AFFIANCARE LE FAMIGLIE FRAGILI Pompei
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AFFIANCARE LE FAMIGLIE FRAGILI Pompei
AFFIANCARE LE FAMIGLIE FRAGILI Pompei - 15 maggio 2015 Iniziamo con una storia «Don Paolo, ho bisogno del tuo aiuto. Non so come fare». Elena ha 49 anni. Vive in un piccolo centro alle porte di Vicenza, con sua figlia Priscilla, di 10 anni, e la sua anziana e ammalata madre, Dora, di 80 anni. Lavora come impiegata nel settore amministrativo di un ospedale. La sua è una storia complicata. Lo dichiara esplicitamente lei stessa in un’intervista: «La mia vita non è stata facile, soprattutto per la mia malattia degenerativa al fegato. Preferisco andare per gradi. Ho vissuto talmente tante esperienze al limite, da trovarmi spesso in uno stato di confusione. Nel 1998 mia madre viene operata d’urgenza per un tumore al seno. La mia vita cambia all’improvviso. Il mio punto di riferimento crolla sotto l’effetto delle terapie. Mi sentivo disperata, impotente e abbandonata. Mio padre era morto 6 anni prima lasciando sole me e mia madre (io, infatti, sono figlia unica). Non potevo cedere. Mia madre aveva bisogno del mio sostegno. Sarà stato un caso, ma qualche settimana dopo l’inizio della chemioterapia, vengo chiamata dalla direzione del personale dell’azienda dove lavorava mia madre. Occorreva “sistemare” la sua posizione per consentirle di andare in prepensionamento. Mi industrio, spostandomi di ufficio in ufficio, e riesco a concludere le pratiche necessarie. Mia madre riesce a rientrare nella prima finestra utile e almeno la sua situazione pensionistica era a posto. Presso l’ultimo degli sportelli del servizio a cui mi ero rivolta per gestire le pratiche, conosco Oreste. Lui è il padre di mia figlia. In quel momento di grande stress e sofferenza, la sua vicinanza mi appare una manna scesa dal cielo. Mi ci sono aggrappata con tutte le mie forze, ma non ha mai funzionato fino in fondo. Non so dirle bene perché. Al termine della degenza di mia madre, decidiamo di stabilizzare il legame. L’anno successivo Oreste si trasferisce a casa mia. La convivenza è burrascosa. Dopo cinque anni arriva la gravidanza. Lui non se la sente. Io decido di tenerla. A ogni costo». A questo punto Elena si interrompe e piange. Mi spiega, asciugandosi le lacrime, che, tre anni dopo, la storia finisce e lui la lascia con la figlia e la madre: «Da quel momento iniziano i miei problemi. Mi ritrovo di nuovo sola. Mia madre debilitata e sofferente, mia figlia di appena tre anni con le sue necessità. Il padre totalmente disinteressato. Io non me la sento di lasciarla alle cure di un’anziana mentre vado al lavoro. E poi, come se non bastasse, l’aggravamento della mia malattia. Lo specialista che mi segue mi prescrive una terapia che si esegue solo nell’ospedale di un’altra città, distante circa 50 chilometri da casa mia». Elena è costretta a chiedere aiuto. Non sa come uscire da questa impasse: dove deve lasciare sua figlia? Chi si prende cura della madre? Inizialmente si rivolge a don Paolo, il suo parroco, il quale accoglie il suo grido di aiuto e ascolta il “fiume in piena” che sgorga dalle sue paure e da un senso profondo di disperazione. Prova con lei a fotografare le difficoltà nelle quali si sente avvinghiata e a leggere il “fantasma” più temuto: il possibile allontanamento di Priscilla a causa della sua indigenza. Prima che la situazione possa precipitare, e con non poche rassicurazioni, soprattutto da parte dei 1 responsabili della Caritas e di alcune coppie della pastorale familiare, Elena decide di rapportarsi ai Servizi sociali. Don Paolo l’accompagna al colloquio per tranquillizzarla e garantire la vicinanza sua e di tutta la comunità. La situazione è delicata e il solo supporto informale assicurato dalle famiglie della parrocchia e dalle diverse associazioni si rivela insufficiente. Occorre un intervento maggiormente strutturato e cautelativo. Dopo un’attenta valutazione del caso, gli assistenti sociali le propongono due opzioni: o acconsentire a un affido temporaneo della piccola, nell’attesa di ripianare le difficoltà di salute e organizzative; o essere affiancata da un’altra famiglia (chiamata “risorsa” o “solidale”). Lei non se la sente di separarsi dalla sua bambina. Allo stesso tempo, però, grazie alla vicinanza di don Paolo, comprende la gravità della sua situazione e la necessità di un aiuto concreto. Accetta un po’ intimorita la seconda proposta. Non capisce bene di cosa si tratti, ma da quel momento, nella sua storia, entra un raggio di luce: «Maria e Alberto (questa coppia che mi affianca) si occupano di Priscilla quando sono al lavoro o mi allontano per curarmi. Sono contentissima. Avevo bisogno di una sicurezza per mia figlia e loro me l’hanno garantita. È una bella famiglia. Mi confronto su ogni cosa e loro mi sono vicini. Mi stanno aiutando anche a sostenere le cure di mia madre. Spesso mi accompagnano a fare gli esami di routine e a sbrigare alcune pratiche». Insomma, una prima boccata d’aria che orienta verso la ripresa. I figli di Maria e Alberto sono