Cons. Dott. G. Rago

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Cons. Dott. G. Rago
L’ISTRUTTORIA NELLE PROCEDURE CONCORSUALI E I POTERI DEL TRIBUNALE
Uno dei punti su cui la riforma della legge fall. (dlgs 5/2006 e dlgs 169/2007) ha inciso più
profondamente, creando, quindi, un notevole dibattito anche per i notevoli risvolti pratici, è, senza
dubbio, quello relativo alla istruttoria fallimentare.
Per capire meglio i termini della problematica che andremo ad esporre, è opportuno, partire dalla
vecchia normativa.
Sotto l’egida della vecchia legge fallimentare, l’istruttoria fallimentare non era, in pratica,
disciplinata sicchè, sussistendo, da una parte, l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento anche
d’ufficio (art. 6), e, dall’altra, essendo il procedimento del tutto deformalizzato, il Tribunale
conduceva l’istruttoria con le modalità ritenute più opportune (dovendo aver cura solo di rispettare
il diritto di difesa) e non aveva alcun limite nella ricerca della prova. Tutto ciò comportava che,
essendo il procedimento di natura inquisitoria e sommaria, una volta che il debitore fosse stato
notiziato della procedura e messo nelle condizioni di essere sentito (e, quindi, eventualmente, di
difendersi), il Tribunale non aveva limiti potendo compiere tutti gli accertamenti ritenuti opportuni
al fine di verificare se il debitore si trovasse o meno nello stato di insolvenza.
La riforma della legge fallimentare, ha profondamente mutato tale assetto normativo in quanto:
-
ha abolito l’iniziativa d’ufficio del Tribunale riservandola solo al P.M., ai creditori e allo
stesso debitore (art. 6);
-
ha disciplinato la procedura da seguire nella fase istruttoria riscrivendo completamente l’art.
15 con la riforma del 2006 (dlgs 5/2006) e modificandola, ancora, nel 2007 (dlgs 169/2007);
-
ha stabilito come si distribuisce l’onere probatorio (art. 1/2);
-
ha stabilito che, contro la sentenza dichiarativa di fallimento, non debba più essere proposta
opposizione davanti allo stesso Tribunale (art. 16) ma appello (ora reclamo) avanti alla
Corte (art. 18) e ciò coerentemente con l’impostazione secondo la quale, ora, la sentenza,
non è più la risultante di un giudizio sommario che possa essere rivisto a seguito di
opposizione davanti allo stesso Tribunale ma una decisione che dev’essere assunta
meditatamente alla fine di un giudizio dove ciascuna delle parti ha la possibilità di svolgere,
nel contraddittorio, pienamente la propria difesa.
E’ chiaro che un simile capovolgimento della struttura processuale della fase dell’istruttoria
preliminare, ha fatto porre numerosi ed importanti problemi che possono così enunciarsi:
-
se il nuovo procedimento abbia fatto transitare la procedura da quella sommaria a quella a
cognizione piena;
-
se e in che limiti il Tribunale possa d’ufficio esercitare i poteri istruttori;
1
-
quale sia il ruolo delle parti e cioè come si deve distribuire l’onere probatorio e quali siano
le conseguenze in caso di mancato assolvimento del medesimo.
NATURA GIURIDICA DEL PROCEDIMENTO
In ordine al primo problema (natura giuridica del procedimento), il fatto che venga espressamente
detto che il procedimento si deve svolgere con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio,
fa ritenere che la procedura sia ancora quella camerale caratterizzata, però, da un elevato tasso di
tecnicismo (presentazione di memorie – deposito di documenti) e di garanzia (si pensi alla
possibilità di nominare un consulente tecnico). Ciò comporta che, se, da una parte, non è
ipotizzabile l’applicazione di quegli istituti giuridici del processo di cognizione che potrebbero
ritardare la decisione (interruzione – sospensione) o comunque non congruenti con la finalità tipica
della procedura che è quella di dare una risposta tempestiva alla crisi d’impresa senza, quindi, che
venga fuorviata da altre eventuali problematiche che potrebbero inquinare il giudizio (si pensi alle
complicazioni processuali se al debitore fosse data la possibilità di proporre contro il creditore
istante domande riconvenzionali, accertamenti incidentali o querele di falso), dall’altra, non è
escluso che, ad es., si possa pretendere che il debitore, ove si profili la necessità di un’istruttoria
particolarmente impegnativa, si munisca di un difensore con la conseguenza che, ove non lo faccia,
rimanga privo della possibilità di difendersi allegando e provando (o chiedendo di provare) fatti a sè
favorevoli 1 .
L’INDICAZIONE CHE IL PROCEDIMENTO È VOLTO ALL’ACCERTAMENTO DEI PRESUPPOSTI PER LA
DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO
a norma del quarto comma dell’art. 15, il decreto che dev’essere notificato al debitore, deve
contenere la suddetta indicazione. La norma non ha fatto altro che recepire quell’indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale, appunto, il debitore che fosse convocato doveva essere
1
Trib Napoli 6/12/2006 GIOIELLERIA MALLARDO S.R.L., inedita «l’art. 82 c.p.c. prevede, in linea generale, che, salvo
che la legge disponga altrimenti, innanzi al tribunale le parti devono stare in giudizio col ministero di un procuratore
legalmente esercente; considerato che, secondo l’ormai consolidato orientamento della Suprema Corte
(recentissimamente confermato da Cass., Sez. I, 29 novembre 2006, n. 25366), tale regola generale è applicabile sia agli
ordinari giudizi contenziosi che ai procedimenti a struttura camerale che abbiano ad oggetto la richiesta di emissione di
un provvedimento, non importa se corrispondente o meno alla richiesta dell’interessato, che incida su diritti
fondamentali della persona o su status, quale certamente è la sentenza di fallimento, che, anche dopo la recente riforma
di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, importa effetti imponenti sul patrimonio del fallito e non marginali sulle sue libertà
personali e sui suoi diritti fondamentali; ritenuto, pertanto, che anche il ricorso di fallimento presentato dal debitore (o
dal legale rappresentante della società debitrice) debba essere sottoscritto da un avvocato a pena della sua nullità (non
sanabile ex tunc) e della conseguente improcedibilità della domanda giudiziale in esso contenuta»
2
previamente messo a conoscenza del motivo della convocazione per essere in grado di esercitare il
diritto alla difesa 2 .
La mancanza della suddetta indicazione, determina, sicuramente, la nullità dell’eventuale sentenza
dichiarativa di fallimento (sempre che il Tribunale, prima della dichiarazione non abbia rimediato
alla nullità rimettendo in termini il debitore e riconvocandolo per una nuova udienza) che può
essere fatta valere come mezzo di gravame nel quale caso, ove la Corte accerti e dichiari la nullità
della sentenza, l’intero procedimento rimane travolto non dovendo essere disposta la rimessione al
primo giudice 3 ;
PLURIME ISTANZE DI FALLIMENTO
sotto la previgente normativa, era nota la prassi secondo la quale, ove venivano presentate più
istanze di fallimento, si riteneva sufficiente la notifica di una sola, dopodiché, all’udienza, si
procedeva alla riunione delle altre e alla contestazione delle nuove istanze. Si riteneva, infatti, che:
-
«Nel procedimento camerale e sommario che precede la dichiarazione di fallimento non
occorre che il debitore - una volta che sia stato convocato in camera di consiglio, o
comunque informato dell'iniziativa a suo carico e posto in grado di svolgere le sue difese sia nuovamente convocato e sentito in seguito ad ogni successiva istanza di fallimento che si
inserisca nel procedimento, avendo egli l'onere di seguire l'ulteriore sviluppo della
procedura e di assumere ogni opportuna iniziativa in ordine ad essa, a tutela dei propri
diritti» 4 ;
-
«Nel caso in cui il debitore sia stato già sentito dal tribunale in camera di consiglio a norma
dll'art. 15 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, ove vengano successivamente presentate altre istanze
di fallimento da parte di altri creditori, non occorre rinnovare la sua convocazione per
ciascuna di esse, essendo sufficiente, ai fini della tutela del diritto di difesa, che il debitore
sia di fatto in grado di chiarire tempestivamente all'organo fallimentare ogni elemento utile
per valutare la sua situazione commerciale e patrimoniale» 5 .
2
Cass. 1439/1990 «Nel procedimento camerale e sommario, che precede la dichiarazione di fallimento, il principio del
contraddittorio ed il diritto di difesa del debitore restano assicurati quando questi sia informato dell'iniziativa in corso e
dei fatti rilevanti per la configurazione dei requisiti oggettivi e soggettivi di detta declaratoria»
3
Cass. 145/1994 «Il giudice d'appello che dichiari la nullità della pronuncia dichiarativa di fallimento (fuori dei casi in
cui debba provvedersi circa l'ammissibilità della procedura di concordato preventivo) non deve disporre la rimessione al
primo giudice, in quanto la detta nullità travolge tutti gli atti conseguenziali, incluso il giudizio di cognizione di primo
grado ed il giudizio di secondo grado, senza far salvi situazioni, fatti od effetti riferibili alla fase prefallimentare caratterizzata dalla natura inquisitoria e non paragonabile ad un processo di cognizione ordinaria - che possano valere
come vincoli assoluti per il giudice, dovendosi accertare i presupposti del fallimento con riferimento ai fatti ed alle
circostanze soggettive ed oggettive esistenti all'epoca della relativa dichiarazione» – 7760/1990
4
Cass. 19072/2004
5
Cass. 5101/1994
3
Il nuovo art. 15, non dà alcuna disposizione quando siano proposte più istanze anche se, al secondo
comma, è specificato che il tribunale convoca «i creditori istanti» con ciò lasciando intendere che la
trattazione, per le plurime istanze, dev’essere unitaria.
Tuttavia, stante l’accentuata formalizzazione della procedura, non ci pare dubbio che, ove la
riunione non fosse possibile, ogni istanza dev’essere notificata e per ogni istanza devono essere
concessi i termini liberi di quindici giorni.
Ovviamente, ove il Tribunale ritenga che per la dichiarazione di fallimento sia sufficiente l’esito
dell’istruttoria di una sola istanza, ben potrà dichiarare il fallimento, senza attendere l’istruttoria
sulle altre le quali diventeranno improcedibili;
I TERMINI E LA NOTIFICA
il terzo ed il quarto comma prevedono un doppio termine a tutela, da una parte, del diritto di difesa
del debitore e, dall’altra, del contraddittorio:
il primo è quello relativo alla comparizione che non può avvenire prima di 15 gg dalla notifica del
decreto (termine a tutela del debitore);
il secondo è quello relativo al deposito di memorie e documenti che deve avvenire entro un termine
non inferiore di sette giorni prima dell’udienza (termine a tutela del contraddittorio proprio per
consentire alle altre parti di prendere visione della suddetta eventuale documentazione e, quindi,
contraddire all’udienza).
Il quinto comma prevede che i suddetti termini possano essere abbreviati (eventualmente anche
d’ufficio perché la legge nulla dispone in proposito) ma la legge non indica fino a che punto può
essere portata la compressione. Non è richiamato l’art. 163 bis c.p.c. (abbreviazione della metà), ma
se si tiene conto che i termini sono già ridotti, è difficile pensare che l’abbreviazione possa essere
portata ad oltre la metà. È da escludere comunque una convocazione ad horas.
Il decreto dev’essere notificato a cura dell’istante con le formalità tipiche previste dal c.p.c. 6 salva
la possibilità, per il giudice, di autorizzare la notifica con modalità differenti ex art. 15/5 legge fall.
I MEZZI DI PROVA
la particolare natura del procedimento unita all’oggetto del medesimo tendente ad accertare lo stato
d’insolvenza, fanno sì che, tendenzialmente, nel procedimento possano avere ingresso solo prove
documentali ed eventualmente accertamenti tecnici.
Nulla esclude, però, che possano anche essere ammesse prove testimoniali ed anche, in ipotesi, il
giuramento o la confessione indotta dall’interrogatorio formale o libero del debitore semprechè che,
ovviamente, il capitolato verta su fatti dai quali, poi, il Tribunale possa desumere ad es.
6
Sul punto: C.A. Palermo n° 487/2007 in Fall., 2008, 319
4
l’insolvenza. Non sarebbe, invece, ammissibile, ad es., una prova sull’insolvenza perché si tratta di
uno status che può essere accertato solo dal Tribunale alla fine di una complessa valutazione di fatti
e di norme giuridiche.
Sicuramente ammissibile è l’utilizzo delle presunzione nonché delle prove atipiche (es. prove
raccolte in altro procedimento – documento proveniente da un terzo ecc…).
L’ISTRUZIONE PROBATORIA E LA DISTRIBUZIONE DELL’ONERE PROBATORIO
L’art. 6 dispone solamente che il fallimento è dichiarato su ricorso: non indica, quindi, le modalità
con le quali il ricorso dev’essere redatto (cfr invece, art. 18), né alcunché viene detto nell’art. 15 che
si limita a specificare la tempistica e le modalità di svolgimento del procedimento, una volta che
venga attivato con il deposito del ricorso.
