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Lucinda Riley Il profumo della rosa di mezzanotte Traduzione di Lisa Maldera Titolo originale: The Midnight Rose Copyright © Lucinda Riley, 2013 All rights reserved Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale. http://narrativa.giunti.it © 2014 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia Prima edizione: febbraio 2014 Ristampa Anno 6 5 4 3 2 1 0 2018 2017 2016 2015 2014 Per Leonora Lascia che i miei pensieri vengano a te, quando me ne sarò andato, come il riverbero del tramonto ai margini del silenzio stellato. Rabindranath Tagore, Uccelli erranti Darjeeling India Febbraio 2000 Prologo Anahita Oggi compio cent’anni. Non solo ho vissuto un intero secolo, ma ho persino visto l’alba del nuovo millennio. È un pensiero talmente assurdo che non posso fare a meno di sorridere, distesa fra i cuscini, mentre il sole del mattino si alza sopra il monte Kanchenjunga. Se fossi un mobile, una sedia elegante ad esempio, sarei un pezzo d’antiquariato; verrei restaurata, lucidata ed esposta come un manufatto di pregio. Purtroppo non vale lo stesso per la mia veste umana: col tem po il mogano migliora e si leviga, al contrario il mio corpo è diventato ossuto e grinzoso. Qualunque bellezza rimasta in me giace nascosta nel profon do: è la saggezza di cent’anni vissuti su questa terra, e un cuore che ha scandito con i suoi battiti l’intero spettro delle azioni ed emozioni umane. Cento anni fa, in questo stesso giorno, i miei genitori con sultarono un astrologo per conoscere il mio destino, come pre vede la tradizione indiana. Conservo ancora il responso che l’indovino diede a mia madre, fra le poche cose che mi restano di lei. Diceva che sarei vissuta a lungo ma, nel ’900, vivere a lungo significava arrivare a cinquant’anni, con la protezione 9 degli dèi; di sicuro non avrebbero mai immaginato che ne avrei compiuti il doppio. Sento un leggero bussare alla porta. È Keva, la mia fidata cameriera, con il vassoio dell’English Breakfast e un piccolo bricco di latte freddo. Quella del tè all’inglese è un’abitudine che non ho mai perso, nonostante viva in India – proprio a Darjeeling – da settantotto anni. Non le rispondo subito: è un giorno speciale e stamattina desidero restare sola con i miei pensieri più a lungo del solito. Di sicuro Keva avrà fretta di procedere con i preparativi e sarà ansiosa di svegliarmi, lavarmi e vestirmi prima che comincino ad arrivare i parenti. Mentre il sole incendia e disperde le nuvole sopra le cime in nevate, scruto il cielo cercando la risposta che prego di ricevere ogni mattina, da settantotto anni a questa parte. Che sia oggi, vi prego, chiedo agli dèi: sono certa che mio figlio sia ancora vivo, da qualche parte su questa terra. Se fosse morto, l’avrei saputo nel momento della sua scomparsa, come mi succede sempre quando se ne va qualcuno che amo. I miei occhi si riempiono di lacrime e mi volto a guardare l’unica fotografia che ho di lui, posata sul comodino: un bimbo di due anni, paffuto e sorridente, seduto sulle mie ginocchia. Me la diede la mia amica Indira, insieme al suo certificato di morte, poche settimane dopo averne ricevuto la notizia. È passata una vita, ormai. Ma io ne sono certa: mio figlio oggi è un uomo anziano, e in ottobre festeggerà il suo ottantu nesimo compleanno. Devo ammettere, però, che mi è difficile immaginarlo, nonostante la fantasia non mi manchi. Distolgo lo sguardo dalla foto, so che oggi dovrei pensare soltanto a godermi i festeggiamenti che la famiglia ha organiz zato in mio onore. Ma è proprio in queste occasioni, quando 10 vedo mia figlia e i suoi figli e i figli dei suoi figli, che sento più forte il dolore per quel bimbo che ho perduto. Ovviamente tutti pensano, e hanno sempre pensato, che sia morto settantotto anni fa. «Maaji, questo è il suo certificato di morte: guarda! Lascialo in pace» dice mia figlia Muna, sospirando. «Goditi la compa gnia di noi vivi.» Capisco che si senta frustrata, dopo tanti anni, e ne ha tutto il diritto; vorrebbe potermi bastare lei sola, ma perdere un figlio lascia un vuoto incolmabile nel cuore di una madre. Oggi, però, ho intenzione di accontentarla; siederò sulla mia poltrona e mi godrò la compagnia della stirpe che ho generato. Non li annoierò con i miei racconti sulla storia indiana. Quan do arriveranno sulle loro Jeep occidentali, insieme ai bambini carichi di giocattoli a pile, non racconterò di come io e Indira salivamo sulle colline attorno a Darjeeling cavalcando a pelo, né di quando l’acqua corrente e l’elettricità non erano cose sconta te, né di come leggevo avidamente qualsiasi libro mi capitasse fra le mani, per logoro che fosse. I giovani si irritano ascoltando le storie del passato, preferiscono vivere il presente; anch’io ero così quando avevo la loro età. Immagino che la maggior parte dei miei familiari non fosse entusiasta all’idea di attraversare l’India per andare a far vi sita alla bisnonna nel giorno del suo centesimo compleanno; ma forse sono troppo severa. Ho riflettuto molto sul perché i giovani non sembrino a proprio agio in compagnia degli anzia ni, anche se potrebbero imparare molte cose sulla vita da noi vecchi. Credo che questo disagio dipenda da quanto la nostra debolezza fisica ricordi loro ciò che li aspetta. In tutta la loro forza e bellezza, riescono solo a vedere che queste qualità sva niranno; non sanno cosa si guadagna invecchiando. 11 Come spiegare loro il nostro mondo interiore? Far capi re come l’animo vada rafforzandosi, l’impetuosità si plachi e l ’egoismo venga mitigato dall’esperienza? Ad ogni modo, mi rendo conto che questa è la natura uma na in tutta la sua gloriosa complessità, e ormai ho smesso di arrovellarmi. Quando Keva bussa per la seconda volta, la faccio entrare. Mentre mi sommerge con le sue chiacchiere in hindi, io sorseg gio il tè e ripasso mentalmente i nomi dei miei quattro nipoti e undici pronipoti. Nonostante abbia cento anni, tengo molto a dimostrare di avere ancora una mente lucida e perfettamente funzionante. I quattro nipoti che mia figlia mi ha dato sono a loro volta diventati bravi genitori e persone in gamba. Sono sbocciati nel nuovo mondo, nell’India libera dalla dominazione britannica, e i loro figli hanno portato ancora più lontano il testimone. Da quel che ricordo, almeno sei di loro hanno un’attività propria o sono professionisti nel settore del commercio. Mi sarebbe piaciuto che almeno uno dei miei discendenti avesse seguito le mie orme e si fosse specializzato in medicina, ma nella vita non si può avere tutto. Mentre Keva mi aiuta a lavarmi, rifletto su come la mia fami glia abbia avuto dalla sua un insieme di fortuna, intelligenza e forti legami di parentela. E sul fatto che la mia amata India vedrà passare forse cent’anni, prima che i milioni di persone sofferenti che muoiono di fame ai margini della strada raggiungano un livello di vita accettabile. Ho sempre fatto del mio meglio per dare una mano, ma mi rendo conto che i miei sforzi sono stati una goccia in un oceano battuto da venti impetuosi di stenti e indigenza. Siedo pazientemente mentre Keva mi veste con il nuovo sa 12 ri – regalo di compleanno di Muna, mia figlia – decisa a non lasciare spazio a questi pensieri, almeno per oggi. Ho cercato di fare il possibile per migliorare le vite che hanno incrociato la mia, e devo accontentarmi di quello che ho fatto. «È bellissima, signora Chavan.» Guardo il mio riflesso allo specchio: sta mentendo e, proprio per questo, la adoro. Accarezzo la collana di perle che porto da otto anni. Nel mio testamento l’ho lasciata a Muna. «Sua figlia sarà qui alle undici, e il resto della famiglia un’ora dopo. Dove vuole che la metta, nel frattempo?» Le sorrido, sentendomi proprio come una vecchia sedia di mogano. «Puoi mettermi alla finestra. Vorrei guardare le mie montagne» dico. Mi aiuta ad alzarmi, mi guida pazientemente verso la poltrona e mi fa accomodare. «Desidera altro, signora?» «No. Va’ in cucina e assicurati che il cuoco abbia tutto sotto controllo.» «Sì, signora.» Sposta il campanello sul tavolino accanto a me e lascia silenziosamente la stanza. Mi volto verso la luce che sta incominciando a filtrare attra verso la grande finestra panoramica del mio bungalow in cima alla collina. Mentre mi scaldo al sole, penso alle persone che non ci sono più e non potranno partecipare ai festeggiamenti per il mio compleanno. La mia adorata Indira, la mia migliore amica, è morta quindici anni fa. Confesso che è stato uno dei pochi momenti della mia vita in cui mi sono accasciata a piangere per la disperazione. Mi ha saputo dare più amore e amicizia di chiunque altro, persino di mia figlia. Incostante ed egocentrica fino al giorno della sua morte, Indira è sempre stata presente quando ho avuto più bisogno di lei. Mi giro verso lo scrittoio, nella nicchia dall’altra parte della 13 stanza, e non posso fare a meno di pensare a cosa ci sia dentro il cassetto chiuso a chiave. È una lettera, lunga più di trecento pagine. È indirizzata a mio figlio e contiene la storia di tutta la mia vita, fin dal principio. Temevo che col passare degli anni avrei dimenticato i dettagli, avevo paura che diventassero sfocati e confusi come la pellicola di un vecchio film muto. Se, come credo, mio figlio è ancora vivo e un giorno tornerà da me, voglio potergli donare la storia di sua madre e del suo infinito amore. E delle ragioni per cui è stata costretta a separarsi da lui, tanto tempo fa… Ho iniziato a scriverla quando avevo circa cinquant’anni, temendo di morire da un momento all’altro. È rimasta chiusa là dentro per altri cinquanta, intatta e inviolata, perché lui non è mai venuto a cercarmi e io non l’ho ancora trovato. Nemmeno mia figlia conosce la storia della mia vita, prima della sua nascita. A volte mi sento in colpa per non averle mai detto la verità, ma lei ha conosciuto il mio amore, mentre a suo fratello è stato negato, e penso che questo sia già abbastanza. Lancio un’occhiata allo scrittoio, visualizzando la pila di fogli ingiallita all’interno del cassetto. E chiedo agli dèi di gui darmi. La mia più grande paura è che, alla mia morte (che non potrà tardare molto), possa cadere nelle mani sbagliate. Acca rezzo l’idea di accendere un fuoco e chiedere a Keva di gettarvi i fogli. Ma poi scuoto la testa: no, non potrei mai, finché c’è ancora speranza di ritrovarlo. Dopotutto ho vissuto cento anni, e non è detto che non arrivi a centodieci. Ma a chi potrei affidarla nel frattempo, nel caso…? Passo mentalmente in rassegna i miei familiari, generazione dopo generazione. Ad ogni nome aspetto un segno. Ed è quando arrivo a uno dei miei pronipoti, che mi fermo. Ari Malik, il primogenito del maggiore dei figli di Muna, 14 Vivek. Sorrido fra me quando un brivido mi percorre la schiena: il segno inviato dalla divinità che mi guida e conosce ciò che io non posso. Ari, l’unico della famiglia che abbia ricevuto il dono degli occhi blu, proprio come il mio figlio perduto. Devo sforzarmi molto per visualizzare i suoi lineamenti; mi consolo pensando che, con undici pronipoti, chiunque alla mia età faticherebbe anche soltanto a ricordarne il nome. Inoltre abitano tutti lontano, sparsi ai quattro angoli dell’India, e non li vedo molto spesso. Vivek, il padre di Ari, è stato il nipote che ha avuto più suc cesso, economicamente parlando. È sempre stato un ragazzo sveglio, anche se un po’ indolente. È un ingegnere e ha gua dagnato abbastanza da permettere a moglie e figli di condurre un’esistenza agiata. Se ben ricordo, Ari ha studiato in Inghilterra. È sempre stato un ragazzino brillante, anche se al momento mi sfugge cosa abbia fatto dopo gli studi. Oggi farò in modo di in dagare. Lo osserverò. E scoprirò se la mia intuizione è corretta. Presa questa decisione, fiduciosa e più tranquilla all’idea di trovare presto una soluzione al mio problema, chiudo gli occhi e mi concedo un sonnellino. «Dov’è finito?» sussurrò Samina Malik al suo consorte. «Mi ha giurato che non sarebbe arrivato in ritardo, stavolta» aggiunse, osservando gli altri parenti di Anahita. Erano già tutti raccolti attorno all’anziana signora nell’elegante salotto del suo bunga low, e la stavano omaggiando con regali e complimenti. «Sta’ tranquilla, Samina,» la confortò suo marito «nostro figlio starà arrivando.» «Aveva detto che si sarebbe presentato in stazione alle dieci per salire insieme a noi… Vivek, quel ragazzo non ha nessun rispetto per la sua famiglia, io…» 15 «Calma, pyar, Ari è un uomo molto impegnato, ed è anche un bravo ragazzo.» «Tu credi?» domandò Samina. «Io non ne sono tanto sicura. Tutte le volte che lo chiamo a casa mi risponde una donna diver sa. Sai com’è Mumbai, piena di squali e attricette di Bollywood» sussurrò, per evitare di farsi sentire dagli altri parenti. «Sì, e nostro figlio ha venticinque anni e gestisce un’attività sua. Sa badare a se stesso» replicò Vivek. «Tutto il personale sta aspettando il suo arrivo per portare lo champagne e fare il brindisi. Keva ha paura che tua nonna si stanchi troppo ad attendere così a lungo» sospirò Samina. «Se Ari non si presenta entro dieci minuti, dirò di cominciare anche senza di lui.» «Te l’ho detto, non ce ne sarà bisogno» disse Vivek, osser vando il suo figliolo preferito che entrava in salotto sfoggiando un sorriso smagliante. «Tua madre stava dando di matto come al solito» disse, abbracciandolo calorosamente. «Avevi promesso che ci saremmo incontrati in stazione. Ti abbiamo aspettato un’ora! Dov’eri finito?» disse Samina guar dandolo con espressione accigliata, ma sapendo già che la sua era una battaglia persa in partenza perché il fascino del suo bellissimo figlio l’avrebbe avuta vinta di nuovo. «Perdonami, mamma.» Ari rivolse a sua madre un sorriso ammaliante e le prese le mani. «Il mio aereo era in ritardo; ho provato a chiamarti ma il tuo telefono era staccato… come al solito» disse, lanciando un’occhiata d’intesa a suo padre. Sa mina era famosa in famiglia per la sua scarsa confidenza con i telefoni cellulari. «Ad ogni modo, ora sono qui» disse, osservando il resto dei presenti. «Mi sono perso qualcosa?» «No, e la tua bisnonna è stata impegnatissima a parlare con 16 tutti, speriamo non si sia accorta della tua assenza» rispose Vivek. Ari si voltò a osservare la folla dei suoi consanguinei, e la matriarca che aveva tessuto i fili invisibili dell’unione familia re, generazione dopo generazione. Incontrando il suo sguardo, si accorse di avere gli occhi curiosi e scintillanti dell’anziana donna puntati addosso. «Ari! Alla fine hai deciso di unirti a noi, vedo.» Sorrise. «Vie ni a dare un bacio alla tua bisnonna.» «Avrà anche cento anni, ma non le sfugge niente» sussurrò Samina a Vivek. Quando Anahita spalancò le sue fragili braccia per dare il benvenuto ad Ari, la folla di persone attorno a lei si aprì, lo sguardo di tutti puntato sul ragazzo. Ari la raggiunse e le si in ginocchiò di fronte, mostrando il suo rispetto con un profondo pranaam, in attesa della sua benedizione. «Nani» salutò con il nomignolo che tutti i nipoti e pronipoti usavano da sempre per rivolgersi a lei. «Perdona il mio ritardo. È stato un lungo viaggio da Mumbai» spiegò. Quando alzò gli occhi, avvertì lo sguardo penetrante della sua bisnonna passarlo da parte a parte, come se stesse saggiando la sua anima. «Non preoccuparti» disse, accarezzandogli la guancia con la sua mano rugosa e minuta, leggera come un volo di farfalla. «Anche se,» abbassò la voce in modo che soltanto lui potesse sentirla «ho sempre trovato utile controllare di aver impostato la sveglia correttamente, prima di andare a dormire.» Gli striz zò furtivamente l’occhio e gli fece cenno di alzarsi. «Noi due parleremo più tardi. Keva mi sembra ansiosa di procedere con i festeggiamenti.» «Certo, Nani» disse Ari, alzandosi in piedi con le guance un po’ arrossate. «Buon compleanno.» 17 Tornando in mezzo ai parenti, si chiese come avesse fatto a indovinare l’esatta ragione del suo ritardo. La giornata proseguì come previsto, con il discorso com movente di Vivek, cui toccava l’onore in qualità di nipote più anziano, in ricordo della vita straordinaria di Anahita. Lo cham pagne sciolse in fretta il tipico imbarazzo che si crea tra familiari che si ritrovano dopo tanto tempo. La naturale competitività tra fratelli si dissolse, come assorbita nei ranghi della gerarchia familiare, e i cugini più giovani abbandonarono ogni timidezza scoprendo di avere molte cose in comune. «Guarda tuo figlio!» disse Muna, la figlia di Anahita, a Vivek. «Le sue cugine gli ronzano tutte intorno. È ora che cominci a pensare al matrimonio» aggiunse. «Dubito che lui sia d’accordo» borbottò Samina alla suocera. «Di questi tempi sembra che i ragazzi non si mettano in gioco prima dei trenta.» «Non potete cercargli voi una moglie?» chiese Muna. «Ovviamente ci proveremo, ma non credo accetterà.» Vivek sospirò. «Ari fa parte della nuova generazione, è lui il signore e padrone del proprio universo. Ha i suoi affari e gira il mondo. I tempi sono cambiati, mamma, e io e Samina dobbiamo lasciare ai nostri figli la libertà di scegliere da sé i propri compagni.» «Davvero la pensi così?» Muna alzò un sopracciglio. «Molto “moderno” da parte tua, Vivek. Dopotutto voi due non siete stati male assieme.» «Sì, mamma» concordò Vivek, prendendo la mano di sua moglie. «Hai scelto bene per me.» «Noi nuotiamo contro una corrente impossibile da risali re» disse Samina. «Al giorno d’oggi i giovani fanno quello che vogliono, e prendono decisioni per conto proprio.» Ansiosa di cambiare argomento, lanciò uno sguardo ad Anahita. «Vostra 18 madre sembra divertirsi» commentò. «È davvero una forza della natura.» «Sì,» disse Muna con un sospiro «ma ho paura a lasciarla vivere qui, in mezzo alle colline, con la sola compagnia di Keva. L’inverno è molto freddo e non fa bene alle sue ossa. Le ho chie sto mille volte di trasferirsi da noi a Guhagar, ma ovviamente ha sempre rifiutato. Dice che qui si sente più vicina agli dèi e, ovviamente, al suo passato.» «Il suo misterioso passato.» Vivek alzò un sopracciglio. «Mamma, credi che riusciremo mai a persuaderla a rivelarci chi era tuo padre? So che è morto prima che tu nascessi, ma non riesco a farmi un quadro chiaro della storia.» «Quando ero ragazza avevo bisogno di sapere, e la sommer gevo di domande. Ma ormai…» Muna si strinse nelle spalle «se vuole tenere il segreto, che lo tenga. È stata una madre premurosa, non avrebbe potuto fare di meglio, e non voglio turbarla adesso». Così dicendo, Muna lanciò uno sguardo pieno d’affetto a sua madre, e Anahita approfittò del contatto visivo per chiamarla a sé. «Dimmi, maaji, che c’è?» chiese Muna avvicinandosi. «Sono un po’ stanca.» Anahita soffocò uno sbadiglio. «Vorrei riposare. E vorrei che tra un’ora portassi Ari a farmi visita.» «Certamente.» Muna aiutò sua madre ad alzarsi e l’accom pagnò in mezzo ai parenti. Keva, come sempre vicina alla sua signora, le venne incontro. «Mia madre vorrebbe riposare, Keva. Puoi accompagnarla tu?» «Certamente. È stata una giornata intensa.» Muna le osservò lasciare la stanza e poi tornò da Vivek e sua moglie. «Sta andando a riposare, ma mi ha chiesto di mandarle Ari fra un’ora.» «Ah, sì?» Vivek aggrottò le sopracciglia. «Mi domando perché.» 