adolescenti. Frequentano le scuole superiori e prendono a cuore la piccola Priscilla: la seguono nei compiti e giocano con lei. Spesso, le due famiglie trascorrono la domenica insieme. Condividono un pasto in allegria, spendono il pomeriggio giocando e passeggiando. La famiglia solidale fa parte della parrocchia di don Paolo. La fragilità familiare Quella di Elena è una vicenda come tante. Tuttavia, l’intreccio aggrovigliato di situazioni nelle quali è coinvolta, porta alla luce uno tra i problemi più diffusi e meno conosciuti nell’attuale contesto socio-culturale, sia nazionale sia internazionale: la fragilità delle famiglie con minori. Si tratta di una condizione di difficile valutazione: spesso è sommersa, silenziosa, invisibile, paragonabile a una sorta di zona grigia avvolta da indifferenza, eppure in costante crescita. Ad assumere il ruolo di protagonisti indiscussi nelle loro vite, si affermano una serie di pungoli fastidiosi (quanto minacciosi): la perdita del lavoro o della casa, i disagi economici di ogni tipo; le difficoltà di comunicazione interpersonale (tra la coppia coniugale e/o tra genitori e figli), la debolezza del legame di coppia e i rapporti burrascosi con le rispettive famiglie di origine o con alcune istituzioni sociali (come, per esempio, la scuola); la presenza di una malattia invalidante e/o degenerativa, o di eventi inattesi e non normativi come la separazione e il divorzio; l’incapacità della gestione educativa e relazionale dei figli e l’assenza di contatti con la comunità sociale di riferimento. Ciascun pungolo offre una marcia in più per accelerare l’isolamento, la sfiducia, la disperazione. Aspetti che, radunati sotto lo stesso tetto, sfilacciano gli equilibri interni, portano al collasso il funzionamento familiare e minano lo sviluppo di chi è più indifeso: il bambino. 2 Che fare? Di fronte a uno scenario così compromesso (e non intercettato in tempi precedenti), i Servizi sociali sono tenuti a intervenire. Nella maggior parte dei casi (nonostante l’impegno a garantire l’unione familiare) optano per l’allontanamento dei minori dal loro nucleo originario affinché vengano affidati o a un’altra famiglia (affidamento familiare) o a una comunità di accoglienza, entrambe disponibili a cautelare la crescita emotiva, affettiva e cognitiva del bambino. Essendo questi provvedimenti temporanei (secondo la Legge 149/2001 non devono superare i 24 mesi), nell’attesa che i figli facciano rientro a casa, i genitori vengono accompagnati a comprendere le loro difficoltà e a impegnarsi in percorsi di rilancio dei legami. La collaborazione con la famiglia naturale Nel corso del tempo l’affidamento familiare ha attraversato fasi alterne, ma, a oggi, resta uno strumento prezioso per la tutela dell’infanzia. Anche se non l’unico. Infatti, il percorso della tutela dei diritti del minore sta entrando in una nuova fase. Secondo diversi studi, l’obiettivo della protezione del minore tende a essere associato in modo sempre più esteso a quello della tutela e promozione dei suoi legami. Per lungo tempo i Servizi sociali hanno mostrato nei confronti della famiglia di origine del bambino un atteggiamento colpevolizzante, ritenendola inadeguata perché causa dei traumi subiti dal figlio. Oggi, invece, sta pian piano disegnandosi una prospettiva secondo cui la collaborazione con la famiglia naturale del piccolo va vista come un importante obiettivo da raggiungere per un benessere relazionale che comprende il minore e le sue reti affettive. La riflessione clinico-sociale sta esplorando nuove soluzioni per garantire una più efficace tutela dei bambini e dei ragazzi che vivono situazioni di rischio, per ridimensionare l’allontanamento da casa e per aiutare i genitori a superare le difficoltà coniugali e/o educative nei confronti dei figli. Non va trascurato, inoltre, un elemento fondamentale: le famiglie che domandano aiuto ai Servizi, spesso esprimono una multi problematicità (non sempre patologica) che necessita di essere valutata secondo un’ottica relazionale. In questo senso, diviene cruciale il lavoro con le famiglie fragili, sia nell’ambito della prevenzione, allo scopo di evitare l’acuirsi dei problemi e degli effetti dannosi per lo sviluppo e il benessere dei piccoli, sia per ciò che riguarda l’affiancamento e il sostegno, al fine di migliorare o affinare le competenze genitoriali (e/o coniugali). Nuovi interventi per sostenere la famiglia nel suo insieme Poste queste premesse, possiamo introdurci all’interno delle pratiche che allargano il raggio d’azione a tutta la famiglia in difficoltà e che si avvalgono, oltre al contributo di operatori qualificati, anche di un sostegno non professionale, rappresentato da altre famiglie che scelgono di mettersi in gioco per aiutare chi vive momenti di difficoltà (relazionale, coniugale, educativa, economica, etc.). Tali pratiche non si focalizzano soltanto sul bambino, ma chiamano in causa tutti i membri del nucleo familiare cercando di valorizzarne risorse, abilità e competenze. E, allo stesso tempo, pongono in evidenza il