lui un’altra sera.»
«Lo farò. Non gli piace avere gente intorno, di solito. A sua
Signoria serve la quiete… tanta, tanta quiete. Ma suppongo che
stia facendo di necessità virtù.»
«Prego?»
«Intendo dire, cara, che ha bisogno di soldi per mandare
avanti la casa» spiegò la signora Trevathan.
«Capisco. E Lord Anthony ha una famiglia?» domandò ti­
midamente.
«No, non ce l’ha.»
«Vive qui da solo?»
«Sì. Bene, qui ho fatto, ci vediamo domattina; all’alba, mi
hanno detto. Non faccia troppo tardi stasera, va bene cara?
Dev’essere fresca e pimpante per domani.»
«Sì, promesso. Grazie, signora Trevathan.» Le cure materne
dell’anziana governante la facevano sentire protetta.
A Rebecca non piaceva ripensare alla sua prima infanzia;
solo pochissime persone conoscevano la verità sul suo passa­
to. Durante una breve vacanza autunnale sulla ventosa isola di
Nantucket aveva raccontato tutto a Jack.
Aveva pianto e lui l’aveva tenuta fra le braccia, asciugandole
le lacrime.
Rebecca scosse la testa e sospirò. A quei tempi sentiva dav­
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vero il suo amore. Si alzò e si mise a camminare su e giù sulle
assi scricchiolanti del vecchio pavimento di legno, ripensando a
quei ricordi così lontani dalla loro vita attuale, dal Jack strafatto
e ubriaco, incoerente e aggressivo. Desiderò tornare a essere di
nuovo il signor e la signora Nessuno, come quella volta, accoc­
colati sotto le coperte insieme. Niente star del cinema, solo una
coppia di innamorati.
Ma non era più così, ormai, e Rebecca sapeva che quel de­
siderio era inutile.
Scrollò quei pensieri dalla mente e si accorse di avere meno
di un’ora per prepararsi.
67
3
«Buonasera» disse James, quando Rebecca entrò nel salottino
della sua suite, dove era stato apparecchiato un tavolo per una
cena a lume di candela. La baciò sulle guance e la fece acco­
modare. «Ho pensato che avresti preferito mangiare qui, date
le circostanze.»
«Sì, grazie» rispose lei, sollevata per la scelta di cenare lon­
tano da occhi indiscreti, ma allo stesso tempo preoccupata per
i pettegolezzi che sarebbero circolati tra il personale dell’hotel.
Farsi trovare di sera nella suite del suo attraente partner era
molto peggio che essere vista con lui al ristorante.
«E non preoccuparti per il personale, nessuno aprirà bocca.»
Disse James facendola accomodare, come se le avesse appena
letto nel pensiero. «Robert mi ha detto che l’hotel ha firmato
una clausola sulla privacy. Se dovesse scappar detta una sola
parola alla stampa, gli avvocati della produzione manderebbero
in rovina la proprietà.»
«Capisco» disse Rebecca.
«Assurdo, vero?» osservò James sospirando, seduto di fronte
a lei. «Ad ogni modo, la zuppa è già qui, perciò fatti sotto prima
che si raffreddi. Vino?»
«No, grazie» decise Rebecca. «Domani avrò bisogno di essere
lucida.»
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«Allora, come ti hanno scoperta?» domandò James, versan­
dosi un generoso bicchiere di vino.
Mentre pensava a cosa rispondere, Rebecca assaggiò un cuc­
chiaio di quella zuppa anonima: la cucina della signora Treva­
than era di gran lunga migliore. «Non credo di essere mai stata
scoperta. A vent’anni ho ottenuto una particina in uno show
televisivo e da lì sono cresciuta» disse, con un’alzata di spalle.
«Io devo ancora fare il colpaccio a Hollywood» disse James.
«Qui i paparazzi sono agguerriti, ma mi dicono che quelli di
Los Angeles siano anche peggio.»
«Oh, è così,» confermò Rebecca «per questo ho deciso di
non viverci. Ho un appartamento a New York.»
«Buon per te. Sei saggia. Ho un amico che ha girato a Los An­
geles un paio di anni fa e mi ha raccontato che la maggior parte
delle star non mette nemmeno il naso fuori di casa. Si barricano
dentro le loro ville in collina, dietro muri di cinta e schiere di
telecamere. Non fa per me» aggiunse con un sorrisetto.
«Il tuo amico ha ragione, e non fa neanche per me. A New
York la situazione è molto più tranquilla.»
«A parte quando vengono a darti la caccia fin quaggiù, nel
Devon.» James alzò un sopracciglio.
«Sì, in questo momento è un vero incubo.» Rebecca posò il
cucchiaio accanto al piatto, la zuppa non le andava più.
«Ho sempre trovato assurdo che il desiderio di ogni giova­
ne attore sia raggiungere la fama nell’accezione hollywoodiana
del termine,» rifletté James «quando il prezzo da pagare è così
alto. Io non gioco al tuo livello, ovviamente, ma anche le mie
pagliacciate finiscono sui giornali.»
«Immagino che ci si debba abituare.» Rebecca sospirò. «Que­
sta è la regola. Ma sono solo le bugie che mi danno veramente
fastidio.»
69
«Ma il fidanzamento non è una bugia. O sì?»
Rebecca fece una pausa e pensò a cosa rispondere, mentre
James toglieva i piatti della zuppa e prendeva la seconda portata
dal carrello del servizio in camera.
«Direi che è stato un annuncio… prematuro. Ma, sì: Jack mi
ha effettivamente chiesto di sposarlo.»
«E tu hai detto di sì?»
«Più o meno. Ad ogni modo… non eravamo qui per parlare
del film?» disse bruscamente.
«Certo.» James colse al volo. «Dunque, miss Bradley, domat­
tina io dovrò baciare una delle donne più belle al mondo. Povero
me!» Alzò gli occhi al cielo e fece un sospiro teatrale. «Recitare
è davvero uno sporco lavoro. E se mi permetti, Rebecca, tu sei
davvero una delle più splendide creature femminili di questa
terra.» James si allungò in avanti, scrutando il suo viso. «Non
hai un filo di trucco, nemmeno sulle labbra.»
«Temo che domani sarò irriconoscibile. Mi faranno un tale
mascherone che sembrerò una caricatura.»
«Be’, era la moda dell’epoca» disse James pacificamente. «Al­
lora, a parte Jack, ti sei mai innamorata di uno dei tuoi partner
sul set?»
«No» rispose Rebecca onestamente. «E tu?»
James bevve un sorso di vino. «Diciamo che la mia fedina
penale non è proprio immacolata» ammise, guardandola ma­
liziosamente. «Lavorando con tante donne meravigliose, mi
sono sentito come un bambino in un negozio di caramelle. Ma
in fondo non mi sono comportato né meglio, né peggio di un
qualsiasi normale ventenne, solo che le mie storie vanno a finire
sui giornali. Dunque, direi che è giunta l’ora di cambiare argo­
mento» sorrise. «Come ti sei trovata finora qui in Inghilterra?»
Nel corso della serata Rebecca finì per affezionarsi a James.
70
Per essere un attore famoso era fin troppo modesto e possedeva
un tagliente senso dell’umorismo. Le piaceva il fatto che non
prendesse se stesso né la sua carriera troppo sul serio; per lui
fare l’attore era un lavoro come un altro. Dopo le scenate e le
lamentele di Jack sull’impossibilità di dimostrare quanto vales­
se, l’atteggiamento di James era come una ventata d’aria fresca.
«Ammettiamolo» disse James sorseggiando un brandy, men­
tre Rebecca sorbiva il suo tè alla menta. «Se io e te fossimo due
mezze tacche, dubito che staremmo recitando le parti di Eliza­
beth e Lawrence. È innegabile.»
Rebecca sorrise. «Ora devo proprio andare» disse, vedendo
che erano già le dieci passate.
«Certo, e mentre lo chauffeur ti riporta a dormire nella tua
torre da principessa, anch’io andrò a coricarmi nel mio stanzi­
no delle scope. Direi di darci la buonanotte qui» sorrise. «Non
voglio che qualche avvoltoio di fotografo si faccia un’idea sba­
gliata.»
«Sì, grazie» disse Rebecca, alzandosi in piedi. «Ci vediamo
domani sul set.»
James la baciò dolcemente sulle guance. «E sappi che se hai
bisogno di parlare con qualcuno, io sono qui.»
«Grazie mille, buonanotte» sussurrò lasciando la suite. Prese le
scale per non rischiare di essere fotografata uscendo dall’ascenso­
re, e poi si precipitò verso la porta d’entrata. Scorse Graham, che
la stava aspettando nella Mercedes, e si affrettò a salire.
Quindici minuti dopo, Rebecca aprì la porta della sua stanza
e se la richiuse alle spalle. La signora Trevathan le aveva lasciato
la luce accesa e sistemato le coperte. Mentre si coricava si sentì
davvero una principessa.
Nel bel mezzo della notte si svegliò di soprassalto, certa di
aver sentito un rumore in camera. Accese la luce, ma non c’era
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nessuno… solo, annusando l’aria, avvertì un odore intenso, co­
me di fiori. Non era sgradevole, solo stranamente potente. Alzò
le spalle, spense la lampada e si riaddormentò.
«La aspettano sul set fra cinque minuti, signorina Bradley» disse
l’assistente, entrando in sala trucco.
«Ed è… pronta» rispose Chrissie, la truccatrice, dandole l’ul­
tima pennellata di cipria sulla fronte. «Fatto» disse, togliendole
la vestaglia che avevano usato per proteggere l’abito.
«Accidenti» esclamò l’assistente quando Rebecca si alzò e
fece un mezzo giro. «È bellissima, signorina Bradley» aggiunse
ammirato.
«Lo è, non è vero?» concordò Chrissie.
«Grazie» rispose lei, che ancora doveva abituarsi al nuovo
look: caschetto biondo, occhi neri, pelle d’avorio e rossetto ros­
so. Era quasi irriconoscibile. Seguì l’assistente lungo il corridoio
e sbucarono nell’ingresso, proprio mentre Anthony scendeva
le scale.
Lei alzò lo sguardo e sorrise. «Buongiorno.»
Non appena si accorse della sua presenza, l’uomo rimase
impietrito a guardarla con un’espressione scioccata.
«Mio Dio» sussurrò.
«Che cosa c’è?»
Anthony continuò a fissarla senza rispondere.
«Dobbiamo andare, signorina Bradley» la incalzò l’assistente.
«La saluto» disse Rebecca all’uomo di marmo in cima alla
scala, sentendosi un po’ a disagio; e poi uscì.
James la stava aspettando in salotto, mentre la troupe finiva
di sistemare le luci sulla terrazza.
«Il taglio è stupendo» disse con un ampio sorriso. «Ma ci sei
proprio tu sotto quella maschera?»
72
«Ben nascosta, ma sono io» scherzò di rimando, proprio
mentre venivano chiamati sul set.
«Be’, come ti avranno già detto tutti di sicuro, sei semplice­
mente incantevole. Anche se personalmente ti preferisco spo­
gliata… del trucco, naturalmente» le sussurrò sfacciatamente,
offrendole il braccio.
Robert Hope, il regista, le andò incontro e le cinse le spalle
con un braccio, in segno di approvazione. «Sei perfetta, Rebec­
ca. Pronta?»
«Come sempre» sussurrò in tono nervoso.
«Sarai meravigliosa, non temere» la rassicurò. «Allora, voi
due, facciamo un breve ripasso della scena.»
Due ore dopo, Rebecca rientrò in salotto con James e si ab­
bandonò su una poltrona, esausta per la tensione. «Ragazzi,
sono felice che sia finita.»
«Sei stata grandiosa, davvero» commentò l’attore, accenden­
dosi una sigaretta sulla soglia e sorridendo. «Il tuo accento era
perfetto.»
«Grazie» disse Rebecca, apprezzando il complimento. «Hai
saputo davvero mettermi a mio agio.»