Tutto ciò comporta una conseguenza processuale abbastanza notevole e cioè che, da una parte, il
ricorrente può semplicemente limitarsi a chiedere il fallimento senza neppure indicare o produrre
alcun documento a sostegno della domanda e, dall’altra, proprio perché tutta l’istruttoria può essere
dedotta nel prosieguo, il Tribunale non può rigettare de plano la domanda adducendo come
motivazione il fatto che il ricorrente non ha provato il fondamento della domanda proprio perché la
suddetta prova ben potrebbe essere dedotta una volta che il procedimento sia stato iniziato e, quindi,
nel contraddittorio delle parti 7 .
Il tribunale, quindi, «convoca» (non è, quindi, detto che «può» convocare: il che costituisce una
ulteriore conferma del fatto che, depositato il ricorso, il Tribunale deve sempre e comunque attivare
la procedura) il debitore e, già in questa fase, l’art. 15 prevede una pur sommaria attività istruttoria.
Infatti, il comma quarto prevede che «in ogni caso» il Tribunale «dispone che l’imprenditore
depositi i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e
finanziaria aggiornata», nel mentre «può richiedere eventuali informazioni urgenti».
La ratio della richiesta dei bilanci e della relazione aggiornata è chiarissima e va letta in uno con
l’art. 1/2 nel senso che la richiesta è finalizzata ad appurare se il debitore abbia o meno superato i
limiti dimensionali di cui alla suddetta norma.
Piuttosto va osservato che il decreto correttivo, ha apportato al comma quarto una modifica
consistente non tanto nel fatto che, oltre alla situazione aggiornata, il debitore è invitato a depositare
i bilanci degli ultimi tre esercizi, quanto nella circostanza che, differentemente dal previgente art.
15, ora possono essere richiesti solo informazioni urgenti laddove prima, al contrario,
contestualmente all’ordine rivolto al debitore di depositare una situazione patrimoniale, economica
e finanziaria aggiornata, il Tribunale doveva disporre anche «gli accertamenti necessari».
7
MONTANARI:
La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni paerte in tema di istruzione in Fall.
2007, 564
5
Il motivo per cui il legislatore ha ritenuto di effettuare la suddetta modifica, non è chiaro né lumi
vengono dalla lettura della relazione governativa.
Trattandosi di accertamenti da compiersi nella fase preliminare e d’ufficio, è difficile individuare
una differenza fra le due locuzioni. Il nuovo sintagma, quanto al sostantivo (informazioni), sembra
rinviare allo stesso termine che si trova nell’art. 738 c.p.c. Ma, francamente, quale sia la differenza
fra informazioni ed accertamenti, è difficile dire. L’attenzione, va, quindi, concentrata sull’aggettivo
urgenti a proposito del quale sembra che si affermare che:
le informazioni, di regola, vanno assunte nell’ambito del procedimento e, quindi, nel contradditorio,
salvo, appunto, che siano urgenti;
l’urgenza può essere collegata, da una parte, alla richiesta di provvedimenti cautelari e, dall’altra,
per anticipare l’assunzione di informazioni (ad es. sui requisiti di fallibilità) che, se ritardati,
potrebbero pregiudicare l’esito del giudizio (art. 10 legge fall.: imprenditore cessato da poco meno
di anno per il quale si corre il rischio che il suddetto periodo maturi durante la procedura proprio a
causa di informazioni non richieste tempestivamente).
Ma, come si distribuisce l’onere probatorio?
Prima di entrare nel merito della problematica, è opportuno precisare alcuni punti.
La legge richiede che il debitore possa essere dichiarato fallito ove vengano accertati, all’esito del
procedimento di cui all’art. 15, i seguenti presupposti:
1. presupposto soggettivo: il debitore dev’essere un imprenditore commerciale;
2. presupposto oggettivo: il debitore deve trovarsi in stato di insolvenza;
3. presupposto temporale: il debitore, al momento dell’istanza, deve svolgere ancora l’attività
imprenditoriale o deve averla cessata da non oltre un anno;
4. presupposto dimensionale: il debitore deve superare alcuni limiti dimensionali fissati dalla
stessa legge;
5. presupposto quantitativo: il debitore deve avere debiti scaduti che superino una certa soglia;
E’ proprio in relazione a ciascuno dei suddetti requisiti che ci si deve porre il problema di come si
distribuisce l’onere probatorio e cioè chi deve dare la prova dei suddetti presupposti.
Sotto la vecchia normativa, come si è detto, il problema era poco sentito per un duplice ordine di
ragioni:
-
perché, essendo il procedimento di natura officiosa e, potendo essere il fallimento dichiarato
d’ufficio, il Tribunale aveva i più ampi poteri d’indagine finalizzati alla ricerca della prova
(sia a favore che contro l’imprenditore);
6
-
perché, era alquanto consolidato il principio di diritto in base al quale spettava al creditore
provare tutti gli elementi previsti dalla legge per la dichiarazione di fallimento 8 .
Con la riforma del 2006, il problema della distribuzione dell’onere probatorio emerse in modo
prepotente ed acceso fu il dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza.
La questione nasceva dal fatto che, da una parte, il legislatore aveva soppresso il potere del
Tribunale di aprire d’ufficio il procedimento di fallimento (anche se aveva conservato alcuni poteri
di indagine), ma, dall’altra, nulla era stato detto in ordine alla distribuzione dell’onere probatorio.
Da qui, il formarsi di due opinioni:
-
secondo la prima, i requisiti dimensionali erano diventati elementi costitutivi della domanda,
sicché spettava al creditore provare che il debitore li avesse superati 9 ;
-
secondo altri, invece, la regola era la fallibilità dell’imprenditore commerciale, sicché i
requisiti dimensionali, ponendosi come eccezione, dovevano essere provati dal debitore 10 ,
salvo il caso in cui il debitore era una società di capitali, nel qual caso si doveva presumere
che fosse sovradimensionata, con conseguente onere, a suo carico, di fornire la prova di
essere sottodimensionata 11
Proprio tenendo conto di questa situazione conflittuale a livello interpretativo, il legislatore è
intervenuto con il decreto correttivo del 2007 modificando profondamente l’art. 1.
La relazione governativa al decreto correttivo afferma che la nuova disposizione supera i problemi
interpretativi emersi in materia di distribuzione dell’onere della prova e che i requisiti di non
fallibilità vanno intesi come fatti impeditivi della dichiarazione di fallimento. In tal modo si evita di
“premiare” con la non fallibilità quegli imprenditori che scelgono di non difendersi in sede di
istruttoria prefallimentare o che non depositano la documentazione contabile dalla quale sarebbe
possibile rilevare i dati necessari per verificare la sussistenza dei parametri dimensionali. Di
conseguenza, qualora gli elementi probatori dedotti dalle parti o quelli acquisiti d’ufficio non siano
sufficienti a fornire la prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità, permanendo
l’incertezza sulla sussistenza o meno dei requisiti soggettivi di esenzione dal fallimento,
l’imprenditore resta assoggettato alla procedura fallimentare.
8
Cass 744/1990 «Nel giudizio di cognizione, instaurato con l'opposizione avverso la declaratoria di fallimento, non
opera una presunzione iuris tantum sulla qualità di imprenditore non piccolo del fallito (secondo i criteri di cui al
comma 2 dell'art. 1 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, e, in particolare, dopo l'abolizione della imposta di ricchezza
mobile, e la conseguente impossibilità di far riferimento al relativo imponibile, in base al parametro del capitale
investito). Detto requisito, pertanto, al pari degli altri presupposti della dichiarazione del fallimento, deve essere
dimostrato dal creditore istante»;
contra: Trib. Cassino 27/1/1992 in Giur. mer., 1993, 643 «In assenza di elementi idonei risultanti dagli atti acquisiti
nella procedura fallimentare spetta all'imprenditore insolvente dimostrare l'asserita qualità di piccolo imprenditore ai
sensi dell' art 2083 c.c.
9
Trib. Napoli 6/11/2006 – Trib. Milano 27/9/2006
10
MONTANARI: op. cit.
11
Trib. Torino 11 gennaio 2007, in Fall., 2007, 320.
7
Sulla base, quindi, della nuova normativa, e della stessa relazione governativa, la risposta al quesito
di come si distribuisce l’onere probatorio, di primo acchito, sembra relativamente facile e va trovata
nei principi generali ed esattamente nell’art. 2697 c.c. a norma del quale chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento; chi eccepisce l’inefficacia
di tali fatti ovvero chi eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui
l’eccezione si fonda.
Applicando la suddetta regola, di conseguenza ne deriva che:
-
parte istante: a costui (sia esso il creditore o il P.M.) spetta provare i fatti costituitivi della
fattispecie (ossia del fallimento) e, quindi: a) che il debitore sia un imprenditore; b) che sia
insolvente; c) che abbia debiti superiori ad € 30.000.000;
-
parte resistente: a costui, ossia al debitore, ove si opponga all’istanza, spetta provare i fatti
estintivi (mancanza del presupposto temporale avendo cessato l’attività da oltre un anno), o i
fatti impeditivi (essere sottodimensionato ex art. 1/2 – di avere debiti inferiori ad €
30.000,00).
Ora, finchè le parti si costituiscono e svolgono le loro rispettive richieste e formulano i rispettivi
mezzi di prova secondo lo schema su indicato, problemi particolari non ne sorgono perché il
Tribunale, all’esito della svolta istruttoria (magari dopo avere esercitato i poteri d’ufficio
indirizzandoli alla ricerca della prova indicata dalle stesse parti 12 ), ha i criteri per risolvere la
controversia nel senso che, sulla base della regola di cui all’art. 2697 c.c., dovrà giungere alla
seguente conclusione:
-
reiezione dell’istanza: dev’essere emesso decreto motivato di reiezione se i fatti costitutivi
non risultano provati o comunque la prova sia insufficiente, oppure se, pur essendo i
medesimi stati provati, risultano però provati i fatti impeditivi o estintivi fatti valere dal
debitore;
12
MONTANARI: op. cit, pag. 566, precisa che «in un sistema che non conosce più la dichiarazione di fallimento d’ufficio,
tali poteri [n.d.r.: i poteri officiosi di indagine] saranno spendibili esclusivamente nei limiti degli allegata partium,
ovverosia dei fatti ritualmente dedotti dalle parti o, comunque, emergenti dagli atti del processo e non, viceversa, per
verificare ipotesi fattuali che il giudice si sia autonomamente prospettato, com’era invece possibile quando
l’ordinamento riconosceva ad esso giudice la facoltà di promuovere il giudizio. Se di inquisitorietà possiamo tuttora
parlare, quindi, trattasi, però, di inquisitorietà in senso meramente formale (o processuale), vale a dire attinente alla
racolta del materiale probatorio, e non anche in senso sostanziale, quale implicante l’utilizzo di quei poteri di
investigazione per andare alla ricerca di fatti che le parti non abbiano espressamente invocato o dedotto».
Negli stessi termini, FABIANI: L’impulso officioso nella gestione del procedimento fallimentare in Foro It. 2007, I, 605
secondo il quale «Se non è più il Tribunale che formula implicitamente la domanda di fallimento, i fatti da indagare
saranno solo quelli che le parti hanno introdotto come allegazioni difensive e nell’ambito di quei fatti il giudice potrà
fare ricorso al potere di impulso officioso per colmare le lacune probatorie dovute ad una insufficiente allegazione a
cura delle parti»
8
-
dichiarazione di fallimento: dev’essere emessa sentenza di fallimento se i fatti costitutivi
risultino provati e, contemporaneamente, siano rimasti privi di prova i fatti impeditivi o
estintivi fatti valere dal debitore.
Le cose, però, si complicano decisamente quando il debitore non si costituisce oppure si costituisce
e non si oppone alla dichiarazione di fallimento ammettendo, quindi, di essere un imprenditore
commerciale in esercizio, insolvente e sovradimensionato.
Per rendere ancora meglio l’ipotesi di cui stiamo discutendo si supponga che il creditore proponga
l’istanza di fallimento asserendosi creditore di € 40.000,00 nei confronti di Tizio che lui afferma
essere imprenditore commerciale in esercizio non allegando neppure un solo documento a sostegno
dell’istanza e si supponga che, all’udienza si presenti il debitore Tizio che ammette tutto quanto
affermato dal creditore ed affermi di essere sovradimensionato 13 .
La domanda che, allora, ci si deve porre è la seguente: può il Tribunale in base al suddetto quadro
probatorio (costituito dalle semplici affermazioni del creditore istante confermate ed ammesse dal
debitore) dichiarare il fallimento del debitore?
La suddetta domanda rimanda, però, ad un altro problema la cui risoluzione è prodromica e che
consiste nello stabilire se e in che limiti il nuovo procedimento di istruttoria prefallimentare sia
diventato un processo nella completa disponibilità delle parti.