contributo significativo delle famiglie risorsa o solidali che, a motivo della loro disponibilità ad accogliere, affiancano i 3 nuclei familiari fragili per sostenerli nel processo di elaborazione del disagio, di riconoscimento dei loro limiti e delle loro potenzialità, e di recupero del legame. In ciascuno degli interventi, si porrà in risalto la preziosità della relazione come luogo di incontro e di cura e l’importanza dell’aiuto fornito in modo discreto e flessibile. La cornice teorica di riferimento aiuterà a riflettere su un passaggio di fondo: dall’affidamento all’affiancamento. Ne vediamo insieme alcuni: 1 - Il Multifamily Approach è una metodologia di lavoro pensata per le famiglie multiproblematiche. Nasce a metà degli anni ’70 presso il Marlborough Family Service di Londra dalle intuizioni di Alan Cooklin, poi riprese e sistematizzate da Eia Asen. L’approccio multifamiliare si struttura a partire da una precisa considerazione: i disagi espressi dalle famiglie multiproblematiche (quei nuclei seguiti dai Servizi a seguito di provvedimenti di allontanamento; famiglie che presentano differenti problemi quali l’abuso fisico, sessuale ed emotivo, la negligenza, l’emarginazione sociale, la povertà, la disoccupazione, l’abuso di alcool e di altre sostanze, la violenza) non derivano da difficoltà di natura esclusivamente psicologica, in quanto a queste si associano difficoltà nell’area delle competenze educative e relazionali. Tale approccio propone un modello di lavoro che mette al centro le famiglie, considerate protagoniste principali dell’intero intervento. La metodologia si focalizza primariamente sulle risorse esperienziali e sulle capacità possedute da ciascun nucleo familiare (portato a riflettere sulle stesse grazie alla condivisione con altre famiglie che vivono le stesse difficoltà). Alle famiglie viene offerta la possibilità di sperimentarsi in contesti buoni di vita quotidiana, all’interno di un setting multifamiliare appositamente pensato. In sostanza, il programma prevede che un ristretto gruppo di famiglie (da 4 a 7 nuclei) si riunisca e partecipi contemporaneamente a un ciclo intensivo di day unit dove, condividendo alcune giornate in una dimensione di reciprocità, possano riscoprire le proprie competenze aiutandosi a vicenda nell’organizzare e gestire la giornata e nel far fronte alle difficoltà che emergono nella quotidianità della relazione genitori-figli. L’intervento è intensivo e multi contestuale, sia in relazione ai luoghi in cui si svolge (per es.: il Centro Multifamiliare, luoghi di vita delle famiglie, spazi di aggregazione pubblici) sia per le modalità di lavoro in setting di condivisione: in gruppo di famiglie, per singoli nuclei o per genitori da un lato e figli dall’altro. Sono i Servizi che la seguono a proporre alla famiglia di partecipare a un progetto multifamiliare. Prima dell’avvio del ciclo intensivo è previsto un network meeting iniziale che coinvolge i professionisti, la famiglia e le figure significative indicate da quest’ultima. L’obiettivo di questo primo incontro consiste, oltre alla possibilità di riunire insieme tutte le persone interessate, nella condivisione delle preoccupazioni relative a quella determinata condizione familiare, sia ascoltando la voce dei professionisti sia il parere della famiglia interessata, per poi arrivare a una definizione comune del problema e all’individuazione di obiettivi di lavoro concreti sulla base delle aspettative di tutti i protagonisti coinvolti. Molta importanza è data 4 alla possibilità di parlare apertamente, con chiarezza e senza alcuna previa conversazione tra operatori, ma condividendo fin dal principio del percorso le informazioni con la famiglia e gli altri significativi rendendole comprensibili a tutti. Gli incontri di rete allargati sono riproposti anche in seguito, sia in fase di monitoraggio dell’intervento sia in fase di valutazione degli obiettivi. Dopo il network meeting iniziale, viene definito il calendario degli incontri multifamiliari, compreso tra le 6 e le 12 settimane. Una giornata multifamiliare può essere suddivisa nei seguenti momenti: 1) gruppi multifamiliari all’inizio della giornata, in cui ciascuno è stimolato a confrontarsi con i presenti su desideri e obiettivi concreti che ci si pone in relazione alle altre famiglie e alla propria partecipazione; 2) realizzazione delle attività scelte insieme avvalendosi di setting differenti (per nuclei familiari, in gruppi paralleli genitori-figli, come gruppo multifamiliare); 3) preparazione e pranzo in gruppo multifamiliare; 4) uscite di gruppo in contesti pubblici di socializzazione (supermercato, parco, oratorio, biblioteca, centro città, ecc.); 5) gruppo multifamiliare alla fine della giornata intensiva, per riflettere su quanto fatto insieme e dare reciprocamente feedback (operatori e famiglie) che agevoleranno la partecipazione alle giornate successive. La metodologia prevede anche la possibilità di organizzare incontri multifamiliari soltanto per i genitori. Ciò consente di avviare una riflessione sulle difficoltà