«Credo che siamo un’ottima squadra, non trovi? E ho molto
apprezzato anche il bacio» aggiunse, strizzandole l’occhio.
Rebecca arrossì e si alzò in piedi. «Vado a prendere qualcosa
di fresco da bere. Ci vediamo dopo.» Uscì dalla stanza senza
lasciargli il tempo di aggiungere altro, per non incoraggiarlo
in nessun modo a proseguire la loro relazione anche fuori dal
set. Aveva già visto quello sguardo negli occhi dei suoi partner.
James era un ragazzo carino, ma a lei serviva un amico, non
un amante.
«Rebecca.» Steve la intercettò sulla strada verso il punto di
ristoro. «Ha telefonato il tuo agente: aveva un diavolo per ca­
73
pello, ha detto che ha ricevuto una chiamata dal tuo fidanzato.
Vogliono sapere dove sei finita. Puoi contattarli?»
«Ho lasciato a entrambi un messaggio in segreteria dicendo
che sto bene» replicò lei. «Qui il mio telefono non prende.»
«Lo so, è un problema generale, perciò abbiamo chiesto a
Lord Astbury di usare la sua linea. Ovviamente pagheremo noi
la bolletta, perciò puoi usare il telefono quando vuoi. Non vo­
gliamo che la stampa scriva che ti abbiamo rapita» aggiunse,
dopodiché si allontanò a passo svelto.
Lei si avviò con un sospiro a prendere i numeri dalla rubrica
del suo telefono.
«Rebecca?»
Si voltò e guardò in basso. Anthony si trovava nell’ingresso.
«Salve» disse incerta. La stava di nuovo fissando, facendola
sentire a disagio con quel suo sguardo penetrante.
«Ha un minuto?» chiese. «Vorrei mostrarle una cosa.»
«Ma certo.» Anche volendo non avrebbe potuto rifiutare.
Anthony allungò la mano, facendole cenno di scendere le
scale. Quando gli fu vicina le sorrise, senza mai distogliere lo
sguardo dal suo viso. «Mi segua.» La condusse attraverso il cor­
ridoio che portava alle stanze affacciate sul giardino dietro la
villa. Fermandosi improvvisamente davanti a una delle porte,
disse: «Si prepari a una bella sorpresa».
«Va bene» rispose Rebecca, mentre lui apriva la porta di una
spaziosa biblioteca. La condusse fino al centro della stanza, le
mise le mani sulle spalle e la fece girare verso il caminetto.
«Guardi quel dipinto.»
Rebecca si ritrovò a fissare il ritratto di una giovane donna
bionda, vestita in maniera simile a lei, i capelli ornati da una
fascia anni Venti tempestata di gioielli. Ma non fu solo l’abbi­
gliamento della donna che la colpì: fu il suo volto.
74
«Mi…» Rebecca cercò di ritrovare la voce. «Mi assomiglia
tantissimo.»
«Lo so. La somiglianza è…» per un momento Anthony non
disse nulla «… straordinaria. Quando l’ho vista stamattina, con
i capelli biondi e quel vestito, ho pensato che mi fosse apparso
un fantasma.»
Rebecca stava ancora studiando i grandi occhi castani, il viso
a forma di cuore, la carnagione pallida come la sua, il nasino
leggermente all’insù, le labbra piene. «Chi è?»
«Mia nonna, Violet. La cosa più strana di tutte è che anche
lei era americana. Sposò mio nonno, Donald, nel 1920 e venne
a vivere qui con lui ad Astbury. Sia in America, sia in Inghilterra
era considerata una delle donne più belle a quei tempi. Purtroppo
morì giovane, perciò non l’ho mai conosciuta. E mio nonno la
seguì appena un mese dopo.» Anthony si fermò e sospirò pesan­
temente. «Si può dire che sia stato l’inzio della fine degli Astbury.»
«Com’è morta, Violet?» gli domandò pacatamente Rebecca.
«Il suo è stato il destino di molte donne della sua epoca: è
morta di parto…» la voce gli si spezzò in gola.
«Mi spiace tanto» rispose lei, senza sapere cosa dire.
Anthony riprese. «Dopodiché la mia povera mamma, Daisy,
santa donna, crebbe come un’orfana, affidata alle cure della
nonna. Quella è mia madre.» Le indicò un altro quadro che
ritraeva un’austera donna di mezza età. «Non vorrei sembrarle
lacrimoso, ma dopo la morte di Violet è stato come se sulla
famiglia Astbury fosse scesa una maledizione.» Spostò l’atten­
zione su Rebecca. «Lei non è imparentata con i Drumner di
New York, per caso? Erano una famiglia molto ricca e potente
negli anni Venti. È stata la dote di Violet Drumner a salvare la
proprietà dalla rovina.»
Anthony la guardò, in attesa di una risposta. Rebecca pre­
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feriva mantenere segreto il suo passato; e di certo non aveva
nessuna voglia di parlarne con uno sconosciuto Lord inglese.
«No, la mia famiglia è di Chicago e non ho mai sentito no­
minare i Drumner. La somiglianza è puramente casuale.»
«Ad ogni modo,» Anthony le rivolse un sorriso teso «è cu­
rioso che si sia ritrovata a recitare, proprio qui ad Astbury, un
personaggio proveniente esattamente dall’epoca di Violet; e
somigliandole così tanto.»
«Sì, lo è, ma le assicuro che non ci sono legami di parentela»
ripeté Rebecca con decisione.
«Be’, questo è quanto. Come può immaginare è stato un vero
shock, per me, vederla nell’ingresso stamattina. La prego di
scusarmi.»
«Non si preoccupi.»
«Bene, non voglio trattenerla oltre, ma ho avvertito la neces­
sità di mostrarle il ritratto di Violet. E forse vorrà farmi l’onore
di unirsi a me per cena, stasera?» aggiunse.
«La ringrazio, ne sarò lieta. Ora mi scusi, ma devo proprio
andare: fra un’ora mi aspettano di nuovo sul set.»
«Certo.» Anthony si diresse alla porta, la aprì e le cedette il
passo. Camminarono in silenzio fino all’ingresso. Rebecca gli
rivolse un sorriso di saluto e salì le scale per andare a prendere
il telefono. Quando arrivò nella sua stanza si sentì improv­
visamente debole. Si mise a sedere sulla poltrona accanto al
camino prendendosi la testa fra le mani e iniziò a inspirare
profondamente.
Gli aveva mentito. L’ unica cosa che sapeva dei suoi genitori
era il nome di sua madre: Jenny Bradley. E il fatto che Jenny
l’avesse data in affidamento quando aveva cinque anni.
Tutti credevano che i suoi genitori fossero Bob e Margaret, la
coppia gentile che l’aveva presa in affido all’età di sei anni. Nel
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corso degli anni avevano tentato più volte di procedere all’ado­
zione, ma la vera madre di Rebecca si era sempre rifiutata di
dare l’assenso, pensando che un giorno sarebbe stata in grado
di prendersi di nuovo cura di sua figlia.
Emotivamente era stata una situazione molto difficile da ge­
stire: non aveva avuto né la stabilità né la sicurezza di cui ogni
bambino ha bisogno. Quando era una ragazzina passava la notte
nel terrore che sua madre tornasse a reclamarla, per riportarla
alla loro vecchia vita.
Quando Rebecca aveva ormai diciannove anni, Bob e Mar­
garet le dissero che sua madre era morta di overdose.
Non aveva mai saputo chi fosse suo padre. E non aveva idea
nemmeno di chi fosse Jenny. Immaginava di essere stata con­
cepita quando sua madre si prostituiva per pagarsi la tossico­
dipendenza.
Rebecca fissò il vuoto, disperata. Chi poteva sapere se suo
padre fosse stato parente di Violet Drumner? Era possibile, cer­
to. Ma non essendoci nessun nome sul suo certificato di nascita,
non avrebbe mai potuto approfondire la cosa.
Sentì, per la prima volta da quando era arrivata, nostalgia
dell’abbraccio di Jack. Afferrò il cellulare e scese nello studio di
Anthony per chiamarlo dal telefono fisso.
Di nuovo, le rispose la segreteria; sapeva che Jack non rispon­
deva mai a numeri sconosciuti, per ovvie ragioni di sicurezza.
«Ciao tesoro, sono io. Non c’è campo qui, perciò devo usare
il telefono di casa. Riproverò più tardi; ho un’ora libera prima
di tornare sul set. Tu stai bene? Ciao.»
Dopodiché compose il numero del suo agente, Victor, che
questa volta le rispose.
«Ciao, mia cara, come stai? Stavo per sguinzagliare la cia
sulle tue tracce.»
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«Tutto bene. Stiamo girando in una favolosa villa antica e
dato che ho i giornalisti sempre alle calcagna, il proprietario,
Lord Astbury, mi ha concesso di restare qui. Non preoccuparti,
Victor, sto benissimo» lo rassicurò.
«Ottimo. Allora, cos’è questa storia del fidanzamento con
Jack? Avremmo dovuto parlarne prima di dirgli di sì, lo sai.»
«Ma non mi dire. Credevo che la decisione riguardasse solo
me…» Rebecca tamburellò il tavolo, irritata.
«Sai bene che non intendevo questo, tesoro» disse Victor per
placarla. «Voglio solo dire che sarebbe stato tutto più facile se mi
avessi avvisato che volevate fare l’annuncio; mi sarei occupato
io della stampa.»
«In verità,» spiegò lei «che resti fra me e te, ma ancora non
gli ho detto di sì.»
Ci fu un attimo di silenzio. «Che cosa?! Stai scherzando,
Rebecca…»
Sentendo il panico nella voce di Victor, le venne da ridere.
«No, non sto affatto scherzando. Ho detto a Jack che mi serviva
un po’ di tempo per pensarci. Non è stata certo colpa mia se è
andato in giro a sbandierare tutto prima ancora di ricevere la
risposta.»
«Rebecca! Mi stanno dando la caccia da giorni per avere
uno straccio di dichiarazione da parte tua. Non puoi ritrattare
proprio adesso; ti ritroveresti contro la schiera dei fan di Jack
in men che non si dica; boicotteranno il tuo film!»
Rebecca sentì salire la pressione.
«Victor, ho bisogno di tempo per pensarci, ok?» disse con
fermezza.
«Be’, quando prenderai una decisione, stavolta posso essere il
secondo a cui lo dirai? E spero che la tua sia una risposta affer­
mativa. Ehi, ragazza,» aggiunse abbassando la voce «c’è sempre
78
il divorzio se le cose non funzionano. Questo è un momento
cruciale per la tua carriera e non voglio che tu comprometta tutto
per un po’ di pubblicità negativa.» Ci fu un altro momento di
silenzio, prima che Victor aggiungesse: «Non hai un altro, vero?»
«Victor! Certo che no.» Rebecca stava per perdere la pazienza.
«Be’, è già qualcosa. Cerca di non dare troppa confidenza
al tuo giovane partner inglese. La sua reputazione non è delle
migliori.»
«Abbiamo finito con la lezione?» chiese lei, seccata. «Vuoi
sapere com’è andata oggi sul set o non ti interessa?»
«Senti, tesoro, potremmo parlarne in un altro momento?
Devo andare a una colazione di lavoro.»
«Certo.»
«Brava ragazza. Chiamami dopo, ok?»
«Certo. Ciao Victor.»
Rebecca mise giù il telefono e fissò sconsolata le sue bel­
lissime scarpe. Sapeva che Victor aveva le migliori intenzioni
del mondo: era un bravo agente e l’aveva aiutata moltissimo a
crescere professionalmente. Ma a volte era troppo protettivo e
si calava nel ruolo di padre, senza averne alcun diritto.