19 «Chi lo sa cosa passa nella testa di mia madre…» disse Muna, sospirando. «Allora sarà meglio che lo avvisi, ho sentito che aveva in tenzione di partire fra poco. Domattina presto ha un incontro di lavoro a Mumbai.» «Be’, vorrà dire che per una volta sarà costretto a mettere la famiglia al primo posto.» Suo padre aveva ragione: quando Samina disse ad Ari che la bisnonna voleva parlargli, non ne fu contento. «Non posso perdere l’aereo» spiegò. «Cerca di capire, mam ma, ho degli affari da portare avanti.» «Bene, allora dirò a tuo padre che riferisca a sua nonna che il maggiore dei suoi nipoti non ha un’ora di tempo da dedicarle nel giorno del suo centesimo compleanno.» «Mamma…» Ari sospirò di fronte all’espressione severa di sua madre. «Va bene» annuì. «Resto. Scusami, devo trovare un angolo di questa casa dove c’è la linea. Provo a chiamare per spostare la riunione.» Samina osservò suo figlio allontanarsi fissando il cellulare. Ari era stato una persona determinata sin dal giorno in cui era venuto al mondo, e senza dubbio era viziato come tutti i pri mogeniti. Aveva dimostrato di essere speciale dal primo istante in cui aveva aperto gli occhi e l’aveva guardata dal profondo di quel blu, lasciandola a bocca aperta. Proprio per il bizzarro colore degli occhi di suo figlio, Vivek l’aveva messa sotto inter rogatorio dubitando della sua fedeltà, fin quando Anahita non gli aveva raccontato che anche il suo defunto nonno aveva gli occhi dello stesso colore. La pelle di Ari era più chiara rispetto a quella dei suoi fratelli e il suo aspetto inconsueto aveva sempre attirato l’attenzione di tutti. Non c’era da stupirsi che, in venticinque anni trascor 20 si fra l’ammirazione generale, fosse un tantino arrogante. Per fortuna la sua innata dolcezza l’aveva sempre salvato: tra tutti i suoi fratelli era sempre stato il più affettuoso, il più premuroso, sempre presente quanto c’era stato bisogno di lui. Fino al giorno in cui aveva annunciato che si sarebbe trasferito a Mumbai per iniziare un’attività propria… L’ Ari che si era presentato a quella riunione di famiglia era più duro, più egocentrico, e a dire il vero a Samina non piaceva affatto. Tornando da suo marito, pregò che si trattasse solo di una fase momentanea. «Fai entrare mio nipote» comandò Anahita, mentre Keva l’aiu tava a sedersi sul letto, sistemandole i cuscini dietro la schiena. «Sì, signora. Vado a chiamarlo.» «E che nessuno ci disturbi.» «Certo, signora.» «Buon pomeriggio, Nani» disse Ari entrando di fretta pochi secondi dopo. «Spero ti senta più riposata.» «Sì.» Anahita indicò la sedia. «Prego, Ari, siediti. Mi dispiace aver scombussolato i tuoi programmi di lavoro per domani.» «Davvero,» Ari si sentì avvampare per la seconda volta «non c’è nessun problema.» Mentre lei lo studiava coi suoi occhi pe netranti, si domandò se avesse il potere di leggergli nel pensiero. «Tuo padre dice che vivi a Mumbai e porti avanti la tua at tività con successo.» «Be’, con successo non direi; non ancora, almeno» rispose Ari. «Ma sto lavorando sodo perché arrivi.» «Mi sembri un giovane ambizioso. E sono certa che un gior no la tua azienda darà i suoi frutti.» «Grazie, Nani.» Ari la vide accennare un sorriso. «Ovviamente, potrebbe 21 non essere sufficiente a soddisfarti del tutto. La vita è molto di più che lavoro e benessere economico. Un giorno lo capirai» aggiunse. «Adesso, Ari, c’è una cosa che desidero affidarti. Per favore, apri il cassetto dello scrittoio e prendi i fogli che sono al suo interno.» Ari prese la chiave dalle mani della sua bisnonna, la infilò nella serratura ed estrasse dal cassetto un manoscritto ingiallito. «Cos’è?» le domandò. «La vita della tua bisnonna. L’ ho scritta per tramandarla a mio figlio. Purtroppo, non sono mai riuscita a trovarlo.» Ari vide gli occhi dell’anziana signora riempirsi di lacrime. Aveva sentito quella storia da suo padre, tempo addietro: del figlioletto di Anahita, morto in Inghilterra dopo la Prima guerra mondiale. Se la memoria non l’ingannava, era stata costretta a lasciarlo là per fare ritorno in India. E a quanto pareva, tutt’ora Anahita si rifiutava di credere che fosse morto. «Ma io pensavo…» «Sì, sono certa che ti abbiano parlato del certificato di morte. E che ti abbiano spiegato che sono solo una madre inconsola bile, e forse un po’ matta, incapace di accettare il dolore per la perdita del proprio figlio.» Ari cambiò posizione sulla sedia, a disagio. «Sì, ho già sentito questa storia» ammise. «So cosa pensano i miei familiari, probabilmente anche tu sarai d’accordo con loro» disse Anahita in tono fermo. «Ma credimi, ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne spieghi un documento scritto dal pugno di un uomo. Ci sono il cuore di una madre, e la sua anima, che le sussurrano cose impossibili da ignorare. Mio figlio non è morto.» «Io ti credo, Nani.» «No. So che non è vero» Anahita alzò le spalle. «Ma non 22 m’importa. Ad ogni modo, se la mia famiglia non mi crede, la colpa è anche mia. Non ho mai raccontato a nessuno ciò che accadde tanti anni fa.» «Perché no?» «Perché…» Anahita spostò lo sguardo fuori dalla finestra, sulle sue amate montagne, e scosse leggermente il capo. «Non sarebbe giusto dirtelo ora. È tutto scritto lì.» E indicò la pila di fogli tra le mani di Ari. «Quando sarà il momento – quando sentirai che è arrivato – forse leggerai la mia storia. E a quel punto sceglierai da te se indagare o no.» «Capisco» disse Ari, sebbene non stesse affatto capendo. «Tutto quel che ti chiedo è di tenerlo segreto al resto della famiglia fino al giorno della mia morte. È la mia vita che ti af fido, Ari. E come ben sai,» Anahita si fermò un istante «il mio tempo su questa terra è quasi finito». Ari la fissava, non era sicuro di cosa la sua bisnonna gli stesse chiedendo. «Vuoi che lo legga e che indaghi su dove potrebbe trovarsi tuo figlio?» le domandò esplicitamente. «Sì.» «Ma da dove dovrei cominciare?» «Dall’Inghilterra, ovviamente» disse Anahita, fissandolo. «Ripercorrerai i miei passi. Tutto ciò che ti occorre sapere ce l’hai fra le mani. Inoltre, tuo padre dice che gestisci una specie di azienda informatica. Tu, più di tutti, sai come sfruttare le risorse della ragnatela.» «Intendi della “rete”?» Ari trattenne una risatina. «Sì, sono sicura che impiegherai solo pochi secondi per rin tracciare il posto dove tutto ha avuto inizio» concluse Anahita. Ari seguì lo sguardo della sua bisnonna fino alle montagne oltre la finestra. «È un magnifico panorama» disse, non trovan do nulla di meglio da dire. 23 «Sì, è per questo motivo che rimango qui, nonostante mia figlia disapprovi. Presto sarò in viaggio oltre quelle cime, e ne sarò felice. Rivedrò tutte le persone per cui ho pianto in questa vita. Ma ovviamente,» lo sguardo di Anahita tornò a posarsi sul pronipote «non quella che desidero incontrare più di ogni altra al mondo; almeno non per ora.» «Come sai che è ancora vivo?» Gli occhi di Anahita tornarono a posarsi sull’orizzonte, per chiudersi poi con stanca lentezza. «Come ti ho detto, ogni cosa è scritta in quei fogli.» «Ovviamente.» Ari capì di essere appena stato congedato. «Ti lascio riposare, Nani.» Anahita annuì. Ari si alzò, la salutò con un pranaam e le dette due baci sulle guance. «Arrivederci, sono certo che ci rivedremo presto» disse, in camminandosi verso la porta. «Forse» rispose lei. Un attimo prima di uscire, Ari si voltò d’istinto verso la sua bisnonna. «Nani, perché proprio io? Perché non affidare la tua storia a tua figlia o a mio padre?» Anahita lo fissò. «Perché i fogli che hai tra le mani, oltre ad essere il mio passato sono anche il tuo futuro.» Ari lasciò la stanza con addosso una sensazione di stanchez za. Attraversò il bungalow diretto all’appendiabiti sotto al quale aveva lasciato la sua valigetta. Vi infilò la pila di fogli ingialliti e proseguì fino al salotto. Sua nonna, Muna, gli andò immedia tamente incontro. «Perché ha voluto vederti?» «Ah,» rispose Ari con leggerezza «è convinta che suo figlio sia ancora vivo e vuole mandarmi in Inghilterra a investigare.» Alzò gli occhi al cielo per comunicarle la sua opinione a riguardo. 24 «Ancora!?» Muna imitò il nipote alzando a sua volta lo sguardo, esasperata. «Ascoltami bene: se vuoi posso mostrarti il certificato. Suo figlio è morto quando aveva tre anni. Ti prego, Ari,» Muna appoggiò la mano sopra la spalla del nipote «fa’ come se non ti avesse detto niente. Va avanti da anni con questa storia. Purtroppo sono solo fantasticherie di un’anziana signo ra, non sprecarci tempo prezioso; dammi retta, l’ho già sentita miliardi di volte. Ora,» sua nonna sorrise «vieni a bere l’ultima coppa di champagne insieme alla tua famiglia.» Ari prese l’ultimo volo da Bagdogra a Mumbai. Sull’aereo tentò di concentrarsi sulle cifre davanti a sé, ma il volto di Anahita continuava a tornargli alla mente. Sua nonna sosteneva che quella di Anahita fosse solo un’illusione, probabilmente non a torto, ma… c’erano cose che gli aveva detto, quando si erano trovati in privato, cose su di lui, che non si spiegava come facesse a sapere. Forse scorrendo velocemente la sua storia avrebbe trovato qualcosa… magari poteva dare un’occhiata veloce, una volta arrivato a casa. All’aeroporto di Mumbai, nonostante fosse già mezzanotte passata, trovò la sua nuova ragazza, Bambi, ad aspettarlo. Si intrattennero piacevolmente tutta la notte nello splendido ap partamento di Ari, affacciato sul Mar Arabico. Quando il giorno seguente si svegliò era già in ritardo per la riunione, perciò disfece la valigetta e tolse i fogli che Anahita gli aveva affidato. Prima o poi troverò il tempo di leggerli, pensò, infilando il manoscritto nell’ultimo cassetto della scrivania e precipitan dosi fuori. 25 Un anno dopo …Ricordo. Nelle notti quiete, il più leggero accenno di brezza era una benedizione e un sollievo dal caldo torrido di Jaipur. Spesso salgo insieme alle altre donne e alle bambine della zenana sui tetti del Moon Palace, e mi sdraio lassù. Mentre sono distesa a fissare le stelle sento il suono dolce e puro di quel canto; significa che una delle persone che amo è appena stata presa da questa terra e sollevata verso l’alto… Mi sveglio di soprassalto e mi ritrovo nella mia stanza a Darjeeling, non su un tetto di Jaipur. È stato solo un sogno, cerco di rassicurarmi, disorientata dal canto che continua a ri suonarmi in testa, sebbene adesso sia sveglia. Cerco di raccapezzarmi e mi rendo conto di cosa significhi: se sono sveglia, allora qualcuno che amo sta morendo proprio ora. Mentre i battiti del mio cuore accelerano, chiudo gli occhi e passo in rassegna la mia famiglia: la mia seconda vista mi dirà di chi si tratta. Ma per la prima volta fallisco. È strano, credo, perché gli dèi non si sono mai sbagliati prima d’ora. Ma chi…? Chiudo gli occhi e inspiro profondamente, concentrandomi sull’ascolto. E poi capisco. Ne sono certa. 26 Mio figlio… il mio adorato figlio, sta salendo verso l’alto. I miei occhi si riempiono di lacrime e guardo il cielo fuori dalla finestra, in cerca di conforto. Ma è notte e oltre il vetro c’è solo oscurità. Sento un leggero bussare alla porta e Keva entra con una espressione preoccupata. «Signora, l’ho sentita piangere. Sta male?» mi domanda av vicinandosi al letto, e subito sente le mie pulsazioni. Scuoto la testa senza proferire parola, mentre lei cerca un fazzoletto per asciugare le lacrime che mi scorrono sulle guance. «No,» la rassicuro «non mi sento male.» «Allora cosa succede? Ha avuto un incubo?» «No» alzo lo sguardo su di lei, so già che non potrà capire. «È appena morta la mia creatura.» Keva mi guarda sconcertata. «Come fa a sapere che la signo ra Muna è morta?» «Non si tratta di mia figlia, Keva, ma di mio figlio. Quello che abbandonai in Inghilterra tanti anni fa. Aveva ottantadue anni» mormoro. «Perlomeno ha vissuto una lunga vita.» Di nuovo Keva mi guarda con un’espressione confusa e mi preme la mano sulla fronte, per controllare che non abbia la febbre. «Signora, suo figlio è morto tanti anni fa. Credo che abbia fatto solo un brutto sogno» dice, cercando di convincere se stessa quanto me. «Forse» dico gentilmente, per non allarmarla. «Ma in ogni caso vorrei che annotassi l’ora e la data. È un momento che desidero ricordare con precisione. Perché, vedi, adesso non ho più nulla da aspettare» dico, sorridendo debolmente. Keva esaudisce la mia richiesta, scrivendo data e ora su un pezzo di carta che mi porge. «Bene, adesso puoi andare. Non preoccuparti per me.» 27 «Sì, signora» risponde lei, incerta. «Ma è sicura di star bene?» «Sì. Buonanotte Keva.» Quando lascia la stanza raccolgo la penna posata sul como dino, scrivo una breve lettera di seguito alla sua annotazione e tiro fuori dal cassetto il vecchio e logoro certificato di morte di mio figlio. Domani chiederò a Keva di mettere tutto in una busta e spedirla al notaio che si occuperà del mio testamento. Chiudo gli occhi cercando di dormire, ma è come se all’im provviso fossi completamente sola su questa terra. Capisco di essere sopravvissuta fino ad ora solo in attesa di questo mo mento. E adesso che mio figlio è morto, sono pronta a seguirlo. Tre giorni dopo, Keva bussò alla porta della padrona al solito orario. Non si preoccupò quando non ricevette risposta, perché negli ultimi tempi la signora Chavan aveva preso l’abitudine di sonnecchiare fino a tardi. Decise di lasciarle un’altra mezz’o ra e andò a sbrigare le faccende. Quando tornò a bussare, di nuovo silenzio. Aprì piano la porta e la vide, profondamente addormentata. Solo dopo essere entrata e aver tirato le tende, inondando la stanza con le sue solite chiacchiere, Keva si rese conto che la signora Chavan non le avrebbe mai più risposto. Il telefono si mise a squillare proprio mentre Ari stava guidando in mezzo al caotico traffico di Mumbai. Rispose solo perché era una chiamata di suo padre, che non sentiva da settimane. «Papà!» rispose in tono squillante. «Come stai?» «Ciao, Ari, io sto bene ma…» Ari avvertì subito la nota cupa nella voce di suo padre. «Che succede?» «Si tratta della tua bisnonna. È morta stamattina presto.» «Oh, papà, mi dispiace tanto.» 28 «Anche a me. Era una donna meravigliosa, ci mancherà molto.» «Sì. Perlomeno ha vissuto a lungo» disse Ari in tono con solatorio, sterzando bruscamente per evitare il taxi che aveva appena frenato di colpo davanti alla sua auto. «Già. Il funerale sarà fra quattro giorni, per dare tempo a tut ti i familiari di organizzarsi. Ci saranno tutti, anche tuo fratello e tua sorella. Spero sarai presente» aggiunse Vivek. «Intendi questo venerdì?» si informò Ari, trattenendo il re spiro. «Sì, a mezzogiorno. Sarà cremata al ghaat di Darjeeling, una cerimonia riservata ai parenti stretti. Organizzeremo una commemorazione più tardi, per tutte le persone che desiderano ricordarla.» «Papà,» disse Ari sospirando «per me venerdì è impossibile esserci. Ho un potenziale cliente che arriva dagli Stati Uniti per trattare l’acquisto di un software. Siamo in perdita, ma se questa cosa andasse in porto il bilancio della compagnia passerebbe all’attivo nel giro di una notte. Si tratta di diventare i numeri uno al mondo, non posso venire a Darjeeling venerdì.» All’altro capo della linea suo padre rimase in silenzio. «Ari,» disse infine «persino io so che in certi momenti la famiglia de ve venire prima di tutto, anche degli affari. Tua madre non ti perdonerebbe mai, tanto più sapendo che Anahita ti considera va speciale, come ti ha dimostrato il giorno del suo centesimo compleanno.» «Mi dispiace papà,» disse Ari in tono deciso «non posso farci niente.» «È la tua ultima parola?» «Sì.» Ari sentì la cornetta sbattere all’altro capo del telefono. 29 Il venerdì seguente, Ari tornò a casa euforico. L’ incontro con gli americani era andato così bene che avevano firmato il con tratto su due piedi. Dato che aveva programmato di festeggia re con Bambi, decise di fare un salto a casa per una doccia e cambiarsi d’abito. Prese la posta dalla buca e spinse il pulsante dell’ascensore per il sedicesimo piano. Una volta entrato nel suo appartamento aprì la busta distrattamente, mentre si dirigeva in camera, e lesse. Kahn & Cauhan Studio Notarile p.zza Chowrasta Darjeeling Bengala Occidentale India 2 marzo 2001 Gentile Signore, come da istruzioni della mia cliente, Anahita Chavan, le invio questa busta. Immagino sia già al corrente del fatto che la signora Chavan è morta pochi giorni fa. Le porgo le mie più sentite condoglianze, Devak Khan Ari si mise a sedere sul letto: l’eccitazione per l’affare andato in porto gli aveva fatto passare di mente il funerale della sua bisnonna. Nell’aprire la busta del notaio sospirò, sapendo che la sua famiglia non lo avrebbe perdonato per non essersi preso nemmeno il disturbo di fare una telefonata. «Be’, così sia» disse Ari fra sé in tono cupo, spiegando il pezzo di carta contenuto nella busta. Lesse: 30 Mio caro Ari, Quando leggerai questa lettera io non ci sarò più. Ti invio i dettagli della morte di mio figlio Moh: giorno e ora esatti del suo decesso, oltre al suo certificato di morte originale. Come potrai notare le date non combaciano; ciò potrebbe non significare nulla per te, mio caro ragazzo, ma in futuro, se deciderai di indagare sulla storia della sua scomparsa, potrebbero tornarti utili. In attesa di incontrarci in un altro luogo, ti mando tutto il mio affetto. Ricorda sempre che non siamo noi gli unici artefici del nostro destino. Usa le orecchie, per sentire, e gli occhi, per vedere, sono certa che sapranno guidarti. Con amore, La tua bisnonna, Anahita Ari sospirò. Non era certo dell’umore adatto per arrovellarsi sugli enigmi di sua nonna, né aveva voglia di farsi passare il buonumore pensando a quanto la sua famiglia potesse avercela con lui. Era fermamente deciso a non farsi guastare la serata. Aprì l’acqua, mise su un cd e si infilò sotto il getto della doc cia, abbandonandosi alle frequenze basse della musica techno. Indossò uno dei suoi completi di sartoria e spense lo stereo, ma prima di uscire, mentre attraversava la stanza, la lettera di Anahita catturò la sua attenzione. Istintivamente ripiegò il fo glio e lo infilò nel cassetto della scrivania che già conteneva il manoscritto. Poi spense le luci e chiuse la porta alle sue spalle. 31 Londra Luglio 2011 1 Rebecca Bradley premette il viso contro il vetro del finestrino, mentre l’aereo planava su Londra. Tutto era coperto da macchie di varie tonalità di verde, che luccicavano di rugiada inondata di sole nello splendido mattino estivo. Quando la City apparve sotto di lei, la vista del Big Ben e del Palazzo di Westminster le fecero sembrare Londra una città giocattolo, in confronto ai grattacieli di New York. «Signorina Bradley, la faremo scendere per prima» la infor mò la hostess. «Grazie» rispose Rebecca, sforzandosi di sorridere. Cercò nella sua tracolla gli occhiali da sole che sperava l’avrebbero aiu tata a mascherare i segni della stanchezza, anche se era impro babile che ci fossero fotografi ad aspettarla. Era stata costretta a partire prima del previsto, perciò aveva chiamato la compagnia aerea per anticipare il volo da New York. Provava una certa soddisfazione nel sapere che nessuno, né il suo agente, né Jack, avesse idea di dove si trovava. Jack aveva preso un aereo nel primo pomeriggio per tornare a Los Ange les. Non era stata in grado di dargli la risposta che aspettava; le occorreva un po’ di tempo per pensarci, aveva detto. Frugò di nuovo dentro la tracolla ed estrasse il cofanetto di velluto viola. L’ anello che le aveva regalato era senza dubbio un 35 oggetto di valore, sebbene un po’ troppo appariscente per i suoi gusti. Ma a Jack piaceva fare le cose in grande, come si confà a una delle star del cinema più ricche e famose del pianeta. Inoltre non poteva presentarsi con qualcosa di meno vistoso, dal momento che, se lei avesse accettato la sua proposta, la foto sarebbe finita su tutti i giornali. Lei e Jack Heyward erano una delle coppie più in vista di Hollywood e la stampa li cercava di continuo. Rebecca richiuse il cofanetto e si mise a fissare distrattamen te fuori dal finestrino, mentre l’aereo si preparava all’atterrag gio. Da quando aveva conosciuto Jack girando una commedia romantica, l’anno precedente, lei aveva cominciato a sentirsi ostaggio di quelle persone che non si accontentavano di parte cipare alla sua attività sul set, ma volevano anche un ruolo nella sua vita privata. In verità – Rebecca si morse il labbro, mentre l’aereo proseguiva la sua discesa – la relazione da sogno su cui la gente fantasticava era finta quanto quelle che metteva in scena davanti alla macchina da presa. Dal canto suo, Victor, il suo agente, incoraggiava la relazio ne con Jack. Le aveva già ripetuto un’infinità di volte quanto avrebbe giovato alla sua carriera. «Il pubblico adora le vere coppie di Hollywood, tesoro» le aveva detto. «E se le tue quotazioni di attrice dovessero preci pitare, potrai sempre farti fotografare con i bambini al parco.» Rebecca fece il calcolo del tempo che lei e Jack avevano trascorso effettivamente insieme nell’ultimo anno. Lui viveva a Hollywood, lei a New York, e spesso le fitte agende di entrambi li avevano tenuti lontani per settimane di fila. E anche quando erano insieme, non avevano un secondo di pace perché tutti davano loro la caccia. Come il giorno prima; seduti a pranzo in un ristorantino italiano, erano stati assediati dai clienti a cac 36 cia di foto e autografi. Jack aveva finito per portarla a Central Park per farle la proposta. Sperava che lì, almeno, nessuno li avrebbe visti… Il crescente senso di soffocamento che più tardi l’aveva as salita, sul taxi verso SoHo, con Jack che faceva pressioni per avere una risposta, alla fine l’aveva convinta ad anticipare il volo. Avere sempre puntati addosso gli occhi di tutti, e sentirsi giu dicata a ogni sua mossa le era ormai diventato insopportabile. La totale mancanza di privacy che accompagna le relazioni fra personaggi famosi, come l’impossibilità di fermarsi in un bar a bere un caffè senza essere assaliti da ammiratori e curiosi, stava cominciando a pesarle troppo. Il giorno in cui era rientrata a casa ed era corsa a chiudersi a chiave in bagno, rannicchiandosi sul pavimento in preda a una crisi isterica, il dottore le aveva prescritto il Valium. Il tranquil lante aveva fatto effetto, ma Rebecca sapeva che era una strada che non portava da nessuna parte. Su di lei incombeva lo spettro della dipendenza, perché senza medicine non era in grado di convivere con la pressione alla quale era sottoposta. E Jack lo sapeva fin troppo bene. All’inizio della loro relazione le aveva assicurato che per lui la cocaina non era una dipendenza: poteva smettere quando voleva; lo aiutava semplicemente a rilassarsi. Ma in seguito, Re becca aveva scoperto che le cose non stavano proprio così. Jack diventava aggressivo e litigioso ogni volta che lei si lamentava di quanto sniffasse o di quanto bevesse. E come tutte le persone che bevono poco e non hanno mai fatto uso di droghe in vita loro, Rebecca detestava che lui fosse fatto o ubriaco. All’inizio della loro relazione pensava che non avrebbe po tuto chiedere di meglio dalla vita: una carriera in ascesa e un compagno bellissimo e pieno di talento con il quale condivi 37 derla. Ma, fra droghe, lontananza e il lento svelarsi dell’insicu rezza di Jack – culminata in una rabbiosa scenata quando, sei mesi prima, lei era stata nominata al Golden Globe, mentre lui no – le lenti rosa con cui vedeva il mondo avevano finito per tingersi di grigio. La proposta di recitare in un film inglese, La quiete della notte, ambientato negli anni Venti e basato sulle vicende di una fa miglia aristocratica, non sarebbe potuta arrivare in un momento più opportuno. Non soltanto il ruolo che le avevano proposto era di gran lunga migliore dei personaggi che interpretava di solito nelle commediole romantiche hollywoodiane, ma essere stata scelta dal famoso regista anglosassone Robert Hope, era per lei un grande onore. Jack era riuscito a guastarle persino questa soddisfazione personale, dicendole che il regista aveva semplicemente bisogno di un nome di Hollywood sul cartellone per tenere buoni i produttori. E poi aveva infierito spiegandole che in costume sarebbe stata magnifica… probabilmente l’unico motivo per cui l’avevano ingaggiata. «Sei troppo bella per essere presa sul serio, tesoro» aveva aggiunto riempiendosi l’ennesimo bicchiere di vodka. Quando l’aereo atterrò a Heathrow, non appena le spie si spensero, Rebecca si slacciò la cintura. «È pronta, signorina Bradley?» domandò la hostess. «Sì, grazie.» «Ci vorrà solo qualche altro minuto.» Rebecca si pettinò al volo i lunghi capelli scuri e li raccolse in un nodo alla base del collo: il “look alla Audrey Hepburn”, come lo chiamava Jack; e in effetti era il paragone preferito dalla stampa. Circolavano persino voci di un remake di Colazione da Tiffany. Non doveva dare retta a Jack, non doveva permettergli di 38 minare ulteriormente la sua autostima. Gli ultimi due film di Jack erano stati dei flop, e la sua stella non brillava più come un tempo. La triste verità era che lui era invidioso del suo succes so. Respirò profondamente cercando di calmarsi. Qualunque cosa avesse detto di lei, era determinata a dimostrare di essere molto più che un bel faccino: quella sceneggiatura era la sua occasione. Inoltre, durante il ritiro forzato, tra le sperdute lande della campagna inglese, sperava di trovare tempo e spazio per pen sare. Al di là di tutti i suoi problemi, nascosto da qualche parte, c’era il Jack che amava. Ma a meno che non fosse pronto a fare qualcosa per la sua dipendenza dalla droga, sapeva di non po tergli dire sì. «Siamo pronti per accompagnarla fuori dall’aereo, signorina Bradley» disse l’addetto alla sicurezza in completo scuro che era apparso al suo fianco. Rebecca si mise gli occhiali e uscì dalla cabina di prima clas se. Seduta nell’area vip in attesa che le portassero i bagagli, riflet té sul fatto che la sua storia con Jack era arrivata al capolinea, a meno che lui non ammettesse i suoi problemi. E probabilmente, pensò, fissando lo schermo del suo cellulare, avrebbe dovuto dirglielo apertamente. «Signorina Bradley, il suo bagaglio è stato caricato in auto» disse l’addetto alla sicurezza. «Ma temo che fuori dall’aeroporto ci sia uno sbarramento di fotografi pronti ad assalirla.» «Non ci posso credere!» Lo guardò con aria sgomenta. «Quanti sono?» «Tanti» rispose lui. «Non si preoccupi, penserò io a loro.» Le fece cenno di andare e Rebecca si alzò. «Non me l’aspettavo» commentò, diretta verso l’uscita. «Ho preso un volo diverso da quello che avevo prenotato.» 