incontrate con i propri figli e sulle strategie adottate (o da pensare) per affrontarle, oltre che sui temi legati alla genitorialità individuati e poi condivisi dai partecipanti. Va precisato che le famiglie sono accompagnate nell’intero percorso da operatori dotati di qualifiche diverse, il cui compito non consiste tanto nell’intervenire a sostegno delle carenze dei singoli, quanto nel facilitare le relazioni tra le famiglie e fornire feedback che aiutino a rileggere le dinamiche che scaturiscono nel gruppo. Si innescano dei cambiamenti: negli operatori, che da valutatori/risolutori delle difficoltà diventano accompagnatori e facilitatori; nelle famiglie, che da utenti e fruitori di interventi di sostegno/controllo (quindi da persone aiutate) diventano aiutanti delle altre famiglie in una posizione di sostanziale parità. La presenza di altre famiglie che vivono simili situazioni di vulnerabilità e fragilità nella cura e nell’accudimento dei figli permette ai genitori e ai bambini/ragazzi di uscire da una situazione di isolamento, di aprirsi a un confronto libero e non intaccato da giudizi e valutazioni e di promuovere dinamiche di auto-mutuo aiuto nel gruppo, scambiandosi feedback e trovando insieme soluzioni alle difficoltà quotidiane. Gli obiettivi dell’approccio multifamiliare sono diversi: superare l’emarginazione e lo stigma; creare forme di solidarietà; fornire sostegno e feedback reciproco; creare punti di vista nuovi e molteplici e imparare gli uni dagli altri; promuovere il coinvolgimento attivo dell’utente; favorire il passaggio dall’aiutato all’aiutante; sperimentare relazioni sostitutive; iniettare speranza. Esperienze di applicazione del Multifamily Approach sono rintracciabili in numerosi contesti internazionali. Ben 7 Paesi europei hanno ottenuto un finanziamento con fondi del Programma Daphne (2004-2008) per promuovere lo sviluppo dell’approccio. I partner del progetto sono stati Belgio, Inghilterra, Germania, Danimarca, Francia, Polonia e Italia con l’esperienza del Centro di Trattamento Multifamiliare dell’ASL di Milano. Sempre in 5 Italia (seconda fase del progetto), a oggi sono presenti 4 esperienze di attivazione di Centri Multifamiliari. Nel 2001 nasce a Milano il Centro Trattamento Multifamiliare dell’ASL Città di Milano (terminato nel 2006). Nel 2004 il Centro del Bambino e della Famiglia dell’ASL di Bergamo vive un’esperienza simile, mentre nel 2008 anche il Comune di Sondrio è partito con un progetto di terapia multifamiliare. Nel 2009 nasce a Varese un nuovo Centro Multifamiliare dalla collaborazione tra l’Amministrazione comunale e la Cooperativa sociale La Casa davanti al sole. 2 - Le Family Group Conference. Basate sul coinvolgimento tipico del Multifamily Approach, le Family Group Conference costituiscono un modello d’intervento innovativo, adottato in prevalenza nell’ambito della tutela minorile. Abbracciano un approccio partecipativo alla soluzione dei problemi (family decision making) e si propongono come un valido strumento per lavorare con le famiglie. Nascono in Nuova Zelanda per rispondere alla necessità dei professionisti di individuare un modo meno oppressivo di lavorare con le famiglie Maori nell’ambito della protezione del minore. Secondo uno studio condotto nel 2005, le Family Group Conference vengono utilizzate anche in altri 17 Paesi. Accanto alla Nuova Zelanda, infatti, questo approccio è stato utilizzato in diversi Paesi del Nord Europa, nel Regno Unito e nella Repubblica di Irlanda, in Australia, in Canada e negli Stati Uniti. In linea generale, si ricorre a una Family Group Conference quando si deve pendere una decisione riguardante il benessere di un minore che si trova a vivere una situazione di rischio o pregiudizio. Sinteticamente può essere definita come un incontro fra tutti i componenti della famiglia, gli operatori della tutela minorile e altre persone legate al nucleo familiare, per pianificare l’assistenza e la protezione di minori considerati a rischio di abuso e trascuratezza. Mette assieme le conoscenze della famiglia riguardo i bisogni, i rischi e le risorse (percepiti come tali nel contesto familiare) con i professionisti rilevanti in quella situazione e le loro conoscenze sui rischi, i bisogni e le risorse, in un incontro strutturato per fare in modo che la famiglia possa avere un’influenza sulle decisioni. La Family Group Conference, inoltre, si basa sulla convinzione che la famiglia, se le vengono fornite le giuste risorse, in termini di informazioni e sostegno per aiutarla a partecipare all’incontro, saprà prendere decisioni sicure e appropriate per i propri bambini e manterrà il rapporto con loro per tutta la vita. In situazioni molto gravi in cui lo Stato è costretto a intervenire perché ci sono dubbi sulla sicurezza e sullo sviluppo dei bambini, il ruolo dei professionisti è cruciale. Le Family Group Conference non si limitano semplicisticamente a scaricare la responsabilità sulla famiglia. Il modello prevede che molti genitori abbiano bisogno di aiuto per crescere i loro figli. Per poter ottenere