E’ chiaro, infatti, che ove si ritenga che il procedimento prefallimentare abbia ad oggetto diritti
disponibili, la conclusione è obbligata nel senso che il Tribunale, non potendo esercitare alcun
potere d’ufficio per accertare, motu proprio, la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per la
dichiarazione di fallimento, proprio perché le stesse parti interessate concordemente le ammettono
(e, comunque, il debitore non solleva i fatti impeditivi/estintivi che la legge prevede a suo favore),
deve dichiarare il fallimento e poco importa se poi si accerta che, in realtà, il preteso imprenditore
tale non era (oppure che aveva cessato di esserlo da anni) e che, invece, era un normale debitore
civile che, aggredito dai debitori, aveva tutto l’interesse ad essere dichiarato fallito per usufruire
dell’esdebitazione.
13
Non si sfugge all’obiezione secondo la quale se si ragiona secondo gli schemi classici del processo di cognizione
(eccezione di parte – prove ammissibili d’ufficio solo sul materiale probatorio introdotto dalle parti) si può
concretamente verificare che il processo diventa nella disponibilità delle parti (come nell’esempio ipotizzato), con il
rilievo secondo il quale non potrebbero avere ingresso nel procedimento tutti quelle ammissioni che implicano un
processo valutativo sicché non potrebbe tenersi in alcun conto del fatto che il debitore ammetta di essere un
imprenditore o di essere insolvente: FABIANI: op. cit., 607, perché, in realtà, per aggirare tale pur corretto rilievo è
sufficiente che il debitore affermi ad es. di essere un commerciante che esercita la sua attività di vendita di prodotti, che
è debitore di una somma superiore ad € 30.000,00 e che non è in grado di pagare. In questo caso, come è del tutto
evidente, il debitore, pur non dicendo di essere imprenditore commerciale e di essere insolvente, ammette però fatti (e
non valutazioni) dai quali il giudice non può che trarre la dovuta conseguenza in termini giuridici. E, quindi, si
ripropone la domanda: può il giudice, in assenza di ogni elemento oggettivo, decidere, in un procedimento in cui si
discute di diritti indisponibili, sulla base di quanto affermato solamente dalle parti e cioè iuxta ed alligata?
9
A diversa conclusione, a nostro avviso, si deve pervenire ove, invece, si ritenga che la procedura
fallimentare non sia nella disponibilità delle parti in quanto involge questioni di natura pubblicistica
come dimostrato dal fatto che l’insolvenza viene regolata secondo il principio della par condicio,
vengono repressi atti compiuti nel periodo di insolvenza, il debitore subisce diminuzioni della
libertà personale ed è soggetto anche a determinati reati e la procedura può essere attivata anche dal
P.M.
Se quindi la procedura prefallimentare ha ad oggetto l’accertamento di uno status
(insolvenza/fallibilità) in capo ad un determinato soggetto (imprenditore commerciale in esercizio),
e cioè l’accertamento di questioni non disponibili dalle parti 14 , è del tutto evidente che lo schema
classico del processo che ha ad oggetto diritti disponibili (ed in cui, appunto, il Tribunale può usare
i poteri d’ufficio solo nel ristrettissimo ambito di cui si è detto), va ripensato non potendo essere
applicato in modo meccanico. La suddetta conclusione, però, va verificata a livello letterale e
sistematico e cioè bisogna appurare se la nuova normativa consenta ancora al Tribunale, pur
essendo lo stesso stato privato del potere inquisitorio della dichiarazione d’ufficio, di andare alla
ricerca, anche autonomamente, dei presupposti richiesti dalla legge per la declaratoria di fallimento.
Cominciamo da un triplo dato letterale rinvenibile nell’art. 15, ossia: 1) al primo comma, è stabilito
che il procedimento si svolge con le modalità «dei procedimenti in camera di consiglio»; 2) il sesto
comma dispone che il tribunale (o il giudice delegato) «provvede all’ammissione ed
all’espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio»; 3) il quarto comma
prevede le «informazioni urgenti».
Con le suddette disposizioni, è del tutto evidente che il legislatore ha deliberatamente sganciato il
Tribunale dal vincolo derivante dal principio dispositivo in ordine alle prove ed alle allegazioni
dedotte dalle parti perché lo scopo ultimo della procedura fallimentare è quello di dichiarare il
fallimento solo ed esclusivamente se sussistono i presupposti voluti dalla legge, presupposti che
evidentemente non possono essere lasciati alla mercè del potere dispositivo delle parti che, secondo
la propria convenienza, potrebbero avere interesse a provare solo alcuni dei presupposti o a non
eccepire i fatti impeditivi o estintivi.
Per giungere alla suddetta conclusione, in realtà, sarebbe già bastato il mero rinvio alle disposizioni
in materia camerale e, quindi, anche all’art. 738/3 c.p.c. a norma del quale «il giudice può assumere
informazioni», norma questa che, secondo la consolidata giurisprudenza della S.C., va interpretata
nel senso che «in tutte le ipotesi in cui (come prevede, in particolare, l'art. 738, ult. comma, c.p.c.)
sia consentito assumere informazioni di ufficio, non è dubbio che il giudice è svincolato dalle
iniziative istruttorie delle parti e può procedere con poteri inquisitori, che si estrinsecano
14
Il principio in questione è dato per pacifico dagli stessi autori che sostengono la tesi restrittiva qui opposta: FABIANI:
op. cit.
10
attraverso l'assunzione di informazioni, indipendentemente dal comportamento o dalle istanze di
parte » 15 .
Ora, il fatto che non solo l’art. 15 rinvia alle disposizioni in materia camerale ma, prima al quarto
comma prevede che possano essere assunte informazioni urgenti e, poi, al comma sesto, ribadisce
che il tribunale provvede all’espletamento dei mezzi istruttori disposti d’ufficio, ci pare una
conferma letterale del fatto che il Tribunale non sia in alcun modo vincolato alle deduzione delle
parti sicché ben può disporre mezzi istruttori per accertare non solo la sussistenza degli elementi
costitutivi della fattispecie (qualità di imprenditore commerciale – insolvenza) ma anche di quelli
eventualmente impeditivi o estintivi, anche se non oggetto di deduzione o allegazione dalle parti
che, magari, dandole per ammesse non si peritano di provarle. Infatti, la disposizione sulle
informazioni urgenti, dovendo essere le medesime disposte prima dell’instaurazione del
contraddittorio (e, quindi, quando il Tribunale non conosce ancora quali sono le prove che le parti
hanno dedotto o intendono dedurre), non sarebbe compatibile con il principio dispositivo (poteri
d’ufficio solo su indicazione di parte) proprio perché l’estrema genericità con la quale è stata
formulata la nuova norma non indica alcun limite al potere d’indagine del tribunale.
In altri termini, quello che si vuol dire è che, dovendo la decisione vertere su interessi non
disponibili, tutti gli elementi richiesti dal legislatore per la declaratoria di fallimento devono essere
accertati dal giudice il quale non può fidarsi e fare affidamento sul classico principio di non
contestazione in base al quale, nel processo di cognizione, un determinato fatto, deve ritenersi
provato.
Ci pare, infatti, che si possa affermare, come principio generale, che vi è una incompatibilità di
natura logica e giuridica fra il potere dispositivo delle parti in ordine alla deducibilità dei fatti
impeditivi o estintivi (che si addice, invece, ad un processo in cui si discute di diritti disponibili) ed
un procedimento di natura pubblicistica che tende ad accertare situazioni e/o diritti indisponibili
(fallibilità).
15
Cass 14200/2004 - Cass 1947/1999 ha ribadito che «secondo la previsione contenuta nell'ultimo comma dell'art.738
c.p.c., il giudice, senza che sia necessario il ricorso alle fonti di prova disciplinate dal codice di rito, risulta in effetti
svincolato dalle iniziative istruttorie delle parti e procede con i più ampi poteri inquisitori, i quali si estrinsecano
appunto attraverso l'assunzione di informazioni (Cass. 25 maggio 1982, n.3180; Cass. 23 settembre 1998, n.9499), che,
espressamente consentita dalla disposizione da ultimo citata, non resta subordinata all'istanza di parte (in deroga al
principio della disponibilità delle prove), là dove, però, detta assunzione, palesandosi essere l'oggetto di una mera
facoltà in ragione dello stesso tenore letterale dell'art.738, terzo comma, c.p.c. ("Il giudice può assumere informazioni"),
non implica alcun obbligo per quest'ultimo, onde la mancata estensione ulteriore dell'indagine non determina
l'inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento camerale e risulta quindi incensurabile, sotto il profilo della
violazione di legge nel termini sopra delineati, in ordine al mancato esercizio della predetta facoltà, segnatamente
quando, come nella specie, la decisione si fondi sopra elementi istruttori raccolti "aliunde" rispetto alle informazioni ex
art.738 c.p.c. e dei quali il medesimo giudice, attraverso la motivazione, abbia dato esaurientemente conto, mancando
del resto la certezza o, comunque, la semplice probabilità che le informazioni stesse, peraltro neppure specificate quanto
al genere ed al contenuto, fossero suscettibili di indurre ad una decisione diversa da quella adottata»
11
A tal proposito non bisogna lasciarsi fuorviare dal fatto che l’art. 1 prevede, ora, letto a contrario,
che il debitore il quale non dimostri il possesso congiunto di tre requisiti (sottodimensionamento),
dev’essere dichiarato fallito: invero, la suddetta norma non esclude affatto che anche il tribunale si
debba fare carico, nell’inerzia del debitore, di appurare se sussistano o meno i suddetti requisiti, ma
detta solo una regola che attiene alla distribuzione dell’onere probatorio e che stabilisce, quindi, in
caso di prova fallita o insufficiente, quali debbano essere le conseguenze e su chi debba ricadere la
mancata o insufficiente prova.
Vediamo, però, se questo pur importante dato letterale, trova dei riscontri di natura sistematica.
Innanzitutto, si può rilevare che l’art. 15/4 dispone che il tribunale, nel decreto di convocazione, «in
ogni caso» (quindi obbligatoriamente) deve ordinare al debitore il deposito dei bilanci e di una
relazione aggiornata con l’evidentissima finalità di verificare la sussistenza o meno dei requisiti di
cui all’art. 1/2 ovvero della misura dell’indebitamento ex art. 15 u.c.. Ora, se i suddetti fatti
impedivi fossero davvero delle eccezioni in senso stretto e cioè sollevabili su impulso della sola
parte interessata (debitore), non avrebbe alcun senso il suddetto ordine di produzione perché,
secondo le regole ordinarie, sarebbe davvero stravagante che venisse ordinato ad una parte la
produzione di atti o documenti dai quali rilevare (d’ufficio) un fatto impeditivo che può essere
sollevato solo su istanza o eccezione della parte che ha interesse a farlo valere (e, nel caso della
procedura fallimentare ben potrebbe accadere che il debitore, avendo interesse a fallire, non intenda
sollevare le suddette eccezioni che porterebbero alla reiezione dell’istanza). E, non si sfugge alla
suddetta obiezione neppure ricorrendo alla differenza fra eccezioni in senso lato (rilevabili
d’ufficio) ed eccezioni in senso stretto (rilevabili solo su istanza di parte), sostenendo cioè che, nel
caso di specie, ci si troverebbe di fronte ad eccezioni in senso lato, perché la suddetta problematica
sorge quando ci si trova di fronte ad un fatto già acquisito al processo e cioè un fatto che le parti
hanno dedotto e non, come nel caso di specie, di un fatto che, d’ufficio e per legge, dev’essere
introdotto nel giudizio.
La seconda osservazione riguarda il giudizio di reclamo contro la sentenza dichiarativa di
fallimento. Il suddetto procedimento (art. 18), come si desume da una pur rapida lettura, non è
congegnato con le tipiche preclusioni (probatorie) del rito ordinario, ma, al contrario, la parte
reclamante non ha alcun limite nella deduzione di prove (quindi anche di quelle non dedotte nel
giudizio di primo grado) e la stessa Corte, sebbene nei limiti del dedotto ex primo comma n° 3, ha
nuovamente il potere di assumere «anche d’ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di
prova che ritiene necessari».
Ora, c’è davvero da chiedersi che senso avrebbe impedire al Tribunale, nel giudizio di primo grado,
di assumere, anche al di fuori delle deduzioni delle parti, tutte quelle prove dirette alla verifica della
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sussistenza o meno dei requisiti previsti dalle legge, se, poi, in grado di appello, la parte reclamante,
può chiedere ogni mezzo di prova e la stessa Corte non ha alcun limite. Non è chi non veda come
un sistema così congegnato sarebbe privo di ogni razionalità e foriero di danni non indifferenti se si
tengono presenti gli interessi in gioco. Non solo ma un ulteriore riscontro lo si desume dall’art. 22/4
il quale dispone che, pur dopo l’accoglimento del reclamo contro il decreto di rigetto, se la Corte
accerti che «sia venuto meno alcuno dei presupposti necessari» per la dichiarazione di fallimento,
in pratica deve revocare la rimessione degli atti al tribunale: il che significa che si devono accertare
tutti i presupposti perché tutti sono necessari con la conseguenza che nessuno di essi è rimesso alla
discrezionalità delle parti se eccepirlo o meno sicché comunque essi vengano accertati se ne deve
tener conto.