39 «Be’, è arrivata a Londra il mattino del grande annuncio. Posso farle le mie congratulazioni?» Rebecca rimase immobile sul posto. «Quale “annuncio”?» gli chiese bruscamente. «Il suo… fidanzamento con Jack Heyward, signorina Bradley.» «Ma… oh Gesù» mormorò. «C’è una splendida foto a Central Park mentre il signor Heyward le infila l’anello al dito. È sulle prime pagine di quasi tutti i giornali. Bene,» si fermarono davanti alla porta scorrevole «è pronta?» Mentre lacrime di rabbia le scorrevano dietro gli occhiali scuri, Rebecca annuì. «Sì, cerchiamo di fare il più rapidamente possibile.» Quindici minuti dopo, allontanandosi da Heathrow, fissava impotente la fotografia sua e di Jack, che troneggiava sulla prima pagina del Daily Mail, sotto al titolo: jack e becks: è ufficiale! L’ immagine sgranata mostrava Jack che le infilava l’anello al di to a Central Park, mentre Rebecca lo fissava con un’espressione che lei sapeva essere la faccia del panico, ma che i giornalisti avevano interpretato come di “lieta sorpresa”. La cosa peggiore di tutte era la dichiarazione rilasciata da Jack, di sicuro poco dopo essere uscito dal suo appartamento, il pomeriggio prece dente. Confermava di averle chiesto di sposarlo, e che dovevano solamente scegliere la data. Cercò con le mani tremanti dentro la borsa e tirò fuori il cellulare. Vide che c’erano diversi messaggi di Jack, del suo agen te e di alcuni giornalisti, perciò lo spense e lo gettò di nuovo 40 dentro la borsa. Non era in grado di rispondere a nessuno. Ed era furiosa con Jack perché non si era pronunciato su ciò che era successo in Central Park. I media si sarebbero lanciati immediatamente in una gara a indovinare chi le avrebbe disegnato il vestito da sposa, dove si sarebbe tenuta la cerimonia e, molto probabilmente, se era già incinta. Rebecca chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Aveva ventinove anni e fino alla sera precedente l’idea di sposarsi e avere dei figli non l’aveva praticamente mai sfiorata, se non immaginando un ipotetico e lontano futuro. Ma Jack si avvicinava ai quaranta, era stato a letto con quasi tutte le attrici con le quali aveva recitato e, come le aveva spie gato, per lui era tempo di sistemarsi. Lei invece non aveva mai avuto altre storie importanti dopo quella durata molti anni con il fidanzatino dell’adolescenza. La sua carriera e la fama crescen te avevano distrutto anche quella storia d’amore. «Temo ci vorrà qualche ora per raggiungere il Devon, signo rina Bradley» disse amichevolmente l’autista. «A proposito, io mi chiamo Graham, e se avesse bisogno di fermarsi per qua lunque ragione non esiti a chiedere.» «Lo farò» disse Rebecca, che avrebbe voluto chiedergli di guidare fino a una landa africana desolata, irraggiungibile da fotografi, giornali e segnali telefonici. «È piuttosto isolato il posto dove è diretta, signorina Bradley» commentò Graham, come se le avesse letto nel pensiero. «Nel Dartmoor farà fatica a trovare negozi e insegne illuminate» pro seguì. «Indubbiamente è un posto magnifico per girare un film, sembra uscito da un’altra epoca. Non credevo che qualcuno vivesse ancora in luoghi del genere. Ad ogni modo, per me la campagna sarà un piacevole diversivo, glielo garantisco. Di 41 solito porto avanti e indietro gli attori dagli studios in mezzo al traffico di Londra.» Le parole dell’autista la confortarono un po’. Forse in quel luogo desolato i giornalisti l’avrebbero lasciata in pace. «Sembra che una moto ci stia seguendo, signorina Bradley» disse Graham guardando lo specchietto retrovisore e distrug gendo così tutti i suoi sogni di privacy. «Non si preoccupi, la semino in autostrada.» «Grazie» disse Rebecca, cercando di calmarsi. Si abbandonò sullo schienale, chiuse gli occhi e cercò di dormire. «Ci siamo quasi, signorina Bradley.» Dopo quattro ore e mezzo di macchina passate a sonnec chiare, Rebecca iniziò a sentire il jet lag. Gettò uno sguardo intontito fuori dal finestrino. «Dove siamo?» chiese, osservando il paesaggio aspro della brughiera tutt’intorno. «Nel Dartmoor. Con il sole di oggi è gradevole, ma d’inverno è piuttosto cupo. Mi scusi,» disse Graham quando il telefono si mise a squillare «è il direttore di produzione. Accosto un attimo per rispondere.» Mentre Graham parlava al telefono, Rebecca aprì la por tiera e scese sull’erba che costeggiava il ciglio della stradina. Inspirò profondamente l’aria tiepida e dolce. La brughiera era accarezzata da un venticello fresco e all’orizzonte si stagliavano ammassi di rocce frastagliate. Non c’era un solo essere umano in vista. «Il paradiso» sussurrò, salendo in macchina mentre Gra ham rimetteva in moto. «C’è una tale pace qui…» commentò. «Sì,» concordò Graham «ma sfortunatamente la telefonata era per avvisarci che c’è già una schiera di fotografi intorno all’hotel dove alloggia il cast. Stanno aspettando il suo arrivo. Perciò sug gerirei di andare direttamente ad Astbury Hall, sul set.» 42 «Bene.» Rebecca si morse il labbro sempre più disperata. «Mi spiace, signorina Bradley» disse l’autista mostrandole comprensione. «Dico sempre ai miei figli che essere star del cinema ricche e famose non è una passeggiata come sembra. Dev’essere dura per lei, specialmente in momenti come questo.» La sua empatia le fece salire un nodo alla gola. «Lo è, a volte» rispose. «La buona notizia è che durante le riprese nessuno potrà avvicinarsi. La villa è circondata da parecchi ettari di terreno privato, e l’entrata si trova a non meno di un chilometro dal perimetro.» Rebecca capì che erano arrivati quando si trovò davanti a un alto cancello in ferro battuto, controllato da un agente della sicurezza. Graham gli fece un segnale e la guardia aprì. Rebecca si guardò intorno incantata, mentre percorrevano il viale co steggiato da grandi querce, faggi e castagni. In fondo si ergeva la villa, più simile a un palazzo a dire il vero, di quelle che aveva visto solo nei documentari di storia in tv. Una costruzione barocca di pietra scolpita e colonne tortili. «Accidenti» bisbigliò. «Spettacolare, non è vero? Ma la bolletta del gas dev’essere terrificante» scherzò Graham. Avvicinandosi e scorgendo l’immensa fontana di marmo che troneggiava di fronte alla casa, Rebecca avrebbe desiderato possedere un vocabolario di termini architettonici più ampio per descrivere la bellezza che aveva davanti. L’ aggraziata sim metria dell’edificio, costituito da un corpo centrale sormontato da una cupola, e due eleganti ali laterali, quasi le tolse il respiro. Il sole illuminava i vetri delle finestre, che scintillavano come diamanti sulla facciata principale; nella pietra, fra una finestra e l’altra, erano scolpiti urne e cherubini. Sotto l’imponente por 43 tico centrale, sorretto da quattro gigantesche colonne, scorse un sontuoso portone di quercia. «Principesco, non trova?» disse Graham, girando attorno al la casa e diretto verso un cortile laterale, dove erano già parcheg giati diversi camion e furgoni. Una quantità di persone faceva avanti e indietro per portare telecamere, luci e cavi all’interno della villa. «Mi hanno detto che sperano di iniziare le riprese già domani» disse Graham, parcheggiando la macchina. «Grazie» rispose Rebecca, uscendo dall’auto e dirigendosi verso il bagagliaio per prendere la valigia. «Non ha nient’altro, signorina Bradley? Di solito le attrici si portano appresso un intero container» scherzò amabilmente. «Avevo fretta quando ho fatto i bagagli» ammise Rebecca, seguendolo attraverso il cortile in direzione della casa. «Be’, signorina Bradley, sappia che io sono a sua disposizio ne per tutto il periodo delle riprese, perciò se avesse bisogno di andare da qualche parte non esiti a chiamarmi. È stato un piacere conoscerla.» «Ah, ce l’ha fatta!» Un ragazzo giovane e allampanato le stava venendo incontro a passo spedito. «Benvenuta in Inghilterra, signorina Bradley. Mi chiamo Steve Campion, sono il direttore di produzione. Mi spiace che i nostri orribili paparazzi l’abbiano presa di mira, stamattina. Almeno qui è al sicuro.» «Grazie. Sa per caso quando potrò raggiungere l’hotel? Avrei proprio bisogno di una doccia e di un po’ di riposo» disse Re becca, sudata e in disordine dopo il lungo viaggio. «Ovviamente. Non volevamo che si ripetesse l’attacco all’ae roporto di stamattina» disse Steve. «Perciò, per ora, Lord Astbu ry si è gentilmente offerto di mettere a sua disposizione una camera all’interno della casa, fin quando non troveremo una sistemazione alternativa. Come avrà notato,» Steve indicò l’edi 44 ficio, sorridendo a trentadue denti «lo spazio qui non manca. Robert, il regista, è ansioso di iniziare le riprese e desidera che nulla disturbi la concentrazione dei suoi attori.» «Mi dispiace causare così tanti problemi» disse Rebecca ar rossendo, assalita da un improvviso senso di colpa. «Be’, non si preoccupi, è il giusto prezzo da pagare per avere nel cast un’attrice giovane e famosa come lei. Bene, la gover nante ha detto di chiamarla quando fosse arrivata; penserà lei ad accompagnarla nella sua stanza. Alle cinque è prevista una riunione del cast al completo, perciò ha qualche ora a sua di sposizione per riposare.» «Grazie» ripeté Rebecca, cogliendo una certa sfumatura nel la voce di Steve. Era già stata bollata come “problema” ed era sicura che i talentuosi attori britannici del cast – nessuno dei quali arrivava a sfiorare i suoi incassi al botteghino, né la sua fama – sarebbero stati d’accordo con lui. «Aspetti un momento, vado a cercare la signora Trevathan» disse Steve, lasciando Rebecca impalata nel bel mezzo del corti le, mentre lo staff faceva avanti e indietro attorno a lei portando dentro il materiale. Un minuto dopo, una grassottella signora di mezz’età, con riccioli grigi e gote rosa, si affrettò fuori dalla porta per andarle incontro. «Signorina Rebecca Bradley?» «Sì.» «Oh, ma certo che sì, mia cara.» La donna le rivolse un ampio sorriso. «L’ ho riconosciuta immediatamente. E lasci che glielo dica: dal vivo è ancora più bella. Ho visto tutti i suoi film, è un vero piacere conoscerla. Io sono la signora Trevathan, la governante. Mi segua, l’accompagno nella sua stanza. Ci vorrà un po’, temo. Penserà Graham a portarle la valigia» disse, ve 45 dendo Rebecca afferrare il suo bagaglio. «Non ha idea di quanti chilometri faccia al giorno.» «Immagino» concordò Rebecca, stentando a capire l’accento del Devonshire. «Questa casa è davvero fantastica.» «Un po’ meno per me, che devo occuparmene praticamente da sola. Non ho un momento di tregua. Tanti anni fa ci lavora vamo in trenta, qui, ma ora le cose sono cambiate.» «Sì, immagino di sì» disse Rebecca, seguendo la signora Tre vathan attraverso una serie di porte che la condussero dentro un’ampia cucina, dove una donna vestita da infermiera beveva caffè seduta al tavolo. «Le scale di servizio sono la via più veloce per le camere da letto, passando dalla cucina» disse la signora Trevathan, per correndo gli stretti e ripidi gradini. «L’ ho sistemata in una bella stanza sul retro della casa. Ha una vista deliziosa sul giardino e sulla brughiera. È stata una vera fortuna che Lord Astbury le abbia concesso una stanza. Non ama avere ospiti. È una cosa triste, in verità: una volta ci dormivano comodamente in qua ranta; ma ormai, quei giorni sono andati…» Alla fine sbucarono attraverso una porticina in un ampio piano ammezzato. Rebecca alzò gli occhi per un momento e osservò ammirata la cupola sopra la sua testa, poi seguì la si gnora Trevathan lungo un corridoio ampio e buio. «È questa» disse, aprendo la porta su una stanza spaziosa e dal soffitto altissimo, in cui troneggiava un gigantesco letto matrimoniale. «Fa un po’ fresco: avevo aperto le finestre per dare aria. Sempre meglio dell’odore di polvere. C’è un camino elettrico se ha freddo.» «Grazie. Dov’è la toilette?» chiese. «Intende dire il bagno, cara?» disse la signora Trevathan con un sorriso. «Due porte più in là, sulla sinistra, dall’altra parte 46 del corridoio. Purtroppo non abbiamo stanze con i servizi in camera al momento. La lascio riposare.» «Sarebbe possibile avere un bicchier d’acqua?» domandò Rebecca, timidamente. La signora Trevathan si fermò sulla porta, si voltò e le sorrise amichevolmente. «Ma certo. Dev’essere esausta. Ha mangiato niente?» «No, non sono riuscita a fare colazione in aereo.» «Le andrebbe allora del pane tostato e una bella tazza di tè? Ha l’aria un po’ sbattuta.» «Sarebbe stupendo» la ringraziò Rebecca, sentendosi im provvisamente girare la testa e lasciandosi cadere su una pol trona accanto al camino elettrico. «Bene, vado a prepararglielo.» La signora Trevathan la guar dò con gentilezza. «Dietro tutto quel fascino c’è una personcina fragile, non è vero, cara? Ora, si riprenda un attimo, io sarò di ri torno fra un minuto.» Le sorrise dolcemente e uscì dalla stanza. Poco dopo, Rebecca percorse il corridoio e dopo una serie di tentativi falliti, in cui si infilò prima in un ripostiglio e poi in un’altra stanza, trovò il bagno, al centro del quale era siste mata un’antica vasca in ghisa. Una catenella semi arrugginita pendeva dalla cisterna sopra il wc e, dopo aver bevuto un po’ d’acqua dal rubinetto, tornò in camera. Passando accanto alle ampie finestre, decise di dare un’occhiata al paesaggio. Il giardino oltre l’ampia terrazza che fiancheggiava il retro della villa era estremamente curato. Piante ornamentali e ar busti crescevano rigogliosi lungo il perimetro e il rosa pallido dei ciliegi in piena fioritura addolciva il colpo d’occhio verde dell’immenso prato. Oltre l’alta siepe di tasso che recintava il giardino, correva la brughiera, il cui aspetto selvaggio era in netto contrasto con l’erba perfettamente rasata lì sotto. Re 47 becca si sfilò le scarpe e si distese sul letto, ammorbidito da anni e anni di utilizzo. Quando la signora Trevathan entrò in camera dieci minuti dopo, la trovò profondamente addormentata. Posò il vassoio sul tavolino, la coprì e uscì senza fare rumore. 48 2 «Signore e signori, do a tutti voi il benvenuto ad Astbury Hall che, sono certo concorderete, è l’ambientazione perfetta per girare La quiete della notte. Lavorare in una tra le ville private più maestose di tutta l’Inghilterra è per me un grande onore, e spero che il nostro tempo, qui, sarà tanto piacevole quanto produttivo.» Robert Hope, il regista, sorrise cordialmente agli attori riu niti. «Credo che queste vecchie mura tremeranno, scosse dall’e norme quantità di talento ed esperienza presenti. La maggior parte di voi si conosce già, ma vorrei riservare uno speciale benvenuto a Rebecca Bradley, che si è unita al cast per ravvivare noi vecchi inglesi ammuffiti con il suo tocco hollywoodiano.» Gli occhi di tutti si spostarono su Rebecca che, intimorita dalla presenza di quei grandi attori, era andata a nascondersi in un angolo. «Salve» disse con un sorriso imbarazzato. «Vi lascio a Hugo Manners, la cui splendida sceneggiatura, sono certo, tirerà fuori il meglio da ognuno di voi» proseguì Robert. «Il copione definitivo verrà distribuito fra poco, fresco di stampa. Steve, il direttore di produzione, fornirà a ciascuno di voi anche la tabella di marcia delle riprese. A questo punto non mi resta che augurare buon lavoro a tutti. Vi lascio nelle mani di Hugo.» 49 L’ entrata di Hugo Manner, sceneggiatore già premiato con l’Oscar, scatenò un concitato applauso. Rebecca sentì a ma lapena qualche parola di tutto il discorso, improvvisamen te sopraffatta dalla sfida che le si presentava davanti. La sua maggiore preoccupazione era l’accento: a New York era an data a lezione di dizione e pronuncia per due mesi, e aveva fatto del suo meglio per imparare a parlare come una vera inglese. Ma sapeva fin troppo bene che l’aver accettato quella parte significava camminare sul filo senza rete di sicurezza. Distruggere la performance dell’ultima attricetta americana da quattro soldi, arrivata con la pretesa di recitare la parte di un’inglese: la stampa di tutto il Regno Unito non aspettava altro. Specialmente se l’attricetta in questione aveva notevoli incassi al botteghino. Il fatto che a New York avesse vinto una borsa di studio alla famosa scuola d’arte drammatica Juilliard, oltre al premio come miglior attrice dell’anno, nella parte di Beatrice in Molto rumore per nulla di Shakespeare, pareva non importare a nessuno. Ogni stella di Hollywood si considerava “seria”, che lo fosse o no; per Rebecca non era così. Sapeva che quella era la sua grande occasione per dimostrare alla critica di essere anche una brava interprete, seria e preparata. Quando Hugo ebbe terminato il suo discorso partì un altro applauso e Steve, il direttore di produzione, iniziò a distribuire i copioni e la tabella di marcia personale a tutti. «Sarà felice di sapere che domani la sua presenza sul set non è richiesta, Rebecca. In mattinata il suo programma prevede un incontro con la stilista per le prove degli abiti, dopodi ché sarà il turno del trucco. Robert suggerisce anche un’ora di lezione con l’insegnante di dizione prima dell’inizio delle riprese.» 50 «Ottimo. Ha idea di quando potrò trasferirmi in hotel? Vor rei disfare la valigia e sistemarmi.» «Pare che i fotografi stiano ancora accerchiando l’albergo, perciò Lord Astbury le permetterà di fermarsi qui per la notte, mentre noi cercheremo un posto tranquillo in cui sistemarla. Beata lei,» aggiunse Steve «a me hanno rifilato una stanza sopra il pub del paese. E inoltre, dormire circondata da quest’atmo sfera le permetterà di calarsi meglio nella parte.» Un uomo bellissimo e affascinante le si avvicinò porgendole la mano. «La signorina Bradley, presumo. Salve, sono James Waugh. Recito la parte di Lawrence e a quanto pare io e te – posso darti del tu? – abbiamo parecchie scene… intime, per così dire.» Lui le strizzò l’occhio, e Rebecca studiò a fondo i suoi magnetici occhi blu, che di certo l’avevano aiutato a uscire dal mucchio dei giovani attori inglesi. «È un vero piacere conoscerti, James» lo salutò, stringendogli la mano. «Povera cara» disse con affetto. «Essere accolta dall’assalto dei giornalisti per il tuo fidanzamento con Jack Hayward dev’es sere stato uno shock.» «Io…» Rebecca non sapeva bene cosa dire. «Direi di sì» ri spose debolmente. «A proposito: congratulazioni.» James le teneva ancora la mano. «È un uomo molto fortunato.» «Grazie» disse lei, rigida come un blocco di marmo. «Nel caso volessi provare insieme qualche scena prima di iniziare le riprese, fammelo sapere. Personalmente sono terro rizzato» le confidò. «Lavorare con tutti questi “geni” del cinema e del teatro mette soggezione.» «Ti capisco» commentò Rebecca, sentendosi leggermente confortata dalle sue parole. 