tale aiuto non è necessario che vengano considerati nocivi o incapaci (o che rischiano di diventarlo). L’approccio delle Family Group Conference considera le famiglie potenzialmente dotate di punti di forza e capacità che possono emergere agli occhi dell’operatore nel corso del processo. In sostanza, ci si aspetta che, con il necessario supporto, fornendo informazioni importanti per decidere, molte famiglie siano in grado di prendersi cura di loro stesse, in collaborazione con i Servizi. Va osservato che i modelli d’indagine psico-sociale 6 basati sui soli elementi di deficit (che isolano i minori e le famiglie dalle proprie reti), contribuiscono a oscurare i punti di forza della famiglia. L’idea di famiglia alla base del modello presenta confini ampi: coinvolge, oltre ai parenti, anche gli amici, i colleghi, i vicini di casa e altre persone (insegnanti, allenatori) che i genitori e il bambino sentono come significative all’interno della loro vita e che potrebbero aiutarli. Il carattere di novità contenuto nel programma coincide con una particolare concezione della tutela minorile, differente rispetto a quella diffusa all’interno dei Servizi. Essa va oltre il comune approccio specialistico (centrato sul sapere dell’operatore) per aprirsi al coinvolgimento di altri attori e relazioni significative a partire dalla famiglia. Oltre a quest’ultima, protagonista del processo, diversi sono gli attori che prendono parte alla Family Group Conference e collaborano alla sua realizzazione. Tra questi, un ruolo cruciale è svolto dal coordinatore (co-ordinator) e dall’operatore di advocacy (advocate). Al coordinatore è affidata la regia del processo. Gestisce la Family Group Conference dall’inizio alla fine, dalla fase di preparazione a quella di facilitazione vera e propria, con l’obiettivo di sostenere la famiglia nel suo importante compito di progettazione. Le sue azioni puntano al coinvolgimento del minore, della famiglia, degli operatori dei Servizi e degli altri legami significativi che potrebbero contribuire all’elaborazione del progetto di tutela. La sua figura è neutrale e indipendente. Non deve essere coinvolto in altri procedimenti decisionali riguardanti la famiglia in questione. Inoltre, aiuta i familiari e i professionisti a costruire un’alleanza operativa su un piano d’intervento concordato e a raccogliere ottimismo e speranze per il futuro. Non gli sono richieste particolari competenze professionali, ma considerevoli abilità nelle relazioni interpersonali e qualità caratteriali come l’apertura, l’accoglienza e la fiducia nelle capacità della famiglia. Deve essere ben visto e considerato, degno di rispetto e fiducia da parte di tutti gli operatori coinvolti. L’operatore di advocacy affianca e sostiene il minore e, se necessario, i suoi genitori. È chiamato a dare voce ai pensieri e alle opinioni dei bambini affinché possano essere ascoltati e trovino un posto concreto nell’elaborazione del progetto di tutela. Può essere un professionista del servizio di Family Group Conference o un volontario. Il modello delle Family Group Conference fa riferimento a specifiche linee guida (Barnardo’s, FamilyRights Group e NCH, 2002), che hanno come fine quello di garantire un buon livello informativo alla famiglia rispetto a cosa sono e a come funzionano le Family Group Conference. Il processo è suddivisibile in 4 fasi distinte ma strettamente connesse l’una con l’altra che, per la buona riuscita dell’intero percorso, richiedono un’azione sinergica dei diversi attori coinvolti. 1. La segnalazione della famiglia. Sono gli operatori del Servizio di tutela minorile a segnalare il nucleo familiare da loro seguito al servizio di Family Group Conference, una volta conclusa la valutazione della situazione e su espresso consenso della famiglia. Si ritiene che l’abilità con cui l’operatore segnalante spiega ai genitori la finalità della Conference abbia una notevole incidenza sull’adesione. Va chiarito il motivo per cui i Servizi si preoccupano per loro con un linguaggio rispettoso, senza prefigurare il piano di interventi o gli esiti. È una fase fondamentale perché è solo a 7 partire dalla fiducia degli operatori in questa modalità (orientata a valorizzare e responsabilizzare la famiglia) che una Family Group Conference può realizzarsi. 2. La preparazione. È una fase cruciale per tutti gli attori coinvolti. Il coordinatore lavora in stretta collaborazione con il minore, la sua famiglia e i Servizi sociali segnalanti per identificare la rete familiare e le persone che si desidera invitare. Incontra tutti i partecipanti e spiega loro in cosa consiste la Conference e il senso della loro presenza. Raccoglie il punto di vista dei minori, dei genitori e degli altri componenti della famiglia, ma anche le opinioni dei professionisti. Decide insieme ai partecipanti le questioni organizzative legate a data, ora e luogo dell’incontro. 