Infine, una ulteriore conferma della tesi qui sostenuta viene da quanto previsto nel concordato
preventivo.
Al concordato preventivo può essere ammesso solo l’imprenditore commerciale che si trovi nelle
stesse condizioni per essere fallito (tranne quello in stato di crisi) e, quindi, che sia ancora in
esercizio (art. 10), che abbia debiti scaduti superiori ad € 30.000,00 e che dimostri di essere
sovradimensionato rispetto ai requisiti di cui all’art. 1/2 16 : artt. 162/2 – 160/1 (elemento letterale: il
tribunale deve accertare la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 160, ossia che il debitore sia un
imprenditore soggetto al fallimento).
A livello sistematico, si tenga poi presente che il concordato preventivo ed il fallimento sono due
procedure legate fra di loro in modo biunivoco perché se il c.p., per qualsiasi motivo, non va a buon
fine, la legge prevede che (sia pure su impulso di parte), la procedura si converta in quella
fallimentare. Tale passaggio, però, sarebbe evidentemente impossibile se, già a monte, il debitore
non avesse i requisiti per essere dichiarato fallito. Il che significa che, al momento dell’ammissione
alla procedura, il tribunale deve avere accertato che il debitore si trovi nelle condizioni per essere
dichiarato fallito perché questo accertamento è estraneo e non previsto nella fase eventualmente
successiva quando sono venuti meno i requisiti per la continuazione del concordato. La suddetta
osservazione comporta che il debitore deve provare tutti gli elementi richiesti dalla legge (non solo,
quindi, gli elementi costitutivi) ma anche l’assenza di elementi impeditivi o estintivi 17 perché la
16
La norma in questione, benché sia formulata in negativo, in realtà va letta in positivo in quanto essendo il concordato
preventivo una procedura che può essere richiesta dal solo imprenditore, costui, per avervi acceso, deve provare di
superare i suddetti limiti, non avendo, altrimenti, alcun senso logico che colui che chiede di esservi ammesso, debba
dimostrare di essere sottodimensionato e cioè un requisito che gli impedirebbe di accedere alla procedura
17
Si noti che, mentre la legge (arg. ex art. 1/2) fa carico al debitore di provare di essere sovradimensionato, al contrario
nulla è detto relativamente all’art. 10. Quindi, stando ad un’interpretazione strettamente letterale, e dove si ritenga che il
suddetto requisito sia nella disponibilità della parte, potrebbe succedere che al concordato venga ammesso un
imprenditore cessato da oltre un anno. Non solo, ma poi, nel caso che il concordato non vada a buon fine, potrebbe
succedere, che nel momento della conversione, il debitore, questa volta interessato a non fallire, eccepisca la non
fallibilità ai sensi dell’art. 10. Ora, per evitare queste situazioni grottesche, non pare dubbio che il suddetto requisito
13
procedura è da lui richiesta ed è nel suo interesse. Ancora una volta, quindi, appare del tutto
evidente che ragionare in termini di fatti impeditivi o estintivi che devono essere provati dal
debitore se lo desidera, è del tutto fuorviante proprio perché l’apertura delle procedure concorsuali
presuppone l’accertamento di tutta una serie di requisiti che devono sussistere per legge e, dove le
parti, non ritengano di provarle dev’essere il giudice che deve farsene carico per evitare che alle
procedure concorsuali (che non sono disponibili) possano avere accesso soggetti che non abbiano i
requisiti previsti dalla legge.
Ma, che tipo di prova dev’essere acquisito, chi deve acquisirle e quali sono le conseguenze della
mancanza o insufficienza?
Creditore istante (o P.m.): non vi è alcun dubbio che l’istante debba provare i seguenti elementi: a)
la qualità di imprenditore commerciale del debitore; b) l’insolvenza del medesimo; c) di essere
creditore di un credito scaduto superiore ad € 30.000,00 ovvero offrire elementi dai quali desumere
il suddetto elemento. La prova sub a) può essere data con la produzione delle visure camerali o del
registro delle imprese; la prova sub b) con la produzione di atti dai quali si desume il mancato
pagamento (es. pignoramento negativo); la prova sub c) con la produzione della documentazione
dalla quale risulti il credito ovvero con la produzione dei bollettini di protesto, certificati della
cancelleria attestante l’esistenza di esecuzioni. Ove il creditore non ritenga di provare i suddetti
requisiti o la prova sia insufficiente oppure non indichi la prova da assumere, l’istanza dev’essere
sicuramente respinta perché se il giudice ha il dovere di appurare l’esistenza di tutti i requisiti per
evitare di dichiarare il fallimento di un soggetto non fallibile, al contrario, essendo venuto meno la
dichiarazione di fallimento d’ufficio, non ha alcun obbligo di supplire alle carenze probatorie del
creditore e cioè andare alla ricerca di prove per dichiarare il fallimento del debitore perchè tale
indagine sarebbe un modo surrettizio di dichiarare il fallimento d’ufficio.
Debitore: a costui, indubbiamente, spetta la prova dei fatti impeditivi (sottodimensionamento) o
estintivi (art. 10), prova che dev’essere data con la produzione dei bilanci o di una aggiornata
relazione e con la produzione di un certificato camerale dal quale risulti la cessazione dell’impresa
(nel qual caso spetterà al creditore provare il contrario).
Tribunale: ove il debitore non si costituisca o costituendosi ammette i fatti dedotti dal creditore,
sicché l’istruttoria si basa solo sulle affermazioni del creditore e sull’ammissione del debitore, il
Tribunale, nell’ambito dei poteri officiosi di raccolta delle prove, può farsi carico di acquisire solo
quelle prove che, per vicinanza (intesa come facilità di acquisizione), non comportino attività
complesse: quindi, si può e si deve richiedere tutta quella documentazione in possesso di uffici
pubblici dalla quale poter desumere alcuni requisiti quali la qualifica di imprenditore commerciale
debba essere accertato anche d’ufficio dal giudice, come si desume peraltro dallo stesso art. 162/1 che facoltizza il
Tribunale a concedere al debitore un termine per «produrre nuovi documenti»
14
ancora in esercizio (o comunque che non è cessato da oltre un anno), l’acquisizione dei bilanci, dei
bollettini di protesto, delle certificazioni della cancelleria sulla pendenza di esecuzioni o decreti
ingiuntivi, posizioni Inps (numero dipendenti), dichiarazioni fiscali (mod. 730 – unico – Iva) ed
infine anche la classica informativa della G.d.f. ad es. sul tipo di attività svolta, come viene svolta e
con quali beni.
Se, all’esito di tale doverosa istruttoria ed acquisizione di documentazione, la prova resta incerta, le
conseguenze sono la reiezione del fallimento o l’accoglimento a seconda che la carenza probatoria
ricada sugli elementi costitutivi o impeditivi/estintivi.
Situazione perfettamente simmetrica deve adottarsi nel caso di AUTOFALLIMENTO (art. 14) a
norma del quale l’imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare: 1) le scritture
contabili obbligatorie; 2) e uno stato particolareggiato ed estimativo.
La suddetta documentazione serve, con tutta evidenza, a provare tutti gli estremi richiesti dalla
legge per la dichiarazione di fallimento, potendosi da essa desumere: 1) la qualifica di imprenditore
commerciale; 2) se è ancora in esercizio; 3) se è insolvente o meno; 4) se è o meno
sovradimensionato; 5) quali e quanti siano i crediti scaduti. Il fatto che il debitore debba produrre
tutta la suddetta documentazione, dimostra, ancora una volta, che la legge non consente che la
procedura di fallimento sia nella disponibilità delle parti le quali non vi possono accedere se non ne
posseggono i requisiti: infatti, se davvero la prova dei fatti impeditivi o estintivi fosse nella
disponibilità del debitore (il quale, quindi, provando o non provando i medesimi potrebbe ben
pilotare la decisione in un verso o in un altro a seconda della sue convenienze), il legislatore non
avrebbe usato il verbo “deve” ma il verbo “può”. Quale, quindi, la conseguenza nel caso di un
debitore che non produca la documentazione prevista? Sul punto, non avremmo dubbi nel ritenere
che l’istanza dev’essere respinta perché, se, nonostante un eventuale ulteriore invito da parte del
Tribunale a produrre la documentazione, il debitore non adempie, la sanzione non può che essere il
rigetto dell’istanza. Si potrebbe obiettare che, siccome il Tribunale ha i poteri di ufficio, allora,
dovrebbe anche in questo caso esercitarli.
Ma qui bisogna bene intendersi: a nostro avviso, in un sistema processuale che prevede, in modo
specifico ed articolato, chi deve provare e cosa dev’essere provato, è chiaro che il potere di indagine
del Tribunale dev’essere considerato un potere residuale che cioè dev’essere esercitato quando le
parti, nonostante abbiano tentato di farlo, non possono o non sono riuscite a dare la prova dei fatti
che spetta loro provare. E’ solo in questo caso che subentra il potere del Tribunale che può
esercitarlo solo se la prova è vicina (criterio della vicinanza) e cioè se, grazie ai suoi poteri di
ufficio, può avere facilmente accesso a quella documentazione alla quale, normalmente, le parti non
hanno accesso (ad es. documentazione fiscale - previdenziale ecc…). Ma, se la prova è nella loro
15
disponibilità e, pur potendo essere fornita, non viene data per inerzia, per incuria, per neghittosità o
per semplice strategia processuale (ad es. perché non la si ritiene che sia nel proprio interesse),
allora non c’è alcun motivo per cui il Tribunale debba supplire a questa evidente carenza istruttoria
e diventare non organo supplente ma addirittura organo servente. Quindi, in caso di mancata prova
di fatti che devono e possono essere provati dalle parti istanti, il tribunale deve rigettare la domanda
sia che provenga dal creditore/P.m. (istanza di fallimento) sia che provenga dallo stesso debitore
(autofallimento). Tale conclusione non può esser contestata con l’osservazione secondo la quale la
legge non prevede alcuna sanzione nei confronti del debitore inadempiente al suddetto obbligo,
perché, in realtà, non si tratta di una sanzione ma della conseguenza che discende dai principi
generali in materia di mancato assolvimento dell’onere probatorio.
La tesi secondo la quale il Tribunale deve andare sempre e comunque alla ricerca della prova, era
del tutto congruente con il precedente sistema in cui il Tribunale poteva e doveva dichiarare
d’ufficio il fallimento avendone l’iniziativa, ma ora che non ha più tale potere, è del tutto evidente
che anche i poteri istruttori vanno ridefiniti e, quindi, possono essere esercitati d’ufficio non in
funzione servente ma in funzione suppletiva e residuale per colmare quelle lacune istruttorie che le
parti non hanno saputo o voluto colmare.
Tutto ciò porta a ritenere e concludere che:
-
in un’ipotesi in cui le parti esercitano i rispettivi poteri, il ruolo del Tribunale rimane, in
effetti, residuale e marginale subentrando solo per colmare eventuali lacune istruttorie
secondo il criterio evidenziato (acquisizione di prove alle quali le parti non hanno accesso);
-
in una ipotesi in cui l’istruttoria svolta (rectius: non svolta) evidenzia il concreto pericolo
che le parti tentano di manipolare il procedimento per ottenere un risultato al quale non
hanno diritto (fallimento – conc. prev.), il Tribunale deve esercitare il suo ruolo di ricerca
della prova la quale, in questo caso, va intesa a tutela della legalità per evitare, appunto, che
alla procedura venga sottoposto un soggetto che non ne abbia i requisiti;
-
nell’ipotesi in cui è solo il creditore che prova i fatti costitutivi, nel mentre restano non
provati completamente i fatti impeditivi o estintivi (ad es. perché il debitore non compare o
se compare non si difende o addirittura ammette i fatti dedotti dal creditore), il Tribunale,
ancora una volta, nei limiti di cui sopra, deve cercare di appurare tutte le circostanze, ricerca
che non va intesa come una funzione servente nei confronti di una delle parti (debitore), ma
come una funzione a tutela della legalità. Si ricordi, infatti, che si avrebbe uno
stravolgimento delle regole processuali se il Tribunale andasse alla ricerca, d’ufficio e senza
alcuna richiesta da parte del creditore che non riesce a raggiungere una prova nel suo
interesse (documentazione presso uffici pubblici che si rifiutano di darla ad un terzo
16
Nel caso, invece, in cui il Tribunale va alla ricerca, anche autonomamente, di prove per così dire
nell’interesse del debitore, la prova non va considerata nell’interesse di costui ma, in realtà,
nell’interesse della tutela della legalità proprio perché è diretta non alla dichiarazione del fallimento
ma al rigetto dell’istanza di fallimento e, quindi, ad evitare che il fallimento diventi nella
disponibilità delle parti. In questo modo si conciliano due esigenze: 1) il principio di non officiosità
(la prova non va ricercata per la dichiarazione di fallimento); 2) il principio di non disponibilità
della prova (il fallimento non va dichiarato se non vengono accertati tutti i requisiti).