51 «Be’, sono certo che sarai meravigliosa; e dato che siamo tutti qui inchiodati nel bel mezzo del nulla, fammi pure un fischio se mai ti andasse un po’ di compagnia.» «Lo farò, e grazie.» James le lanciò un’ultima occhiata – come se non fosse stato già abbastanza esplicito – e si allontanò. Troppo timida per andare a chiacchierare con gli altri at tori, Rebecca si sedette e iniziò a studiare il suo programma, riflettendo sull’abilità di James nel congratularsi per il suo fi danzamento facendole allo stesso tempo capire che gli sarebbe piaciuto “conoscerla meglio”. «Rebecca, il cast e la troupe rientreranno in albergo fra pochi minuti per la cena» disse Steve, comparendo improvvisamente al suo fianco. «Domattina arriverà il catering sul set, ma per stasera dovrò chiedere alla sua nuova migliore amica, la signora Trevathan, di prepararle qualcosa. Era molto preoccupata per lei, ha detto che aveva bisogno di rimettersi in forze.» «Che carina; comunque stasera sarò impegnata a leggere il copione, perciò non c’è problema» rispose. «Tutto bene, Rebecca?» gli occhi di Steve erano pieni di preoccupazione. «Sì, forse soffro un po’ il jet-lag e, a essere onesta, sono so praffatta dalla presenza di tutti questi attori incredibili. Ho pau ra di non essere all’altezza» confessò. «Capisco; ma, se può confortarla, sappia che lavoro con Robert da anni e non ha mai sbagliato un casting. Sono certo che abbia piena fiducia nelle sue capacità. Se così non fosse, potrebbe essere anche l’attrice più famosa al mondo, ma ora non si troverebbe qui.» «Grazie mille, Steve. E diamoci del tu, per favore» disse lei, piena di gratitudine. 52 «Bene allora, ci vediamo domani. E goditi la tua notte a pa lazzo. Di sicuro qui dentro sei al riparo dai giornalisti.» Steve si allontanò, accompagnando il gruppo di attori fuori dal salone. Quando tutti se ne furono andati, Rebecca per la prima volta poté davvero guardarsi attorno. Il sole di giugno penetrava con i suoi raggi attraverso le enormi finestre, renden do meno austeri i mobili di mogano che occupavano la stanza. Divani e poltrone erano disposti lungo le pareti della stanza, e un imponente camino ne dominava il centro. Rebecca desiderò che fosse acceso, rabbrividendo per l’aria fresca della sera. «Eccola qui, mia cara.» La signora Trevathan apparve sulla soglia e le andò incontro. «Steve mi ha detto che deve ancora cenare. Ho un pasticcio di carne e rognoni con contorno di patate, rimasto dall’ora di pranzo.» «Non ho molta fame. Non ci sarebbe un’insalatina?» «Capisco.» La signora Trevathan la studiò con i suoi occhietti brillanti. «Immagino lei sia una di quelle sempre a dieta. Se mi permette, signorina, è così magra che prima o poi il vento se la porta via.» «Lo so. Ma devo stare attenta alle calorie» rispose Rebecca, imbarazzata dalla constatazione della governante. «Come preferisce, ma starebbe molto meglio facendo un vero pasto, una volta ogni tanto. Vuole che le porti la cena in camera da letto?» «Sarebbe molto gentile da parte sua, grazie.» Quando la governante se ne fu andata, Rebecca ripensò alle sue parole aggrottando la fronte. Certo che calcolava ogni ca loria dei suoi pasti, ma che altro poteva fare? La sua carriera dipendeva anche dalla sua linea. Uscì dalla sala e si ritrovò nell’ampio ingresso, di fronte allo scalone che conduceva alle camere da letto. Si fermò a osservare 53 lo splendore della cupola, da cui la luce filtrava andando ad accarezzare il pavimento di marmo ai suoi piedi. «Buonasera.» Al suono di una profonda voce maschile Rebecca ebbe un sussulto e si voltò. Fissò l’uomo sulla cinquantina in piedi sulla soglia: indossava una vecchia giacca di tweed e dei pantaloni di velluto a coste tutti lisi, infilati dentro un paio di stivali di gomma. I capelli brizzolati, ispidi e arruffati, avrebbero avuto bisogno di una bella spuntata. «Salve» rispose con voce incerta. «Mi chiamo Anthony, e lei è…?» «Rebecca. Rebecca Bradley.» «Ah.» Nei suoi occhi si accese una scintilla. «La star america na. Dicono sia molto famosa, ma temo di non aver mai sentito parlare di lei. Non sono un grande cinefilo, deve scusarmi» spiegò con un’alzata di spalle. «La prego, non si scusi, non c’è ragione per cui dovrebbe conoscermi.» «In effetti no. Ad ogni modo ora devo andare.» L’ uomo con tinuava a spostare il peso da un piede all’altro, palesemente a disagio. «Ho parecchio lavoro da fare, prima che sia buio.» Le rivolse un cenno del capo prima di scomparire uscendo dalla porta. Rebecca attraversò l’ingresso e salì la scalinata, ammirando i dipinti a olio degli antenati di casa Astbury che tappezzavano le pareti. La signora Trevathan comparve sul piano ammezzato reggendo un vassoio e seguì Rebecca in camera sua. «Eccoci qui, mia cara; le ho portato un po’ di minestra calda e un po’ di pane fresco imburrato. Oh, e anche una fetta della mia torta alla crema» aggiunse, togliendo il coperchio con un gesto plateale. 54 «Grazie.» «C’è altro che posso fare?» «No, grazie mille. Questa casa è davvero bellissima…» «Lo so, cara, lo so. E non ha idea dei sacrifici che ho dovuto fare per mantenerla in questo stato» disse la governante, sospi rando debolmente. «Posso immaginare. A proposito, ho conosciuto il giardinie re poco fa, di sotto» aggiunse Rebecca. «Il giardiniere?» disse la signora Trevathan alzando un so pracciglio. «Al piano di sotto, dentro casa?» «Sì.» «Be’, c’è un ragazzo che viene una volta alla settimana a fal ciare il prato. Forse stava cercando sua Signoria. Bene, la lascio mangiare in pace. A che ora desidera la colazione domattina?» «Non faccio una vera colazione, mi basta un succo di frutta e uno yogurt.» «Be’, vedrò cosa posso fare.» Mentre usciva, la signora Treva than manifestò la sua disapprovazione per le abitudini alimen tari di Rebecca sbuffando, ma prima di richiudere la porta alle sue spalle si voltò per rivolgerle un sorriso di conforto. «Buo nanotte, mia cara. Dorma bene.» «Buonanotte.» Rebecca gustò la minestra di porri e patate e il pane croccan te spalmato di burro fresco. Ma una volta finita aveva ancora fame, perciò decise di assaggiare una cucchiaiata dello strano dolce che le aveva portato la signora Trevathan. Dopo il primo, delizioso boccone non riuscì più a smettere e finì anche quello, per poi lasciarsi cadere sul letto in preda al senso di colpa; si ripromise di non divorare mai più un pasto completo all’inglese, per quanto gustoso. Quando il suo stomaco si fu assestato, rotolò su un fianco per 55 frugare dentro la borsa e trovò a tentoni il cellulare; lo accese per ascoltare i messaggi, ma il telefono non riusciva a collegarsi alla rete. Provò a tirare fuori l’iPad, ma vide che non c’era wi-fi. A quel punto, sulle sue labbra spuntò un sorrisetto. A quanto pareva il suo desiderio di scappare in un posto in cui nessuno fosse in grado di contattarla era stato esaudito, almeno per una notte. Tornò a distendersi e contemplò l’avanzare del crepuscolo fuori dalla finestra, mentre il sole si nascondeva lentamente dietro la brughiera. Tutt’a un tratto si rese conto di trovarsi immersa nel silenzio. Raccolse il copione dal comodino e iniziò a sfogliarlo. Il suo ruolo era quello di Lady Elizabeth Sayers, la bellissima sorella minore della famiglia. Correva l’anno 1922 e l’Età del jazz era in pieno fermento. Suo padre voleva obbligarla a sposare un ricco proprietario terriero, ma Elizabeth aveva altri piani. Il film era incentrato sul ruolo dell’aristocrazia britannica in un mondo in fase di profondi cambiamenti, tra le prime lotte per l’emancipazione femminile e una classe lavoratrice stanca di essere sottomessa. Elizabeth si innamorava di Lawrence, poeta senza un soldo, conosciuto a Londra durante una breve fuga bohémien. La scelta obbligata fra il vero amore e il disonore della famiglia era una storia già sentita, ma la splendida sceneg giatura di Hugo Manners era un piccolo capolavoro. Come sempre, il programma delle riprese non partiva dal l’inizio della storia; la prima scena di Rebecca era insieme a James Waugh, che recitava la parte del suo innamorato: una scena all’aperto, con tanto di bacio appassionato. Rebecca emise un sospiro. A dispetto della sua professionalità e delle decine di volte in cui era stata sedotta di fronte alla telecamera, odiava do ver girare scene d’amore con partner che conosceva a malapena. Con la coda dell’occhio colse un movimento in giardino. Si 56 spostò alla finestra e vide il giardiniere seduto su una panchi na: c’era qualcosa di triste in lui, come un senso di solitudine, percepibile anche a distanza. Rebecca rimase a osservarlo, fer mo e impassibile come una statua, fissare dritto di fronte a sé l’avanzare del crepuscolo. Dopo essersi fatta un lungo bagno, si infilò sotto le lenzuola inamidate e riprese a leggere il copione. E mentre si esercitava con lo smozzicato accento inglese degli anni Venti, distesa in quel letto, dentro quella stanza, si sentì davvero come al tem po della sceneggiatura: era impressionante quanto poco fosse cambiato rispetto a quell’epoca. Quando si accorse che erano le dieci passate, pur convinta che non sarebbe riuscita a prendere sonno a causa del jet-lag, Rebecca allungò la mano e spense la luce. Con sua grande sor presa dormì tutta la notte, svegliandosi solo quando, alle otto del giorno dopo, la signora Trevathan si presentò con il vassoio della colazione. Alle dieci scese al piano di sotto e si recò al guardaroba per la prova costume. Non appena la vide, Jean, la stilista scozzese, disse: «Mia cara, ma tu sembri fatta apposta per questa parte! Hai proprio la bellezza d’inizio Novecento. Sappi che ho una sorpresa per te!». «Davvero?» «Sì. Ieri ho parlato con la governante e mi ha detto che nella villa c’è una collezione di abiti da sera degli anni Venti; appar tenevano a una parente di Lord Astbury e dopo di lei nessuno li ha mai più indossati. Ho chiesto se potevo dare un’occhiata, per curiosità, e ovviamente,» disse, strizzandole l’occhio «per cercare qualcosa che potesse andarti bene. Ho pensato che sa rebbero stati perfetti per il film.» «Sono pienamente d’accordo» rispose Rebecca. 57 «Allora…» con un gesto teatrale, Jean tirò indietro il drappo di seta che nascondeva l’appendiabiti «dai un’occhiata qui.» Di fronte allo splendore degli abiti da sera che le apparvero davanti agli occhi, Rebecca rimase a bocca aperta. «Accidenti,» disse senza fiato «sono stupendi.» «E conservati alla perfezione. Non si direbbe che abbiano no vant’anni. La maggior parte sono di stilisti francesi dell ’epoca, Lanvin, Vionnet… un piccolo tesoro» tenne a precisare Jean, osservando Rebecca che sfiorava affascinata i meravigliosi ve stiti. «All’asta verrebbero una fortuna. Non vedo l’ora di farteli provare, dovrebbero starti a pennello. Sembra che la vecchia proprietaria avesse la tua stessa corporatura.» «Ma, anche se dovessero andarmi, abbiamo il permesso di utilizzarli?» domandò Rebecca. «In realtà non lo so. La governante era dubbiosa, doveva chiedere prima il permesso a Lord Astbury. Intanto noi provia moli, non si sa mai.» Jean tirò fuori una gruccia dall’appendia biti: «Che ne diresti di questo, per la scena di domani?». Dieci minuti dopo, Rebecca si trovava di fronte allo spec chio. Era dai tempi della Juilliard che non indossava un costume d’epoca; nei suoi film a Hollywood aveva sempre recitato la parte della ragazza moderna, giovane e spigliata, più tipo da jeans e maglietta che da abito lungo. Il vestito di Lanvin che stava provando, invece, era in seta e chiffon, ornato con delicati ricami di perline. L’ orlo asimmetrico della gonna, tagliata poco sopra la caviglia, accompagnava i suoi movimenti con aggraziati svolazzi. «Bene, se necessario pregherò Lord Astbury in ginocchio, ma tu devi avere questi vestiti» disse Jean con decisione. «Pro viamone un altro.» Dopo che Rebecca ebbe sfilato con l’intera collezione, Jean la 58 guardò con un sorriso smagliante. «Direi che ci siamo. Parlerò con la governante prima possibile. Mia cara, ti assicuro che in questo film sarai un sogno» commentò, aiutando Rebecca a togliersi l’ultimo vestito. «E dopo il trucco e l’acconciatura giusti sembrerai apparire direttamente dagli anni Venti!» disse strizzandole l’occhio in segno d’intesa. «Sono proprio in fondo al corridoio a destra.» «Avrei bisogno di un gps per orientarmi in questa casa» disse Rebecca sorridendo, mentre andava verso la porta. «Mi perdo di continuo.» Uscì dal guardaroba e percorse il corridoio fino alla sala trucco. Quando fu seduta davanti allo specchio, la hair stylist prese fra le dita uno dei neri, lucidi, lunghi boccoli di Rebecca. «Come ti senti all’idea di fare taglio e colore, domani?» chiese. Era stato l’argomento di un acceso dibattito fra lei e il suo agente, Victor: il contratto prevedeva che acconsentisse a farsi decolorare e acconciare i capelli in un bob anni Venti, per asso migliare all’interprete di sua madre, bionda naturale. «Mah, bene credo.» Rebecca alzò le spalle. «Ricresceranno, voglio sperare.» «Certo. E alla fine delle riprese posso rifarti la tinta del tuo colore. Sai, è un sollievo sentirtelo dire» disse soddisfatta la ra gazza. «Al tuo posto la maggior parte delle attrici avrebbe fatto un sacco di storie. E ti assicuro che potresti persino piacerti: il caschetto anni Venti sembra fatto apposta per esaltare i tuoi lineamenti delicati.» «E magari, bionda, la gente non mi riconoscerà» rifletté Re becca. «Purtroppo mi sa che non ti sarà di grande aiuto» commentò la truccatrice, andando a sedersi accanto a Rebecca. «Hai un viso inconfondibile. Allora, com’è Jack Heyward di persona? 59 Sullo schermo è un dio! È bello anche la mattina appena sve glio?» scherzò. Rebecca ci pensò un attimo. «È molto carino anche quando si sveglia, sì.» «Lo sapevo.» La truccatrice sorrise. «Scommetto che non ci credi neanche tu che stai per sposarlo.» «Sai, hai proprio ragione: effettivamente non ci posso crede re. Ci vediamo domattina per il taglio!» Sorridendo per masche rare il sarcasmo, Rebecca si alzò e uscì dalla stanza salutando le ragazze con la mano. Guardò l’orologio e vide che erano le tre: aveva ancora due ore libere prima dell’appuntamento con l’insegnante di dizione. Una delle costumiste le aveva detto che in un certo punto del giardino c’era copertura di rete, perciò salì al piano di sopra a prendere il suo cellulare. Vide che nel salone le riprese erano già iniziate, e attraversando la sala da pranzo per uscire sulla terrazza sentì lo stomaco contrarsi per la paura: domani ci sa rebbe stata lei, davanti alla macchina da presa. Scese le consunte scale di pietra che conducevano in giardino e lo attraversò a passo di marcia. Si sedette sulla panchina dove aveva avvistato il giardiniere la sera prima; sul suo cellulare c’era una sola tacca intermittente. «Dannazione!» disse, cercando inutilmente di ascoltare i messaggi in segreteria. «Va tutto bene?» Rebecca ebbe di nuovo un sobbalzo, sentendo quella voce, e si voltò verso il roseto: di nuovo vide il giardiniere, con un paio di cesoie in mano. «Sì, tutto bene, grazie. Non riesco a trovare un punto in cui si riesce a telefonare.» «Mi dispiace. Non abbiamo una buona copertura, qui.» 60 «In realtà la cosa non mi disturba troppo. Anzi, ne sono quasi felice» gli confidò. «Le piace lavorare qui?» domandò poi educatamente. Lui la guardò in maniera strana, e poi annuì. «Non l’avevo mai considerato da questa prospettiva, ma immagino che in un certo senso sia così. Ad ogni modo, non riesco a pensare di vivere da un’altra parte.» «Questo posto dev’essere il sogno di ogni giardiniere. Le rose sono splendide, hanno dei colori magnifici, specialmente quella che sta potando. È di un viola così scuro che sembra quasi nero.» «Sì,» concordò lui «si chiama Midnight Rose, la rosa di mez zanotte, ed è una varietà piuttosto misteriosa. È qui da quando sono in questa casa e ormai dovrebbe essere morta. Invece, ogni anno rifiorisce come se fosse appena stata piantata.» «Io ho solo qualche pianta in vaso» commentò Rebecca. «Le piace il giardinaggio?» «Quando ero una ragazzina avevo un pezzetto di terra da coltivare, a casa dei miei. Era il mio rifugio.» «Senza dubbio vi è qualcosa, nel lavorare la terra, che aiu ta a liberarsi dalle frustrazioni» disse il giardiniere, annuendo. «Come si trova qui, lei che è americana?» «È totalmente differente rispetto a qualsiasi posto in cui sia mai stata, ma stanotte mi sono riposata come non mi accadeva da anni. C’è una tale pace. Purtroppo domani mi trasferiranno in un hotel. Credo che Lord Astbury non voglia ospiti in casa. Ma a me» confessò Rebecca «piacerebbe molto restare. Mi sento al sicuro qui». «Be’, non si sa mai, Lord Astbury potrebbe anche cambiare idea. A proposito,» indicò il suo cellulare «può chiedere alla signora Trevathan di usare la linea del suo studio.» 61 «Ah, grazie mille. Lo farò» disse Rebecca alzandosi in piedi. «Ci vediamo.» «Tenga» il giardiniere recise un esemplare perfetto di Midnight Rose e gliela porse. «Per la sua camera. Ha un profumo meraviglioso.» «Grazie» rispose lei, commossa da quel gesto. «Vado subito a metterla in acqua.» Andò a cercare la signora Trevathan e la trovò in cucina; le chiese sia un vaso per il suo fiore, sia il permesso di usare il telefono dello studio, come le aveva suggerito il giardiniere. La signora Trevathan l’accompagnò in una stanzetta buia, con i muri tappezzati di libri e una scrivania ingombra di scartoffie disordinate. «Ecco qui, ma se chiama in America cerchi di fare telefonate brevi. Sua Signoria va su tutte le furie quando la bolletta è trop po alta. Più tardi le porto la rosa in camera.» Mentre la signora Trevathan usciva dalla stanza, Rebecca pensò che “sua Signoria” doveva essere proprio un orco. Si sedette e scorse la rubrica del suo cellulare, afferrando la cornetta dell’antiquato telefono a disco. Con qualche difficoltà compose il numero di Jack, e quando sentì rispondere la segre teria telefonica tirò un sospiro di sollievo. «Ciao, sono io, sono finita in un posto dove non arrivano né internet, né il cellulare. Domani mi trasferiscono in hotel, perciò ci sentiamo quando arrivo. Io tutto bene, comunque…» Rebecca ebbe un attimo di esitazione, pensando a quello che avrebbe voluto dirgli, ma l’argomento da affrontare era così delicato e complesso che non sapeva da dove iniziare. Perciò disse solo: «Ci sentiamo presto». Poi compose il numero di Victor, il suo agente, e lasciò un messaggio simile anche alla sua segreteria. 62 Uscendo dallo studio andò in cerca di Steve, determinata a capire una volta per tutte dove avrebbe alloggiato. Lo trovò accanto al furgone del catering, parcheggiato nel cortile laterale. «Lo so, lo so, Rebecca, vuoi sapere dove ti trasferiremo» disse Steve, con aria esasperata. «Stavo appunto venendo a cercarti per portarti buone notizie. Lord Astbury è venuto da me cinque minuti fa e mi ha detto che puoi restare qui. Mi ha sorpreso abbastanza, in realtà, visto che all’inizio era totalmente con trario all’idea» precisò. «Avevamo anche trovato un bed and breakfast in un paesino qui a fianco, ma a essere onesto non è esattamente all’altezza di una stella del cinema. Oltretutto i paparazzi finirebbero per scovarti. Perciò decidi tu.» «Okay, posso pensarci un attimo?» Nonostante apprezzasse molto la tranquillità di quella sistemazione, non era sicura di voler alloggiare con il misterioso Lord Astbury. «Certo» rispose Steve; il suo walkie talkie gracchiò. «Perdo nami, mi vogliono sul set.» Tornata in camera, Rebecca ripassò le sue battute prima dell’incontro con l’insegnante di dizione. In quel momento aveva soprattutto bisogno di pace per concentrarsi sulla sua performance. Da quel ruolo dipendeva tutta la sua carriera. Dopo l’ora di dizione, trovò Steve in terrazza e gli disse che si sarebbe fermata ad Astbury Hall con piacere. «Date le circostanze, credo anch’io che questa sia la deci sione migliore» rispose lui sollevato. «E la signora Trevathan ha detto che sarà felice di provvedere alle tue cene. Sembra che abbia deciso di prenderti sotto la sua ala protettiva» disse sorridendo. «Oh, ma io non mangio quasi mai a cena, perciò…» «Buonasera a tutti» disse una voce alle loro spalle. 