3. L’incontro vero e proprio. Questo è il cuore dell’intervento, il momento in cui tutte le persone interessate a costruire una situazione di maggior benessere per il minore si riuniscono con lo scopo di elaborare un progetto di tutela efficace e sostenibile in favore del minore e dei suoi genitori. Prevede 3 tappe: a) apertura dell’incontro e condivisione delle informazioni (all’avvio dell’incontro il coordinatore presenta tutti i partecipanti e ciascuno spiega in che rapporto è con il minore; i professionisti sottolineano gli elementi di rischio che colgono nella situazione, le informazioni sulla famiglia, i loro compiti istituzionali e le risorse a disposizione per realizzare il progetto di tutela; in questa fase vengono fissate le basi per la creazione di un clima sereno e accogliente, caratterizzato da collaborazione e sostegno reciproco; la famiglia, in particolare, deve poter riconoscere gli operatori come figure disposte ad aiutarla e non come agenti valutanti le sue capacità di cura; dopo l’apertura, il coordinatore esplicita le finalità dell’incontro, dando spazio a eventuali richieste di chiarimento, e ribadisce i requisiti che il progetto di tutela dovrà presentare per essere approvato; successivamente, si passa ad ascoltare le informazioni fornite da quei partecipanti invitati alla Conference, in accordo con la famiglia, che possono contribuire a chiarire e ad affrontare il problema presente perché coinvolti nella situazione attraverso interventi specifici; alla famiglia viene garantito lo spazio necessario per porre domande agli operatori o al coordinatore, in modo da capire bene il compito che la attende); b) tempo riservato alla famiglia (si invita la famiglia a discutere in privato, in assenza dei professionisti e delle altre persone, per tracciare autonomamente un progetto di tutela, che a suo avviso potrebbe funzionare, in cui sia indicato in concreto come i membri potranno reciprocamente aiutarsi nel curare il figlio; il progetto deve tener conto delle questioni sollevate dall’operatore che ha segnalato il caso e delle condizioni di tutela ritenute indispensabili per il servizio di tutela minorile; il coordinatore resta a disposizione della famiglia che può richiedere il suo aiuto nel caso in cui incontri difficoltà o abbia dubbi da chiarire); c) approvazione del progetto di tutela (ultimata l’elaborazione del piano, il coordinatore, l’operatore di advocacy, gli operatori sociali della tutela e gli altri rientrano in gruppo per ascoltare la proposta della famiglia e discuterne insieme; di solito è necessario un minimo di negoziazione prima di raggiungere un accordo e di avere l’approvazione da parte dell’operatore referente della situazione; l’unico motivo che giustifica la disapprovazione del progetto da parte dei professionisti è l’assenza delle condizioni di sicurezza per il minore; il coordinatore dovrà accertarsi che ciascuno abbia compreso gli accordi e fornirgli in tempi rapidi una copia del 8 piano); d) monitoraggio e verifica del progetto (il piano deve specificare in che modo si controllerà l’attuazione di quanto stabilito e verificare come stanno procedendo le cose; nel corso dell’incontro verrà proposta alla famiglia la possibilità di fissare una Family Group Conference di verifica che avverrà con le stesse modalità della prima). La Family Group Conference, dunque, si basa sull’assunto che la maggior parte delle famiglie vuole fare ciò che è bene per i propri membri, ma trova che gli interventi decisionali dei professionisti le impediscano di assumersi la propria responsabilità. Il pregio di questo intervento è quello di costituire un contesto in cui i diritti e gli interessi delle famiglie, da un lato, e dei minori, dall’altro, vengono messi assieme alle conoscenze, alle abilità e alle risorse del sistema professionale. La famiglia viene valorizzata nella sua capacità di assumere decisioni efficaci in grado di modificare la storia familiare. In questo modo si ha la possibilità di condividere la gestione dei rischi e, allo stesso tempo, di far accuratamente corrispondere gli interventi con i bisogni, e la famiglia, sostenuta da una rete di relazioni significative (fra cui quella con gli operatori), diventa capace di occuparsi in maniera sufficientemente buona dei propri bambini. 3 – Abbastanza simile alle prospettive appena evidenziate è il Progetto PIPPI. Frutto di una collaborazione tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, il Laboratorio di ricerca e intervento in educazione familiare dell’Università di Padova e i Servizi di protezione e tutela dei minori (cooperative del privato sociale, scuole e Asl) delle 10 Città italiane che hanno aderito alla sperimentazione (Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Torino, Venezia), il progetto ha l’obiettivo di innovare le pratiche di intervento nei confronti delle famiglie negligenti e di ridurre il rischio di maltrattamento e il conseguente allontanamento dei bambini dal nucleo familiare, articolando in modo coerente i diversi ambiti di azione coinvolti intorno ai bisogni dei bambini che vivono in tali famiglie, tenendo in ampia considerazione la prospettiva dei genitori e dei bambini stessi nel costruire l’analisi e la risposta a questi