gennaio2013
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donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2013 numero 8 Isabella Ducrot, «La preghiera» (2012, tecnica mista su seta tibetana, fotografia di Giorgio Benni) La differenza che fa crescere la Chiesa Con il nuovo anno anche il nostro inserto presenta delle novità: uscirà il 2 di ogni mese, in modo che sia possibile abbonarsi al solo mensile, e comunque trovarlo in edicola con sicurezza. Speriamo così che faccia parte della vita di un numero di lettrici/lettori sempre più ampio. Diciamo lettori, oltre che lettrici, perché non solo su queste pagine — come avrete visto — scrivono anche uomini, ma pure perché noi ci rivolgiamo anche ai lettori di genere maschile. Sia per informarli della varietà e della ricchezza della presenza femminile nella vita della comunità cattolica in particolare, ma in sostanza cristiana, del presente e del passato, sia perché, di fronte a questo punto di vista, si rendano conto con maggiore consapevolezza della loro identità. Il riconoscimento e la conoscenza del ruolo femminile presuppongono, infatti, una analoga presa di coscienza della diversità maschile che agisce nella Chiesa, delle sue modalità di vivere l’esperienza religiosa e di trasmetterla, del suo rapporto con le donne. Perché il rapporto fra donne e uomini non è riconducibile semplicemente alla constatazione dei diversi gradi di visibilità e di potere, ma deve portare a un interrogarsi sulla necessità di una vitale presenza, nella comunità cattolica, di entrambe le parti che la compongono. La vitalità della Chiesa può riaccendersi solo rispettando quella differenza costitutiva dell’umanità voluta da Dio, e operando per un suo riequilibrio. Non solo la procreazione umana, infatti, ma anche quella simbolica e spirituale richiede un apporto di diversa natura, una collaborazione sempre più viva e riconosciuta fra donne e uomini, fra approccio maschile e approccio femminile ai problemi e alle realtà che la Chiesa deve affrontare. Perché questo miracolo avvenga, perché la Chiesa sviluppi sempre più profondamente questo intreccio di collaborazione fra donne e uomini, che è stato il suo carisma fin dalle origini evangeliche, svolgiamo il nostro modesto lavoro di informazione e riflessione, ma soprattutto siamo consapevoli che è indispensabile la preghiera, a cui facciamo ricorso, come spiega la nostra immagine di copertina, per ispirare un impegno per tutto l’anno. (l.s.) quale ruolo svolgono la formazione e l’educazione? Ho trovato energie nuove e una speranza che non avevo prima della malattia. Ho scoperto soprattutto la forza dell’amore che mi porta ad aiutare gli altri con senso di responsabilità, dedizione e disciplina. Ho imparato che gli antiretrovirali sono per me il sole del domani. Per quanto riguarda la formazione ogni anno noi attiviste frequentiamo un corso di aggiornamento. Credo inoltre che l’educazione sia fondamentale, non solo l’educazione sanitaria ma soprattutto l’educazione morale e civica, l’educazione personale, perché restituisce, promuove la dignità. Essere sieropositivi non significa la fine della vita. In questo momento che lavoro svolge? Sono la coordinatrice del centro nutrizionale di Matola. Il nostro centro è frequentato quotidianamente da circa ottocento bambini. Abbiamo anche un asilo, a escolinha, frequentato per lo più dai “bambini Dream”, nati grazie al programma. Nel nostro lavoro siamo coadiuvati da quegli adolescenti che avevano prima frequentato il centro e questo interscambio è molto importante per i bambini. Da vittime a protagoniste Intervista alla mozambicana Artemisa Chiziane, attivista del Progetto Dream di ALICIA LOPES ARAÚJO Rivolgersi all’Africa con uno sguardo di speranza è possibile. Dream lo dimostra. Acronimo di Drug Resource Enhancement against Aids and Malnutrition, dal 2002 è il programma della Comunità di Sant’Egidio per la cura dell’Aids in Africa. Il so- donne chiesa mondo Credo che l’educazione sia fondamentale Non solo l’educazione sanitaria ma soprattutto l’educazione morale e civica perché restituisce e promuove la dignità gno è una nuova visione del continente, lontana dagli stereotipi e dall’afropessimismo. Questa volta per l’Africa è stata scelta l’eccellenza delle cure, adottando standard occidentali. Il programma è gratuito, proprio per superare l’estrema difficoltà d’accesso per le popolazioni ai centri di salute e ai farmaci. Il I° dicembre, in occasione della ricorrenza della giornata mondiale contro l’Aids, Benedetto XVI ha lanciato un appello in favore di quanti sono colpiti da questa malattia, in particolare dei bambini che ogni anno contraggono il virus dalle proprie madri, sebbene esistano terapie, per impedirlo. La prima esperienza concreta di Dream è stata realizzata in Mozambico, divenendo un modello praticato efficacemente in altri Paesi dell’Africa sub-sahariana: Angola, Camerun, Guinea, Guinea Bissau, Kenya, Malawi, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo e Tanzania. Dream ha cambiato significativamente la vita a molti pazienti, in particolare donne, coinvolgendoli direttamente nella diffusione del programma. In Mozambico un gruppo di donne sieropositive ha fondato l’associazione «Donne per il sogno». Artemisa Chiziane è una protagonista di questo sogno. Quando e in quale occasione ha conosciuto il centro Dream? Era il 2005. Durante la gravidanza