63 Rebecca vide il giardiniere avanzare verso di loro. «Buonasera, Lord Astbury. La signorina sarà felice di restare in villa» disse Steve. «È davvero molto gentile da parte sua fare quest’eccezione.» «Mi chiami Anthony, la prego» rispose lui. Scioccata, Rebecca guardò prima Steve e poi Anthony. «Forse la signorina sarà felice di darmi una mano con il giardinaggio, quando non sarà impegnata con le riprese» disse, e un guizzo d’ironia attraversò i suoi occhi. Sentì le guance avvampare. «Sono imbarazzatissima, mi scu si ma non avevo capito chi fosse.» «No, be’, forse non era così che immaginava un Lord» ri spose Anthony in tono pacato. «Purtroppo, di questi tempi la nobiltà decaduta deve fare il lavoro sporco con le proprie mani. Abbiamo appeso lo smoking al chiodo. Ora, se volete scusarmi, ho dei laburni da potare.» Si voltò e si incamminò verso il retro della casa. «Oh, mia cara.» Steve si mise a ridere. «Un classico! Non so come vada negli Stati Uniti, ma la moderna aristocrazia inglese è trasandata per definizione. Indossare vestiti logori e guidare auto disastrate è una specie di segno distintivo, esibito con mol to onore. Nessun membro della nobiltà sognerebbe di vestirsi elegante in casa propria. Fanno tutti così.» «Capisco» rispose Rebecca, sentendosi stupida e fuori posto. «Ad ogni modo, la tua ingenuità pare gli sia piaciuta» con tinuò Steve, dato che lei non riusciva più a dire nulla. «Ti ha addirittura concesso di restare in casa sua.» In quel momento vide che James Waugh le stava venendo incontro con passo rilassato. «Rebecca, volevo chiederti, hai impegni per stasera? Pensavo che magari avremmo potuto man giare qualcosa insieme per conoscerci un po’ meglio. Domani 64 abbiamo la nostra prima scena ed è piuttosto – come dire – ravvicinata» disse, con un ampio sorriso. «In verità stavo pensando di andare a letto presto» rispose. «Sono sicuro che Graham può venire a prenderti in macchi na non appena avremo finito.» «Preferirei di no. Sai, la stampa…» «Se ne sono andati tutti quanti stamattina» disse James. «E non puoi certo lasciare che qualche giornalista comprometta la tua interpretazione, ti pare?» «No. Certo che no. Va bene.» Alla fine Rebecca acconsentì, più che altro per timore di apparire sostenuta. «Bene» sorrise James. «Ci vediamo alle otto in hotel. E non preoccuparti, farò in modo che ci riservino un tavolo appar tato.» Non appena James se ne fu andato, Steve le fece l’occhiolino. «Sembra che tu abbia fatto conquiste anche sul suolo inglese. Stai attenta, ha una reputazione da dongiovanni.» «Lo farò. Grazie, Steve.» E così dicendo, se ne andò a testa alta. Una volta tornata in camera sentì bussare alla porta. «Avanti.» Era la signora Trevathan. «Mi scusi se la disturbo, Rebecca, ma so che ha conosciuto sua Signoria.» «Sì, è così» mormorò lei, continuando ad appendere nell’ar madio i pochi vestiti che aveva portato. «Lasci che ci pensi io» disse la signora Trevathan. «No, non si preoccupi…» «Si sieda e facciamo due chiacchiere mentre finisco di met tere via le sue cose.» Rebecca obbedì e si sedette sul letto. «Non ha portato molti vestiti, mia cara» commentò. «Ad 65 ogni modo, sono venuta per dirle che sua Signoria l’ha invitata a cenare con lui stasera. Alle otto precise.» «Oh no… temo di non potere. Ho già preso un impegno.» «Capisco. Be’, sua Signoria non sarà affatto contento della cosa. Soprattutto dopo averle gentilmente concesso di restare qui durante le riprese del film.» Rebecca avvertì il tono di disapprovazione della governante. «La prego, si scusi da parte mia e gli dica che sarò felice di cenare con lui un’altra sera.» «Lo farò. Non gli piace avere gente intorno, di solito. A sua Signoria serve la quiete… tanta, tanta quiete. Ma suppongo che stia facendo di necessità virtù.» «Prego?» «Intendo dire, cara, che ha bisogno di soldi per mandare avanti la casa» spiegò la signora Trevathan. «Capisco. E Lord Anthony ha una famiglia?» domandò ti midamente. «No, non ce l’ha.» «Vive qui da solo?» «Sì. Bene, qui ho fatto, ci vediamo domattina; all’alba, mi hanno detto. Non faccia troppo tardi stasera, va bene cara? Dev’essere fresca e pimpante per domani.» «Sì, promesso. Grazie, signora Trevathan.» Le cure materne dell’anziana governante la facevano sentire protetta. A Rebecca non piaceva ripensare alla sua prima infanzia; solo pochissime persone conoscevano la verità sul suo passa to. Durante una breve vacanza autunnale sulla ventosa isola di Nantucket aveva raccontato tutto a Jack. Aveva pianto e lui l’aveva tenuta fra le braccia, asciugandole le lacrime. Rebecca scosse la testa e sospirò. A quei tempi sentiva dav 66 vero il suo amore. Si alzò e si mise a camminare su e giù sulle assi scricchiolanti del vecchio pavimento di legno, ripensando a quei ricordi così lontani dalla loro vita attuale, dal Jack strafatto e ubriaco, incoerente e aggressivo. Desiderò tornare a essere di nuovo il signor e la signora Nessuno, come quella volta, accoc colati sotto le coperte insieme. Niente star del cinema, solo una coppia di innamorati. Ma non era più così, ormai, e Rebecca sapeva che quel de siderio era inutile. Scrollò quei pensieri dalla mente e si accorse di avere meno di un’ora per prepararsi. 67 3 «Buonasera» disse James, quando Rebecca entrò nel salottino della sua suite, dove era stato apparecchiato un tavolo per una cena a lume di candela. La baciò sulle guance e la fece acco modare. «Ho pensato che avresti preferito mangiare qui, date le circostanze.» «Sì, grazie» rispose lei, sollevata per la scelta di cenare lon tano da occhi indiscreti, ma allo stesso tempo preoccupata per i pettegolezzi che sarebbero circolati tra il personale dell’hotel. Farsi trovare di sera nella suite del suo attraente partner era molto peggio che essere vista con lui al ristorante. «E non preoccuparti per il personale, nessuno aprirà bocca.» Disse James facendola accomodare, come se le avesse appena letto nel pensiero. «Robert mi ha detto che l’hotel ha firmato una clausola sulla privacy. Se dovesse scappar detta una sola parola alla stampa, gli avvocati della produzione manderebbero in rovina la proprietà.» «Capisco» disse Rebecca. «Assurdo, vero?» osservò James sospirando, seduto di fronte a lei. «Ad ogni modo, la zuppa è già qui, perciò fatti sotto prima che si raffreddi. Vino?» «No, grazie» decise Rebecca. «Domani avrò bisogno di essere lucida.» 68 «Allora, come ti hanno scoperta?» domandò James, versan dosi un generoso bicchiere di vino. Mentre pensava a cosa rispondere, Rebecca assaggiò un cuc chiaio di quella zuppa anonima: la cucina della signora Treva than era di gran lunga migliore. «Non credo di essere mai stata scoperta. A vent’anni ho ottenuto una particina in uno show televisivo e da lì sono cresciuta» disse, con un’alzata di spalle. «Io devo ancora fare il colpaccio a Hollywood» disse James. «Qui i paparazzi sono agguerriti, ma mi dicono che quelli di Los Angeles siano anche peggio.» «Oh, è così,» confermò Rebecca «per questo ho deciso di non viverci. Ho un appartamento a New York.» «Buon per te. Sei saggia. Ho un amico che ha girato a Los An geles un paio di anni fa e mi ha raccontato che la maggior parte delle star non mette nemmeno il naso fuori di casa. Si barricano dentro le loro ville in collina, dietro muri di cinta e schiere di telecamere. Non fa per me» aggiunse con un sorrisetto. «Il tuo amico ha ragione, e non fa neanche per me. A New York la situazione è molto più tranquilla.» «A parte quando vengono a darti la caccia fin quaggiù, nel Devon.» James alzò un sopracciglio. «Sì, in questo momento è un vero incubo.» Rebecca posò il cucchiaio accanto al piatto, la zuppa non le andava più. «Ho sempre trovato assurdo che il desiderio di ogni giova ne attore sia raggiungere la fama nell’accezione hollywoodiana del termine,» rifletté James «quando il prezzo da pagare è così alto. Io non gioco al tuo livello, ovviamente, ma anche le mie pagliacciate finiscono sui giornali.» «Immagino che ci si debba abituare.» Rebecca sospirò. «Que sta è la regola. Ma sono solo le bugie che mi danno veramente fastidio.» 69 «Ma il fidanzamento non è una bugia. O sì?» Rebecca fece una pausa e pensò a cosa rispondere, mentre James toglieva i piatti della zuppa e prendeva la seconda portata dal carrello del servizio in camera. «Direi che è stato un annuncio… prematuro. Ma, sì: Jack mi ha effettivamente chiesto di sposarlo.» «E tu hai detto di sì?» «Più o meno. Ad ogni modo… non eravamo qui per parlare del film?» disse bruscamente. «Certo.» James colse al volo. «Dunque, miss Bradley, domat tina io dovrò baciare una delle donne più belle al mondo. Povero me!» Alzò gli occhi al cielo e fece un sospiro teatrale. «Recitare è davvero uno sporco lavoro. E se mi permetti, Rebecca, tu sei davvero una delle più splendide creature femminili di questa terra.» James si allungò in avanti, scrutando il suo viso. «Non hai un filo di trucco, nemmeno sulle labbra.» «Temo che domani sarò irriconoscibile. Mi faranno un tale mascherone che sembrerò una caricatura.» «Be’, era la moda dell’epoca» disse James pacificamente. «Al lora, a parte Jack, ti sei mai innamorata di uno dei tuoi partner sul set?» «No» rispose Rebecca onestamente. «E tu?» James bevve un sorso di vino. «Diciamo che la mia fedina penale non è proprio immacolata» ammise, guardandola ma liziosamente. «Lavorando con tante donne meravigliose, mi sono sentito come un bambino in un negozio di caramelle. Ma in fondo non mi sono comportato né meglio, né peggio di un qualsiasi normale ventenne, solo che le mie storie vanno a finire sui giornali. Dunque, direi che è giunta l’ora di cambiare argo mento» sorrise. «Come ti sei trovata finora qui in Inghilterra?» Nel corso della serata Rebecca finì per affezionarsi a James. 70 Per essere un attore famoso era fin troppo modesto e possedeva un tagliente senso dell’umorismo. Le piaceva il fatto che non prendesse se stesso né la sua carriera troppo sul serio; per lui fare l’attore era un lavoro come un altro. Dopo le scenate e le lamentele di Jack sull’impossibilità di dimostrare quanto vales se, l’atteggiamento di James era come una ventata d’aria fresca. «Ammettiamolo» disse James sorseggiando un brandy, men tre Rebecca sorbiva il suo tè alla menta. «Se io e te fossimo due mezze tacche, dubito che staremmo recitando le parti di Eliza beth e Lawrence. È innegabile.» Rebecca sorrise. «Ora devo proprio andare» disse, vedendo che erano già le dieci passate. «Certo, e mentre lo chauffeur ti riporta a dormire nella tua torre da principessa, anch’io andrò a coricarmi nel mio stanzi no delle scope. Direi di darci la buonanotte qui» sorrise. «Non voglio che qualche avvoltoio di fotografo si faccia un’idea sba gliata.» «Sì, grazie» disse Rebecca, alzandosi in piedi. «Ci vediamo domani sul set.» James la baciò dolcemente sulle guance. «E sappi che se hai bisogno di parlare con qualcuno, io sono qui.» «Grazie mille, buonanotte» sussurrò lasciando la suite. Prese le scale per non rischiare di essere fotografata uscendo dall’ascenso re, e poi si precipitò verso la porta d’entrata. Scorse Graham, che la stava aspettando nella Mercedes, e si affrettò a salire. Quindici minuti dopo, Rebecca aprì la porta della sua stanza e se la richiuse alle spalle. La signora Trevathan le aveva lasciato la luce accesa e sistemato le coperte. Mentre si coricava si sentì davvero una principessa. Nel bel mezzo della notte si svegliò di soprassalto, certa di aver sentito un rumore in camera. Accese la luce, ma non c’era 71 nessuno… solo, annusando l’aria, avvertì un odore intenso, co me di fiori. Non era sgradevole, solo stranamente potente. Alzò le spalle, spense la lampada e si riaddormentò. «La aspettano sul set fra cinque minuti, signorina Bradley» disse l’assistente, entrando in sala trucco. «Ed è… pronta» rispose Chrissie, la truccatrice, dandole l’ul tima pennellata di cipria sulla fronte. «Fatto» disse, togliendole la vestaglia che avevano usato per proteggere l’abito. «Accidenti» esclamò l’assistente quando Rebecca si alzò e fece un mezzo giro. «È bellissima, signorina Bradley» aggiunse ammirato. «Lo è, non è vero?» concordò Chrissie. «Grazie» rispose lei, che ancora doveva abituarsi al nuovo look: caschetto biondo, occhi neri, pelle d’avorio e rossetto ros so. Era quasi irriconoscibile. Seguì l’assistente lungo il corridoio e sbucarono nell’ingresso, proprio mentre Anthony scendeva le scale. Lei alzò lo sguardo e sorrise. «Buongiorno.» Non appena si accorse della sua presenza, l’uomo rimase impietrito a guardarla con un’espressione scioccata. «Mio Dio» sussurrò. «Che cosa c’è?» Anthony continuò a fissarla senza rispondere. «Dobbiamo andare, signorina Bradley» la incalzò l’assistente. «La saluto» disse Rebecca all’uomo di marmo in cima alla scala, sentendosi un po’ a disagio; e poi uscì. James la stava aspettando in salotto, mentre la troupe finiva di sistemare le luci sulla terrazza. «Il taglio è stupendo» disse con un ampio sorriso. «Ma ci sei proprio tu sotto quella maschera?» 72 «Ben nascosta, ma sono io» scherzò di rimando, proprio mentre venivano chiamati sul set. «Be’, come ti avranno già detto tutti di sicuro, sei semplice mente incantevole. Anche se personalmente ti preferisco spo gliata… del trucco, naturalmente» le sussurrò sfacciatamente, offrendole il braccio. Robert Hope, il regista, le andò incontro e le cinse le spalle con un braccio, in segno di approvazione. «Sei perfetta, Rebec ca. Pronta?» «Come sempre» sussurrò in tono nervoso. «Sarai meravigliosa, non temere» la rassicurò. «Allora, voi due, facciamo un breve ripasso della scena.» Due ore dopo, Rebecca rientrò in salotto con James e si ab bandonò su una poltrona, esausta per la tensione. «Ragazzi, sono felice che sia finita.» «Sei stata grandiosa, davvero» commentò l’attore, accenden dosi una sigaretta sulla soglia e sorridendo. «Il tuo accento era perfetto.» «Grazie» disse Rebecca, apprezzando il complimento. «Hai saputo davvero mettermi a mio agio.» «Credo che siamo un’ottima squadra, non trovi? E ho molto apprezzato anche il bacio» aggiunse, strizzandole l’occhio. Rebecca arrossì e si alzò in piedi. «Vado a prendere qualcosa di fresco da bere. Ci vediamo dopo.» Uscì dalla stanza senza lasciargli il tempo di aggiungere altro, per non incoraggiarlo in nessun modo a proseguire la loro relazione anche fuori dal set. Aveva già visto quello sguardo negli occhi dei suoi partner. James era un ragazzo carino, ma a lei serviva un amico, non un amante. «Rebecca.» Steve la intercettò sulla strada verso il punto di ristoro. «Ha telefonato il tuo agente: aveva un diavolo per ca 73 pello, ha detto che ha ricevuto una chiamata dal tuo fidanzato. Vogliono sapere dove sei finita. Puoi contattarli?» «Ho lasciato a entrambi un messaggio in segreteria dicendo che sto bene» replicò lei. «Qui il mio telefono non prende.» «Lo so, è un problema generale, perciò abbiamo chiesto a Lord Astbury di usare la sua linea. Ovviamente pagheremo noi la bolletta, perciò puoi usare il telefono quando vuoi. Non vo gliamo che la stampa scriva che ti abbiamo rapita» aggiunse, dopodiché si allontanò a passo svelto. Lei si avviò con un sospiro a prendere i numeri dalla rubrica del suo telefono. «Rebecca?» Si voltò e guardò in basso. Anthony si trovava nell’ingresso. «Salve» disse incerta. La stava di nuovo fissando, facendola sentire a disagio con quel suo sguardo penetrante. «Ha un minuto?» chiese. «Vorrei mostrarle una cosa.» «Ma certo.» Anche volendo non avrebbe potuto rifiutare. Anthony allungò la mano, facendole cenno di scendere le scale. Quando gli fu vicina le sorrise, senza mai distogliere lo sguardo dal suo viso. «Mi segua.» La condusse attraverso il cor ridoio che portava alle stanze affacciate sul giardino dietro la villa. Fermandosi improvvisamente davanti a una delle porte, disse: «Si prepari a una bella sorpresa». «Va bene» rispose Rebecca, mentre lui apriva la porta di una spaziosa biblioteca. La condusse fino al centro della stanza, le mise le mani sulle spalle e la fece girare verso il caminetto. «Guardi quel dipinto.» Rebecca si ritrovò a fissare il ritratto di una giovane donna bionda, vestita in maniera simile a lei, i capelli ornati da una fascia anni Venti tempestata di gioielli. Ma non fu solo l’abbi gliamento della donna che la colpì: fu il suo volto. 74 «Mi…» Rebecca cercò di ritrovare la voce. «Mi assomiglia tantissimo.» «Lo so. La somiglianza è…» per un momento Anthony non disse nulla «… straordinaria. Quando l’ho vista stamattina, con i capelli biondi e quel vestito, ho pensato che mi fosse apparso un fantasma.» Rebecca stava ancora studiando i grandi occhi castani, il viso a forma di cuore, la carnagione pallida come la sua, il nasino leggermente all’insù, le labbra piene. «Chi è?» «Mia nonna, Violet. La cosa più strana di tutte è che anche lei era americana. Sposò mio nonno, Donald, nel 1920 e venne a vivere qui con lui ad Astbury. Sia in America, sia in Inghilterra era considerata una delle donne più belle a quei tempi. Purtroppo morì giovane, perciò non l’ho mai conosciuta. E mio nonno la seguì appena un mese dopo.» Anthony si fermò e sospirò pesan temente. «Si può dire che sia stato l’inzio della fine degli Astbury.» «Com’è morta, Violet?» gli domandò pacatamente Rebecca. «Il suo è stato il destino di molte donne della sua epoca: è morta di parto…» la voce gli si spezzò in gola. «Mi spiace tanto» rispose lei, senza sapere cosa dire. Anthony riprese. «Dopodiché la mia povera mamma, Daisy, santa donna, crebbe come un’orfana, affidata alle cure della nonna. Quella è mia madre.» Le indicò un altro quadro che ritraeva un’austera donna di mezza età. «Non vorrei sembrarle lacrimoso, ma dopo la morte di Violet è stato come se sulla famiglia Astbury fosse scesa una maledizione.» Spostò l’atten zione su Rebecca. «Lei non è imparentata con i Drumner di New York, per caso? Erano una famiglia molto ricca e potente negli anni Venti. È stata la dote di Violet Drumner a salvare la proprietà dalla rovina.» Anthony la guardò, in attesa di una risposta. Rebecca pre 75 feriva mantenere segreto il suo passato; e di certo non aveva nessuna voglia di parlarne con uno sconosciuto Lord inglese. «No, la mia famiglia è di Chicago e non ho mai sentito no minare i Drumner. La somiglianza è puramente casuale.» «Ad ogni modo,» Anthony le rivolse un sorriso teso «è cu rioso che si sia ritrovata a recitare, proprio qui ad Astbury, un personaggio proveniente esattamente dall’epoca di Violet; e somigliandole così tanto.» «Sì, lo è, ma le assicuro che non ci sono legami di parentela» ripeté Rebecca con decisione. «Be’, questo è quanto. Come può immaginare è stato un vero shock, per me, vederla nell’ingresso stamattina. La prego di scusarmi.» «Non si preoccupi.» «Bene, non voglio trattenerla oltre, ma ho avvertito la neces sità di mostrarle il ritratto di Violet. E forse vorrà farmi l’onore di unirsi a me per cena, stasera?» aggiunse. «La ringrazio, ne sarò lieta. Ora mi scusi, ma devo proprio andare: fra un’ora mi aspettano di nuovo sul set.» «Certo.» Anthony si diresse alla porta, la aprì e le cedette il passo. Camminarono in silenzio fino all’ingresso. Rebecca gli rivolse un sorriso di saluto e salì le scale per andare a prendere il telefono. Quando arrivò nella sua stanza si sentì improv visamente debole. Si mise a sedere sulla poltrona accanto al camino prendendosi la testa fra le mani e iniziò a inspirare profondamente. Gli aveva mentito. L’ unica cosa che sapeva dei suoi genitori era il nome di sua madre: Jenny Bradley. E il fatto che Jenny l’avesse data in affidamento quando aveva cinque anni. Tutti credevano che i suoi genitori fossero Bob e Margaret, la coppia gentile che l’aveva presa in affido all’età di sei anni. Nel 76 corso degli anni avevano tentato più volte di procedere all’ado zione, ma la vera madre di Rebecca si era sempre rifiutata di dare l’assenso, pensando che un giorno sarebbe stata in grado di prendersi di nuovo cura di sua figlia. Emotivamente era stata una situazione molto difficile da ge stire: non aveva avuto né la stabilità né la sicurezza di cui ogni bambino ha bisogno. Quando era una ragazzina passava la notte nel terrore che sua madre tornasse a reclamarla, per riportarla alla loro vecchia vita. Quando Rebecca aveva ormai diciannove anni, Bob e Mar garet le dissero che sua madre era morta di overdose. Non aveva mai saputo chi fosse suo padre. E non aveva idea nemmeno di chi fosse Jenny. Immaginava di essere stata con cepita quando sua madre si prostituiva per pagarsi la tossico dipendenza. Rebecca fissò il vuoto, disperata. Chi poteva sapere se suo padre fosse stato parente di Violet Drumner? Era possibile, cer to. Ma non essendoci nessun nome sul suo certificato di nascita, non avrebbe mai potuto approfondire la cosa. Sentì, per la prima volta da quando era arrivata, nostalgia dell’abbraccio di Jack. Afferrò il cellulare e scese nello studio di Anthony per chiamarlo dal telefono fisso. Di nuovo, le rispose la segreteria; sapeva che Jack non rispon deva mai a numeri sconosciuti, per ovvie ragioni di sicurezza. «Ciao tesoro, sono io. Non c’è campo qui, perciò devo usare il telefono di casa. Riproverò più tardi; ho un’ora libera prima di tornare sul set. Tu stai bene? Ciao.» Dopodiché compose il numero del suo agente, Victor, che questa volta le rispose. «Ciao, mia cara, come stai? Stavo per sguinzagliare la cia sulle tue tracce.» 77 «Tutto bene. Stiamo girando in una favolosa villa antica e dato che ho i giornalisti sempre alle calcagna, il proprietario, Lord Astbury, mi ha concesso di restare qui. Non preoccuparti, Victor, sto benissimo» lo rassicurò. «Ottimo. Allora, cos’è questa storia del fidanzamento con Jack? Avremmo dovuto parlarne prima di dirgli di sì, lo sai.» «Ma non mi dire. Credevo che la decisione riguardasse solo me…» Rebecca tamburellò il tavolo, irritata. «Sai bene che non intendevo questo, tesoro» disse Victor per placarla. «Voglio solo dire che sarebbe stato tutto più facile se mi avessi avvisato che volevate fare l’annuncio; mi sarei occupato io della stampa.» «In verità,» spiegò lei «che resti fra me e te, ma ancora non gli ho detto di sì.» Ci fu un attimo di silenzio. «Che cosa?! Stai scherzando, Rebecca…» Sentendo il panico nella voce di Victor, le venne da ridere. «No, non sto affatto scherzando. Ho detto a Jack che mi serviva un po’ di tempo per pensarci. Non è stata certo colpa mia se è andato in giro a sbandierare tutto prima ancora di ricevere la risposta.» «Rebecca! Mi stanno dando la caccia da giorni per avere uno straccio di dichiarazione da parte tua. Non puoi ritrattare proprio adesso; ti ritroveresti contro la schiera dei fan di Jack in men che non si dica; boicotteranno il tuo film!» Rebecca sentì salire la pressione. «Victor, ho bisogno di tempo per pensarci, ok?» disse con fermezza. «Be’, quando prenderai una decisione, stavolta posso essere il secondo a cui lo dirai? E spero che la tua sia una risposta affer mativa. Ehi, ragazza,» aggiunse abbassando la voce «c’è sempre 78 il divorzio se le cose non funzionano. Questo è un momento cruciale per la tua carriera e non voglio che tu comprometta tutto per un po’ di pubblicità negativa.» Ci fu un altro momento di silenzio, prima che Victor aggiungesse: «Non hai un altro, vero?» «Victor! Certo che no.» Rebecca stava per perdere la pazienza. «Be’, è già qualcosa. Cerca di non dare troppa confidenza al tuo giovane partner inglese. La sua reputazione non è delle migliori.» «Abbiamo finito con la lezione?» chiese lei, seccata. «Vuoi sapere com’è andata oggi sul set o non ti interessa?» «Senti, tesoro, potremmo parlarne in un altro momento? Devo andare a una colazione di lavoro.» «Certo.» «Brava ragazza. Chiamami dopo, ok?» «Certo. Ciao Victor.» Rebecca mise giù il telefono e fissò sconsolata le sue bel lissime scarpe. Sapeva che Victor aveva le migliori intenzioni del mondo: era un bravo agente e l’aveva aiutata moltissimo a crescere professionalmente. Ma a volte era troppo protettivo e si calava nel ruolo di padre, senza averne alcun diritto. Osservò le vecchie fotografie nelle cornici d’argento, dispo ste in fila sulla scrivania di Anthony; lei non avrebbe mai saputo chi erano i suoi antenati, e per questo lo invidiava molto. Le foto erano tutte in bianco e nero e Rebecca riconobbe immediata mente la madre di Anthony, che teneva per mano una bella bimba dai riccioli biondi. Somigliava molto a lui, e immaginò si trattasse di sua sorella. Alzandosi dalla scrivania, lanciò un’oc chiata al vecchio orologio da tavolo e si accorse che mancavano meno di venti minuti dall’inizio delle riprese. 