In altri termini, l’indubbia sussistenza di due principi poco conciliabili come il principio di non
officiosità del procedimento fallimentare (che comporta come corollario il principio dispositivo e,
quindi, quello della disponibilità della prova) con quello della non disponibilità della procedura (che
comporta come corollario che le parti non possono pilotare il processo secondo i loro desiderata in
quanto la procedura può essere aperta solo se sussistono i requisiti previsti dalla legge), porta alla
necessitata conclusione che il principio che deve regolare l’assunzione delle prova dev’essere
asimmetrico nel senso che:
-
tutte le prove che portano alla dichiarazione di fallimento devono essere prodotte e dedotte
da chi richiede il fallimento (creditore/debitore/P.m.) ed il tribunale può intervenire con i
poteri d’ufficio solo se: 1) la prova non sia raggiungibile o acquisibile dall’istante; 2) la
parte chieda al Tribunale che eserciti il potere d’ufficio;
-
tutte le prove che portano alla reiezione del fallimento devono essere prodotte e dedotte dal
debitore ed il tribunale deve esercitare i suoi poteri d’ufficio non solo nelle ipotesi sub 1-2precedenti, ma anche del tutto autonomamente sempre che si tratti di una prova facilmente
acquisibile.
In tutta questa problematica acquista un particolare rilievo la questione riguardante il piccolo
imprenditore proprio perché ci si è resi conto che il criterio di distribuzione dell’onere probatorio
fissato d’imperio dal legislatore, può portare alla dichiarazione di innumerevoli fallimenti di tutte
quelle situazioni marginali (sottratte, in linea di principio, alla dichiarazione di fallimento) in cui il
debitore non vuole, non può o non sa difendersi e gli stessi poteri d’indagine di ufficio del Tribunale
non sono sufficienti a colmare la lacuna probatoria.
Il piccolo imprenditore
L’argomento merita la massima attenzione proprio per i risvolti di natura probatoria e, quindi, sulla
fallibilità.
17
Per meglio capire i risvolti pratici della problematica, è opportuno, sia pure brevemente,
ripercorrere le tappe normative che hanno avuto per oggetto la suddetta nozione
R.d. 267/1942
Il piccolo imprenditore era escluso dalle procedure concorsuali ex combinato disposto degli artt.
2221 cod. civ. e 1 legge fall.
Sotto la previgente normativa, infatti, il secondo comma dell’art. 1 legge fall., dettava due criteri
quantitativi per l’individuazione del piccolo imprenditore, ossia il cd. criterio fiscale e il criterio del
capitale investito.
I suddetti criteri, peraltro, erano venuti completamente meno, da una parte, per effetto della riforma
fiscale (posto che a seguito del Dpr 597/1973 l’imposta di ricchezza mobile non è stata più prevista
dall’ordinamento), dall’altra, in conseguenza della sentenza n°570/1989 della Corte Costituzionale
che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.1/2 legge fall. nella parte in cui disponeva
che erano considerati piccoli imprenditori commerciali quelli nella cui azienda risultava essere stato
investito un capitale non superiore a £.900.000 18 .
Si era, quindi, verificato che il secondo comma dell’art. 1 legge fall. (ad eccezione dell’inciso «in
nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali»), in pratica, era stato
completamente espunto dall’ordinamento giuridico.
L’unica norma di riferimento, perciò, per individuare il piccolo imprenditore era rimasta l’art.2083
cod. civ. che, però, detta un criterio di natura qualitativo.
Secondo la citata pronuncia della Corte Cost. i limiti per differenziare il piccolo dal medio e grande
imprenditore «devono essere stabiliti in relazione all’attività svolta, all’organizzazione dei mezzi
impiegati, all’entità dell’impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia
generale».
Come ognuno può notare si trattava di criteri molto labili che comportavano, sul piano pratico, non
poche difficoltà applicative, come si può evincere facilmente da una rapida lettura delle numerose e
fra loro differenti sentenze dei giudici di merito che, grazie all’amplissima discrezionalità derivata
dall’abrogazione dell’art.1/2 legge fall., privilegiavano ora un criterio ora un altro 19 . Era anche
18
Corte Cost. 570/1989 in Fall. 1990, 250, in Dir. Fall.1990, II, 91.
Senza alcuna pretesa di completezza si indicano qui di seguito, alcune pronunce di giudici di merito che denotano
una gran varietà di opinioni: Trib.Verona 16/2/1990 in Fall. 1990, 1041 (con giusta nota critica di Pettarin) e in
Dir.Fall.1992, II, 281 (con nota La Mattina) ha stabilito che per individuare il piccolo imprenditore occorre che
l’accertamento vada operato con riferimento al capitale impiegato il cui importo dev’essere inferiore ai trenta milioni
nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. La suddetta somma viene ricavata tenuto conto degli stipendi medi
della categoria di commercio per gli impiegati con una certa anzianità e responsabilità;
Trib. Milano 20/9/1990 in Fall.1991, 310 reputa soggetto al fallimento l’imprenditore che abbia investito nell’azienda
un capitale di una quindicina di milioni;
19
18
controverso se fossero o meno soggette alle procedure concorsuali, ex art.1/2 ultimo inciso legge
fall., le società commerciali di piccole dimensioni 20 .
Peraltro, a livello probatorio, era pacifico che spettava al creditore dimostrare la fallibilità del
debitore in quanto tutti i requisiti per la fallibilità (ivi compresa la prova che l’imprenditore dovesse
essere non piccolo) erano considerati elementi costitutivi della istanza21
Dlgs 5/2006
La situazione è completamente mutata a seguito della legge di riforma che ha integralmente
modificato l’art. 1/2 della legge fall. il quale fu così formulato «ai fini del primo comma non sono
piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che,
anche alternativamente:
a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro
trecentomila;
b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre
anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo
superiore a euro duecentomila»: i suddetti limiti, infine, a norma del terzo comma, possono
Trib. Milano 29/4/1993 in Fall.1993, 1268 ritiene che il giudice non debba far ricorso ad un criterio quantitativamente
rigido sostitutivo e dimensionalmente più adeguato di quello soppresso dalla Corte Cost., ma deve porre l’accento sul
grado di allarme sociale che l’insolvenza può determinare nel mondo economico e tener conto dell’ammontare del
capitale investito e della struttura organizzativa dell’impresa (nel caso di specie venne dichiarato fallito un ambulante
con un volume d’affari di circa 250.000.000 e con debiti per circa 400.000.000); negli stessi termini, Trib. Milano
15/6/1995 in Fall. 1995, 1247;
Trib. Velletri 25/2/1993 ivi 1993, 1268 ritiene che «l’identificazione del discrimine tra impresa piccola e non piccola
implica una valutazione elastica da condurre caso per caso, dovendosi rifuggire dalla suggestione della ricerca di
soluzioni interpretative che pretendano di rinvenire criteri di selezione più o meno rigidamente predeterminati i quali
finiscono per rivelarsi essi stessi largamente arbitrari (nel caso di specie venne respinta l’istanza di fallimento nei
confronti del titolare di un’enoteca senza dipendenti in cui era stato investito un capitale di £.70.000.000 con debiti tutti
di modesto ammontare)»; negli stessi termini Trib. Orvieto 23/11/1992 ivi 1993, 553;
Trib. Roma 22/7/1992 ivi 1993, 225 privilegia la prevalenza del lavoro sul capitale; negli stessi termini: C.A. Bologna
6/11/1992 ivi 1993, 553; Trib. Torino 19/1/1995 ivi 1995, 673 e 6/12/1995 ivi 1996, 297 dove, si ritiene che l’allarme
sociale determinato dal dissesto vada valutato in linea subordinata rispetto alla prevalenza del lavoro sul capitale
20
Sul punto la Corte Cost. (nonostante le ripetute questioni di illegittimità costituzionali sollevate da molti giudici di
merito) si è dimostrata irremovibile respingendo, sempre, ogni tentativo di far caducare dl tutto il secondo comma
dell’art.1 legge fall: Corte Cost. n° 54/1991 in Fall. 1991, 338; n° 368/1991 in Fall. 1991, 1034; n° 374/1993 in Dir.
Fall. 1993, II, 1017 con nota di Ragusa Maggiore; n° 266/1994 in Dir.Fall.1994, II, 661 con nota di Di Lauro; n°
490/1994 ivi 1995 II 211; n° 421/2005. In proposito, va rilevato che mentre alcuni giudici di merito si sono adeguati
(Trib. Torino 8/10/1994 in Fall. 1995, 99), altri, hanno continuato a non dichiarare fallibili le piccole società
commerciali (Trib. Trieste 25/11/1993 in Fall. 1994,420- Trib. Alessandria 21/5/1994 in Dir. Fall. 1994, II, 542- Trib.
Barcellona Pozzo di Gotto 7/6/1994 ivi 1994, II, 1249). Sul punto, è intervenuta anche la sul punto è intervenuta, la S.C.
che ha fatto proprio la tesi secondo la quale anche le società commerciali possono essere considerate piccoli
imprenditori e quindi non soggette a fallimento quando ricorrano i requisiti previsti dall'art. 2083 C.C. con ciò
evitandosi una disparità di trattamento non solo fra imprese individuali e collettive ma anche nei confronti di società
commerciali che pur presentino i requisiti della piccola impresa, come definita dall'art. 2083 C.C.: Cass. 18235/2002 in
Foro it. 2003, I, 764, Fall. 2003, 760 con nota di Vivaldi; Cass. 20640/2004 in D&G - Dir. e Giust. 2004, f. 42, 36 con
nota di Genovese;
21
Cass. 744/1990 cit.
19
essere aggiornati, con decreto del Ministro della Giustizia, ogni tre anni, sulla base degli
indici Istat.
La formulazione in negativo del piccolo imprenditore, dette subito la stura ad una notevole
questione interpretativa.
Secondo una prima tesi, dal fatto che la legge non indicava in positivo chi dovesse essere
considerato un piccolo imprenditore (così come invece faceva il vecchio art. 1), discendevano le
seguenti conseguenze:
-
gli imprenditori che superavano i limiti dimensionali di cui all’art. 1/2 in quanto
imprenditori non piccoli, erano soggetti al fallimento;
-
al di sotto delle suddette soglie, però, c’era lo spazio per recuperare la nozione di piccolo
imprenditore secondo la normativa del cod. civ. e, quindi, secondo il criterio qualitativo fino
ad allora adottato dai tribunali. Da ciò conseguiva, quindi, che, al di sotto delle suddette
soglie, si doveva tornare a valutare, di volta in volta, secondo il criterio qualitativo
codicistico, chi fosse o meno piccolo imprenditore in quanto poteva essere dichiarato fallito
anche l’imprenditore che, pur trovandosi sotto le soglie quantitative previste dall’art. 1/2,
tuttavia gestiva una vera e propria organizzazione aziendale fondata sul capitale e sul lavoro
altrui. Al contrario doveva andare esente da fallimento l’imprenditore che gestiva
un’azienda fondata sul lavoro personale suo e dei suoi familiari.
La conseguenza, a livello di onere probatorio che si traeva dalla suddetta tesi era che, ai fini della
sussistenza dei requisiti di fallibilità, l’imprenditore che avesse voluto sottrarsi al fallimento,
avrebbe dovuto assolvere ad un duplice onere probatorio e cioè avrebbe dovuto provare:
-
di essere qualitativamente piccolo secondo i criteri di cui all’art. 2083 c.c.: infatti, ove il
legislatore avesse voluto fornire una nozione di piccolo imprenditore, legata solo a parametri
di natura dimensionale, lo avrebbe fatto stabilendo, in positivo, che è piccolo l'imprenditore
che non supera i limiti di cui all’art. 1 secondo comma; invece, la norma stabiliva che «ai
fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori […]»: ma dire che non è piccolo
imprenditore chi supera i predetti parametri non significa dire che chi ne è al di sotto sia un
piccolo imprenditore. Ciò comportava, pertanto, che, al di sotto dei parametri dimensionali
di cui all’art. 1 secondo comma, trovava nuovamente spazio applicativo l’art. 2083 c.c. con
tutta la connessa ed usuale problematica;
-
di essere anche quantitativamente piccolo e cioè che non superava alcuno dei parametri
dimensionali di cui al comma 2° dell’art. 1 L.F.: infatti, se anche qualitativamente, sotto il
profilo dell’art. 2083 c.c., fosse un piccolo imprenditore, ove, per avventura, avesse superato
i limiti quantitativi di cui al secondo comma dell’art. 1, avrebbe dovuto ugualmente essere
20
22
.
Era questa un tesi che, ovviamente, comportava un innalzamento della soglia di fallibilità proprio
perché, grazie al meccanismo probatorio descritto, tutti gli imprenditori che, pur trovandosi al di
sotto della soglia quantitativa di cui all’art. , non fossero riusciti a provare anche di essere piccoli
imprenditori, venivano dichiarati falliti.