Osservò le vecchie fotografie nelle cornici d’argento, dispo­
ste in fila sulla scrivania di Anthony; lei non avrebbe mai saputo
chi erano i suoi antenati, e per questo lo invidiava molto. Le foto
erano tutte in bianco e nero e Rebecca riconobbe immediata­
mente la madre di Anthony, che teneva per mano una bella
bimba dai riccioli biondi. Somigliava molto a lui, e immaginò si
trattasse di sua sorella. Alzandosi dalla scrivania, lanciò un’oc­
chiata al vecchio orologio da tavolo e si accorse che mancavano
meno di venti minuti dall’inizio delle riprese.
79
4
Alle diciannove e quarantacinque Rebecca sentì un leggero
bussare alla porta.
«Avanti» disse, desiderando non aver preso impegni per la
serata. Dopo l’intensa giornata di riprese era esausta.
«È pronta?» chiese la signora Trevathan, affacciandosi alle­
gramente alla porta.
«Arrivo fra pochi minuti.»
Si tolse l’accappatoio, infilò jeans e maglietta e si asciugò
il caschetto di capelli biondi, a cui non si era ancora abituata.
Uscendo dalla stanza e scendendo la scalinata rifletté sul­
la devozione della signora Trevathan per la casa e per Lord
Anthony. Il loro rapporto e quel mondo racchiuso nella villa
appartenevano a un’altra epoca. Era come se il tempo si fosse
dimenticato dell’esistenza di Astbury Hall e dei suoi abitanti. Si
fermò davanti alla porta della sala da pranzo e bussò.
«Avanti.»
Entrando, trovò Anthony già seduto all’estremità di un lun­
go, elegante tavolo di mogano. Il fatto di essere l’unico com­
mensale a una tavola che avrebbe potuto ospitare un esercito,
enfatizzava il senso di solitudine.
«Salve.» Sorrise indicandole il posto alla sua sinistra e alzan­
dosi per farla accomodare.
«Grazie» mormorò lei, mentre lui tornava a sedersi.
80
«Vino?» le chiese, sollevando da un vassoio d’argento il de­
canter che conteneva il liquido rosso rubino. «Questo chiaretto
è l’ideale per accompagnare il manzo.»
«Solo un dito, grazie» disse Rebecca, che solitamente non
beveva, ma non voleva essere scortese. A dire il vero, se avesse
potuto scegliere, non avrebbe scelto un rosso. Né ci sarebbe
stato manzo per cena.
«Ovviamente, la mia adorata madre aveva un maggiordomo
che si occupava del vino» disse Anthony riempiendosi il bic­
chiere. «Purtroppo, quando è andato in pensione non c’è stata
la possibilità economica di rimpiazzarlo.»
«Non riesco a immaginare quanto possa costare mandare
avanti un posto del genere» osservò Rebecca.
«No, sono certo di no» disse Anthony sospirando, mentre
la governante entrava per servire la minestra. «Ma riusciamo
comunque a tirare avanti, non è vero signora Trevathan?» disse,
guardando la governante con un sorriso affettuoso.
«È così, signore, è così» e uscì annuendo.
«La signora Trevathan continua a mandare avanti tutto pra­
ticamente da sola. Se dovesse decidere di andarsene non so
proprio come farei. Prego» disse, indicando i piatti. «Cominci
pure.»
«Ha sempre lavorato qui?»
«Sì, come la sua famiglia prima di lei. Sua madre, Mabel,
era la mia tata.»
«Dev’essere meraviglioso avere una storia di famiglia, sapere
quali sono le tue radici» disse Rebecca, sorbendo il brodo.
«Per certi versi sì» Anthony sospirò. «Anche se, come le ho
raccontato prima, dopo la morte di Violet su questa casa è calata
la disgrazia. Mia cara, lo sa che il vestito che indossava stamat­
tina apparteneva a lei?»
81
Rebecca lo fissò e si sentì percorrere da un brivido. «Dav­
vero?»
«Sì. E sua figlia, Daisy, cioè mia madre, l’ha conservato in
perfetto stato dopo la sua morte.»
«Perciò suppongo che Daisy non abbia mai conosciuto sua
madre, visto che è morta dandola alla luce…»
«No, ma l’adorava, o perlomeno adorava il suo ricordo. Co­
me io adoravo lei» disse Anthony tristemente.
«Da quanto tempo è morta, sua madre?» domandò piano
Rebecca.
«Da venticinque anni. Ma se devo essere sincero, mi manca
ancora. Eravamo molto legati.»
«Capisco, perdere la madre è la cosa peggiore» concordò
Rebecca.
«Vede, eravamo noi due soli. Lei significava tutto per me.»
«E che mi dice di suo padre?»
Il viso di Anthony s’incupì. «Non era un brav’uomo. Daisy
ha sofferto molto a causa sua. Non gli è mai piaciuta Astbury e
trascorreva la maggior parte del tempo a Londra» spiegò. «Mia
madre non si disperò più di tanto, quando lo trovarono morto
in uno squallido bordello dell’East End. Si era ubriacato e aveva
battuto la testa cadendo.»
Rebecca vide Anthony rabbrividire al ricordo. Capiva per­
fettamente come si sentiva. Sentì l’impulso di raccontargli che
anche lei conosceva quel dolore, ma non era ancora pronta a
condividere il suo segreto con un estraneo. «Mi dispiace tanto,
dev’essere stata dura.»
«Grazie a Dio avevo solo tre anni, perciò non ricordo quasi
nulla. Di sicuro non mi è mancata la sua presenza. Ad ogni
modo, basta parlare del passato.» Anthony posò il cucchiaio nel
piatto vuoto. «Mi racconti di lei» disse, mentre la signora Tre­
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vathan sparecchiava i piatti della zuppa e serviva il succulento
manzo che aveva preparato.
«Oh, sono una ragazza qualunque di Chicago» rispose.
«“Qualunque” non direi» la rimproverò Anthony. «Pare che
io sia a cena con una delle donne più belle del mondo. Proprio
come Violet ai suoi tempi.»
Rebecca arrossì, imbarazzata da quel complimento. «Sono
stata molto fortunata e ho saputo cogliere le occasioni giuste.»
«Sono sicuro che non si tratti di fortuna, ma di talento» pro­
seguì Anthony. «Anche se, a essere sincero, non ho mai visto un
suo film. E devo anche ammettere che ci sono moltissime donne
stupende al mondo, ma lei ha quel magnetismo che le surclassa
tutte. Come Violet. Brindavano per lei da Londra a New York,
e qui ad Astbury Hall intratteneva gli uomini dell’epoca. Quelli
sì che erano tempi d’oro» aggiunse in tono malinconico. «A
volte penso di aver avuto la sfortuna di nascere nel momento
sbagliato. Ma ora basta, ho parlato troppo.»
Lord Astbury finì il suo manzo in silenzio, mentre Rebecca
ne assaggiò a malapena un boccone. Alla fine, Anthony chiese:
«Ha mangiato a sufficienza, cara?»
«Sì.» Rebecca guardò colpevole il piatto ancora pieno. «Mi
scusi, ma non ho molto appetito.»
«Capisco. Perciò è inutile che la tenti con un assaggio del
crumble di mele e more della signora Trevathan?»
«Temo di sì.» Rebecca smorzò uno sbadiglio e, inaspettata­
mente, Anthony posò una mano sopra la sua.
«È stanca.»
«Sì, un po’. Mi sono svegliata presto stamattina per il trucco
di scena.»
«Ovviamente. E sono sicuro che l’ultima cosa che deside­
ra, stasera, è sorbirsi i noiosi racconti di un vecchio come me.
83
Perché non va di sopra? Le faccio portare un bicchiere di latte
caldo dalla signora Trevathan. È un vecchio trucco per addolcire
il sonno.»
«Se non le dispiace…»
«Certo che no. E in ogni caso potrò chiedere l’onore della
sua compagnia un’altra volta. Nonostante in genere preferi­
sca la solitudine, sono stato bene con lei stasera. Ah, signora
Trevathan» Anthony alzò lo sguardo. «La signorina Rebecca
si ritira nella sua stanza, e le ho promesso un bicchiere di latte
caldo.»
«Ma certo, sua Signoria.»
«Bene, cara.» Anthony si alzò insieme a lei, le prese la mano
e la baciò. «È stato un piacere. Dorma bene.»
«Grazie di tutto.»
Sotto le coperte, il bicchiere di latte posato sul comodino,
fissando un tramonto che non voleva cedere il passo alla notte,
Rebecca ripensò alla conversazione con Anthony. Con i suoi
modi raffinati e il suo eloquio d’altri tempi era un reperto del
passato come la villa in cui abitava. Vivendo qui, in questi spazi
maestosi, in una casa immersa nel passato, non era difficile
immaginare come dovesse essere la vita un secolo prima.
Senza il cast e i tecnici in giro per la casa, anche per lei la
realtà del mondo moderno si stava allontanando sempre di più.
Rebecca si scosse; il giorno dopo sarebbe dovuta ritorna­
re al presente, quello che esisteva tutto intorno all’incanto di
Astbury, e tentare davvero di contattare Jack. Spense la luce e
cercò di dormire.
Ancora una volta, in un momento imprecisato prima dell’al­
ba, Rebecca avvertì un forte odore di fiori, il cui profumo la fece
sognare i luoghi esotici che avrebbe sempre voluto visitare. E
poi sentì un canto, un suono acuto che la svegliò. Scese dal letto
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disorientata, con la voce che ancora le ronzava nelle orecchie;
andò alla porta e la aprì. Il corridoio era immerso nell’oscurità,
e il suono di colpo scomparve.
Era stato solo un sogno, si convinse Rebecca tornando a let­
to. Dopo ci fu di nuovo silenzio, ma il suono di quella voce dolce
e acuta rimase con lei, cullandola fino a che non riprese sonno.
85
5
Mumbai, India
Finalmente a casa, pensò Ari. Era stata una giornata lunga, l’ul­
tima di una settimana di lavoro piuttosto difficile. Aprì la porta
del suo immenso appartamento e andò dritto in cucina a farsi
un Gin tonic, sperando bastasse a distendere i nervi. Sperò an­
che di non prendersi una sgridata da Lali, che lo rimproverava
sempre di esagerare. In confronto ai suoi colleghi occidentali,
non si poteva dire che bevesse. Andò in salotto e, trovandolo
deserto, pensò che Lali stesse facendo la doccia al piano di sotto.
Si lasciò cadere sul divano e bevve un sorso del suo drink.
Si chiedeva come mai si sentisse tanto stressato, nonostante
la sua società fosse in costante crescita. Specialmente negli
ultimi tempi, da quando la crisi economica aveva costretto
Europa e America a rivolgersi all’India e alle sue tante possi­
bilità a prezzi concorrenziali. Avevano più lavoro di quanto
riuscissero a smaltire, e anche quello, pensò Ari con un so­
spiro, era un problema da risolvere. Trovare nuovi manager e
collaboratori di cui potesse fidarsi era più difficile del previsto.
Di conseguenza, ultimamente, faceva da solo il lavoro di dieci
impiegati.
Lali gli ripeteva in continuazione che aveva bisogno di una
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vacanza, e gli sbatteva sotto il naso le brochure piene di spiagge
caraibiche. Sembrava non riuscisse a capire che la cosa al mo­
mento non era nemmeno pensabile.
«Appena riesco a trovare degli impiegati di cui fidarmi, par­
tiamo. Te lo prometto.»
«Ari, tesoro, sono tre anni che me lo ripeti» rispondeva lei
con un sospiro, per poi strappargli i depliant dalle mani e get­
tarli nel bidone dell’immondizia.
Sentendosi in colpa per queste scenate, Ari tornava spesso
a casa con un gioiello o un bel vestito firmato, che aveva fatto
acquistare alla sua segretaria. Le domandava scusa per averla
trascurata e faceva di tutto per arrivare a cena in orario. Poi,
nei due o tre giorni successivi di solito cercavano una soluzione
per riuscire a passare più tempo insieme. Ma regolarmente, la
settimana dopo, Ari riprendeva a lavorare diciotto ore al giorno.
Mentre andava a versarsi un altro Gin tonic, dovette am­
mettere a se stesso che a volte aveva alzato la voce per la fru­
strazione.