bisogni. L’obiettivo primario è quello di aumentare la sicurezza dei bambini e migliorare la qualità del loro sviluppo scommettendo su un’ipotesi di contaminazione fra ambito della tutela dei minori e sostegno alla genitorialità. L’acronimo PIPPI si rifà a Pippi Calzelunghe, immagine che crea un orizzonte di senso centrato sulle possibilità di cambiamento della persona, sull’importanza delle reti sociali, dei legami affettivi, delle possibilità di apprendimento e recupero anche nelle situazioni di fragilità. La popolazione interessata è costituita da famiglie negligenti. Se la questione principale è che i genitori trascurano i loro figli, l’intervento di allontanamento, che espropria i genitori della competenza genitoriale rimettendola al Servizio, non sembra essere l’intervento più appropriato. Diviene necessario sperimentare una risposta sociale che: metta al centro i bisogni di sviluppo dei bambini (e non solo problemi e rischi); organizzi gli interventi in maniera pertinente, unitaria e coerente a tali bisogni, capace di tenere conto degli ostacoli e delle risorse presenti nella famiglia e nell’ambiente secondo una logica progettuale centrata sull’azione e la partecipazione di bambini e genitori all’intervento; nel 9 tempo opportuno, che si collochi in un momento della vita della famiglia a cui davvero serve e che sia quindi tempestiva e intensiva, con una durata nel tempo definita. L’équipe è la risorsa maggiore messa a disposizione dal programma. È multidisciplinare e comprende l’assistente sociale del Comune, lo psicologo dell’Asl, l’educatore domiciliare, una famiglia d’appoggio, l’insegnante e, se possibile, il pediatra e qualunque altro professionista ritenuto pertinente, oltre che la stessa Famiglia Target. I dispositivi d’azione riguardano il sostegno professionale individuale e di gruppo rivolto ai bambini, ai genitori e alle loro relazioni e il sostegno professionale e paraprofessionale. In modo specifico: l’educativa domiciliare, i gruppi per genitori e bambini, le attività di raccordo fra scuola e servizi, la famiglia d’appoggio. La logica che sostiene questo impianto è che servizi integrati, coerenti fra loro e tempestivi siano predittori di efficacia. Questi 4 dispositivi si incardinano su un quinto che li connette e ne consente l’efficacia e la misurabilità, ossia il dispositivo della valutazione partecipativa e trasformativa dei bisogni di ogni famiglia. In questo dispositivo, tutti i soggetti dell’équipe (the team around the child) avviano un processo di riflessione, esplicitazione e attribuzione condivisa di significato alle osservazioni e ai comportamenti in oggetto. Creare contesti di valutazione trasformativa vuol dire rendere le famiglie protagoniste nella costruzione dei significati di tutto il processo valutativo dell’intervento: dalla definizione dei problemi (assessment), alla costruzione delle soluzioni (progettazione), all’attuazione e al monitoraggio delle stesse (intervento), fino ad arrivare alla valutazione finale sul percorso fatto e sui cambiamenti ottenuti. Inoltre, si procede a una chiara articolazione fra assessment (valutazione iniziale di bisogni e risorse del bambino e del suo mondo), e progettazione del cambiamento. Il punto è analizzare/valutare per trasformare, ovvero dedicare tempo e risorse all’assessment e avviare il processo di co-costruzione di un progetto di vita non vago e indefinito, ma preciso, dettagliato e scandito nel tempo, che renda concretamente possibile e verificabile il processo di cambiamento delle strutture della negligenza familiare, e quindi il miglioramento delle relazioni familiari. La scommessa è introdurre e realizzare azioni concrete, pensate e progettate con le famiglie, visibili e documentate, nate da un pensare insieme, che siano regolarmente oggetto di continua riflessione (che possano cioè modificare il pensiero precedente) e negoziazione condivisa. Ciò significa considerare il genitore esperto del suo bambino, della sua vita, del suo contesto, e in questo modo (facendo diventare il genitore parte del team) si lavora nella direzione di rafforzare le sue competenze, in quanto i genitori che sono riconosciuti nei loro saperi maturano più facilmente la capacità di sperimentare, per prove ed errori, delle strategie educative nuove con i figli. Il professionista è chiamato a condividere il suo sapere con le famiglie e ad apprendere da esse come dare e ricevere informazioni, evitando di mantenerle all’oscuro su ciò che si fa nell’intervento. L’approccio teorico alla base dell’assessment e della progettazione è il modello “ecologia dello sviluppo umano” di Bronfenbrenner da cui deriva sia Il Mondo del Bambino, sia lo strumento utilizzato nel programma per Rilevare la situazione del bambino, Progettare il cambiamento e Monitorarlo (RPM online), che rappresenta 10 l’adattamento italiano dell’esperienza del Governo inglese che, dagli anni ‘90, ha avviato il programma Looking After Children per rispondere ai bisogni di efficacia degli interventi in vista di uno sviluppo ottimale dei bambini in carico