A questa tesi, si contrapponeva, però, la tesi maggioritaria che, ai suddetti argomenti, così ribatteva:
-
la filosofia di fondo che aveva ispirato la riforma della legge fallimentare, era stata quella,
indiscutibilmente e pacificamente, come emergeva dalla legge delega e dalla relazione alla
legge, di ridurre l’area delle insolvenze comportanti la dichiarazione di fallimento e tale
obiettivo lo si era perseguito riesumando il criterio quantitativo che pure era presente nel
vecchio art. 1 legge fall. prima che venisse travolto dalla riforma fiscale (che aveva abolito il
criterio dell’imposta di ricchezza mobile) e dalla sentenza 570/1989 della Corte
Costituzionale: infatti, da un parte, erano stati introdotti i criteri di cui alle lettere a) e b)
dell’art. 1 secondo comma, e, dall’altro, indipendentemente da ogni valutazione dei
parametri suddetti, si era vietata la dichiarazione di fallimento ove il debito non superasse la
soglia di € 25.000,00: il criterio ermeneutico dell’interpretazione storica, contrastava,
quindi, nettamente, con l’interpretazione di cui si è detto;
-
in un’ottica, pertanto, di evidente innalzamento della soglia di fallibilità, sarebbe stato un
evidente paradosso giuridico l’aggravamento della posizione processuale del debitore che,
così, si sarebbe trovato stretto fra due parametri e cioè quello quantitativo, previsto dalla
legge fallimentare, e quello qualitativo previsto dal codice civile, parametro quest’ultimo al
quale si fu costretti a ricorrere, è opportuno ribadirlo, una volta che vennero meno quelli
quantitativi previsti dalla legge fallimentare: anche il criterio teleologico, quindi, contrastava
con la tesi in questione;
22
Trib. Firenze 31/1/2007 secondo il quale «Le conseguenze di quanto precede, sul piano processuale, sono costituite
dal fatto che il creditore che agisce in giudizio per sentir dichiarare il fallimento del suo debitore può limitarsi a dedurne
la qualità imprenditoriale e sarà quest’ultimo a dover invocare la propria qualità di piccolo imprenditore, con possibilità
per il creditore, a sua volta, ove accertata la qualità, di dimostrare il superamento dei limiti indicati nell’art. 1 più volte
citato, con la ulteriore conseguenza che, ove il debitore sia piccolo imprenditore ma superi detti limiti sarà ugualmente
soggetto al fallimento come, di norma lo è l’imprenditore non piccolo.
Sotto il profilo probatorio, quindi, la dimostrazione della qualità di piccolo imprenditore si connota come eccezione, il
cui onere incombe su colui che la invoca e non fa carico certo a chi agisce in giudizio per sentir dichiarare il fallimento.
Interesse di quest’ultimo sarà, invece, la dimostrazione del superamento dei parametri di cui alle lettere A e B del
secondo comma dell’art. 1 L.F. in quanto integranti fatto impeditivo alla operatività della eccezione al generale
principio di fallibilità dell’imprenditore commerciale costituito dall’essere piccolo imprenditore ex art. 2083 c.c.»
21
-
dal punto di vista dell’interpretazione sistematica, il recupero del criterio qualitativo dell’art.
2083 c.c., con il limite di cui all’art. 15 di € 25.000,00 creerebbe due evidentissimi effetti
distorsivi a livello probatorio: innanzitutto, la prova di essere un piccolo imprenditore a
norma dell’art. 2083 c.c., nel caso delle società di capitali sarebbe spesso impossibile da
dare, con il che, di fatto, si porrebbe nel nulla l’altra grande novità della riforma che, proprio
sfruttando i soli parametri oggettivi di cui alle lettere a) e b), ha definitivamente superato la
vecchia disposizione in base alla quale non potevano essere considerate piccoli imprenditori
le società commerciali (art. 1/2 ultima parte legge fall.): si verificherebbe, in altri termini
che, di fatto, le società di capitali, in quanto impossibilitate a provare di esercitare l’attività
con il lavoro dei soci e dei componenti della famiglia e che questo è superiore al capitale
apportato, sarebbero, in pratica, sempre condannate ad essere fallite; in secondo luogo, si
verificherebbe un’ulteriore disarmonia probatoria derivante dal fatto che un imprenditore
(individuale o collettivo), che pure abbia superato i limiti di cui all’art. 1, non sarebbe
comunque soggetto al fallimento ove non abbia debiti superiori ad € 25.000,00, mentre un
imprenditore, con debiti superiori a tale importo, ma che si trova al di sotto dei parametri di
cui all’art. 1, dovrebbe provare anche di essere un piccolo imprenditore a norma dell’art.
2083 c.c.;
-
pertanto, deve concludersi, sulla base degli evidenziati argomenti di natura storica,
teleologica e sistematica, che la norma in questione, sebbene possa prestarsi ad essere
interpretata nel modo di cui si è detto, è una norma scritta in modo approssimativo e che,
quindi, va interpretata nel senso che, per la legge fallimentare, valgono solo ed
esclusivamente, i parametri quantitativi di cui alle lettere a) e b) senza che sia necessario il
ricorso al criterio qualitativo di cui all’art. 2083 c.c. che è sempre stata una norma del tutto
estranea alla logica della legge fallimentare, dettata per altre finalità, e alla quale si è dovuto
ricorrere, in via interpretativa, per colmare la lacuna che si era venuta a creare con
l’abrogazione del secondo comma dell’art. 1, esigenza, però, venuta meno con la completa
riscritturazione del nuovo art. 1.
A livello probatorio, le conseguenze che si traevano dalla suddetta tesi possono essere così
riassunte: «il Tribunale, aderendo ad una autorevole e persuasiva dottrina, ritiene che, almeno per
le società commerciali, la qualifica di imprenditore non piccolo debba presumersi, in quanto
connotazione normale
della tipologia societaria. L'eventuale mancato superamento dei limiti
previsti dalla citata norma della legge fallimentare deve essere allegato e provato dalla parte
interessata, e cioè dal debitore in via di eccezione. Nel caso, la società debitrice, non comparendo,
22
ed omettendo di adempiere all'obbligo di depositare lo stato patrimoniale aggiornato, ai sensi
dell'art. 15 comma 4 l.f., nulla ha dedotto od eccepito in proposito.
In assenza di una specifica disciplina della ripartizione dell'onere probatorio, soccorrono due criteri,
che inducono ad attribuire al debitore l'onere di eccepire e dimostrare il mancato superamento dei
limiti dimensionali, idoneo a qualificarlo piccolo imprenditore ai sensi dell'art. 1 co. 2 l.f., e non al
creditore procedente di provare il contrario.
Il primo, definibile come criterio della regola ed eccezione, fa leva sul carattere usuale, normale, o
no, che accompagna, secondo la comune esperienza, una determinata situazione, ed induce a
qualificare come fatti costitutivi, da provare in via di azione, gli elementi che integrano la situazione
stessa, e come fatto impeditivo, da dedurre e provare in via di eccezione, l'eventuale difetto, cui la
legge attribuisca rilievo, di quelle connotazioni che
costituiscono il normale corredo della
situazione data (si vedano, quali rationes decidendi che fanno riferimento a questo criterio: Cass.,
5159/04; Id., 3063/00; Id., 8958/91; Id. 455/86).
Il secondo criterio attiene alla «vicinanza» delle parti rispetto al fatto da provare e suggerisce di
attribuire l'onere della prova, rispetto all'esistenza o non esistenza di un determinato fatto, a quella
delle parti che sia maggiormente in grado di fornire agevolmente la prova richiesta (cfr. Cass.,
3651/06; Id., 11488/04, Id., SS.UU., 13533/01).
Entrambi i criteri inducono ad onerare il debitore, quanto meno nel caso in cui si tratti di società
commerciale, della prova del mancato superamento dei limiti dimensionali previsti dall'art. 1 co. 2
l.f., posto che, per tale tipologia di imprenditore collettivo, è normale che ci si organizzi secondo
parametri economici ben superiori e che la prova dell'eventuale sottodimensionamento può essere
agevolmente fornita solo dal soggetto interessato, che può produrre la documentazione contabile,
mentre il creditore procedente può al massimo disporre, e solo per le società personificate, dei
bilanci resi pubblici attraverso il deposito presso il Registro delle Imprese.
La conclusione ha anche il pregio della coerenza rispetto da una precisa previsione di legge che,
diversamente, risulterebbe eludibile senza alcuna conseguenza negativa. Si tratta della già
menzionata disposizione di cui all'art. 15 co. 4 l.f., che impone al debitore di depositare, su invito
del Tribunale, una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata, che può costituire la
base per ulteriori accertamenti. Tale norma non risulta fornita di sanzione diretta e, ove si onerasse
il solo creditore o l'ufficio di svolgere accertamenti ed acquisire e fornire dati, risulterebbe
pleonastica, nessuna conseguenza negativa essendo ricollegabile alla relativa inosservanza. Se
inserita, invece, nel contesto della disciplina dell'onere probatorio a cui il Tribunale ritiene di
pervenire, essa assume un ben preciso significato, come strumento di impulso e di sollecitazione,
nell'intento generale di celerità che caratterizza l'intera nuova disciplina, rispetto ad una attivazione
23
che è onere della parte obbligata di porre in essere. E corrobora la lettura secondo cui la mancata
attivazione abbia un significato ammissivo circa il superamento dei limiti, ovvero, più
propriamente, rivesta il senso della rinuncia tacita a far valere l'eccezione intesa a configurare la
non fallibilità per la ricorrenza degli estremi della nozione giusfallimentare di piccola impresa» 23 .
Dlgs 169/2007
Fu proprio la pessima tecnica con la quale era stato redatto il nuovo art 1 e le interpretazioni
contrastanti che ne erano conseguite con le notevoli ricadute di natura pratica che rischiavano di
verificarsi nell’applicazione della legge nei vari Tribunali (e, cioè lo stesso imprenditore poteva
essere dichiarato fallito o non a seconda del Tribunale che lo giudicava) che, con il decreto
correttivo, si è cercato di correre ai ripari.
L’art. 1 è stato, quindi, nuovamente riscritto espungendo, da una parte, nel primo comma,
completamente la nozione di piccolo imprenditore e, dall’altra, introducendo, nel secondo comma,
un onere probatorio a carico del debitore in ordine al sottodimensionamento nel senso che se il
debitore non vuole fallire deve eccepire il sottodimensionamento e, soprattutto, deve provarlo.
Sul punto, la relazione governativa è molto chiara. In essa, infatti, si legge «L’articolo 1 del
presente decreto legislativo, reca disposizioni correttive del Titolo I della legge fallimentare. Il
primo comma sostituisce l’articolo 1 della legge fallimentare e, al fine di definire in maniera più
chiara e precisa l’area della fallibilità, introduce sostanziali novità in materia di presupposto
soggettivo del fallimento. Le modifiche tengono conto del fatto che, l’eccessiva riduzione dell’area
della fallibilità venutasi a determinare a seguito della novella del 2006, spesso ha impedito di
assoggettare al fallimento ed alle conseguenti sanzioni penali imprenditori di rilevanti dimensioni
con elevati livelli di indebitamento, danneggiando, in tal modo, sia i numerosi creditori
insoddisfatti, che il sistema economico in generale. Quindi, la necessità di eliminare, pur sempre
nel rispetto della delega iniziale, gli eccessi della riduzione dell’area della fallibilità, ha consigliato
l’introduzione, nell’ambito dei presupposti soggettivi, del nuovo criterio dell’ammontare
dell’indebitamento complessivo dell’imprenditore. Più in dettaglio, va evidenziato il fatto che, per
delimitare l’area dei soggetti esonerati dal fallimento, non viene più utilizzata la nozione di
piccolo imprenditore commerciale, ma vengono indicati direttamente una serie di requisiti
dimensionali massimi che gli imprenditori commerciali (resta quindi ferma l’esonero dalle
procedure concorsuali di tutti gli imprenditori agricoli, piccoli e medio grandi) devono possedere
congiuntamente per non essere assoggettati alle disposizioni sul fallimento e sul concordato
preventivo. In questo modo, si superano i contrasti interpretativi sorti in ordine all’individuazione
23
Trib. Torino 27/12/2006
24
dei criteri di qualificazione delle nozioni di piccolo imprenditore (art. 2083 del cod. civ.), da una
parte, e di imprenditore non piccolo (art. 1. L.F.), dall’altra: concetti entrambi contemplati
dall’articolo 1 della legge fallimentare, come modificato dal decreto legislativo n. 5 del 2006.