«Questo appartamento e tutti i tuoi bei vestiti… come credi
che potremmo permetterceli altrimenti?»
Lei rispondeva sempre allo stesso modo. «A me non importa
dove vivo o cosa mi metto. Sei tu quello a cui interessano queste
cose.»
Ovviamente non era vero, pensò mentre usciva sulla terrazza
a osservare l’orizzonte sul Mar Arabico. A lei piaceva pensare
che non le sarebbe mancata quella vita, ma lui sapeva che non
era così.
A parte gli impegni, Ari era consapevole che tra loro c’era
un problema ben più grande. Lali aveva quasi trent’anni e vo­
leva sposarsi. Non la biasimava, anzi: per convivere con lui era
andata contro il volere della sua famiglia e si era compromessa,
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sperando che prima o poi lui le avrebbe chiesto la mano. Ma,
sebbene lo desiderasse, Ari non era ancora riuscito a trovare il
coraggio per pronunciare le parole che lei aspettava da tanto.
Non sapeva perché, dal momento che la amava davvero. Era
bella e gentile, e il suo temperamento dolce e tranquillo com­
pensava perfettamente la personalità esplosiva di Ari. I suoi
amici gli dicevano sempre che era perfetta per lui.
E dunque, cosa stava aspettando? Aveva trentasei anni or­
mai, e prima di Lali si era già tolto ogni capriccio, in fatto di
donne. Ma nonostante tutto continuava a sentire una specie di
istinto dentro di sé che gli impediva di fare il passo finale.
Nel corso delle ultime settimane la ragazza si era allontanata:
spesso non la trovava a casa al suo rientro perché restava fuori
con le amiche oppure era in palestra. E chi avrebbe potuto biasi­
marla? A volte Ari si portava il lavoro anche a casa e a malapena
notava la sua presenza.
Fece il giro dell’appartamento per vedere dove fosse. Quella
sera sentiva la sua mancanza, ma lei non aveva lasciato alcun
biglietto né gli aveva mandato un messaggio per dire dove fos­
se. Fece la doccia e andò a cercare qualcosa da mangiare nel
frigorifero. Scaldò nel microonde gli avanzi della sera prima,
si versò un bicchiere di vino e andò in salotto. Accese l’enorme
televisore e cambiò canale finché non trovò una partita di foot­
ball. Avrebbe dovuto lavorare, ma quella sera si sentiva davvero
esausto.
L’ unica buona notizia all’orizzonte era che aveva notato un
giovane addetto alle vendite, assunto due anni prima, che stava
surclassando i suoi colleghi. Ari gli aveva fatto un altro collo­
quio un paio di settimane prima, offrendosi di promuoverlo a
un ruolo di primo piano per tutto il mercato indiano, in conti­
nua espansione grazie all’economia nazionale sempre in forte
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crescita. Se nei prossimi sei mesi Dhiren si fosse dimostrato
all’altezza, allora avrebbe trovato un nuovo dirigente.
Tre settimane dopo, Ari sarebbe dovuto andare a Londra per
incontrare un potenziale cliente. Aveva bisogno di qualcuno a
cui lasciare il timone mentre era via, e quello sarebbe stato un
ottimo test.
Forse, meditò, avrebbe potuto chiedere a Lali di accompa­
gnarlo. Anche se non avrebbe avuto molto tempo da dedicarle,
le sarebbe comunque piaciuto fare la turista. Sì, pensò, glielo
avrebbe proposto non appena fosse rientrata.
Alle undici e mezza spense le luci in sala e andò in camera
da letto. Era strano che Lali rimanesse fuori fino a quell’ora,
soprattutto senza lasciar detto dove fosse. Ari cominciò a inner­
vosirsi. Provò a chiamarla al cellulare, ma rispose la segreteria.
Pensò che probabilmente gli stava tenendo il broncio, e ricordò
tutte le volte che l’aveva minacciato di lasciarlo. Grazie alla sua
capacità di persuasione, era sempre riuscito a farle cambiare
idea. E così avrebbe fatto anche stavolta.
Alle otto del mattino seguente, mentre si preparava il caffè
prima di andare al lavoro, Ari sentì la chiave girare nella ser­
ratura. Lali entrò in cucina, pallida e tesa. Senza il suo trucco
perfetto, sembrava una bambina piccola e stanca. Rimase in
piedi sulla soglia della cucina e Ari si accorse che era nervosa.
«Dove sei stata, se posso saperlo?»
«A casa dei miei genitori.»
«Davvero? Credevo non vi parlaste più» disse, sorpreso.
«Era così. Sapevo che a te non piacevano.»
«Perdonami» replicò Ari. «Se ben ricordo, quando gli dicesti
che ti trasferivi da me, ti risposero di non varcare mai più la so­
glia di casa. Credevo che neanche a te andassero troppo a genio.»
Lei lo fissò, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
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«Sono i miei genitori, Ari. Mi sono mancati, e mi sono sentita
in colpa ogni singolo giorno per averli delusi.»
«Per averli delusi?» Ari la fissò. «Cosa significa? Hai preso
una decisione che a loro non è piaciuta, tutto qui.»
«Io…» lei sospirò e scosse la testa. «Ari, credo che io e te
siamo troppo diversi.»
«Cosa intendi?»
«Ormai non ha più importanza.» Alzò tristemente le spalle.
«Non mi va di litigare.»
«Lali, cosa significa tutto questo? Dài, sputa il rospo.»
Lei rimase in silenzio per qualche istante, poi prese un pro­
fondo respiro. «Torno dai miei, Ari. Sono venuta a prendere le
mie cose.»
«Va bene. Per una notte? Un mese? O per sempre?»
«Per sempre. Mi dispiace.»
«Perciò, mi stai dicendo che mi lasci?» chiese Ari, che final­
mente capiva.
«Sì. Non voglio né discutere, né litigare. Voglio solo prendere
la mia roba e andarmene.»
Vide che stava tremando. Annuì lentamente. «Ok, sei sicura
di non volerne parlare?»
«Sì. Non c’è più niente da dire. Vado a preparare gli scato­
loni.»
La osservò voltargli le spalle e uscire dalla stanza. Non era
preoccupato; era già successo altre volte. Ad ogni modo, l’idea
che sarebbe tornata dai suoi – ai quali lui non era mai piaciuto
– non gli andava giù. Si alzò dal tavolo e la seguì in camera.
«Lali, pyari, capisco che tu sia molto arrabbiata, ma credo
proprio che dovremmo discuterne. A dire il vero volevo chie­
derti di venire in Europa con me. Hai ragione, abbiamo bisogno
di una pausa, di passare un po’ di tempo insieme.»
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«Non avremo tempo da passare insieme, Ari, lo sai. Salterai
da una riunione all’altra, mentre io rimarrò ad aspettarti in
hotel. E al tuo rientro sarai troppo stanco per fare qualsiasi cosa
che non sia dormire.» Lali tirò fuori una borsa dal fondo del
guardaroba e la posò sul letto. Andò alla cassettiera e iniziò a
trasferirne il contenuto nella sacca.
«Lali.» Ari le si avvicinò per abbracciarla. «Io…»
«Non mi toccare!» gridò lei, divincolandosi dal suo abbrac­
cio e andando al guardaroba a togliere i suoi abiti dalle grucce.
«Lali, perché sei così arrabbiata? Ti prego, dimmelo. Ti amo,
lo sai che ti amo, pyari, non voglio che te ne vada.»
«No.» Lei lo guardò con gli occhi tristi. «Ti credo. Ma de­
vo farlo per me.» Lali abbassò la testa e le lacrime ripresero a
scorrere.
«Ma perché? Credevo stessimo bene, e le cose ultimamente
non andavano male. Non…»
«Lo so che per te andava bene» ribatté, chiudendo la zip della
valigia e iniziando a mettere i cosmetici in un borsone. «Ari,
non è colpa tua. È andata così.»
«Parli per enigmi, tesoro, e non capisco cosa cerchi di dirmi.
Se non è colpa mia, di chi allora?»
Lali si fermò ed emise un lungo sospiro, lo sguardo fisso
nel vuoto. «È che noi due vogliamo cose diverse dalla vita. Io
sogno di sposarmi, avere dei figli e un marito che trovi un po’ di
tempo per stare con me.» Spostò gli occhi su di lui e sorrise de­
bolmente. «Mentre a te interessano solo il denaro e il successo.
Spero per te che ne valga la pena, e che tu sia felice. Ora» disse
Lali chiudendo il borsone e tirando la valigia giù dal letto «de­
vo andare. Di sotto c’è mio padre che mi aspetta.» Frugò nelle
tasche dei jeans e tirò fuori un mazzo di chiavi. «Addio, Ari.
Ti auguro tutta la felicità di questo mondo, ti amerò sempre.»
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Lui rimase immobile, come ipnotizzato, mentre Lali trasci­
nava la valigia fuori dalla stanza. La porta si richiuse prima che
lui si fosse ripreso. Allora corse fuori dall’appartamento e la vide
scomparire inghiottita dall’ascensore.
«Lali!» Sbatté il pugno contro i pulsanti, ma la cabina era già
in movimento. Tornò lentamente in casa, si chiuse la porta alle
spalle e ci si appoggiò. Non poteva essere vero. Forse era solo
un trucco per spingerlo a chiederle di sposarlo. Be’, se lo era,
non avrebbe funzionato: lui non era tipo da cedere ai ricatti.
Inoltre, pensò, era improbabile che avrebbe resistito per
più di qualche giorno nella catapecchia dei suoi genitori. Non
avevano nemmeno l’acqua corrente, che diavolo, e lei avrebbe
diviso la stanza con quattro fratelli e sorelle. Dopo la vita che
aveva fatto con lui, non l’avrebbe certo gradito.
Ripensando a ciò che aveva fatto per lei, la rabbia sostituì
il turbamento. Lali aveva sempre detto che non le importava
dei beni materiali. A lei non sarebbe importato vivere in una
baracca abusiva sulla spiaggia, vendendo fieno greco per poche
rupie al giorno, perché era lui che amava.
«Be’,» disse a voce alta nell’appartamento deserto «quando
sarai stata dai tuoi per un po’, vedremo se è vero.»
Ritrovata la fiducia, e accortosi di essere in ritardo, afferrò
le chiavi della macchina e uscì per andare in ufficio.
Una settimana dopo, Ari aveva perso tutta la sua sicurezza. Lali
non aveva mai cercato di contattarlo e, nonostante inizialmente
lo attirasse l’idea di poter lavorare a tempo pieno, si era reso
conto che passava ore a fissare fuori dalla finestra le famigliole
sulla spiaggia assolata, con i bambini che gridavano e correvano
felici nell’acqua.
La verità era che lei gli mancava. E molto più di quanto
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avrebbe mai potuto immaginare. Aveva composto il suo nu­
mero tante volte, ma l’orgoglio gli aveva sempre impedito di
attendere la sua risposta. Lei lo aveva lasciato, lei doveva fare il
primo passo. Pensò che non le avrebbe reso le cose più difficili
del necessario. Avrebbe accettato le sue scuse, l’avrebbe ripresa
con sé senza dire una parola e poi, con i suoi tempi, le avrebbe
chiesto di sposarlo. L’ avrebbe lasciata vincere…
Ma più i giorni passavano, più la sua decisione vacillava.
Quella sera avrebbe voluto qualcuno con cui parlare, lì solo in
quel grande appartamento vuoto; qualcuno a cui chiedere un
consiglio. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a pensare a
nessuno con cui avesse abbastanza confidenza per affrontare
un discorso del genere. Negli ultimi anni era stato troppo occu­
pato per mantenere i contatti con gli amici d’infanzia, e i suoi
rapporti con fratelli e parenti si erano raffreddati dalla morte
di Anahita. Telefonava a casa una volta al mese e parlava con il
primo che rispondeva al telefono, facendosi riassumere l’anda­
mento generale. Persino sua madre, quando era lei a rispondere,
si rivolgeva a lui in maniera fredda e distante.