79 4 Alle diciannove e quarantacinque Rebecca sentì un leggero bussare alla porta. «Avanti» disse, desiderando non aver preso impegni per la serata. Dopo l’intensa giornata di riprese era esausta. «È pronta?» chiese la signora Trevathan, affacciandosi alle gramente alla porta. «Arrivo fra pochi minuti.» Si tolse l’accappatoio, infilò jeans e maglietta e si asciugò il caschetto di capelli biondi, a cui non si era ancora abituata. Uscendo dalla stanza e scendendo la scalinata rifletté sul la devozione della signora Trevathan per la casa e per Lord Anthony. Il loro rapporto e quel mondo racchiuso nella villa appartenevano a un’altra epoca. Era come se il tempo si fosse dimenticato dell’esistenza di Astbury Hall e dei suoi abitanti. Si fermò davanti alla porta della sala da pranzo e bussò. «Avanti.» Entrando, trovò Anthony già seduto all’estremità di un lun go, elegante tavolo di mogano. Il fatto di essere l’unico com mensale a una tavola che avrebbe potuto ospitare un esercito, enfatizzava il senso di solitudine. «Salve.» Sorrise indicandole il posto alla sua sinistra e alzan dosi per farla accomodare. «Grazie» mormorò lei, mentre lui tornava a sedersi. 80 «Vino?» le chiese, sollevando da un vassoio d’argento il de canter che conteneva il liquido rosso rubino. «Questo chiaretto è l’ideale per accompagnare il manzo.» «Solo un dito, grazie» disse Rebecca, che solitamente non beveva, ma non voleva essere scortese. A dire il vero, se avesse potuto scegliere, non avrebbe scelto un rosso. Né ci sarebbe stato manzo per cena. «Ovviamente, la mia adorata madre aveva un maggiordomo che si occupava del vino» disse Anthony riempiendosi il bic chiere. «Purtroppo, quando è andato in pensione non c’è stata la possibilità economica di rimpiazzarlo.» «Non riesco a immaginare quanto possa costare mandare avanti un posto del genere» osservò Rebecca. «No, sono certo di no» disse Anthony sospirando, mentre la governante entrava per servire la minestra. «Ma riusciamo comunque a tirare avanti, non è vero signora Trevathan?» disse, guardando la governante con un sorriso affettuoso. «È così, signore, è così» e uscì annuendo. «La signora Trevathan continua a mandare avanti tutto pra ticamente da sola. Se dovesse decidere di andarsene non so proprio come farei. Prego» disse, indicando i piatti. «Cominci pure.» «Ha sempre lavorato qui?» «Sì, come la sua famiglia prima di lei. Sua madre, Mabel, era la mia tata.» «Dev’essere meraviglioso avere una storia di famiglia, sapere quali sono le tue radici» disse Rebecca, sorbendo il brodo. «Per certi versi sì» Anthony sospirò. «Anche se, come le ho raccontato prima, dopo la morte di Violet su questa casa è calata la disgrazia. Mia cara, lo sa che il vestito che indossava stamat tina apparteneva a lei?» 81 Rebecca lo fissò e si sentì percorrere da un brivido. «Dav vero?» «Sì. E sua figlia, Daisy, cioè mia madre, l’ha conservato in perfetto stato dopo la sua morte.» «Perciò suppongo che Daisy non abbia mai conosciuto sua madre, visto che è morta dandola alla luce…» «No, ma l’adorava, o perlomeno adorava il suo ricordo. Co me io adoravo lei» disse Anthony tristemente. «Da quanto tempo è morta, sua madre?» domandò piano Rebecca. «Da venticinque anni. Ma se devo essere sincero, mi manca ancora. Eravamo molto legati.» «Capisco, perdere la madre è la cosa peggiore» concordò Rebecca. «Vede, eravamo noi due soli. Lei significava tutto per me.» «E che mi dice di suo padre?» Il viso di Anthony s’incupì. «Non era un brav’uomo. Daisy ha sofferto molto a causa sua. Non gli è mai piaciuta Astbury e trascorreva la maggior parte del tempo a Londra» spiegò. «Mia madre non si disperò più di tanto, quando lo trovarono morto in uno squallido bordello dell’East End. Si era ubriacato e aveva battuto la testa cadendo.» Rebecca vide Anthony rabbrividire al ricordo. Capiva per fettamente come si sentiva. Sentì l’impulso di raccontargli che anche lei conosceva quel dolore, ma non era ancora pronta a condividere il suo segreto con un estraneo. «Mi dispiace tanto, dev’essere stata dura.» «Grazie a Dio avevo solo tre anni, perciò non ricordo quasi nulla. Di sicuro non mi è mancata la sua presenza. Ad ogni modo, basta parlare del passato.» Anthony posò il cucchiaio nel piatto vuoto. «Mi racconti di lei» disse, mentre la signora Tre 82 vathan sparecchiava i piatti della zuppa e serviva il succulento manzo che aveva preparato. «Oh, sono una ragazza qualunque di Chicago» rispose. «“Qualunque” non direi» la rimproverò Anthony. «Pare che io sia a cena con una delle donne più belle del mondo. Proprio come Violet ai suoi tempi.» Rebecca arrossì, imbarazzata da quel complimento. «Sono stata molto fortunata e ho saputo cogliere le occasioni giuste.» «Sono sicuro che non si tratti di fortuna, ma di talento» pro seguì Anthony. «Anche se, a essere sincero, non ho mai visto un suo film. E devo anche ammettere che ci sono moltissime donne stupende al mondo, ma lei ha quel magnetismo che le surclassa tutte. Come Violet. Brindavano per lei da Londra a New York, e qui ad Astbury Hall intratteneva gli uomini dell’epoca. Quelli sì che erano tempi d’oro» aggiunse in tono malinconico. «A volte penso di aver avuto la sfortuna di nascere nel momento sbagliato. Ma ora basta, ho parlato troppo.» Lord Astbury finì il suo manzo in silenzio, mentre Rebecca ne assaggiò a malapena un boccone. Alla fine, Anthony chiese: «Ha mangiato a sufficienza, cara?» «Sì.» Rebecca guardò colpevole il piatto ancora pieno. «Mi scusi, ma non ho molto appetito.» «Capisco. Perciò è inutile che la tenti con un assaggio del crumble di mele e more della signora Trevathan?» «Temo di sì.» Rebecca smorzò uno sbadiglio e, inaspettata mente, Anthony posò una mano sopra la sua. «È stanca.» «Sì, un po’. Mi sono svegliata presto stamattina per il trucco di scena.» «Ovviamente. E sono sicuro che l’ultima cosa che deside ra, stasera, è sorbirsi i noiosi racconti di un vecchio come me. 83 Perché non va di sopra? Le faccio portare un bicchiere di latte caldo dalla signora Trevathan. È un vecchio trucco per addolcire il sonno.» «Se non le dispiace…» «Certo che no. E in ogni caso potrò chiedere l’onore della sua compagnia un’altra volta. Nonostante in genere preferi sca la solitudine, sono stato bene con lei stasera. Ah, signora Trevathan» Anthony alzò lo sguardo. «La signorina Rebecca si ritira nella sua stanza, e le ho promesso un bicchiere di latte caldo.» «Ma certo, sua Signoria.» «Bene, cara.» Anthony si alzò insieme a lei, le prese la mano e la baciò. «È stato un piacere. Dorma bene.» «Grazie di tutto.» Sotto le coperte, il bicchiere di latte posato sul comodino, fissando un tramonto che non voleva cedere il passo alla notte, Rebecca ripensò alla conversazione con Anthony. Con i suoi modi raffinati e il suo eloquio d’altri tempi era un reperto del passato come la villa in cui abitava. Vivendo qui, in questi spazi maestosi, in una casa immersa nel passato, non era difficile immaginare come dovesse essere la vita un secolo prima. Senza il cast e i tecnici in giro per la casa, anche per lei la realtà del mondo moderno si stava allontanando sempre di più. Rebecca si scosse; il giorno dopo sarebbe dovuta ritorna re al presente, quello che esisteva tutto intorno all’incanto di Astbury, e tentare davvero di contattare Jack. Spense la luce e cercò di dormire. Ancora una volta, in un momento imprecisato prima dell’al ba, Rebecca avvertì un forte odore di fiori, il cui profumo la fece sognare i luoghi esotici che avrebbe sempre voluto visitare. E poi sentì un canto, un suono acuto che la svegliò. Scese dal letto 84 disorientata, con la voce che ancora le ronzava nelle orecchie; andò alla porta e la aprì. Il corridoio era immerso nell’oscurità, e il suono di colpo scomparve. Era stato solo un sogno, si convinse Rebecca tornando a let to. Dopo ci fu di nuovo silenzio, ma il suono di quella voce dolce e acuta rimase con lei, cullandola fino a che non riprese sonno. 85 5 Mumbai, India Finalmente a casa, pensò Ari. Era stata una giornata lunga, l’ul tima di una settimana di lavoro piuttosto difficile. Aprì la porta del suo immenso appartamento e andò dritto in cucina a farsi un Gin tonic, sperando bastasse a distendere i nervi. Sperò an che di non prendersi una sgridata da Lali, che lo rimproverava sempre di esagerare. In confronto ai suoi colleghi occidentali, non si poteva dire che bevesse. Andò in salotto e, trovandolo deserto, pensò che Lali stesse facendo la doccia al piano di sotto. Si lasciò cadere sul divano e bevve un sorso del suo drink. Si chiedeva come mai si sentisse tanto stressato, nonostante la sua società fosse in costante crescita. Specialmente negli ultimi tempi, da quando la crisi economica aveva costretto Europa e America a rivolgersi all’India e alle sue tante possi bilità a prezzi concorrenziali. Avevano più lavoro di quanto riuscissero a smaltire, e anche quello, pensò Ari con un so spiro, era un problema da risolvere. Trovare nuovi manager e collaboratori di cui potesse fidarsi era più difficile del previsto. Di conseguenza, ultimamente, faceva da solo il lavoro di dieci impiegati. Lali gli ripeteva in continuazione che aveva bisogno di una 86 vacanza, e gli sbatteva sotto il naso le brochure piene di spiagge caraibiche. Sembrava non riuscisse a capire che la cosa al mo mento non era nemmeno pensabile. «Appena riesco a trovare degli impiegati di cui fidarmi, par tiamo. Te lo prometto.» «Ari, tesoro, sono tre anni che me lo ripeti» rispondeva lei con un sospiro, per poi strappargli i depliant dalle mani e get tarli nel bidone dell’immondizia. Sentendosi in colpa per queste scenate, Ari tornava spesso a casa con un gioiello o un bel vestito firmato, che aveva fatto acquistare alla sua segretaria. Le domandava scusa per averla trascurata e faceva di tutto per arrivare a cena in orario. Poi, nei due o tre giorni successivi di solito cercavano una soluzione per riuscire a passare più tempo insieme. Ma regolarmente, la settimana dopo, Ari riprendeva a lavorare diciotto ore al giorno. Mentre andava a versarsi un altro Gin tonic, dovette am mettere a se stesso che a volte aveva alzato la voce per la fru strazione. «Questo appartamento e tutti i tuoi bei vestiti… come credi che potremmo permetterceli altrimenti?» Lei rispondeva sempre allo stesso modo. «A me non importa dove vivo o cosa mi metto. Sei tu quello a cui interessano queste cose.» Ovviamente non era vero, pensò mentre usciva sulla terrazza a osservare l’orizzonte sul Mar Arabico. A lei piaceva pensare che non le sarebbe mancata quella vita, ma lui sapeva che non era così. A parte gli impegni, Ari era consapevole che tra loro c’era un problema ben più grande. Lali aveva quasi trent’anni e vo leva sposarsi. Non la biasimava, anzi: per convivere con lui era andata contro il volere della sua famiglia e si era compromessa, 87 sperando che prima o poi lui le avrebbe chiesto la mano. Ma, sebbene lo desiderasse, Ari non era ancora riuscito a trovare il coraggio per pronunciare le parole che lei aspettava da tanto. Non sapeva perché, dal momento che la amava davvero. Era bella e gentile, e il suo temperamento dolce e tranquillo com pensava perfettamente la personalità esplosiva di Ari. I suoi amici gli dicevano sempre che era perfetta per lui. E dunque, cosa stava aspettando? Aveva trentasei anni or mai, e prima di Lali si era già tolto ogni capriccio, in fatto di donne. Ma nonostante tutto continuava a sentire una specie di istinto dentro di sé che gli impediva di fare il passo finale. Nel corso delle ultime settimane la ragazza si era allontanata: spesso non la trovava a casa al suo rientro perché restava fuori con le amiche oppure era in palestra. E chi avrebbe potuto biasi marla? A volte Ari si portava il lavoro anche a casa e a malapena notava la sua presenza. Fece il giro dell’appartamento per vedere dove fosse. Quella sera sentiva la sua mancanza, ma lei non aveva lasciato alcun biglietto né gli aveva mandato un messaggio per dire dove fos se. Fece la doccia e andò a cercare qualcosa da mangiare nel frigorifero. Scaldò nel microonde gli avanzi della sera prima, si versò un bicchiere di vino e andò in salotto. Accese l’enorme televisore e cambiò canale finché non trovò una partita di foot ball. Avrebbe dovuto lavorare, ma quella sera si sentiva davvero esausto. L’ unica buona notizia all’orizzonte era che aveva notato un giovane addetto alle vendite, assunto due anni prima, che stava surclassando i suoi colleghi. Ari gli aveva fatto un altro collo quio un paio di settimane prima, offrendosi di promuoverlo a un ruolo di primo piano per tutto il mercato indiano, in conti nua espansione grazie all’economia nazionale sempre in forte 88 crescita. Se nei prossimi sei mesi Dhiren si fosse dimostrato all’altezza, allora avrebbe trovato un nuovo dirigente. Tre settimane dopo, Ari sarebbe dovuto andare a Londra per incontrare un potenziale cliente. Aveva bisogno di qualcuno a cui lasciare il timone mentre era via, e quello sarebbe stato un ottimo test. Forse, meditò, avrebbe potuto chiedere a Lali di accompa gnarlo. Anche se non avrebbe avuto molto tempo da dedicarle, le sarebbe comunque piaciuto fare la turista. Sì, pensò, glielo avrebbe proposto non appena fosse rientrata. Alle undici e mezza spense le luci in sala e andò in camera da letto. Era strano che Lali rimanesse fuori fino a quell’ora, soprattutto senza lasciar detto dove fosse. Ari cominciò a inner vosirsi. Provò a chiamarla al cellulare, ma rispose la segreteria. Pensò che probabilmente gli stava tenendo il broncio, e ricordò tutte le volte che l’aveva minacciato di lasciarlo. Grazie alla sua capacità di persuasione, era sempre riuscito a farle cambiare idea. E così avrebbe fatto anche stavolta. Alle otto del mattino seguente, mentre si preparava il caffè prima di andare al lavoro, Ari sentì la chiave girare nella ser ratura. Lali entrò in cucina, pallida e tesa. Senza il suo trucco perfetto, sembrava una bambina piccola e stanca. Rimase in piedi sulla soglia della cucina e Ari si accorse che era nervosa. «Dove sei stata, se posso saperlo?» «A casa dei miei genitori.» «Davvero? Credevo non vi parlaste più» disse, sorpreso. «Era così. Sapevo che a te non piacevano.» «Perdonami» replicò Ari. «Se ben ricordo, quando gli dicesti che ti trasferivi da me, ti risposero di non varcare mai più la so glia di casa. Credevo che neanche a te andassero troppo a genio.» Lei lo fissò, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. 89 «Sono i miei genitori, Ari. Mi sono mancati, e mi sono sentita in colpa ogni singolo giorno per averli delusi.» «Per averli delusi?» Ari la fissò. «Cosa significa? Hai preso una decisione che a loro non è piaciuta, tutto qui.» «Io…» lei sospirò e scosse la testa. «Ari, credo che io e te siamo troppo diversi.» «Cosa intendi?» «Ormai non ha più importanza.» Alzò tristemente le spalle. «Non mi va di litigare.» «Lali, cosa significa tutto questo? Dài, sputa il rospo.» Lei rimase in silenzio per qualche istante, poi prese un pro fondo respiro. «Torno dai miei, Ari. Sono venuta a prendere le mie cose.» «Va bene. Per una notte? Un mese? O per sempre?» «Per sempre. Mi dispiace.» «Perciò, mi stai dicendo che mi lasci?» chiese Ari, che final mente capiva. «Sì. Non voglio né discutere, né litigare. Voglio solo prendere la mia roba e andarmene.» Vide che stava tremando. Annuì lentamente. «Ok, sei sicura di non volerne parlare?» «Sì. Non c’è più niente da dire. Vado a preparare gli scato loni.» La osservò voltargli le spalle e uscire dalla stanza. Non era preoccupato; era già successo altre volte. Ad ogni modo, l’idea che sarebbe tornata dai suoi – ai quali lui non era mai piaciuto – non gli andava giù. Si alzò dal tavolo e la seguì in camera. «Lali, pyari, capisco che tu sia molto arrabbiata, ma credo proprio che dovremmo discuterne. A dire il vero volevo chie derti di venire in Europa con me. Hai ragione, abbiamo bisogno di una pausa, di passare un po’ di tempo insieme.» 90 «Non avremo tempo da passare insieme, Ari, lo sai. Salterai da una riunione all’altra, mentre io rimarrò ad aspettarti in hotel. E al tuo rientro sarai troppo stanco per fare qualsiasi cosa che non sia dormire.» Lali tirò fuori una borsa dal fondo del guardaroba e la posò sul letto. Andò alla cassettiera e iniziò a trasferirne il contenuto nella sacca. «Lali.» Ari le si avvicinò per abbracciarla. «Io…» «Non mi toccare!» gridò lei, divincolandosi dal suo abbrac cio e andando al guardaroba a togliere i suoi abiti dalle grucce. «Lali, perché sei così arrabbiata? Ti prego, dimmelo. Ti amo, lo sai che ti amo, pyari, non voglio che te ne vada.» «No.» Lei lo guardò con gli occhi tristi. «Ti credo. Ma de vo farlo per me.» Lali abbassò la testa e le lacrime ripresero a scorrere. «Ma perché? Credevo stessimo bene, e le cose ultimamente non andavano male. Non…» «Lo so che per te andava bene» ribatté, chiudendo la zip della valigia e iniziando a mettere i cosmetici in un borsone. «Ari, non è colpa tua. È andata così.» «Parli per enigmi, tesoro, e non capisco cosa cerchi di dirmi. Se non è colpa mia, di chi allora?» Lali si fermò ed emise un lungo sospiro, lo sguardo fisso nel vuoto. «È che noi due vogliamo cose diverse dalla vita. Io sogno di sposarmi, avere dei figli e un marito che trovi un po’ di tempo per stare con me.» Spostò gli occhi su di lui e sorrise de bolmente. «Mentre a te interessano solo il denaro e il successo. Spero per te che ne valga la pena, e che tu sia felice. Ora» disse Lali chiudendo il borsone e tirando la valigia giù dal letto «de vo andare. Di sotto c’è mio padre che mi aspetta.» Frugò nelle tasche dei jeans e tirò fuori un mazzo di chiavi. «Addio, Ari. Ti auguro tutta la felicità di questo mondo, ti amerò sempre.» 91 Lui rimase immobile, come ipnotizzato, mentre Lali trasci nava la valigia fuori dalla stanza. La porta si richiuse prima che lui si fosse ripreso. Allora corse fuori dall’appartamento e la vide scomparire inghiottita dall’ascensore. «Lali!» Sbatté il pugno contro i pulsanti, ma la cabina era già in movimento. Tornò lentamente in casa, si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò. Non poteva essere vero. Forse era solo un trucco per spingerlo a chiederle di sposarlo. Be’, se lo era, non avrebbe funzionato: lui non era tipo da cedere ai ricatti. Inoltre, pensò, era improbabile che avrebbe resistito per più di qualche giorno nella catapecchia dei suoi genitori. Non avevano nemmeno l’acqua corrente, che diavolo, e lei avrebbe diviso la stanza con quattro fratelli e sorelle. Dopo la vita che aveva fatto con lui, non l’avrebbe certo gradito. Ripensando a ciò che aveva fatto per lei, la rabbia sostituì il turbamento. Lali aveva sempre detto che non le importava dei beni materiali. A lei non sarebbe importato vivere in una baracca abusiva sulla spiaggia, vendendo fieno greco per poche rupie al giorno, perché era lui che amava. «Be’,» disse a voce alta nell’appartamento deserto «quando sarai stata dai tuoi per un po’, vedremo se è vero.» Ritrovata la fiducia, e accortosi di essere in ritardo, afferrò le chiavi della macchina e uscì per andare in ufficio. Una settimana dopo, Ari aveva perso tutta la sua sicurezza. Lali non aveva mai cercato di contattarlo e, nonostante inizialmente lo attirasse l’idea di poter lavorare a tempo pieno, si era reso conto che passava ore a fissare fuori dalla finestra le famigliole sulla spiaggia assolata, con i bambini che gridavano e correvano felici nell’acqua. La verità era che lei gli mancava. E molto più di quanto 92 avrebbe mai potuto immaginare. Aveva composto il suo nu mero tante volte, ma l’orgoglio gli aveva sempre impedito di attendere la sua risposta. Lei lo aveva lasciato, lei doveva fare il primo passo. Pensò che non le avrebbe reso le cose più difficili del necessario. Avrebbe accettato le sue scuse, l’avrebbe ripresa con sé senza dire una parola e poi, con i suoi tempi, le avrebbe chiesto di sposarlo. L’ avrebbe lasciata vincere… Ma più i giorni passavano, più la sua decisione vacillava. Quella sera avrebbe voluto qualcuno con cui parlare, lì solo in quel grande appartamento vuoto; qualcuno a cui chiedere un consiglio. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a pensare a nessuno con cui avesse abbastanza confidenza per affrontare un discorso del genere. Negli ultimi anni era stato troppo occu pato per mantenere i contatti con gli amici d’infanzia, e i suoi rapporti con fratelli e parenti si erano raffreddati dalla morte di Anahita. Telefonava a casa una volta al mese e parlava con il primo che rispondeva al telefono, facendosi riassumere l’anda mento generale. Persino sua madre, quando era lei a rispondere, si rivolgeva a lui in maniera fredda e distante. Mi hanno dato per perso, pensò sospirando mentre scendeva le scale, andando a coricarsi nel grande letto vuoto. Si infilò sotto le lenzuola e rimase disteso con le mani dietro la testa a chiedersi come mai, prima che Lali se ne andasse, non trovava mai il tempo per fare niente, mentre da quando non c’era più, le ore gli sembravano infinite. Il giorno seguente, dopo un lungo e solitario weekend, Ari si decise: era arrivato il momento di mettere da parte l’orgo glio. Pieno d’ansia, compose il numero e stavolta aspettò che squillasse. Ma non gli rispose la voce di Lali che lo invitava a lasciare un messaggio, bensì un ronzio, a indicare che il numero non era più attivo. 93 Per la prima volta da quando lei se n’era andata, Ari si sentì stringere il cuore. Fino a quel momento aveva creduto si trat tasse di una prova di forza, che si era preparato a perdere con grazia. Il pensiero che Lali potesse fare sul serio non l’aveva nemmeno sfiorato. Riprovò a chiamarla, ma di nuovo gli rispose il ronzio. Co minciò a chiedersi come trovarla, sempre più turbato. Sapeva solo che i suoi genitori abitavano in un labirinto di strade a Dharavi; c’era stato una sola volta e non aveva idea di come ritrovare la casa. Cercò di ricordare quali delle sue amiche co noscesse, ma Lali teneva la sua vita sociale per sé, dato che la maggior parte delle ragazze che frequentava appartenevano a famiglie povere come la sua. Aveva capito che non era il genere di persone sofisticate con cui incontrarsi all’Indigo Café per una cena a quattro. E Ari non aveva idea di dove andarle a cercare. Si domandò come potesse aver vissuto con lei quattro anni e non sapere nulla della sua vita fuori casa. Era colpa sua? si chiese, misurando a larghi passi la terrazza. Alla fine dovette ammettere che era così. Di certo non aveva mai manifestato ai genitori di Lali l’interesse ad avere un qual siasi rapporto con loro. Nemmeno ci aveva provato, neanche per il bene di lei. Non erano cattive persone… poveri, sì, ma onesti lavoratori e induisti devoti, che avevano cresciuto i figli trasmettendo loro un forte senso morale e fornendo anche la migliore educazione che i pochi mezzi a disposizione permet tevano loro. Esausto, Ari si lasciò cadere su una sedia e si piegò in avanti, prendendosi la testa fra le mani. Si rese conto di aver trattato con superficialità non soltanto loro, ma anche i loro valori: aveva sempre disprezzato la fede religiosa e l’umiltà necessarie ad ac cettare il proprio status. Per lui rappresentavano “la vecchia In 94 dia”, proprio come i suoi genitori, il cui atteggiamento servile era stato plasmato da oltre due secoli di dominazione britannica. La vecchia generazione sembrava non essersi ancora resa conto che il potere era passato di mano, che non c’era più biso gno di sentirsi servi. Lui e i suoi coetanei erano lanciati verso il futuro, slegati dal passato. Non c’era limite alle possibilità. Era voluto fuggire da tutti i vecchi valori, che pensava limi tassero chi ci credeva. Seduto là, a fissare il vuoto, Ari si rese conto di essere furioso. Ma perché? E all’improvviso gli accadde una cosa che non gli capitava ormai da anni: si prese la testa fra le mani e pianse. Riflettendo su se stesso, su ciò che era diventato e sul perché, Ari si rese conto che non avrebbe dimenticato facilmente la disperazione di quel weekend. Non sapeva se stesse soffren do per aver perso Lali, o per il fatto di essersi trasformato in una persona rabbiosa, egocentrica e solitaria. Mentre il dolore sgorgava insieme alle lacrime, si domandò se si trattasse di una specie di esaurimento nervoso, forse il risultato di quindici anni passati senza un attimo di tregua. Certo, aveva creato un’azienda di grande successo, che aveva prodotto i profitti sperati. Ma nel farlo aveva perso se stesso. Cercò di comprendere le ragioni della sua rabbia e, con un certo terrore, il motivo per cui sembrava non provare più alcuna compassione. Ripensò ai tempi del collegio in Inghilterra e al modo in cui i ragazzi lo guardavano, solo perché era indiano. No nostante l’India fosse un paese libero da più di sessant’anni, l’alta società inglese continuava a credere a una superiorità di fatto. L’ orgoglio dei suoi genitori non faceva che peggiorare le cose. Nonostante le terribili conseguenze della dominazione britannica fossero lampanti, la cultura e le tradizioni dell’antico 95 padrone erano rimaste impresse in maniera indelebile dentro di loro. Mandare il proprio figlio a una scuola pubblica ingle se, per i suoi genitori era ancora il massimo a cui un indiano potesse ambire. Ma Ari sapeva che, nonostante i cinque anni in Inghilterra avessero rafforzato la consapevolezza di valere quanto i suoi compagni europei, in lui era rimasto intatto l’istinto della com petizione. E si rese conto anche di aver soffocato proprio le qualità che avevano fatto grande il suo popolo, trasformandosi lui stesso in un imperialista non molto diverso da quelli che una volta avevano comandato il suo paese. Aveva perso la sua anima indiana. Quella domenica pomeriggio, Ari uscì dal suo appartamento e chiese alla prima persona che incontrò in Juhu Tara Road di indicargli il tempio più vicino. Imbarazzato, spiegò che non era di Mumbai. Una volta entrato nel tempio, si tolse le scarpe e pregò, ripe tendo i gesti e le parole che per lui erano stati spontanei come respirare, ma che ora gli sembravano estranei e innaturali. Ari offrì una puja, non più a Lakshmi, la dea dell’abbondanza, ma a Parvati, la dea dell’amore e all’onnipotente Vishnu. Chiese loro perdono, specialmente per essersi allontanato dai suoi genitori. E pregò per il ritorno di Lali. Quando arrivò a casa, un po’ più calmo, Ari chiamò imme diatamente i suoi genitori. Fu sua madre a rispondergli. «Ciao mamma. Io…» «Che c’è, ragazzo?» Il fatto che avesse già capito che qualcosa non andava gli fece venire le lacrime agli occhi, e scoppiò a piangere di nuovo. Chiese il suo perdono, quello di suo padre e dei suoi fratelli e sorelle. «Mi dispiace tanto, davvero» sussurrò. 96 «Figlio mio, sentirti così mi spezza il cuore. È stata Lali a spezzare il tuo?» Ari rimase per un attimo in silenzio. «Come fai a saperlo, mamma?» «Non ti ha detto che è venuta a trovarci, due settimane fa?» «No, non me l’aveva detto.» «Capisco.» «Di cosa avete parlato, mamma?» domandò. Ari sentì Samina sospirare profondamente. «Ha detto che non poteva più aspettare che ti decidessi a impegnarti seria mente con lei. Che adesso era sicura che non l’amavi abbastanza e che la cosa migliore sarebbe stata lasciarti libero. Sai quanto desiderava una famiglia, pyara.» «Sì. Certo che lo sapevo. Lo so. Ti prego, credimi, mamma, io la amo. Mi manca… voglio che torni da me. Se sai dove si trova, parlale, ti prego. Io…» dovette fermarsi per l’emozione. «Figlio mio, mi dispiace tanto, ma non tornerà a casa da te.» «Perché no?» Ari si accorse di somigliare a un bambino viziato che non capisce perché non può riavere il suo gioco preferito. «Mi dispiace dover essere io a dirtelo, ma forse è meglio che tu sappia la verità. Ricorderai che i suoi genitori le avevano combinato un matrimonio, che si rifiutò di accettare dopo averti conosciuto.» «Sì.» Ari ricordava vagamente. «Con un cugino di Kolkata, se non sbaglio; un contadino, molto più vecchio di lei. Lali disse che l’aveva odiato dalla prima volta che l’aveva visto.» «Be’, forse sì…» disse Samina «o forse no, visto che ieri l’ha sposato.» Ari rimase paralizzato. «Ari, sei ancora lì?» 97 «Sì.» Rispose con un filo di voce. «Perché? Non capisco…» «Io sì» disse sua madre, piano. «Lali ha quasi trent’anni. Non ha un diploma né una professione con la quale guadagnarsi da vivere, e i suoi genitori sono troppo poveri per mettere insieme una dote. Ha detto che almeno quest’uomo le avrebbe garantito protezione e un sostegno economico per tutta la vita.» «Cosa?!» Ari non poteva credere alle parole che sua madre aveva appena pronunciato. «Mamma, con me era al sicuro! Forse non le avrò dedicato abbastanza tempo, ma per quanto riguarda l’aspetto economico non le ho mai fatto mancare niente.» «Ma non le hai dato l’unica cosa di cui aveva veramente bi sogno. Quella a cui ogni donna ambisce, soprattutto in India.» «Il matrimonio?» «Esattamente. Come mi ha detto Lali, se ti fossi stancato avresti potuto scaricarla da un giorno all’altro in mezzo a una strada. Come tua convivente non aveva nulla, né status, né ga ranzie… sono cose importanti, devi cercare di capirlo.» «Se solo me ne avesse parlato prima.» Ari si morse il labbro. «Sono sicura che ci abbia provato, tante volte, fino a quando non ha rinunciato.» Samina sospirò. «Mi ha detto che non la ascoltavi. Sa di essere giovane e bella, ma sa anche che il tempo passa in fretta.» «Io… non l’avevo capito. Davvero, mamma, credimi.» «E ovviamente era troppo orgogliosa per pregarti.» «Mamma, cosa devo fare adesso?» le domandò disperato. «Ricomincia da capo.» Suggerì Samina. «Cerca di imparare la lezione. E rinuncia a Lali, perché, purtroppo, se n’è andata per sempre.» «Io… adesso devo andare. Ho del lavoro da sbrigare.» «Fatti sentire…» furono le ultime parole che udì, prima di riagganciare. 98 Per la prima volta in vita sua, il giorno seguente Ari non andò in ufficio. Chiamò Dhiren, il suo nuovo direttore vendite, e gli disse che era malato. Nei giorni successivi scivolò in una specie di letargo. Si alzava dal letto solo per mangiare, bere e andare in bagno. La sua leggendaria energia sembrava averlo abbandonato e, quando si guardò allo specchio, si vide più pic colo, pallido… come se una parte di lui si fosse consumata. In un certo senso, pensò disperato, era proprio così. Nei rari momenti in cui era sveglio, restava disteso a guarda re il soffitto, domandandosi dove fosse finita la determinazione che l’aveva spinto in tutti quegli anni. Quando lo chiamavano dall’ufficio non se la sentiva di rispondere. Il martedì sera, mentre fissava in lontananza le luci di quel mondo che andava avanti senza di lui, aggrappato alla ringhiera della terrazza, cercò di immaginare il proprio futuro. Ed eccolo, lì davanti a lui: un enorme buco nero. Si prese la testa fra le mani. «Lali, mi dispiace tanto» sospirò. In quel momento, qualcuno suonò il campanello. Corse al citofono, pregando che fosse lei, e alzò il ricevitore. «Sì?» «Ragazzo, sono io, tua madre.» «Sali» disse, deluso ma anche sorpreso. Infatti i suoi genitori vivevano a cinque giorni di macchina da Mumbai. «Figlio mio.» Quando lui aprì la porta per farla entrare, Sa mina spalancò le braccia. In quell’istante, tutta la tensione e l’amarezza degli ultimi dieci anni si dissolsero e Ari pianse come un bambino fra le braccia di sua madre. «Mi dispiace, mamma, mi dispiace tanto.» «Ari» Samina si staccò dal figlio per guardarlo negli occhi, e gli sorrise. «Ora sei tornato alla tua famiglia, ed è ciò che conta. 99 Perché adesso non prepari a tua madre una bella tazza di te? È stato un lungo viaggio.» Quella sera Ari condivise con sua madre i pensieri che l’aveva no tormentato negli ultimi giorni e lo scoramento riguardo al proprio futuro. «Be’, perlomeno ora mi stai parlando col cuore e non con quella testa dura che ti ritrovi» disse Samina, cercando di con solarlo. «In tutti questi anni mi sono sempre domandata dove fosse finito mio figlio, e se lo avrei mai rivisto. Almeno questo è un buon inizio. Hai imparato una lezione importante, Ari: la felicità è fatta di tante cose e non viene mai da una sola fonte. Il denaro e il successo non fanno la felicità quando il cuore è chiuso in se stesso.» «Anahita mi disse la stessa cosa l’ultima volta che la vidi» ricordò Ari. «E disse che un giorno me ne sarei reso conto.» «La tua bisnonna era una donna molto saggia.» «Sì, e mi vergogno di non essere venuto a dirle addio.» «Be’, se anche tu, come lei, credi agli spiriti, sono certa che sia qui con noi e accetterà le tue scuse. Ora» la donna sbadigliò «sono molto stanca e ho bisogno di dormire.» «Certo» rispose Ari e la accompagnò al piano di sotto, in una delle splendide camere da letto. «Quanto spazio per una persona sola» osservò Samina, men tre Ari sistemava la sua valigia. «E una notte intera senza tuo pa dre a russarmi nelle orecchie. Potrei non volermene più andare!» «Resta pure quanto vuoi, mamma» disse lui, sorpreso nell’ac corgersi che il suo era un entusiasmo sincero, e vergognandosi di non averla mai invitata prima. «E grazie per essere venuta» aggiunse, dandole il bacio della buonanotte. «Sei mio figlio. Ero preoccupata per te. Puoi anche vivere 100 in un appartamento lussuoso e avere un grosso conto in ban ca, ma resti sempre il mio bambino.» Così dicendo accarezzò affettuosamente la guancia di suo figlio. Quando Ari si infilò a letto, mezz’ora dopo, si sentì stra namente consolato all’idea che sua madre fosse solo a pochi metri da lui. Non gli aveva rinfacciato nulla del suo pessimo comportamento ed era subito corsa da lui, non appena ne aveva avuto bisogno. Si sentì mortificato e ripensò ad Anahita, che in tutti quegli anni non aveva mai smesso di credere che suo figlio fosse vivo. Esisteva davvero il sesto senso per una madre, quando si trattava del proprio figlio? Il suo sguardo fu attirato dall’ultimo cassetto della scrivania. Conteneva ancora la storia della sua bisnonna, che lui non aveva toccato per undici anni. Ari si sentì avvampare, come se fosse alla presenza di Anahita. Se effettivamente era con lui in quel momento, sperò che capisse quanto gli dispiaceva aver ignorato il manoscritto che lei gli aveva affidato fiduciosa. Scese dal let to, aprì il cassetto e tirò fuori le pagine ingiallite. Vide che era scritto in inglese, con una calligrafia ordinata e precisa. Sentì le palpebre farsi pesanti. Era troppo stanco per mettersi a leggere, ma si ripromise di cominciare il giorno seguente. L’ indomani mattina, Ari portò sua madre a fare colazione fuori, prima che si rimettesse in viaggio. «Domani tornerai al lavoro?» gli chiese. «Dovresti, ti aiuterà a tenere la mente sgombra. E poi sempre meglio che vagare per quel gigantesco appartamento senz’anima.» «Mamma, devi deciderti però» ribatté Ari ridacchiando. «Un attimo prima mi dici che lavoro troppo, e quello dopo mi vuoi rimandare in ufficio!» 101 «Nella vita bisogna trovare un equilibrio. Solo allora potrai raggiungere la felicità che cerchi. Ah, prima che mi dimentichi» Samina frugò dentro la borsa, ne estrasse una vecchia copia del libro Ricompense e Fate di Rudyard Kipling e lo porse ad Ari. «Tuo padre ti manda questo. Ha detto di leggere la poesia Se. È una delle sue preferite.» «Sì.» Ari sorrise. «Lo so. Non la rileggo dai tempi della scuola.» Quando sua madre se ne fu andata, non prima di avergli strappato la promessa di andare a trovarli appena possibile, si recò in ufficio. Chiamò a colloquio Dhiren e gli diede l’incarico di dirigere gli affari per tutto il tempo in cui fosse rimasto a Londra, sot tolineando che probabilmente sarebbe stato via più a lungo del previsto. Ventiquattr’ore dopo prese l’ultimo volo per Heathrow. Non guardò il film che proiettavano, lesse invece la poesia che suo padre gli aveva dedicato. Alla fine sorrise. Messaggio afferrato. Ordinò un bicchiere di vino e tirò fuori dalla valigetta il plico di fogli ingialliti. 102 Jaipur India 1911 6 Anahita Mi ricordo, figlio mio. Nella quiete della notte, il più leggero ac cenno di brezza era una benedizione e un sollievo dal caldo torri do di Jaipur. Spesso salivo insieme alle altre donne e alle bambine della zenana sui tetti del Moon Palace, e mi sdraiavo lassù. La città di Jaipur si trova al centro di una pianura, circon data da colline deserte. Da piccola credevo di vivere nel posto più bello della terra, perché la città ha sempre avuto un che di fiabesco: gli edifici dipinti di rosa, le case a cupola finemente decorate e traforate e i portici che percorrevano la città, eleganti come un pizzo antico. Ovviamente il Moon Palace era situato nel punto migliore: come una piccola città a sé stante, separata da tutto da giardini lussureggianti. L’ interno era un labirinto, gli archi scolpiti conducevano a corti interne, che di volta in volta rivelavano i loro segreti. Persino gli abitanti di Jaipur erano pittoreschi: gli uomini in dossavano turbanti gialli, magenta e rosso rubino. Io li guardavo dall’alto, affacciandomi alle terrazze che davano sulla città: mi ricordavano tante formichine colorate e affaccendate. In quel palazzo al centro della città magica, per me e le mie compagne era facile sentirsi come tante principesse. 105 Ma, ovviamente, io non lo ero. Fino all’età di nove anni ho vissuto in mezzo alla gente della città che osservavo dall’alto. Mia madre, Tira, apparteneva a un’antica stirpe di bahid, il termine indiano che sta per donna saggia, guaritrice. Sin da quando ero molto piccola sono stata accanto a lei mentre riceve va le persone che le chiedevano un consulto. Nel piccolo giardi no sul retro coltivava le molte erbe aromatiche che le servivano per preparare rimedi ayurvedici; spesso la osservavo triturare guggulu, manjishtha, goku o shil noda per i suoi rimedi. I suoi clienti erano sempre soddisfatti e se ne andavano convinti che i loro amati li avrebbero finalmente ricambiati, o che il tumore sarebbe scomparso, o che avrebbero concepito un bambino nel giro di un mese. A volte, quando arrivava una donna, mia madre diceva alla nostra cameriera di portarmi a fare una lunga passeggiata. Ini ziai a notare che queste pazienti si accomodavano sempre in una stanza sul retro e rimanevano sdraiate fra i cuscini ad aspettare mia madre con un’espressione terrorizzata dipinta in volto. Ovviamente a quei tempi non sapevo in che modo le aiutas se: le liberava dal fardello di bambini non voluti. Figlio mio, tu forse penserai che questo sia un peccato ter ribile, ma spesso queste donne avevano già dieci figli e cer te famiglie erano talmente povere da non potersi permettere di sfamare una sola bocca in più. Mia madre aiutava anche le donne che desideravano far venire al mondo i propri figli, e quando fui abbastanza grande incominciai ad assisterla anche in questi casi. Quando ho assistito alla prima nascita, ammetto di non essere riuscita a guardare; ma con il tempo, come spesso accade, ho imparato ad apprezzare il fascino di questo miracolo della natura. 