Con le introducende disposizioni, la non fallibilità dell’imprenditore commerciale viene ancorata
alla sussistenza congiunta non solo dei due requisiti attualmente previsti (che comunque vengono
meglio precisati: attivo patrimoniale, da una parte, e ricavi lordi annui, dall’altra), ma anche del
nuovo parametro della esposizione debitoria complessiva - comprensiva, sia dei debiti scaduti, che
di quelli non scaduti non superiore a cinquecentomila euro. Inoltre, il parametro alquanto vago e
di incerta definizione dell’ammontare degli “investimenti” viene sostituito con quello dell’”attivo
patrimoniale”, il quale consente di far riferimento alla precisa elencazione contenuta nell’art. 2424
c.c.. Viene inoltre precisato che, l’attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore ad euro
trecentomila da prendere in considerazione è soltanto quello relativo agli ultimi tre esercizi
antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento. L’indicazione degli ultimi tre esercizi
anteriori alla presentazione del ricorso o della richiesta di fallimento serve a delimitare nel tempo
il campo di indagine del tribunale, evitando difformità di prassi applicative, in coerenza con la
disposizione dell’articolo 14, che fa obbligo al debitore che chiede il proprio fallimento di
depositare presso la cancelleria <<le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre
esercizi precedenti>>. Anche il criterio dei ricavi lordi viene meglio precisato e reso più rigido, in
quanto, una volta eliminato il concetto di media dei ricavi degli ultimi tre esercizi, si richiede che,
in nessuno dei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, l’imprenditore
abbia realizzato ricavi lordi annui superiore ad euro duecentomila. Di notevole importanza, poiché
supera i gravi problemi interpretativi emersi in materia di distribuzione dell’onere della prova del
presupposto soggettivo del fallimento, è la disposizione volta a precisare che grava sul debitore
l’onere di fornire la prova dei requisiti di non fallibilità, intesi come fatti impeditivi della
dichiarazione di fallimento. E’ quindi onere dell’imprenditore fallendo dimostrare di non aver
superato (nel periodo di riferimento) alcuno dei tre parametri dimensionali previsti dalla norma in
esame. Si evita, così, di “premiare” con la non fallibilità quegli imprenditori che scelgono di non
difendersi in sede di istruttoria prefallimentare o che non deposito la documentazione contabile
dalla quale sarebbe possibile rilevare i dati necessari per verificare la sussistenza dei parametri
dimensionali. In tale modo, qualora gli elementi probatori, dedotti dalle parti o acquisiti d’ufficio,
non sono sufficienti a fornire la prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità,
l’imprenditore, permanendo l’incertezza sulla sussistenza o meno dei requisiti soggettivi di
esenzione dal fallimento, resta assoggettato alla procedura fallimentare».
25
Il legislatore del 2007, però, si è “dimenticato” dell’art. 2221 c.c. il quale, nonostante la modifica
dell’art. 1 legge fall., continua a disporre che non sono soggetti alle procedure concorsuali i piccoli
imprenditori.
Da questo mancato coordinamento fra il cod. civ. e la legge fall., è, quindi, risorto nuovamente il
problema del piccolo imprenditore e cioè se e in che limiti possa essere dichiarato fallito e, quindi,
se e in che termini la nozione qualitativa di cui al cod. civ. trovi ancora spazio nella legge fall. che,
all’art. 1 detta un criterio di natura quantitativo.
La questione è sembrata rilevante soprattutto per le implicazioni che a livello di prova (ossia di
onere di probatorio) discendono dal ritenere ancora applicabile la nozione qualitativa di piccolo
imprenditore.
Infatti, secondo una delle prime applicazioni che si è fatta della legge 24 , «le norme sul presupposto
soggettivo affermano due regole generali: la fallibilità delle medie e grandi imprese (con esclusione
di quelle soggette alla sola liquidazione coatta amministrativa o alla procedura di amministrazione
straordinaria) e la non fallibilità delle piccole imprese. Il secondo comma dell’art. 1 l. fall., rispetto
alla prima regola [n.d.r. la fallibilità delle medie e grandi imprese] introduce una deroga, rispetto
alla seconda regola [n.d.r.: non fallibilità delle piccole imprese] circoscrive ulteriormente la nozione
di piccolo imprenditore non fallibile, nel senso che assoggetta al fallimento quelle imprese che, pur
lavorando in via esclusiva o principale con il lavoro proprio del titolare e dei familiari, abbiano
tuttavia raggiunto determinati livelli di patrimonio, ricavi o indebitamento» 25 .
24
Trib Salerno 7/4/2008 ricorso c/ C.C.F - Trib Salerno 7/4/2008 ricorso c/ M.G.A.
Il passo della motivazione che si è riportato per esteso, costituisce una chiara ed evidente prova dei salti logici che si è
costretti a fare per conciliare l’inconciliabile.
Innanzitutto, la legge fall. non parla mai di imprese piccole, medie o grandi. Solo nell’amm. Straor. si parla di grandi
imprese che, però, per essere considerate tali, ai fini della procedura, devono avere requisiti di natura sostanziale del
tutto differenti rispetto a quelli di cui all’art. 1 della legge fall.
Si può, quindi, affermare che non è corretto, ai fini interpretativi, introdurre delle nozioni e classificazioni che sono
completamente estranee alla normativa di settore.
Il secondo comma, come appare del tutto evidente, si limita a porre una semplice eccezione all’unica regola generale
contenuta nel primo comma (fallimento dell’imprenditore commerciale) e, quindi:
- non è vero che introduce una deroga alla fallibilità delle medie – grandi imprese per la semplice ragione che
nessuna norma fissa (nella legge fall.) il concetto di media/grande impresa che è un concetto di natura
sociologico e non giuridico (ad eccezione di quello contenuto, per le grandi imprese nelle leggi sulla Amm.
Straord);
- non è vero che circoscrive la nozione di piccolo imprenditore nel senso che costoro sarebbero fallibili anche se
superano uno solo dei parametri di cui all’art. 1 secondo comma: si tratta, invero, di una regola che non ha
alcun riscontro normativo e che non può essere desunta in via interpretativa proprio perché nella legge fall.,
volutamente, il legislatore, per tutti i motivi di cui si è detto, ha definitivamente espunto la nozione di piccolo
imprenditore.
D’altra parte, proprio il ricorso ad un evidente artificio logico e giuridico, costituisce la miglior prova che si tenta di
conciliare l’inconciliabile ossia la nozione qualitativa di piccolo imprenditore (di cui all’art. 2083 c.c.) con quella
quantitativa, cosa che nemmeno il legislatore del 1942 si era azzardato a fare perché, pur escludendo dal fallimento il
piccolo imprenditore, aveva fatto una netta scelta di campo, qualificando come piccolo imprenditore, ai fini della legge
fall., quello che rientrava in determinati parametri quantitativi ossia dando una nozione del tutto diversa da quella del
cod. civ.
25
26
La conseguenza sarebbe, appunto che «Le modifiche del decreto correttivo non hanno attratto
nell’area della fallibilità anche il piccolo imprenditore, secondo la definizione data dall’art. 2083
c.c., che ne resta di regola escluso (art. 2221 c.c.), ma hanno posto un confine alla definizione di
piccolo imprenditore rilevabile dall’art. 2083 c.c., dato dal superamento di determinate soglie di
patrimonio, ricavi o indebitamento. Operando come eccezione, non incombe al piccolo
imprenditore l’onere di provare il possesso congiunto dei requisiti di cui al secondo comma dell’art.
1 l. fall. ma, al contrario, spetta al creditore o all’iniziativa officiosa del giudice l’acquisizione della
prova positiva del possesso di almeno uno di quei requisiti. In mancanza di tale prova contraria, è
sufficiente che risulti, anche da elementi acquisiti d’ufficio, che il resistente sia piccolo
imprenditore ai sensi dell’art. 2083 c.c. per il rigetto del ricorso. Al contrario, per le imprese non
aventi le caratteristiche indicate dall’art. 2083 c.c., la regola generale di fallibilità impone al
resistente, che contesti il superamento delle soglie, l’onere non solo di allegazione ma anche di
prova del possesso congiunto dei requisiti».
In altri termini, il creditore dovrebbe provare che il debitore:
-
è un imprenditore commerciale;
-
si trova in stato d’insolvenza;
-
non è piccolo in quanto supera almeno uno dei parametri di cui all’art. 1
La suddetta tesi è stata sviluppata, con tutta evidenza, al dichiarato fine di evitare di dichiarare il
fallimento di imprenditori marginali che, non potendo o non volendo difendersi, non assolvono
l’onere probatorio di cui all’art. 1 secondo comma precludendo anche al tribunale il potere di
esercitare d’ufficio i poteri istruttori.
A nostro avviso si può giungere tranquillamente alla stessa soluzione in modo molto più lineare.
Cominciamo dall’inequivoco dato normativo costituito dal fatto che la legge fallimentare non
prevede più l’esclusione dal fallimento del piccolo imprenditore ma stabilisce che dev’essere
dichiarato fallito solo l’imprenditore commerciale che superi alcuni determinati parametri: il che
significa a contrario che tutti gli imprenditori commerciali che sono sottodimensionati non possono
essere dichiarati falliti.
Si tratta di una nozione chiara ed inequivoca che ristabilisce il criterio quantitativo che era
sempre stato, storicamente, l’unico criterio valido per la legge fallimentare.
E’ vero però che nell’art. 2221 c.c. si continua a parlare di piccolo imprenditore non soggetto al
fallimento.
Ora le strade per armonizzare la legge fallimentare con quella codicistica sono due:
la prima consiste nel ritenere che per piccolo imprenditore si debba intendere, tout court,
l’imprenditore sottodimensionato, nonostante la legge fall. non contenga più alcun richiamo al
27
piccolo imprenditore. L’art. 2221 acquisterebbe così una funzione meramente classificatoria e di
rinvio alla legge fall. la quale conterrebbe, quindi, i criteri (quantitativi) per l’individuazione del
piccolo imprenditore. Questa tesi, però, (che finisce per riproporre, in versione aggiornata il vecchio
art. 1) mostra i suoi limiti laddove si tratta di spiegare il motivo per cui il legislatore ha ritenuto di
espungere completamente dalla legge fall. la nozione di piccolo imprenditore.
L’altra soluzione, a nostro avviso più corretta, consiste nel ritenere che la nuova formulazione
dell’art. 1 sia onnicomprensiva ed esaustiva sicché non vi è spazio per altre categorie non soggette
alla legge fall. La nuova legge, in altri termini, ha determinato l’abrogazione implicita dell’art. 2221
c.c. che non ha più ragion d’essere.
L’abrogazione tacita, com’è noto, si verifica quando «… lo “ius superveniens” interviene a
regolare il medesimo rapporto disciplinato dalla legge precedente e quando fra le due disposizioni
sussista una tale contraddizione da renderne impossibile la contemporanea operatività, nel senso
che l'applicazione e l'osservazione dell'una implicherebbe necessariamente disapplicazione o
inosservanza dell'altra» 26 .
Ora, se si ritiene che, nel nuovo sistema, l’unico criterio previsto per la dichiarazione di
fallimento sia quello quantitativo, è chiaro che non avrebbe alcun senso continuare a ricorrere anche
al criterio qualitativo di cui all’art. 2083 c.c. non peraltro perché il sistema correrebbe il rischio di
andare in corto circuito nei casi in cui le due nozioni si accavallano.
Si ipotizzi la seguente fattispecie: piccola ditta individuale che supera solo il parametro
dell’indebitamento restando, per gli altri, ben al di sotto dei limiti previsti dalla legge.
Ora, in un caso del genere, quale criterio si deve seguire? Se si segue quello qualitativo (art.
2083) non vi è alcun dubbio che si debba qualificare la società come piccolo imprenditore (e,
quindi, esclusa dal fallimento), laddove, invece, se si segue il criterio quantitativo dell’art. 1,
l’impresa resta soggetta al fallimento.
In questo caso, è del tutto evidente che i due criteri non sono compatibili e conciliabili proprio
perché l’applicazione dell’uno esclude quello dell’altro.
In altri termini, secondo la tesi qui contestata, alla fine, si avrebbero tre categorie di imprenditori:
-
imprenditori medi/grandi, ossia quelli sovradimensionati ex art. 1: sono soggetti al
fallimento;
-
imprenditori piccoli: per questi vale il criterio qualitativo ex art. 2083 c.c.: non sono
soggetti al fall. ex art. 2221 c.c.;
-
imprenditori piccoli ma che superano anche uno solo dei criteri quantitativi di cui all’art.
1: in questo caso sarebbero soggetti al fallimento.
26
Cass. Civ. n .2502 del 21/02/2001
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E’, pero, del tutto evidente, l’artificio logico e giuridico al quale è costretta a ricorrere la suddetta
tesi e cioè la creazione di una nuova figura di imprenditore che viene collocato a metà strada fra il
piccolo imprenditore qualitativo e quello quantitativo. Infatti, non si capisce in base a quale
meccanismo giuridico un imprenditore che, secondo il criterio qualitativo di cui all’art. 2083 c.c.
dovrebbe essere considerato piccolo e, quindi, non fallibile, sol perché supera uno dei parametri
quantitativi di cui all’art. 1 legge fall. diventa fallibile. Quello che si vuol dire, in altri termini, è che
non è possibile mescolare due nozioni fra di loro antitetiche perché o l’imprenditore è piccolo
secondo i parametri qualitativi di cui all’art. 2083 c.c. (e, allora non fallisce), o la sua fallibilità
dev’essere valutata solo alla stregua di criteri quantitativi. Terze vie non possono esistere perché
sarebbero solo fonte di ulteriori problemi ed incongruenze.