Mi hanno dato per perso, pensò sospirando mentre scendeva
le scale, andando a coricarsi nel grande letto vuoto. Si infilò
sotto le lenzuola e rimase disteso con le mani dietro la testa a
chiedersi come mai, prima che Lali se ne andasse, non trovava
mai il tempo per fare niente, mentre da quando non c’era più,
le ore gli sembravano infinite.
Il giorno seguente, dopo un lungo e solitario weekend, Ari
si decise: era arrivato il momento di mettere da parte l’orgo­
glio. Pieno d’ansia, compose il numero e stavolta aspettò che
squillasse. Ma non gli rispose la voce di Lali che lo invitava a
lasciare un messaggio, bensì un ronzio, a indicare che il numero
non era più attivo.
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Per la prima volta da quando lei se n’era andata, Ari si sentì
stringere il cuore. Fino a quel momento aveva creduto si trat­
tasse di una prova di forza, che si era preparato a perdere con
grazia. Il pensiero che Lali potesse fare sul serio non l’aveva
nemmeno sfiorato.
Riprovò a chiamarla, ma di nuovo gli rispose il ronzio. Co­
minciò a chiedersi come trovarla, sempre più turbato. Sapeva
solo che i suoi genitori abitavano in un labirinto di strade a
Dharavi; c’era stato una sola volta e non aveva idea di come
ritrovare la casa. Cercò di ricordare quali delle sue amiche co­
noscesse, ma Lali teneva la sua vita sociale per sé, dato che la
maggior parte delle ragazze che frequentava appartenevano a
famiglie povere come la sua. Aveva capito che non era il genere
di persone sofisticate con cui incontrarsi all’Indigo Café per una
cena a quattro. E Ari non aveva idea di dove andarle a cercare.
Si domandò come potesse aver vissuto con lei quattro anni
e non sapere nulla della sua vita fuori casa. Era colpa sua? si
chiese, misurando a larghi passi la terrazza.
Alla fine dovette ammettere che era così. Di certo non aveva
mai manifestato ai genitori di Lali l’interesse ad avere un qual­
siasi rapporto con loro. Nemmeno ci aveva provato, neanche
per il bene di lei. Non erano cattive persone… poveri, sì, ma
onesti lavoratori e induisti devoti, che avevano cresciuto i figli
trasmettendo loro un forte senso morale e fornendo anche la
migliore educazione che i pochi mezzi a disposizione permet­
tevano loro.
Esausto, Ari si lasciò cadere su una sedia e si piegò in avanti,
prendendosi la testa fra le mani. Si rese conto di aver trattato con
superficialità non soltanto loro, ma anche i loro valori: aveva
sempre disprezzato la fede religiosa e l’umiltà necessarie ad ac­
cettare il proprio status. Per lui rappresentavano “la vecchia In­
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dia”, proprio come i suoi genitori, il cui atteggiamento servile era
stato plasmato da oltre due secoli di dominazione britannica.
La vecchia generazione sembrava non essersi ancora resa
conto che il potere era passato di mano, che non c’era più biso­
gno di sentirsi servi. Lui e i suoi coetanei erano lanciati verso
il futuro, slegati dal passato. Non c’era limite alle possibilità.
Era voluto fuggire da tutti i vecchi valori, che pensava limi­
tassero chi ci credeva. Seduto là, a fissare il vuoto, Ari si rese
conto di essere furioso. Ma perché?
E all’improvviso gli accadde una cosa che non gli capitava
ormai da anni: si prese la testa fra le mani e pianse.
Riflettendo su se stesso, su ciò che era diventato e sul perché,
Ari si rese conto che non avrebbe dimenticato facilmente la
disperazione di quel weekend. Non sapeva se stesse soffren­
do per aver perso Lali, o per il fatto di essersi trasformato in
una persona rabbiosa, egocentrica e solitaria. Mentre il dolore
sgorgava insieme alle lacrime, si domandò se si trattasse di una
specie di esaurimento nervoso, forse il risultato di quindici anni
passati senza un attimo di tregua.
Certo, aveva creato un’azienda di grande successo, che aveva
prodotto i profitti sperati. Ma nel farlo aveva perso se stesso.
Cercò di comprendere le ragioni della sua rabbia e, con un
certo terrore, il motivo per cui sembrava non provare più alcuna
compassione. Ripensò ai tempi del collegio in Inghilterra e al
modo in cui i ragazzi lo guardavano, solo perché era indiano. No­
nostante l’India fosse un paese libero da più di sessant’anni, l’alta
società inglese continuava a credere a una superiorità di fatto.
L’ orgoglio dei suoi genitori non faceva che peggiorare le
cose. Nonostante le terribili conseguenze della dominazione
britannica fossero lampanti, la cultura e le tradizioni dell’antico
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padrone erano rimaste impresse in maniera indelebile dentro
di loro. Mandare il proprio figlio a una scuola pubblica ingle­
se, per i suoi genitori era ancora il massimo a cui un indiano
potesse ambire.
Ma Ari sapeva che, nonostante i cinque anni in Inghilterra
avessero rafforzato la consapevolezza di valere quanto i suoi
compagni europei, in lui era rimasto intatto l’istinto della com­
petizione. E si rese conto anche di aver soffocato proprio le
qualità che avevano fatto grande il suo popolo, trasformandosi
lui stesso in un imperialista non molto diverso da quelli che
una volta avevano comandato il suo paese. Aveva perso la sua
anima indiana.
Quella domenica pomeriggio, Ari uscì dal suo appartamento
e chiese alla prima persona che incontrò in Juhu Tara Road di
indicargli il tempio più vicino. Imbarazzato, spiegò che non era
di Mumbai.
Una volta entrato nel tempio, si tolse le scarpe e pregò, ripe­
tendo i gesti e le parole che per lui erano stati spontanei come
respirare, ma che ora gli sembravano estranei e innaturali. Ari
offrì una puja, non più a Lakshmi, la dea dell’abbondanza, ma a
Parvati, la dea dell’amore e all’onnipotente Vishnu. Chiese loro
perdono, specialmente per essersi allontanato dai suoi genitori.
E pregò per il ritorno di Lali.
Quando arrivò a casa, un po’ più calmo, Ari chiamò imme­
diatamente i suoi genitori. Fu sua madre a rispondergli.
«Ciao mamma. Io…»
«Che c’è, ragazzo?»
Il fatto che avesse già capito che qualcosa non andava gli
fece venire le lacrime agli occhi, e scoppiò a piangere di nuovo.
Chiese il suo perdono, quello di suo padre e dei suoi fratelli e
sorelle. «Mi dispiace tanto, davvero» sussurrò.
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«Figlio mio, sentirti così mi spezza il cuore. È stata Lali a
spezzare il tuo?»
Ari rimase per un attimo in silenzio. «Come fai a saperlo,
mamma?»
«Non ti ha detto che è venuta a trovarci, due settimane fa?»
«No, non me l’aveva detto.»
«Capisco.»
«Di cosa avete parlato, mamma?» domandò.
Ari sentì Samina sospirare profondamente. «Ha detto che
non poteva più aspettare che ti decidessi a impegnarti seria­
mente con lei. Che adesso era sicura che non l’amavi abbastanza
e che la cosa migliore sarebbe stata lasciarti libero. Sai quanto
desiderava una famiglia, pyara.»
«Sì. Certo che lo sapevo. Lo so. Ti prego, credimi, mamma,
io la amo. Mi manca… voglio che torni da me. Se sai dove si
trova, parlale, ti prego. Io…» dovette fermarsi per l’emozione.
«Figlio mio, mi dispiace tanto, ma non tornerà a casa da te.»
«Perché no?» Ari si accorse di somigliare a un bambino
viziato che non capisce perché non può riavere il suo gioco
preferito.
«Mi dispiace dover essere io a dirtelo, ma forse è meglio
che tu sappia la verità. Ricorderai che i suoi genitori le avevano
combinato un matrimonio, che si rifiutò di accettare dopo averti
conosciuto.»
«Sì.» Ari ricordava vagamente. «Con un cugino di Kolkata,
se non sbaglio; un contadino, molto più vecchio di lei. Lali disse
che l’aveva odiato dalla prima volta che l’aveva visto.»
«Be’, forse sì…» disse Samina «o forse no, visto che ieri l’ha
sposato.»
Ari rimase paralizzato.
«Ari, sei ancora lì?»
97
«Sì.» Rispose con un filo di voce. «Perché? Non capisco…»
«Io sì» disse sua madre, piano. «Lali ha quasi trent’anni. Non
ha un diploma né una professione con la quale guadagnarsi da
vivere, e i suoi genitori sono troppo poveri per mettere insieme
una dote. Ha detto che almeno quest’uomo le avrebbe garantito
protezione e un sostegno economico per tutta la vita.»
«Cosa?!» Ari non poteva credere alle parole che sua madre
aveva appena pronunciato. «Mamma, con me era al sicuro! Forse
non le avrò dedicato abbastanza tempo, ma per quanto riguarda
l’aspetto economico non le ho mai fatto mancare niente.»
«Ma non le hai dato l’unica cosa di cui aveva veramente bi­
sogno. Quella a cui ogni donna ambisce, soprattutto in India.»
«Il matrimonio?»
«Esattamente. Come mi ha detto Lali, se ti fossi stancato
avresti potuto scaricarla da un giorno all’altro in mezzo a una
strada. Come tua convivente non aveva nulla, né status, né ga­
ranzie… sono cose importanti, devi cercare di capirlo.»
«Se solo me ne avesse parlato prima.» Ari si morse il labbro.
«Sono sicura che ci abbia provato, tante volte, fino a quando
non ha rinunciato.» Samina sospirò. «Mi ha detto che non la
ascoltavi. Sa di essere giovane e bella, ma sa anche che il tempo
passa in fretta.»
«Io… non l’avevo capito. Davvero, mamma, credimi.»
«E ovviamente era troppo orgogliosa per pregarti.»
«Mamma, cosa devo fare adesso?» le domandò disperato.
«Ricomincia da capo.» Suggerì Samina. «Cerca di imparare
la lezione. E rinuncia a Lali, perché, purtroppo, se n’è andata
per sempre.»
«Io… adesso devo andare. Ho del lavoro da sbrigare.»
«Fatti sentire…» furono le ultime parole che udì, prima di
riagganciare.
98
Per la prima volta in vita sua, il giorno seguente Ari non
andò in ufficio. Chiamò Dhiren, il suo nuovo direttore vendite,
e gli disse che era malato. Nei giorni successivi scivolò in una
specie di letargo. Si alzava dal letto solo per mangiare, bere e
andare in bagno. La sua leggendaria energia sembrava averlo
abbandonato e, quando si guardò allo specchio, si vide più pic­
colo, pallido… come se una parte di lui si fosse consumata. In
un certo senso, pensò disperato, era proprio così.
Nei rari momenti in cui era sveglio, restava disteso a guarda­
re il soffitto, domandandosi dove fosse finita la determinazione
che l’aveva spinto in tutti quegli anni. Quando lo chiamavano
dall’ufficio non se la sentiva di rispondere.
Il martedì sera, mentre fissava in lontananza le luci di quel
mondo che andava avanti senza di lui, aggrappato alla ringhiera
della terrazza, cercò di immaginare il proprio futuro. Ed eccolo,
lì davanti a lui: un enorme buco nero. Si prese la testa fra le
mani. «Lali, mi dispiace tanto» sospirò.
In quel momento, qualcuno suonò il campanello. Corse al
citofono, pregando che fosse lei, e alzò il ricevitore.
«Sì?»
«Ragazzo, sono io, tua madre.»
«Sali» disse, deluso ma anche sorpreso. Infatti i suoi genitori
vivevano a cinque giorni di macchina da Mumbai.
«Figlio mio.» Quando lui aprì la porta per farla entrare, Sa­
mina spalancò le braccia.