106 A volte io e mia madre prendevamo il pony che mio padre teneva in una stalla fuori città, e visitavamo i villaggi attorno Jaipur. È stato lì che mi sono resa conto che il mondo non era solo la città fiabesca che conoscevo, con genitori amorevoli e il cibo in tavola tutte le sere. Fui testimone di cose terribili: stenti, fame, soprusi, e ogni genere di tormento che un essere umano possa patire. Ero molto giovane quando mi resi conto che la vita è ingiusta. Una lezione che non ho più dimenticato. Mia madre, come tutti gli induisti, era molto superstiziosa. Ricordo che una volta, quando avevo sei anni, ci stavamo pre parando per andare a trovare alcuni parenti che abitavano a più di trecento chilometri di distanza, in occasione dell’Holi, la festa religiosa durante la quale ci si lancia polvere colorata fino a ridursi a tanti arcobaleni. Quel giorno uscimmo di casa e ci incamminammo verso la stazione per la prima tappa del viaggio. All’improvviso una ci vetta volò davanti a noi e mia madre si fermò di colpo in mezzo alla strada, con un’espressione terrorizzata. «Non possiamo andare» ci disse, voltandosi. «Dobbiamo tornare indietro.» Mio padre, abituato ai suoi pregiudizi e ansioso di andare a trovare i parenti, sorrise e scosse la testa. «No, mia pyari, quello era solo uno splendido animale che ci ha attraversato la strada. Non significa niente.» Ma mia madre si era già voltata, incamminandosi verso casa. Nonostante le proteste di mio padre, si rifiutò di cambiare idea. Passammo quel fine settimana pensando ai nostri parenti che si stavano divertendo a centinaia di chilometri da noi. Ma il giorno dopo la festa venimmo a sapere una cosa: nella regione c’erano state delle inondazioni e il treno che avremmo dovuto prendere era precipitato in un fiume quando il ponte 107 che stava attraversando era improvvisamente crollato. I vagoni e i passeggeri erano stati inghiottiti dalle acque rosse e fangose. Un centinaio di nostri concittadini non avevano fatto ritorno. Dopo questo episodio mio padre iniziò a prendere più sul serio le intuizioni di mia madre. Crescendo, lei cominciò a in segnarmi qualche semplice rimedio per la tosse, il raffreddore e il cuore infranto. Mi insegnò a scegliere i giorni più adatti in cui preparare i rimedi in base alle fasi lunari. Mi insegnò che era la luna a trasmettere il potere della femminilità, e che la natura, creata dagli dèi per fornire agli esseri umani tutto ciò che serviva loro, era la forza più potente del pianeta. «Un giorno, Anni, sentirai gli spiriti cantare» mi disse, rin calzandomi il lenzuolo. «Quel giorno saprai con certezza di possedere il dono che ti ho trasmesso.» A quei tempi non capii cosa intendeva dire, ma annuii co munque. «Sì, maaji» risposi, mentre mi dava il bacio della buo nanotte. Sapevo che nella sua famiglia tutti pensavano che mia madre si fosse sposata con un uomo al di sotto delle sue possibilità. Era nata in una casta elevata. Era la cugina di secondo grado della maharani di Jaipur, anche se, a dire il vero, in India sembrava che tutti fossero parenti di tutti. Già all’età di due anni era stata promessa a un ricco cugino del Bengala, che però a sedici anni si era ammalato di malaria ed era morto. Mentre i suoi genitori erano impegnati a cercarle un altro marito, al festival di Navatri incontrò mio padre; da quel giorno incominciarono a intrat tenere una relazione segreta scambiandosi lettere di nascosto. Quando i miei nonni annunciarono di averle trovato un se condo marito, scoprì che sarebbe diventata la terza moglie di un cinquantenne; a quel punto li minacciò di fuggire, a meno che non le avessero permesso di sposare il bel giovane che sa 108 rebbe poi diventato mio padre. Non conosco i particolari – la loro storia d’amore era già diventata leggenda quando sono nata io – ma so che alla fine i miei nonni acconsentirono con riluttanza al matrimonio. «Dissi ai tuoi nonni che non avevo rubini, perle o palazzi da offrire alla loro figlia, ma garantivo loro che l’avrei amata per sempre» mi raccontava mio padre. «E, mia beti, non dimen ticare mai che l’amore è il tesoro più grande che un maharaja possa avere.» Lui, Kamalesh, era l’esatto opposto di mia madre. Filosofo, poeta e scrittore, fortemente influenzato dal famoso bramino, poeta e attivista, Rabindranath Tagore. Guadagnava una mise ria facendo uscire un pamphlet mensile in cui esprimeva il suo pensiero radicale e rivoluzionario, specialmente per quel che riguardava l’egemonia britannica. Aveva imparato perfettamen te l’inglese da autodidatta e, ironia della sorte, per sbarcare il lunario lo insegnava ai giovani indiani altolocati che desidera vano parlare con i loro pari inglesi. Lo insegnò anche a me, sua figlia, insieme a tante altre mate rie, dalla storia alle scienze. Mentre le altre ragazze imparavano l’arte del ricamo e pregavano Shiva di trovare un marito buono e gentile, io leggevo L’ origine delle specie di Darwin e studia vo matematica. Imparai a cavalcare a pelo all’età di otto anni, galoppando attraverso le pianure deserte che circondavano la città, mentre mio padre, davanti a me, mi urlava di stargli dietro. Lo adoravo, come tutte le bambine adorano il proprio padre, e facevo tutto il possibile per compiacerlo. Perciò, tra l’uomo radicale con una visione scientifica e lo gica del mondo, e la donna che una volta vide un pipistrello in camera da letto e fece venire un ojha a casa – il sacerdote che purifica dagli spiriti malvagi – io crebbi in un turbine di stimoli 109 opposti. Dentro di me c’era una parte di entrambi, ma avevo anche una personalità piuttosto spiccata. Una volta mi misi a piangere perché avevo visto un gruppo di ragazzini picchiare a morte un cane randagio; mio padre mi prese sulle ginocchia e mi asciugò le lacrime, poi mi alzò il mento con due dita e mi guardò negli occhi: «Mia dolce Anni, tu hai un cuore grande, che batte più forte di cento tabla messe insieme. Come tuo padre, odi l’ingiustizia e ami la lealtà. Ma sii prudente, mia Anni, perché gli esseri umani sono creature complesse e le loro anime sono spesso grigie, quasi mai bian che o nere. Dove pensi di trovare il bene, potresti scoprire la malvagità. E dove pensi ci sia soltanto il male, potresti restare sorpresa trovando anche il bene». Quando avevo nove anni, mio padre morì improvvisamente durante un’epidemia di tifo che mise in ginocchio la città du rante la stagione dei monsoni. Nemmeno l’arsenale di pozioni e medicine di mia madre riuscì a salvarlo. «Era giunta la sua ora, pyari, e io lo sapevo» mi disse lei. Faticai a comprendere il modo in cui aveva accettato la sua morte. Mentre io piangevo consumata dal dolore, lei sedeva accanto al suo corpo senza vita, immobile e serena. «Anni, quando arriva la tua ora devi andare» mi confortava. «Non c’è niente che tu possa fare.» Ma io non volevo saperne. Al suo funerale urlai e scalciai e mi rifiutai di lasciare che mio padre fosse sollevato sulla pira. Ri cordo che mi dovettero trascinare via mentre lo swami intonava il canto appiccando il fuoco. Quando un fumo aspro si levò in cielo, mi voltai, nascondendo il viso fra le sottane di mia madre. Dopo la morte di mio padre, non avevamo molto di cui vivere. La maharani di Jaipur, cugina di mia madre, ci propo 110 se di andare a vivere con lei. Perciò ci trasferimmo entrambe dalla nostra piccola casetta in città direttamente nella zenana del Moon Palace. Quella era la parte del palazzo in cui le donne vivevano se parate dagli uomini. Perché ovviamente, a quei tempi, a partire dalla pubertà le ragazze erano tenute a seguire la tradizione indù della purdah. Nessun uomo, fatta eccezione per il marito o i parenti stretti, poteva vederci in volto. Anche se eravamo ma late, il dottore doveva visitarci dietro un paravento. Nei luoghi pubblici tenevamo un velo sul viso. Oggi quasi fatico a credere che fosse così, ma a quei tempi era la regola. All’inizio impiegai un po’ di tempo prima di abituarmi al rumore e al viavai della zenana. Prima avevamo una cameriera e un ragazzo che si occupava del giardino, ma alla fine della giornata restavamo soltanto noi tre, e se volevamo, potevamo chiudere la porta e lasciare tutto il mondo fuori. A palazzo era molto diverso. Vivevamo, mangiavamo e dormivamo tutte insieme. A volte sentivo fortissima la mancanza della pace e dell’intimità della nostra vecchia casa, dove potevo chiudermi nella mia stanza a leggere indisturbata. Ad ogni modo, anche la vita comune aveva i suoi vantaggi. Di sicuro non mancavano le compagne di gioco: moltissime ragazze della mia età abitavano nella zenana. C’era sempre qual cuno con cui fare una partita a backgammon o che accompa gnasse il mio canto con le corde della veena. Le mie amiche erano tutte figlie della nobiltà locale, educate e di buone maniere. Ma una cosa mi mancava moltissimo: le mie lezioni. Fu solo dopo essere entrata nella zenana che mi resi conto di quanto l’educazione che mi dava mio padre fosse insolita per una ragazza. Era stato lui a soprannominarmi “Anni”; il mio nome, Ana 111 hita, significa “piena di grazia”. Ho sempre pensato che non mi si addicesse. Potevo anche essere istruita (e in grado di battere qualunque coetanea in una corsa a cavallo) ma per quanto ri guardava la “grazia” femminile, mi sentivo ben poco dotata. Osservavo le altre ragazze trascorrere ore e ore a guardarsi allo specchio per scegliere il colore giusto del corsetto da abbinare alla gonna (nel Rajastan le donne non indossavano il tradizio nale sari). Tutte quelle principesse e la maggior parte delle loro nobili cugine erano già promesse a uomini scelti dai loro genitori. Io provenivo da una famiglia di casta elevata, ma povera. Mio padre non mi aveva lasciato molti beni materiali e io sapevo che mia madre non aveva alcuna dote per me. Non ero una moglie “appetibile” e lei stava ancora setacciando l’albero genealogico in cerca di qualcuno che mi accettasse in sposa. Io non ero preoccupata, perché nella mia mente erano impresse le parole con cui mio padre aveva chiesto in sposa mia madre. Io volevo trovare l’amore. All’età di undici anni, dopo un anno trascorso alla zenana, la mia istruzione e il fatto che sapessi cavalcare iniziarono a dare i loro frutti. Fui scelta dalla maharani come dama di compagnia di sua figlia maggiore, la principessa Jameera. Anche se, in quanto sua dama di compagnia, potevo usu fruire di tutta una serie di privilegi e partecipare ad attività sti molanti come il tiro a segno, o avere accesso a zone del palazzo che fino a quel momento mi erano state proibite, non ricordo quel periodo come un momento felice. Jameera era viziata e spesso si rivelava intrattabile. Se quando giocavamo perdeva, correva da sua madre in lacrime, dicendo che io avevo barato. Quando le parlavo in inglese, come sua madre mi aveva chiesto di fare, si copriva le orecchie con le 112 mani rifiutandosi di ascoltarmi. E se osavo batterla in una delle nostre corse a cavallo, urlava contro di me e mi ignorava per il resto della giornata. Sapevamo entrambe quale fosse il problema: Jameera era una principessa, ma io avevo ricevuto in dono moltissime capacità che lei non aveva. E, nonostante non fossi affatto una ragazzina vanitosa, tutti lodavano la mia figura snella e slanciata. Un altro dono che Jameera non aveva di certo. «Maaji» dicevo piangendo fra le braccia di mia madre, men tre lei mi asciugava le lacrime. «Jameera mi odia!» «Indubbiamente è una ragazza difficile» mi rispondeva. «Su, pyari, non ci si può fare niente. Di certo non possiamo dire alla maharani che sua figlia non ti è simpatica! Devi cercare di comportarti meglio che puoi. E sentirti onorata di essere stata scelta fra tutte; sono certa che un giorno verrai ripagata dei tuoi sforzi.» Come sempre, mia madre aveva ragione. Nel 1911 tutti i principati dell’India Britannica erano in fermento. Edoardo VII, imperatore d’India, era morto l’anno precedente. Suo figlio, Giorgio V, era diventato re e la sua incoronazione formale sareb be avvenuta nel mese di giugno, in Inghilterra. Poi, in dicembre, si sarebbe tenuta la grande Proclamation Durbar a Dehli, alla quale erano invitati tutti i principi e le principesse d’India. Ed essendo la dama di compagnia della principessa Jameera, anche io fui inserita nel vasto entourage che il maharaja di Jaipur – suo padre – avrebbe portato con sé. Mia madre era al settimo cielo. «Anni,» disse, prendendomi il viso fra le mani «quando sei nata consultai un astrologo per tracciare il tuo tema natale, e sai cosa mi disse?» Scossi la testa. «No, maaji, cosa?» «Disse che quando avresti compiuto undici anni ti sarebbe 113 accaduto qualcosa di straordinario. Avresti conosciuto una per sona che avrebbe cambiato la tua vita per sempre.» «È senz’altro incredibile» commentai con rispetto. Solo ora, mentre scrivo queste righe, mi guardo indietro e mi rendo conto di quanto l’astrologo avesse ragione. 114 7 È semplicemente impossibile descrivere a parole lo splendore e la maestosità di quella cerimonia. Mentre ci avvicinavamo a Coronation Park – appena fuori Dehli – sembrava che l’India intera fosse diretta lì. Jameera, le principesse più giovani e io sedevamo nella no stra howdah chiusa, sopra la schiena di uno dei grossi elefanti della maharani, e sbirciavamo fuori dalla tenda vinte dalla cu riosità. Le strade polverose erano occupate da ogni mezzo di trasporto possibile e immaginabile: biciclette, buoi, automobili ed elefanti si contendevano lo spazio. Ricchi e poveri insieme, tutti diretti verso Coronation Park. Ogni maharaja aveva il suo accampamento, fornito di acqua e luce. Quando arrivammo al nostro, guardai ammirata gli ele ganti alloggi femminili. «C’è persino una vasca» gridai a Jameera, osservando a boc ca aperta quei moderni miracoli che ci avrebbero permesso di vivere lì per sempre, se solo l’avessimo desiderato. Jameera non era stupita quanto me. Era molto stanca per il lungo viaggio e di cattivo umore. «Dov’è la mia scatola della puja?» gridò a una delle came riere che stavano scaricando la moltitudine di bauli. «Queste lenzuola graffiano» disse imbronciata, mentre le sue dita pic 115 cole e grassocce accarezzavano il lino del letto. «Cambiatele subito!» Non volevo che il suo malumore mi contagiasse, perciò non appena ebbi finito di aiutare le cameriere a disfare i bagagli, Jameera andò a fare il bagno e io uscii in esplorazione. Fuori, le luci dell’enorme parco illuminavano il cielo notturno, che sembrava appeso sopra i meravigliosi, immacolati giardini che circondavano il nostro campo. All’orizzonte vidi un’esplosione di fuochi d’artificio, serpentine turbinanti di colori, il cui fumo acre si mescolava al profumo degli incensi che riempiva l’aria. Sentii gli elefanti barrire e il dolce suono dei sitar in lontananza. Per un attimo sperimentai un momento di gioia pura e as soluta. In un’area di pochi chilometri erano rappresentati tutti i principati. Tra le migliaia di persone presenti c’erano le autorità più temute, erudite e potenti dell’India. E io, Anahita Chavan, ero fra loro. Alzai gli occhi al cielo e gli parlai. «Guardami, padre mio, sono qui» dissi con gioia. Inutile sottolineare che da una simile concentrazione di per sonalità non potesse che nascere anche una certa competizione. Ogni maharaja voleva che il suo campo fosse il più sontuoso, o avesse il seguito più numeroso o più elefanti del proprio vici no. I principi cercarono di superarsi con feste e cene sfarzose. I rubini, i diamanti, gli smeraldi e le perle che adornavano i loro vestiti avrebbero potuto comprare il mondo intero, pensai, mentre tornavo di corsa alla nostra tenda per aiutare Jameera a vestirsi per il banchetto offerto dai suoi genitori. Tutti erano piuttosto eccitati. «Sono attesi diciotto principi e le loro maharani, stasera!» commentò Jameera, mentre si sforzava di infilare le dita gras socce in un braccialetto d’oro. «Maaji mi ha detto che ci sarà 116 anche il padre del principe a cui sono stata promessa. Devi aiutarmi a essere più bella che mai.» «Certo» risposi io. Alla fine, le quattro mogli del maharaja e le donne anziane furono fatte accomodare dietro un paravento, mentre i loro ma riti e gli altri uomini partecipavano al ricevimento che precede va il banchetto. Noi tutte tirammo un sospiro di sollievo perché tutto stava procedendo senza intoppi, e restammo in attesa di ricevere nella zenana le donne e i bambini che avrebbero cenato con noi, separate dagli uomini. Più tardi, quella sera, la zona di accoglienza delle nostre tende era gremita di donne e dei loro figli. Guardai ammirata la nostra maharani accogliere le mogli dei maharaja ospiti. A una ragazzina di undici anni sembra vano appena uscite da una favola: cosparse di olii profumati, il corpo decorato con l’henné, le collane di perle grosse come uova di uccellino, i diademi incastonati di rubini e smeraldi e gli orecchini di diamante al naso. I loro figli non erano da meno: bambini e bambine di tre anni indossavano braccialetti scintil lanti, cavigliere incrostate di pietre preziose e splendide collane. Ricordo che quella vista mi colpì, ma allo stesso tempo mi turbò. Tutta quella ricchezza radunata in una sola stanza era considerata scontata, mentre io avevo visto tutta la povertà e la miseria del nostro paese, e sapevo cos’era. Comunque, non riuscii a fare a meno di restare a bocca aper ta di fronte a quello spettacolo. E sarebbe stato proprio in quell’occasione che le previsioni dell’astrologo si sarebbero rivelate vere. Nessuno si rende conto di vivere un momento cruciale mentre sta succedendo. Quel che accadde lo fece, come succede spesso, senza squilli di tromba. Me ne stavo seduta tranquilla in un angolo della zenana, immersa in tutto quello splendore. Ero assetata e avevo caldo, 117 perciò mi alzai e mi diressi furtivamente verso un’apertura della tenda per prendere un po’ d’aria. Scostai il telo e sbirciai fuo ri; una brezza leggera mi accarezzò il viso. Ricordo che stavo ammirando l’infinità di stelle in cielo, quando sentii una voce. «Ti annoi?» Mi voltai e vidi accanto a me una ragazzina. Capii dalle perle che aveva attorno al collo e dal diadema fra i capelli ondulati che si trattava della figlia di qualche potente. «No, certo che no» mi affrettai a dire. «Sì, invece! L’ ho capito perché anche io mi sto annoiando.» Incrociai timidamente lo sguardo col suo. Ci fissammo per qualche secondo, come se ci stessimo facendo una radiografia a vicenda. «Perché non andiamo a fare un giro?» «Non possiamo!» risposi io, terrorizzata. «Perché no? Ci sono così tante donne qui dentro che nessuno ci noterà.» I suoi bellissimi occhi scuri, screziati d’ambra, mi stavano sfidando. Feci un profondo respiro, perfettamente cosciente del guaio in cui mi sarei cacciata se qualcuno si fosse accorto della mia assenza. Ma nonostante quelle sagge riflessioni, annuii. «Dobbiamo evitare le luci, altrimenti ci scopriranno di si curo» sussurrò. «Vieni.» E poi mi prese per mano. Ricordo ancora come le sue lunghe dita sottili si intrecciaro no alle mie. La guardai e vidi un lampo di furbizia attraversarle gli occhi. Le mie dita si chiusero attorno alle sue e i nostri palmi si unirono. Una volta fuori, la mia nuova amica indicò in direzione di un campo. «Vedi là? È dove stanno cenando i maharaja.» I dintorni della tenda centrale del durbar erano illuminati da 118 decine di candele riparate in lanterne di vetro, che lanciavano bagliori tra le sagome scure degli alberi e le piante dei giardini esotici. Fu proprio verso quel punto che mi trovai a correre, l’erba soffice che mi solleticava i piedi. Sembrava che quella bambina sapesse esattamente dove andare, quando infine arrivammo all’enorme tenda. Corse lungo un lato, per ripararsi nell’ombra, poi si inginocchiò e sollevò la pesante tela. Si sporse in avanti e guardò attraverso il piccolo spazio. «Per favore, sta’ attenta, potrebbero vederci» le dissi. «Nessuno si metterà a guardare per terra» disse lei ridac chiando e tirando ancor più su la tenda. «Vieni. Ti mostro mio padre. Per me è il più bello di tutti i maharaja.» La ragazzina mi fece prendere il suo posto, io afferrai la spes sa tela e sbirciai. Dentro, non vidi altro che tanti piedi maschili ingioiellati. Ma non volevo deludere la mia nuova amica. «Sì!» dissi. «È davvero un bellissimo spettacolo.» «Se guardi sulla sinistra, vedrai mio padre.» «Sì, sì» esclamai, guardando la fila di caviglie. «L’ ho visto.» «Sono sicura che è più bello di tuo padre!» disse con gli occhi luccicanti. Allora mi resi conto che quella ragazzina credeva fossi una principessa, e che il maharaja di Jaipur fosse mio padre. Scossi tristemente la testa. «Mio padre non è qui; è morto.» La sua mano calda strinse di nuovo la mia. «Mi dispiace tanto.» «Grazie.» «Come ti chiami?» mi chiese. «Anahita, ma tutti mi chiamano Anni.» 119 «Io sono Indira, Indy.» Sorrise. A quel punto si stese com pletamente a terra a pancia in giù, puntando la testa contro le mani. «Allora chi sei?» I suoi occhi, brillanti come quelli di una tigre, mi studiarono attentamente. «Sei molto più bella delle altre principesse di Jaipur.» «Oh, non sono una principessa» la corressi. «Mia madre è cugina di secondo grado della maharani di Jaipur. Quando mio padre è morto, due anni fa, siamo andate ad abitare nella zenana del palazzo. «Purtroppo per me,» disse alzando un sopracciglio «io in vece sono una principessa. La figlia più piccola del maharaja di Cooch Behar.» «Non ti piace essere una principessa?» le domandai. «No, a dire il vero no.» Improvvisamente, ma con un gesto aggraziato, Indira si girò sulla schiena e si mise a osservare le stelle con le mani dietro la testa. «Preferirei essere una doma trice di tigri del circo, credo.» Io ridacchiai. «Non ridere,» mi avvertì «sono seria. Mia madre dice che sono una pessima principessa. Mi sporco sempre e mi caccio nei guai. Sta pensando di spedirmi in un collegio in Inghilterra per farmi imparare le buone maniere. Le ho detto che se lo facesse io scapperei.» «Perché? A me piacerebbe tanto vedere l’Inghilterra. Non ho mai viaggiato» confessai malinconica. «Beata te. Noi siamo sempre in viaggio. Vedi, mia madre è una persona molto socievole, e ci trascina in giro insieme a lei in tutto il paese e in Europa. Io, invece, vorrei poter restare sempre nel nostro bel palazzo a prendermi cura degli animali. Se non potrò diventare una domatrice di tigri, allora mi piacerebbe fare il conduttore di elefanti e vivere con la mia bestia. Ad ogni mo 120 do, sappi che odieresti l’Inghilterra. È grigia, fredda e nebbiosa, e tutti in famiglia finiscono per prendersi sempre il raffreddore, soprattutto mio padre.» Indira sospirò. «Mi preoccupo molto per la sua salute. Parli inglese, tu?» mi domandò. Iniziai ad accorgermi che, quando parlava, Indira saltava di palo in frasca. «Sì.» Scattò sulle ginocchia e mi tese una mano. «Piacere di cono scerla» disse, imitando alla perfezione l’accento inglese. «Dav vero, sono molto felice di fare la sua conoscenza.» Io le strinsi la mano e i nostri palmi si unirono di nuovo. «Il piacere è tutto mio» risposi, guardandola dritto negli occhi. E all’improvviso ci lasciammo cadere entrambe sull’erba, in preda alle risate. Quando riuscimmo a calmarci, mi resi conto che dovevo tornare alla zenana, prima che qualcuno si accorgesse della nostra assenza. Mi alzai in piedi. «Dove vai?» mi chiese. «Torno alla nostra tenda. Finiremo entrambe nei guai se scoprono che siamo scappate.» «Oh,» rispose Indira «sono abituata a finire nei guai. Anzi, penso proprio che non si aspettino altro da me.» Avrei voluto dirle che, non essendo una principessa ma solo una dama di compagnia, io non potevo permettermelo. «Solo cinque minuti» mi pregò. «Fa così caldo ed è così noioso là dentro. Allora,» proseguì «con chi ti sposerai?» «Ancora non è stato deciso» risposi stoicamente. «Beata te. Io ho già incontrato il mio futuro marito, ed è vecchio e bruttissimo.» «E lo sposerai? Anche se è vecchio e brutto?» «Mai! Io voglio trovare un bel principe che mi ami e che mi permetta di tenere le tigri» aggiunse con un sorrisetto. «Anche io voglio trovare il mio principe» dissi piano. 121 Dunque eccoci, due ragazzine che guardavano il cielo stella to, sognando i loro bellissimi principi. Certe persone dicono che sarebbe bello conoscere il proprio futuro. Ma ripensando a quel momento di pura innocenza infantile, stesa sull’erba insieme alla mia amica, sono felice che non sia stato così. 122