ai Servizi. Il Mondo del Bambino ha una duplice identità: essere quadro teorico di riferimento e, allo stesso tempo, strumento di supporto per gli operatori per comprendere in modo globale bisogni e potenzialità di ogni bambino e di ogni famiglia. Fa riferimento alle tre dimensioni fondamentali che compongono il benessere di un bambino: i bisogni di sviluppo, le competenze delle figure parentali per soddisfare tali bisogni, i fattori familiari e ambientali che possono influenzare la risposta a tali bisogni. Il Mondo del Bambino propone un modello di intervento centrato su bisogni e diritti dei bambini (non sui problemi), mettendo in rapporto bisogni e sviluppo e permettendo di comprendere la loro vita non solo per quello che è nel qui e ora, ma per ciò che può diventare, facendo emergere il potenziale di ogni minore. Focalizzarsi sul bambino bisognoso significa: assumere una prospettiva globale sul piccolo e il suo ambiente senza mettere l’accento su un problema/aspetto specifico; assumere la prospettiva del bambino e dei suoi genitori; assumere una prospettiva evolutiva e cercare di capire perché oggi quel bambino è divenuto tale e cosa potrà diventare, tenendo uno sguardo contemporaneo su passato, presente e futuro; uscire dal modello problema-diagnosi-risposta, dove è ciò che gli esperti fanno con il minore a essere al centro del dispositivo, provando a considerare i fattori protettivi da costruire (resilienza); comprendere la vita di un bambino attraverso i legami che intrattiene con il suo ambiente e condividere tale comprensione per identificare risposte concertate a questi bisogni: se si orchestrano azioni fra attori diversi, è l’organizzazione sociale intorno al bambino bisognoso a divenire il territorio su cui costruire le risposte. Per questo è necessario il lavoro multi-professionale e inter-istituzionale. L’affiancamento familiare Accanto ai progetti appena illustrati, il panorama italiano dei Servizi si è arricchito di un ulteriore strumento. Nato a Torino nel 2003, come frutto della collaborazione tra il Comune (Settore Minori e Famiglia) e la Fondazione Paideia, il progetto Una famiglia per una famiglia si pone in modo nuovo accanto alle già note offerte di sostegno e prevenzione dell’allontanamento del minore previste dai Servizi di tutela. Risponde all’esigenza di sostenere le capacità genitoriali delle famiglie in difficoltà e di proteggere il regolare sviluppo dei minori in crescita; evita la separazione del figlio dai genitori naturali (non optando né per la comunità alloggio, né per l’affidamento familiare) e rafforza il legame con la rete sociale. Tuttavia, si distingue dagli altri modelli per tre elementi di novità che rendono il progetto unico nel suo genere: 1) la tipologia delle famiglie a cui è destinato (definite più propriamente fragili, piuttosto che negligenti o a rischio psico-sociale); 2) il periodo del ciclo di vita durante il quale si interviene (il progetto è preventivo perché interviene prima che le condizioni di disagio possano generare trascuratezza e negligenza da parte dei genitori verso i figli); 3) e lo sviluppo di una forma di affidamento dell’intera famiglia bisognosa (non più, dunque, solo per il minore o solo per la diade genitore-bambino) a una famiglia solidale che la affianca e 11 accompagna nelle difficoltà della vita quotidiana in una condizione di sostanziale parità, senza controlli o giudizi di natura professionale. Per l’originalità dei suoi elementi, il progetto appare una naturale evoluzione dell’affidamento familiare, in quanto ne mantiene lo spirito di fondo (tutelare il minore e la famiglia) ma ne cambia la formula di attuazione (evita l’allontanamento, mantiene il figlio con la sua famiglia e si avvale della prossimità e del sostegno di altre famiglie). Alla sua base, infatti, risiede l’estensione e l’ampliamento dell’accoglienza, del supporto emotivo e delle cure relazionali (aspetti caratterizzanti l’affido tradizionale) a tutta la famiglia in difficoltà, attraverso il coinvolgimento di un intero nucleo affidatario. Il programma prevede che una famiglia solidale si impegni concretamente a sostenere un’altra famiglia che, per le più svariate ragioni, vive disagi di tipo economico, psicologico o relazionale tali da compromettere il rapporto educativo con i figli. Tale servizio si avvale del contributo delle istituzioni (Comuni, Province e Regioni), della solidarietà delle famiglie affidatarie e del ruolo attivo delle associazioni familiari locali. Si rivolge a tutte le famiglie fragili (in cui è in crisi il legame coniugale e genitoriale, oltre che minacciato il regolare sviluppo del minore) quale attività di tipo preventivo. Torino è la città che ha visto emergere, grazie alla collaborazione tra il Comune e la Fondazione Paideia, la prima sperimentazione condotta nel 2003. A partire da questo progetto pilota, il modello è stato poi esportato in altre realtà italiane: Ferrara, Cantù e Mariano Comense, Verona, Parma e Fidenza, Novara (sperimentazioni anche a Reggio Emilia, Val d’Aosta, Roma, Cuneo e Pescara). 12