In quell’istante, tutta la tensione e l’amarezza degli ultimi
dieci anni si dissolsero e Ari pianse come un bambino fra le
braccia di sua madre.
«Mi dispiace, mamma, mi dispiace tanto.»
«Ari» Samina si staccò dal figlio per guardarlo negli occhi, e
gli sorrise. «Ora sei tornato alla tua famiglia, ed è ciò che conta.
99
Perché adesso non prepari a tua madre una bella tazza di te? È
stato un lungo viaggio.»
Quella sera Ari condivise con sua madre i pensieri che l’aveva­
no tormentato negli ultimi giorni e lo scoramento riguardo al
proprio futuro.
«Be’, perlomeno ora mi stai parlando col cuore e non con
quella testa dura che ti ritrovi» disse Samina, cercando di con­
solarlo. «In tutti questi anni mi sono sempre domandata dove
fosse finito mio figlio, e se lo avrei mai rivisto. Almeno questo
è un buon inizio. Hai imparato una lezione importante, Ari: la
felicità è fatta di tante cose e non viene mai da una sola fonte.
Il denaro e il successo non fanno la felicità quando il cuore è
chiuso in se stesso.»
«Anahita mi disse la stessa cosa l’ultima volta che la vidi»
ricordò Ari. «E disse che un giorno me ne sarei reso conto.»
«La tua bisnonna era una donna molto saggia.»
«Sì, e mi vergogno di non essere venuto a dirle addio.»
«Be’, se anche tu, come lei, credi agli spiriti, sono certa che
sia qui con noi e accetterà le tue scuse. Ora» la donna sbadigliò
«sono molto stanca e ho bisogno di dormire.»
«Certo» rispose Ari e la accompagnò al piano di sotto, in
una delle splendide camere da letto.
«Quanto spazio per una persona sola» osservò Samina, men­
tre Ari sistemava la sua valigia. «E una notte intera senza tuo pa­
dre a russarmi nelle orecchie. Potrei non volermene più andare!»
«Resta pure quanto vuoi, mamma» disse lui, sorpreso nell’ac­
corgersi che il suo era un entusiasmo sincero, e vergognandosi
di non averla mai invitata prima. «E grazie per essere venuta»
aggiunse, dandole il bacio della buonanotte.
«Sei mio figlio. Ero preoccupata per te. Puoi anche vivere
100
in un appartamento lussuoso e avere un grosso conto in ban­
ca, ma resti sempre il mio bambino.» Così dicendo accarezzò
affettuosamente la guancia di suo figlio.
Quando Ari si infilò a letto, mezz’ora dopo, si sentì stra­
namente consolato all’idea che sua madre fosse solo a pochi
metri da lui. Non gli aveva rinfacciato nulla del suo pessimo
comportamento ed era subito corsa da lui, non appena ne aveva
avuto bisogno. Si sentì mortificato e ripensò ad Anahita, che
in tutti quegli anni non aveva mai smesso di credere che suo
figlio fosse vivo.
Esisteva davvero il sesto senso per una madre, quando si
trattava del proprio figlio?
Il suo sguardo fu attirato dall’ultimo cassetto della scrivania.
Conteneva ancora la storia della sua bisnonna, che lui non aveva
toccato per undici anni. Ari si sentì avvampare, come se fosse
alla presenza di Anahita. Se effettivamente era con lui in quel
momento, sperò che capisse quanto gli dispiaceva aver ignorato
il manoscritto che lei gli aveva affidato fiduciosa. Scese dal let­
to, aprì il cassetto e tirò fuori le pagine ingiallite. Vide che era
scritto in inglese, con una calligrafia ordinata e precisa.
Sentì le palpebre farsi pesanti. Era troppo stanco per mettersi
a leggere, ma si ripromise di cominciare il giorno seguente.
L’ indomani mattina, Ari portò sua madre a fare colazione fuori,
prima che si rimettesse in viaggio.
«Domani tornerai al lavoro?» gli chiese. «Dovresti, ti aiuterà
a tenere la mente sgombra. E poi sempre meglio che vagare per
quel gigantesco appartamento senz’anima.»
«Mamma, devi deciderti però» ribatté Ari ridacchiando. «Un
attimo prima mi dici che lavoro troppo, e quello dopo mi vuoi
rimandare in ufficio!»
101
«Nella vita bisogna trovare un equilibrio. Solo allora potrai
raggiungere la felicità che cerchi. Ah, prima che mi dimentichi»
Samina frugò dentro la borsa, ne estrasse una vecchia copia del
libro Ricompense e Fate di Rudyard Kipling e lo porse ad Ari.
«Tuo padre ti manda questo. Ha detto di leggere la poesia Se. È
una delle sue preferite.»
«Sì.» Ari sorrise. «Lo so. Non la rileggo dai tempi della scuola.»
Quando sua madre se ne fu andata, non prima di avergli
strappato la promessa di andare a trovarli appena possibile, si
recò in ufficio.
Chiamò a colloquio Dhiren e gli diede l’incarico di dirigere
gli affari per tutto il tempo in cui fosse rimasto a Londra, sot­
tolineando che probabilmente sarebbe stato via più a lungo del
previsto.
Ventiquattr’ore dopo prese l’ultimo volo per Heathrow. Non
guardò il film che proiettavano, lesse invece la poesia che suo
padre gli aveva dedicato. Alla fine sorrise. Messaggio afferrato.
Ordinò un bicchiere di vino e tirò fuori dalla valigetta il plico
di fogli ingialliti.
102
Jaipur
India 1911
6
Anahita
Mi ricordo, figlio mio. Nella quiete della notte, il più leggero ac­
cenno di brezza era una benedizione e un sollievo dal caldo torri­
do di Jaipur. Spesso salivo insieme alle altre donne e alle bambine
della zenana sui tetti del Moon Palace, e mi sdraiavo lassù.
La città di Jaipur si trova al centro di una pianura, circon­
data da colline deserte. Da piccola credevo di vivere nel posto
più bello della terra, perché la città ha sempre avuto un che di
fiabesco: gli edifici dipinti di rosa, le case a cupola finemente
decorate e traforate e i portici che percorrevano la città, eleganti
come un pizzo antico. Ovviamente il Moon Palace era situato
nel punto migliore: come una piccola città a sé stante, separata
da tutto da giardini lussureggianti. L’ interno era un labirinto, gli
archi scolpiti conducevano a corti interne, che di volta in volta
rivelavano i loro segreti.
Persino gli abitanti di Jaipur erano pittoreschi: gli uomini in­
dossavano turbanti gialli, magenta e rosso rubino. Io li guardavo
dall’alto, affacciandomi alle terrazze che davano sulla città: mi
ricordavano tante formichine colorate e affaccendate.
In quel palazzo al centro della città magica, per me e le mie
compagne era facile sentirsi come tante principesse.
105
Ma, ovviamente, io non lo ero.
Fino all’età di nove anni ho vissuto in mezzo alla gente della
città che osservavo dall’alto.
Mia madre, Tira, apparteneva a un’antica stirpe di bahid,
il termine indiano che sta per donna saggia, guaritrice. Sin da
quando ero molto piccola sono stata accanto a lei mentre riceve­
va le persone che le chiedevano un consulto. Nel piccolo giardi­
no sul retro coltivava le molte erbe aromatiche che le servivano
per preparare rimedi ayurvedici; spesso la osservavo triturare
guggulu, manjishtha, goku o shil noda per i suoi rimedi. I suoi
clienti erano sempre soddisfatti e se ne andavano convinti che
i loro amati li avrebbero finalmente ricambiati, o che il tumore
sarebbe scomparso, o che avrebbero concepito un bambino nel
giro di un mese.
A volte, quando arrivava una donna, mia madre diceva alla
nostra cameriera di portarmi a fare una lunga passeggiata. Ini­
ziai a notare che queste pazienti si accomodavano sempre in una
stanza sul retro e rimanevano sdraiate fra i cuscini ad aspettare
mia madre con un’espressione terrorizzata dipinta in volto.
Ovviamente a quei tempi non sapevo in che modo le aiutas­
se: le liberava dal fardello di bambini non voluti.
Figlio mio, tu forse penserai che questo sia un peccato ter­
ribile, ma spesso queste donne avevano già dieci figli e cer­
te famiglie erano talmente povere da non potersi permettere
di sfamare una sola bocca in più. Mia madre aiutava anche le
donne che desideravano far venire al mondo i propri figli, e
quando fui abbastanza grande incominciai ad assisterla anche
in questi casi. Quando ho assistito alla prima nascita, ammetto
di non essere riuscita a guardare; ma con il tempo, come spesso
accade, ho imparato ad apprezzare il fascino di questo miracolo
della natura.
106
A volte io e mia madre prendevamo il pony che mio padre
teneva in una stalla fuori città, e visitavamo i villaggi attorno
Jaipur. È stato lì che mi sono resa conto che il mondo non era
solo la città fiabesca che conoscevo, con genitori amorevoli e il
cibo in tavola tutte le sere. Fui testimone di cose terribili: stenti,
fame, soprusi, e ogni genere di tormento che un essere umano
possa patire. Ero molto giovane quando mi resi conto che la vita
è ingiusta. Una lezione che non ho più dimenticato.
Mia madre, come tutti gli induisti, era molto superstiziosa.
Ricordo che una volta, quando avevo sei anni, ci stavamo pre­
parando per andare a trovare alcuni parenti che abitavano a
più di trecento chilometri di distanza, in occasione dell’Holi, la
festa religiosa durante la quale ci si lancia polvere colorata fino
a ridursi a tanti arcobaleni.
Quel giorno uscimmo di casa e ci incamminammo verso la
stazione per la prima tappa del viaggio. All’improvviso una ci­
vetta volò davanti a noi e mia madre si fermò di colpo in mezzo
alla strada, con un’espressione terrorizzata.
«Non possiamo andare» ci disse, voltandosi. «Dobbiamo
tornare indietro.»
Mio padre, abituato ai suoi pregiudizi e ansioso di andare a
trovare i parenti, sorrise e scosse la testa. «No, mia pyari, quello
era solo uno splendido animale che ci ha attraversato la strada.
Non significa niente.»
Ma mia madre si era già voltata, incamminandosi verso casa.
Nonostante le proteste di mio padre, si rifiutò di cambiare idea.
Passammo quel fine settimana pensando ai nostri parenti che si
stavano divertendo a centinaia di chilometri da noi.
Ma il giorno dopo la festa venimmo a sapere una cosa: nella
regione c’erano state delle inondazioni e il treno che avremmo
dovuto prendere era precipitato in un fiume quando il ponte
107
che stava attraversando era improvvisamente crollato. I vagoni
e i passeggeri erano stati inghiottiti dalle acque rosse e fangose.
Un centinaio di nostri concittadini non avevano fatto ritorno.
Dopo questo episodio mio padre iniziò a prendere più sul
serio le intuizioni di mia madre. Crescendo, lei cominciò a in­
segnarmi qualche semplice rimedio per la tosse, il raffreddore
e il cuore infranto. Mi insegnò a scegliere i giorni più adatti in
cui preparare i rimedi in base alle fasi lunari. Mi insegnò che era
la luna a trasmettere il potere della femminilità, e che la natura,
creata dagli dèi per fornire agli esseri umani tutto ciò che serviva
loro, era la forza più potente del pianeta.
«Un giorno, Anni, sentirai gli spiriti cantare» mi disse, rin­
calzandomi il lenzuolo. «Quel giorno saprai con certezza di
possedere il dono che ti ho trasmesso.»
A quei tempi non capii cosa intendeva dire, ma annuii co­
munque. «Sì, maaji» risposi, mentre mi dava il bacio della buo­
nanotte.