Ad es. una società di capitali (quindi, secondo il criterio qualitativo, sicuramente non è un
piccolo imprenditore) che sia sottodimensionata (seppure di pochissimo) sotto tutti i tre i profili di
cui all’art. 1, non fallisce differentemente dal piccolo imprenditore che superi, anche se di poco,
solo uno dei suddetti criteri.
Ed ancora, se si pone a carico del creditore istante, l’onere di provare che l’imprenditore non è
piccolo, si contraddice, in modo evidente, l’art. 1 che pone a carico del debitore la prova di essere
sottodimensionato. Infatti, dire che il creditore deve provare che l’imprenditore non è piccolo e che
supera almeno uno dei parametri di cui all’art. art. 1 significa ribaltare l’onere della prova che la
legge pone invece a carico del debitore.
In conclusione, i limiti della suddetta tesi consistono, con tutta evidenza, nell’impossibilità di
creare una terza figura di imprenditore che si collochi fra quello che supera i limiti dimensionali
(imprenditore medio grado, soggetto fallimento) e quello che tali limiti non supera (piccolo
imprenditore, non soggetto fallimento) e al quale sarebbe riservato un trattamento (in ordine
all’onere probatorio) del tutto peculiare nel senso che sarebbe soggetto al fallimento solo se il
creditore riesce a provare il superamento di uno dei criteri dimensionali.
La legge (che lo si ricordi è pur sempre una legge speciale e, quindi, come tale, assorbe e deroga
a tutte le disposizioni della legge generale come è appunto il cod. civ.) non consente questa
tripartizione.
L’alternativa, quindi, è secca: o si applica il criterio quantitativo della legge fall. o quello
qualitativo del cod. civ.: ma, siccome è la legge fall. la legge speciale, non vi è dubbio che si debba
applicare solo ed esclusivamente il criterio quantitativo restando pertanto superata ogni questione
sul criterio qualitativo.
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C’è da chiedersi poi se tutto questo imponente sforzo interpretativo (esplicitamente effettuato al
solo fine di “evitare” di dichiarare il fallimento di piccoli imprenditori o imprenditori marginali che
non vogliono o non possono difendersi) sia davvero giustificato.
La legge, come abbiamo visto e cercato dimostrare, non preclude al giudice di cercare, anche
d’ufficio, le prove della non fallibilità dell’imprenditore proprio perché la legge prevede poteri
d’ufficio e non esiste il potere delle parti di disporre della procedura a seconda delle loro
convenienze.
E’ vero che l’art. 1 secondo comma stabilisce che dev’essere il debitore a provare il suo
sottodimensionamento ma la suddetta regola non impedisce l’esercizio dei poteri d’ufficio (che può
essere esercitato parallelamente o in supplenza in caso di inerzia del debitore) e sta solo ad indicare
le modalità con cui dev’essere deciso il processo nel senso cioè che la mancata o insufficiente prova
del sottodimensionamento va a scapito dell’imprenditore.
Del che non c’è nulla da stupirsi perché il legislatore ha fatto coerente uso del principio della cd.
vicinanza della prova.
Si tenga infine presente che, ben possono (anzi devono) essere sfruttate con le più ampie
modalità le presunzioni che sono prove a tutte gli effetti, sicché, quando ci si trova di fronte al
classico imprenditore marginale che non sia riuscito a provare in termini certi e sicuri il
sottodimensionamento (perché ad es. non ha tenuto le scritture contabili), non si vede perché non si
dovrebbe ugualmente giungere alla reiezione del fallimento sulla base delle presunzioni. E la
dimostrazione di quanto si sostiene è data proprio dalle fattispecie prese in esame dal trib. di
Salerno il quale, sulla base della documentazione in suo possesso, poteva benissimo ugualmente
respingere la richiesta di fallimento, senza ricorrere a quella complessa motivazione.
Si è però obiettato che la tesi dell’abrogazione «contrasta proprio con l’altra modifica del
presupposto soggettivo apportata dal decreto correttivo con l’introduzione, nel secondo comma
dell’art. 1, di requisiti di non fallibilità ancorati a soglie elevate di valori patrimoniali e reddituali.
Non si può ritenere che il legislatore abbia voluto estendere la procedura fallimentare a categorie in
precedenza escluse, come i piccoli imprenditori, nel momento stesso in cui ha espulso gli esercenti
un’attività commerciale che, negli ultimi esercizi, non hanno superato il limite di 300 mila euro di
attivo patrimoniale né quello di 200 mila euro di ricavi lordi e non presentano un indebitamento
complessivo di almeno 500 mila euro. Si tratta, infatti, di valori riscontrabili di regola nell’impresa
speculativa e non in quella volta al mero guadagno tratto prevalentemente o esclusivamente dal
lavoro proprio dell’imprenditore e dei familiari».
L’equivoco in tale modo di argomentare è evidente e consiste nel fatto, da una parte, di
continuare a ragionare secondo il criterio qualitativo di cui all’art. 2083 c.c. e, dall’altra, di
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sovrapporre la fallibilità dell’imprenditore (intesa come presupposto di natura soggettiva e
oggettiva) con la distribuzione dell’onere probatorio che, essendo due problemi completamente
diversi, agiscono su due piani differenti. Il primo criterio attiene ai requisiti di fallibilità e, rientra,
pertanto, nell’ambito della problematica di diritto sostanziale. Il secondo criterio, riguarda, invece,
la distribuzione dell’onere della prova e, pertanto, rientra, con tutta evidenza, nell’ambito delle
questioni di diritto processuale.
Se, invece, si riflette sul fatto che il legislatore, con scelta insindacabile, ha posto uno spartiacque
di natura quantitativa nel senso che possono essere dichiarati falliti solo gli imprenditori che
superano determinati limiti dimensionali (senza quindi preoccuparsi di definirli grandi o medi in
contrapposizione a quelli piccoli non fallibili), allora l’equivoco si chiarisce perché, lo si ripete, al
di sotto di quei limiti non c’è nessuna differenza, ai fini della legge fall., fra l’imprenditore
(individuale o collettivo) che abbia un attivo patrimoniale di € 299.999,00 – ricavi per € 199.999,00
e debiti per € 499.999,00 ed un imprenditore che abbia un attivo patrimoniale di € 1.000,00 – ricavi
per € 2.000,00 – e debiti per € 35.000,00: entrambi non falliscono solo ed esclusivamente perché
stanno al di sotto di quelle soglie e poco importa che fra l’uno (imprenditore piccolo ex art. 2083
c.c.) e l’altro (imprenditore sicuramente non piccolo secondo il criterio di cui all’art. 2083 c.c.) ci
sia un abisso perché l’uno e l’altro vengono trattati allo stesso modo anche e soprattutto sotto il
profilo della distribuzione dell’onere probatorio. Lo si ripete: l’equivoco che fuorvia il
ragionamento è proprio quello di continuare a ragionare con il criterio qualitativo di cui all’art. 2083
che crea, a livello interpretativo, un corto circuito inevitabile con il criterio quantitativo di cui
all’art. 1: il che è la migliore dimostrazione, se pure ce ne fosse ancora bisogno, che l’art. 2221 c.c.
deve considerarsi abrogato tacitamente, nel mentre l’art. 2083 c.c. conserva una sua validità nel solo
ambito civilistico.
APPELLO
Con il decreto correttivo, il legislatore ha modificato l’art. 18 denominando il gravame contro la
sentenza dichiarativa, «reclamo» ossia un’impugnazione con una terminologia che non ha riscontro
nel nostro sistema processuale.
Ma, al di là di questa sbavatura lessicale, i dati importanti che emergono dalla lettura dell’art. 18
sono i seguenti:
-
il gravame non è strutturato come una revisio prioris istantiae, ma come un novum iudicium
in quanto non sono previste eccezioni ai nova, in specie in termini di istanze istruttorie
relativamente alle quali le parti non soffrono di alcuna limitazione così come nel processo di
cognizione ordinario (art. 345 c.p.c.);
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-
le parti, tuttavia, pur non avendo alcun limite, devono indicare, nel reclamo, «gli elementi di
diritto su cui si basa l’impugnazione con le relative conclusioni» (n° 3): ciò comporta di
conseguenza, che le prove ed i documenti che vengono prodotti (n° 4) devono essere del
tutto congruenti con i motivi di impugnazione. E così se s’impugna la sentenza sostenendo
che non sussisteva l’insolvenza, e, quindi, il gravame si concentra solo su questo punto, non
possono poi essere dedotte prove relative ad es. al sottodimensionamento o alla cessazione
dell’impresa da oltre un anno.
In altri termini, il fatto che la parte reclamante non abbia limiti nel dedurre sia nuove prove che
nuove domande, non significa che parti della sentenza impugnata non possano essere coperte dal
giudicato se non espressamente impugnate, perché a fissare l’oggetto del giudizio di impugnazione
dev’essere il reclamante che deve indicare gli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con
la conseguenza che solo di questi si può discutere con relativo passaggio in giudicato di tutto quanto
non impugnato 27 .
E’ ovvio, pertanto, che anche i poteri di ufficio della Corte (per la quale valgono le stesse
considerazioni svolte a proposito del Tribunale) vanno e possono essere esercitati solo ed
esclusivamente nei limiti del devoluto.
Problema molto interessante è quello di verificare cosa succede se la Corte revoca la sentenza di
fallimento.
Sotto il vecchio regime, il problema non si poneva perché, a fronte della sentenza di primo grado
dichiarata espressamente esecutiva (art. 16), la sentenza di secondo grado (quand’anche fosse di
revoca), invece, non era mai esecutiva.
Ora, anche questo principio è mutato perché anche la sentenza di secondo grado è, per legge
esecutiva (art. 281 c.p.c.).
Un primo modo per risolvere la questione è di natura esclusivamente formale e consiste nella
seguente osservazione: la sentenza di fallimento è sicuramente una sentenza di natura costitutiva
che, normalmente, non è esecutiva. L’art. 16 anche nella nuova formulazione (secondo comma), ha
però, espressamente stabilito l’immediata efficacia della sentenza con un’eccezione alla regola
generale della non esecutività. Siccome tale eccezione non è stata prevista per la sentenza di
appello, la medesima (pure essa costitutiva) non è immediatamente esecutiva dovendosi attendere
per l’esplicarsi di tutti i suoi effetti il passaggio in giudicato.
Ci rendiamo, però, perfettamente conto che il suddetto argomento, una volta che si contesti il
principio della non esecutività delle sentenze costitutive, è destinato a crollare.
Ed allora la risposta va cercata in altri ed ulteriori dati normativi.
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MINUTOLI: Le iniziative di fronte alla sentenza dichiarativa di fallimento tra appello e reclamo: impugnazione
devolutiva o modifica di facciata? in Fall. 2008, 259
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L’art. 119/5 dispone che le disposizioni volte ad attuare gli effetti del decreto di chiusura, sono
emanate «a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di revoca del fallimento»: dal
suddetto articolo, quindi, in modo testuale si desume che il fallimento, ove revocato, può essere
chiuso solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di revoca.
Tale disposizione trova una ulteriore conferma nell’art. 123 legge fall. che, fra i casi di riapertura
del fallimento, non indica il caso di cassazione della revoca della sentenza di primo grado. Infatti, se
si seguisse la tesi secondo la quale, una volta revocata, da parte della Corte di appello, la sentenza di
primo grado, il fallimento dev’essere chiuso, e ove, a seguito di ricorso per cassazione, la sentenza
di appello venisse cassata con conseguente ripristino della sentenza di fallimento, la procedura non
potrebbe essere più riaperta proprio perché la normativa non prevede una siffatta ipotesi. Il
combinato disposto degli artt. 119/5 e 123 portano, quindi, alla conclusione che, anche a seguito
della sentenza di revoca da parte della Corte di Appello, la procedura fallimentare non dev’essere
chiusa.
Acclarato tale primo effetto, bisogna però vedere se la sentenza di revoca ne produca di altri,
sempre che non si ritenga di chiudere ogni discussione con il rilievo che la sentenza essendo
costitutiva non è immediatamente esecutiva come quella di primo grado.
Infatti, ove si ritenga che anche la sentenza di appello sortisca da subito i suoi effetti, bisogna
vedere quali siano sui vari aspetti della procedura.
Sugli aspetti patrimoniali (spossessamento e liquidazione): non avremmo dubbi che il patrimonio
non rientra nella disponibilità del debitore ma resti sotto la responsabilità del curatore il quale
continua ad esercitare le sue funzioni: l’unico effetto sarà la sospensione della liquidazione per
gravi motivi ex art. 108 legge fall.
Aspetti processuali (cause pendenti): riteniamo che si possano sfruttare gli artt. 295 – 296 c.p.c. e,
quindi, chiedere al giudice civile la sospensione della causa in attesa della decisione sulla sentenza
di fallimento.
Aspetti personali (art. 42 ss): qui, forse, dovrebbe prevalere il principio del favor libertatis e quindi
il debitore non dovrebbe essere più sottoposto alle restrizioni di cui agli artt. 48 – 49.
Geppino Rago
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