Sapevo che nella sua famiglia tutti pensavano che mia madre
si fosse sposata con un uomo al di sotto delle sue possibilità. Era
nata in una casta elevata. Era la cugina di secondo grado della
maharani di Jaipur, anche se, a dire il vero, in India sembrava
che tutti fossero parenti di tutti. Già all’età di due anni era stata
promessa a un ricco cugino del Bengala, che però a sedici anni
si era ammalato di malaria ed era morto. Mentre i suoi genitori
erano impegnati a cercarle un altro marito, al festival di Navatri
incontrò mio padre; da quel giorno incominciarono a intrat­
tenere una relazione segreta scambiandosi lettere di nascosto.
Quando i miei nonni annunciarono di averle trovato un se­
condo marito, scoprì che sarebbe diventata la terza moglie di
un cinquantenne; a quel punto li minacciò di fuggire, a meno
che non le avessero permesso di sposare il bel giovane che sa­
108
rebbe poi diventato mio padre. Non conosco i particolari – la
loro storia d’amore era già diventata leggenda quando sono
nata io – ma so che alla fine i miei nonni acconsentirono con
riluttanza al matrimonio.
«Dissi ai tuoi nonni che non avevo rubini, perle o palazzi da
offrire alla loro figlia, ma garantivo loro che l’avrei amata per
sempre» mi raccontava mio padre. «E, mia beti, non dimen­
ticare mai che l’amore è il tesoro più grande che un maharaja
possa avere.»
Lui, Kamalesh, era l’esatto opposto di mia madre. Filosofo,
poeta e scrittore, fortemente influenzato dal famoso bramino,
poeta e attivista, Rabindranath Tagore. Guadagnava una mise­
ria facendo uscire un pamphlet mensile in cui esprimeva il suo
pensiero radicale e rivoluzionario, specialmente per quel che
riguardava l’egemonia britannica. Aveva imparato perfettamen­
te l’inglese da autodidatta e, ironia della sorte, per sbarcare il
lunario lo insegnava ai giovani indiani altolocati che desidera­
vano parlare con i loro pari inglesi.
Lo insegnò anche a me, sua figlia, insieme a tante altre mate­
rie, dalla storia alle scienze. Mentre le altre ragazze imparavano
l’arte del ricamo e pregavano Shiva di trovare un marito buono
e gentile, io leggevo L’ origine delle specie di Darwin e studia­
vo matematica. Imparai a cavalcare a pelo all’età di otto anni,
galoppando attraverso le pianure deserte che circondavano la
città, mentre mio padre, davanti a me, mi urlava di stargli dietro.
Lo adoravo, come tutte le bambine adorano il proprio padre, e
facevo tutto il possibile per compiacerlo.
Perciò, tra l’uomo radicale con una visione scientifica e lo­
gica del mondo, e la donna che una volta vide un pipistrello in
camera da letto e fece venire un ojha a casa – il sacerdote che
purifica dagli spiriti malvagi – io crebbi in un turbine di stimoli
109
opposti. Dentro di me c’era una parte di entrambi, ma avevo
anche una personalità piuttosto spiccata.
Una volta mi misi a piangere perché avevo visto un gruppo
di ragazzini picchiare a morte un cane randagio; mio padre
mi prese sulle ginocchia e mi asciugò le lacrime, poi mi alzò il
mento con due dita e mi guardò negli occhi: «Mia dolce Anni,
tu hai un cuore grande, che batte più forte di cento tabla messe
insieme. Come tuo padre, odi l’ingiustizia e ami la lealtà. Ma
sii prudente, mia Anni, perché gli esseri umani sono creature
complesse e le loro anime sono spesso grigie, quasi mai bian­
che o nere. Dove pensi di trovare il bene, potresti scoprire la
malvagità. E dove pensi ci sia soltanto il male, potresti restare
sorpresa trovando anche il bene».
Quando avevo nove anni, mio padre morì improvvisamente
durante un’epidemia di tifo che mise in ginocchio la città du­
rante la stagione dei monsoni. Nemmeno l’arsenale di pozioni
e medicine di mia madre riuscì a salvarlo.
«Era giunta la sua ora, pyari, e io lo sapevo» mi disse lei.
Faticai a comprendere il modo in cui aveva accettato la sua
morte. Mentre io piangevo consumata dal dolore, lei sedeva
accanto al suo corpo senza vita, immobile e serena.
«Anni, quando arriva la tua ora devi andare» mi confortava.
«Non c’è niente che tu possa fare.»
Ma io non volevo saperne. Al suo funerale urlai e scalciai e
mi rifiutai di lasciare che mio padre fosse sollevato sulla pira. Ri­
cordo che mi dovettero trascinare via mentre lo swami intonava
il canto appiccando il fuoco. Quando un fumo aspro si levò in
cielo, mi voltai, nascondendo il viso fra le sottane di mia madre.
Dopo la morte di mio padre, non avevamo molto di cui
vivere. La maharani di Jaipur, cugina di mia madre, ci propo­
110
se di andare a vivere con lei. Perciò ci trasferimmo entrambe
dalla nostra piccola casetta in città direttamente nella zenana
del Moon Palace.
Quella era la parte del palazzo in cui le donne vivevano se­
parate dagli uomini. Perché ovviamente, a quei tempi, a partire
dalla pubertà le ragazze erano tenute a seguire la tradizione indù
della purdah. Nessun uomo, fatta eccezione per il marito o i
parenti stretti, poteva vederci in volto. Anche se eravamo ma­
late, il dottore doveva visitarci dietro un paravento. Nei luoghi
pubblici tenevamo un velo sul viso. Oggi quasi fatico a credere
che fosse così, ma a quei tempi era la regola.
All’inizio impiegai un po’ di tempo prima di abituarmi al
rumore e al viavai della zenana. Prima avevamo una cameriera
e un ragazzo che si occupava del giardino, ma alla fine della
giornata restavamo soltanto noi tre, e se volevamo, potevamo
chiudere la porta e lasciare tutto il mondo fuori. A palazzo era
molto diverso. Vivevamo, mangiavamo e dormivamo tutte
insieme. A volte sentivo fortissima la mancanza della pace e
dell’intimità della nostra vecchia casa, dove potevo chiudermi
nella mia stanza a leggere indisturbata.
Ad ogni modo, anche la vita comune aveva i suoi vantaggi.
Di sicuro non mancavano le compagne di gioco: moltissime
ragazze della mia età abitavano nella zenana. C’era sempre qual­
cuno con cui fare una partita a backgammon o che accompa­
gnasse il mio canto con le corde della veena.
Le mie amiche erano tutte figlie della nobiltà locale, educate
e di buone maniere. Ma una cosa mi mancava moltissimo: le
mie lezioni. Fu solo dopo essere entrata nella zenana che mi
resi conto di quanto l’educazione che mi dava mio padre fosse
insolita per una ragazza.
Era stato lui a soprannominarmi “Anni”; il mio nome, Ana­
111
hita, significa “piena di grazia”. Ho sempre pensato che non mi
si addicesse. Potevo anche essere istruita (e in grado di battere
qualunque coetanea in una corsa a cavallo) ma per quanto ri­
guardava la “grazia” femminile, mi sentivo ben poco dotata.
Osservavo le altre ragazze trascorrere ore e ore a guardarsi allo
specchio per scegliere il colore giusto del corsetto da abbinare
alla gonna (nel Rajastan le donne non indossavano il tradizio­
nale sari).
Tutte quelle principesse e la maggior parte delle loro nobili
cugine erano già promesse a uomini scelti dai loro genitori.
Io provenivo da una famiglia di casta elevata, ma povera. Mio
padre non mi aveva lasciato molti beni materiali e io sapevo che
mia madre non aveva alcuna dote per me. Non ero una moglie
“appetibile” e lei stava ancora setacciando l’albero genealogico
in cerca di qualcuno che mi accettasse in sposa. Io non ero
preoccupata, perché nella mia mente erano impresse le parole
con cui mio padre aveva chiesto in sposa mia madre.
Io volevo trovare l’amore.
All’età di undici anni, dopo un anno trascorso alla zenana, la
mia istruzione e il fatto che sapessi cavalcare iniziarono a dare i
loro frutti. Fui scelta dalla maharani come dama di compagnia
di sua figlia maggiore, la principessa Jameera.
Anche se, in quanto sua dama di compagnia, potevo usu­
fruire di tutta una serie di privilegi e partecipare ad attività sti­
molanti come il tiro a segno, o avere accesso a zone del palazzo
che fino a quel momento mi erano state proibite, non ricordo
quel periodo come un momento felice.
Jameera era viziata e spesso si rivelava intrattabile. Se quando
giocavamo perdeva, correva da sua madre in lacrime, dicendo
che io avevo barato. Quando le parlavo in inglese, come sua
madre mi aveva chiesto di fare, si copriva le orecchie con le
112
mani rifiutandosi di ascoltarmi. E se osavo batterla in una delle
nostre corse a cavallo, urlava contro di me e mi ignorava per il
resto della giornata.
Sapevamo entrambe quale fosse il problema: Jameera era una
principessa, ma io avevo ricevuto in dono moltissime capacità
che lei non aveva. E, nonostante non fossi affatto una ragazzina
vanitosa, tutti lodavano la mia figura snella e slanciata. Un altro
dono che Jameera non aveva di certo.
«Maaji» dicevo piangendo fra le braccia di mia madre, men­
tre lei mi asciugava le lacrime. «Jameera mi odia!»
«Indubbiamente è una ragazza difficile» mi rispondeva. «Su,
pyari, non ci si può fare niente. Di certo non possiamo dire
alla maharani che sua figlia non ti è simpatica! Devi cercare di
comportarti meglio che puoi. E sentirti onorata di essere stata
scelta fra tutte; sono certa che un giorno verrai ripagata dei
tuoi sforzi.»
Come sempre, mia madre aveva ragione. Nel 1911 tutti i
principati dell’India Britannica erano in fermento. Edoardo VII,
imperatore d’India, era morto l’anno precedente. Suo figlio,
Giorgio V, era diventato re e la sua incoronazione formale sareb­
be avvenuta nel mese di giugno, in Inghilterra. Poi, in dicembre,
si sarebbe tenuta la grande Proclamation Durbar a Dehli, alla
quale erano invitati tutti i principi e le principesse d’India. Ed
essendo la dama di compagnia della principessa Jameera, anche
io fui inserita nel vasto entourage che il maharaja di Jaipur – suo
padre – avrebbe portato con sé.
Mia madre era al settimo cielo. «Anni,» disse, prendendomi
il viso fra le mani «quando sei nata consultai un astrologo per
tracciare il tuo tema natale, e sai cosa mi disse?»
Scossi la testa. «No, maaji, cosa?»
«Disse che quando avresti compiuto undici anni ti sarebbe
113
accaduto qualcosa di straordinario. Avresti conosciuto una per­
sona che avrebbe cambiato la tua vita per sempre.»
«È senz’altro incredibile» commentai con rispetto.
Solo ora, mentre scrivo queste righe, mi guardo indietro e
mi rendo conto di quanto l’astrologo avesse ragione.
114
7
È semplicemente impossibile descrivere a parole lo splendore
e la maestosità di quella cerimonia. Mentre ci avvicinavamo a
Coronation Park – appena fuori Dehli – sembrava che l’India
intera fosse diretta lì.
Jameera, le principesse più giovani e io sedevamo nella no­
stra howdah chiusa, sopra la schiena di uno dei grossi elefanti
della maharani, e sbirciavamo fuori dalla tenda vinte dalla cu­
riosità. Le strade polverose erano occupate da ogni mezzo di
trasporto possibile e immaginabile: biciclette, buoi, automobili
ed elefanti si contendevano lo spazio. Ricchi e poveri insieme,
tutti diretti verso Coronation Park.
Ogni maharaja aveva il suo accampamento, fornito di acqua
e luce. Quando arrivammo al nostro, guardai ammirata gli ele­
ganti alloggi femminili.
«C’è persino una vasca» gridai a Jameera, osservando a boc­
ca aperta quei moderni miracoli che ci avrebbero permesso di
vivere lì per sempre, se solo l’avessimo desiderato.
Jameera non era stupita quanto me. Era molto stanca per il
lungo viaggio e di cattivo umore.
«Dov’è la mia scatola della puja?» gridò a una delle came­
riere che stavano scaricando la moltitudine di bauli. «Queste
lenzuola graffiano» disse imbronciata, mentre le sue dita pic­
115
cole e grassocce accarezzavano il lino del letto. «Cambiatele
subito!»
Non volevo che il suo malumore mi contagiasse, perciò non
appena ebbi finito di aiutare le cameriere a disfare i bagagli,
Jameera andò a fare il bagno e io uscii in esplorazione. Fuori,
le luci dell’enorme parco illuminavano il cielo notturno, che
sembrava appeso sopra i meravigliosi, immacolati giardini che
circondavano il nostro campo. All’orizzonte vidi un’esplosione
di fuochi d’artificio, serpentine turbinanti di colori, il cui fumo
acre si mescolava al profumo degli incensi che riempiva l’aria.
Sentii gli elefanti barrire e il dolce suono dei sitar in lontananza.
Per un attimo sperimentai un momento di gioia pura e as­
soluta. In un’area di pochi chilometri erano rappresentati tutti i
principati. Tra le migliaia di persone presenti c’erano le autorità
più temute, erudite e potenti dell’India. E io, Anahita Chavan,
ero fra loro.
Alzai gli occhi al cielo e gli parlai.
«Guardami, padre mio, sono qui» dissi con gioia.
Inutile sottolineare che da una simile concentrazione di per­
sonalità non potesse che nascere anche una certa competizione.
Ogni maharaja voleva che il suo campo fosse il più sontuoso, o
avesse il seguito più numeroso o più elefanti del proprio vici­
no. I principi cercarono di superarsi con feste e cene sfarzose.
I rubini, i diamanti, gli smeraldi e le perle che adornavano i
loro vestiti avrebbero potuto comprare il mondo intero, pensai,
mentre tornavo di corsa alla nostra tenda per aiutare Jameera
a vestirsi per il banchetto offerto dai suoi genitori. Tutti erano
piuttosto eccitati.
«Sono attesi diciotto principi e le loro maharani, stasera!»
commentò Jameera, mentre si sforzava di infilare le dita gras­
socce in un braccialetto d’oro. «Maaji mi ha detto che ci sarà
116
anche il padre del principe a cui sono stata promessa. Devi
aiutarmi a essere più bella che mai.»
«Certo» risposi io.
Alla fine, le quattro mogli del maharaja e le donne anziane
furono fatte accomodare dietro un paravento, mentre i loro ma­
riti e gli altri uomini partecipavano al ricevimento che precede­
va il banchetto. Noi tutte tirammo un sospiro di sollievo perché
tutto stava procedendo senza intoppi, e restammo in attesa di
ricevere nella zenana le donne e i bambini che avrebbero cenato
con noi, separate dagli uomini. Più tardi, quella sera, la zona di
accoglienza delle nostre tende era gremita di donne e dei loro
figli. Guardai ammirata la nostra maharani accogliere le mogli
dei maharaja ospiti. A una ragazzina di undici anni sembra­
vano appena uscite da una favola: cosparse di olii profumati,
il corpo decorato con l’henné, le collane di perle grosse come
uova di uccellino, i diademi incastonati di rubini e smeraldi e gli
orecchini di diamante al naso. I loro figli non erano da meno:
bambini e bambine di tre anni indossavano braccialetti scintil­
lanti, cavigliere incrostate di pietre preziose e splendide collane.
Ricordo che quella vista mi colpì, ma allo stesso tempo mi
turbò. Tutta quella ricchezza radunata in una sola stanza era
considerata scontata, mentre io avevo visto tutta la povertà e la
miseria del nostro paese, e sapevo cos’era.
Comunque, non riuscii a fare a meno di restare a bocca aper­
ta di fronte a quello spettacolo.
E sarebbe stato proprio in quell’occasione che le previsioni
dell’astrologo si sarebbero rivelate vere. Nessuno si rende conto
di vivere un momento cruciale mentre sta succedendo. Quel che
accadde lo fece, come succede spesso, senza squilli di tromba.
Me ne stavo seduta tranquilla in un angolo della zenana,
immersa in tutto quello splendore. Ero assetata e avevo caldo,
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perciò mi alzai e mi diressi furtivamente verso un’apertura della
tenda per prendere un po’ d’aria. Scostai il telo e sbirciai fuo­
ri; una brezza leggera mi accarezzò il viso. Ricordo che stavo
ammirando l’infinità di stelle in cielo, quando sentii una voce.
«Ti annoi?»
Mi voltai e vidi accanto a me una ragazzina. Capii dalle perle
che aveva attorno al collo e dal diadema fra i capelli ondulati
che si trattava della figlia di qualche potente.
«No, certo che no» mi affrettai a dire.
«Sì, invece! L’ ho capito perché anche io mi sto annoiando.»
Incrociai timidamente lo sguardo col suo. Ci fissammo per
qualche secondo, come se ci stessimo facendo una radiografia
a vicenda.
«Perché non andiamo a fare un giro?»
«Non possiamo!» risposi io, terrorizzata.
«Perché no? Ci sono così tante donne qui dentro che nessuno
ci noterà.» I suoi bellissimi occhi scuri, screziati d’ambra, mi
stavano sfidando.
Feci un profondo respiro, perfettamente cosciente del guaio
in cui mi sarei cacciata se qualcuno si fosse accorto della mia
assenza. Ma nonostante quelle sagge riflessioni, annuii.
«Dobbiamo evitare le luci, altrimenti ci scopriranno di si­
curo» sussurrò. «Vieni.»
E poi mi prese per mano.
Ricordo ancora come le sue lunghe dita sottili si intrecciaro­
no alle mie. La guardai e vidi un lampo di furbizia attraversarle
gli occhi. Le mie dita si chiusero attorno alle sue e i nostri palmi
si unirono.
Una volta fuori, la mia nuova amica indicò in direzione di
un campo. «Vedi là? È dove stanno cenando i maharaja.»
I dintorni della tenda centrale del durbar erano illuminati da
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decine di candele riparate in lanterne di vetro, che lanciavano
bagliori tra le sagome scure degli alberi e le piante dei giardini
esotici.
Fu proprio verso quel punto che mi trovai a correre, l’erba
soffice che mi solleticava i piedi. Sembrava che quella bambina
sapesse esattamente dove andare, quando infine arrivammo
all’enorme tenda. Corse lungo un lato, per ripararsi nell’ombra,
poi si inginocchiò e sollevò la pesante tela. Si sporse in avanti e
guardò attraverso il piccolo spazio.
«Per favore, sta’ attenta, potrebbero vederci» le dissi.
«Nessuno si metterà a guardare per terra» disse lei ridac­
chiando e tirando ancor più su la tenda. «Vieni. Ti mostro mio
padre. Per me è il più bello di tutti i maharaja.»
La ragazzina mi fece prendere il suo posto, io afferrai la spes­
sa tela e sbirciai.
Dentro, non vidi altro che tanti piedi maschili ingioiellati.
Ma non volevo deludere la mia nuova amica.
«Sì!» dissi. «È davvero un bellissimo spettacolo.»
«Se guardi sulla sinistra, vedrai mio padre.»
«Sì, sì» esclamai, guardando la fila di caviglie. «L’ ho visto.»
«Sono sicura che è più bello di tuo padre!» disse con gli
occhi luccicanti.
Allora mi resi conto che quella ragazzina credeva fossi una
principessa, e che il maharaja di Jaipur fosse mio padre. Scossi
tristemente la testa.
«Mio padre non è qui; è morto.»
La sua mano calda strinse di nuovo la mia. «Mi dispiace
tanto.»
«Grazie.»
«Come ti chiami?» mi chiese.
«Anahita, ma tutti mi chiamano Anni.»
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«Io sono Indira, Indy.» Sorrise. A quel punto si stese com­
pletamente a terra a pancia in giù, puntando la testa contro le
mani. «Allora chi sei?» I suoi occhi, brillanti come quelli di una
tigre, mi studiarono attentamente. «Sei molto più bella delle
altre principesse di Jaipur.»
«Oh, non sono una principessa» la corressi. «Mia madre
è cugina di secondo grado della maharani di Jaipur. Quando
mio padre è morto, due anni fa, siamo andate ad abitare nella
zenana del palazzo.
«Purtroppo per me,» disse alzando un sopracciglio «io in­
vece sono una principessa. La figlia più piccola del maharaja
di Cooch Behar.»
«Non ti piace essere una principessa?» le domandai.
«No, a dire il vero no.» Improvvisamente, ma con un gesto
aggraziato, Indira si girò sulla schiena e si mise a osservare le
stelle con le mani dietro la testa. «Preferirei essere una doma­
trice di tigri del circo, credo.»
Io ridacchiai.
«Non ridere,» mi avvertì «sono seria. Mia madre dice che
sono una pessima principessa. Mi sporco sempre e mi caccio nei
guai. Sta pensando di spedirmi in un collegio in Inghilterra per
farmi imparare le buone maniere. Le ho detto che se lo facesse
io scapperei.»
«Perché? A me piacerebbe tanto vedere l’Inghilterra. Non
ho mai viaggiato» confessai malinconica.
«Beata te. Noi siamo sempre in viaggio. Vedi, mia madre è
una persona molto socievole, e ci trascina in giro insieme a lei in
tutto il paese e in Europa. Io, invece, vorrei poter restare sempre
nel nostro bel palazzo a prendermi cura degli animali. Se non
potrò diventare una domatrice di tigri, allora mi piacerebbe fare
il conduttore di elefanti e vivere con la mia bestia. Ad ogni mo­
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do, sappi che odieresti l’Inghilterra. È grigia, fredda e nebbiosa,
e tutti in famiglia finiscono per prendersi sempre il raffreddore,
soprattutto mio padre.» Indira sospirò. «Mi preoccupo molto
per la sua salute. Parli inglese, tu?» mi domandò.
Iniziai ad accorgermi che, quando parlava, Indira saltava di
palo in frasca. «Sì.»
Scattò sulle ginocchia e mi tese una mano. «Piacere di cono­
scerla» disse, imitando alla perfezione l’accento inglese. «Dav­
vero, sono molto felice di fare la sua conoscenza.»
Io le strinsi la mano e i nostri palmi si unirono di nuovo. «Il
piacere è tutto mio» risposi, guardandola dritto negli occhi. E
all’improvviso ci lasciammo cadere entrambe sull’erba, in preda
alle risate. Quando riuscimmo a calmarci, mi resi conto che
dovevo tornare alla zenana, prima che qualcuno si accorgesse
della nostra assenza. Mi alzai in piedi.
«Dove vai?» mi chiese.
«Torno alla nostra tenda. Finiremo entrambe nei guai se
scoprono che siamo scappate.»
«Oh,» rispose Indira «sono abituata a finire nei guai. Anzi,
penso proprio che non si aspettino altro da me.»
Avrei voluto dirle che, non essendo una principessa ma solo
una dama di compagnia, io non potevo permettermelo.
«Solo cinque minuti» mi pregò. «Fa così caldo ed è così
noioso là dentro. Allora,» proseguì «con chi ti sposerai?»
«Ancora non è stato deciso» risposi stoicamente.
«Beata te. Io ho già incontrato il mio futuro marito, ed è
vecchio e bruttissimo.»
«E lo sposerai? Anche se è vecchio e brutto?»
«Mai! Io voglio trovare un bel principe che mi ami e che mi
permetta di tenere le tigri» aggiunse con un sorrisetto.
«Anche io voglio trovare il mio principe» dissi piano.
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Dunque eccoci, due ragazzine che guardavano il cielo stella­
to, sognando i loro bellissimi principi. Certe persone dicono che
sarebbe bello conoscere il proprio futuro. Ma ripensando a quel
momento di pura innocenza infantile, stesa sull’erba insieme
alla mia amica, sono felice che non sia stato così.
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