mi recai per una visita medica al centro di salute del mio quartiere, Matola 2. Dovetti sottopormi al test dell’Hiv, perché altrimenti non sarebbe stato possibile aprire la cartella clinica. Eravamo dieci donne: sette risultarono sieropositive, me inclusa. Non Come è nato il movimento delle attiviste e quanto è importante questa figura, a cui ha appena accennato? fu facile affrontare la notizia. Ero molto spaventata, ma non riuscivo a piangere, perché avevo già avvertito i primi sintomi della malattia, pertanto non ebbi alcun dubbio, quando mi comunicarono il risultato. Feci tutte le analisi presso il centro Dream e il medico decise che avrei dovuto iniziare immediatamente il trattamento antiretrovirale, la cosiddetta triterapia, per evitare la trasmissione del virus al mio bambino. In cosa consiste il programma Dream? Si tratta di un’azione completa di controllo, prevenzione e trattamento, cioè di lotta globale contro l’infezione da Hiv. Per la Comunità di Sant’Egidio è fondamentale il valore della persona e Dream nasce con l’obiettivo di riunire prevenzione e terapia farmacologica dell’Aids anche nell’Africa sub-sahariana, così come avviene in Occidente. Il principio è che non basta prevenire, ma è necessario salvare vite, mentre lo scopo della terapia per le donne in gravidanza è garantire una generazione libera dall’Hiv. Perché proprio il Mozambico? La Comunità di Sant’Egidio è storicamente e profondamente legata al Mozambico, per aver facilitato gli accordi di pace, firmati il 4 ottobre del 1992. Quali sono le sfide principali che la Comunità di Sant’Egidio deve affrontare? Il maggiore successo è stato far nascere diecimila bambini sani in Mozambico da madri sieropositive, come pure aver salvato le madri grazie alla terapia antiretrovirale. È come la mia storia. È necessario però che questo miracolo sia ancora possibile per tutte le madri sieropositive. Oggi la grande sfida è lavorare insieme al ministero della Salute, per donare questa speranza a tutti. Il modello va portato in tutte le province, così da aiutare le donne ad avere bambini sani. Bisogna salvare le madri specialmente nelle zone rurali, dove la popolazione non ha accesso ai farmaci e non dispone di ospedali di prossimità né d’informazioni adeguate. Le persone che tuttora si rivolgono ai guaritori, i curandeiros, se avessero informazioni corrette da parte delle attiviste di Dream, cambierebbero idea: le credenze possono cambiare, la mentalità può cambiare! Artemisa Chiziane, nata a Mandjakaze (Gaza) in Mozambico il 14 ottobre 1978, si trasferì da piccola con i genitori a Maputo a causa della guerra civile. Madre di cinque figli, il più piccolo dei quali, Hilário, è nato sano grazie al Programma Dream. Vive a Boane (periferia di Maputo) con i tre figli minori. Attivista del Programma Dream, è coordinatrice del Centro nutrizionale della Comunità di Sant’Egidio, a Matola (Maputo). Il suo desiderio è diventare infermiera. (foto Paola Rolletta) Che ruolo possono svolgere le donne mozambicane e, in generale, le donne africane nella lotta contro l’Aids? Come possono contribuire a cambiare il destino dell’Africa? Noi donne siamo i pilastri della società in qualsiasi angolo del mondo. Ovunque siamo portatrici di vita e di speranza, ma il flagello dell’analfabetismo femminile in Africa rappresenta ancora uno dei maggiori freni allo sviluppo. Possiamo cambiare il nostro destino solo attraverso la conoscenza, l’istruzione, l’educazione dei figli e dei mariti, la formazione professionale e il lavoro. Secondo un vecchio proverbio africano: chi educa una donna educa una nazione! Sono un’attivista molto orgogliosa di esserlo. Si tratta di un compito delicato, Alla luce della sua esperienza che valore hanperché noi attiviste ci relazioniamo diretta- no la fede e la speranza? mente con i pazienti, lavorando in prima Il valore della speranza è la vita che ho linea. Incoraggiamo e appoggiamo i mala- avuto finora. Non sarei viva, se non avessi ti e le loro famiglie! Andiamo nelle loro avuto pazienza e fede. Il dialogo quotidiacase, offrendo un servizio di orientamento su Il maggior successo è stato fare nascere più livelli: nutrizione, igiene, corretta sommiin Mozambico diecimila bambini sani nistrazione e assunzione da madri sieropositive dei medicinali e sostegno psicologico. GaranEssere sieropositivi non significa la fine della vita tiamo una presenza costante in tutti i centri Dream, per accogliere i malati che arriva- no che intrattengo con Dio mi conferisce no per la prima volta e devono iniziare la la forza per aiutare gli altri. terapia antiretrovirale, infondendo forza e coraggio. Partecipiamo alle campagne di Qual è il sogno di suo figlio più piccolo, Hiinformazione sia nei quartieri sia nei luo- lário? ghi di lavoro. Siamo l’esempio vivente che Ha appena sette anni e per ora non è possibile vincere la battaglia contro parla di sogni, ma di certo ne fa. È nato l’Aids. sano grazie al programma Dream e mi auCosa ha imparato dalla sua storia personale guro che possa studiare medicina, per poe com’è cambiata la sua visione della vita? E ter aiutare le persone che soffrono. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Dove andrai tu, andrò anch’io Il romanzo L’estate dei barbari In una villa moresca sul Pacifico, Araceli, la cameriera messicana, osserva la famiglia molto perbene per cui lavora. Non però il viceversa: per i “padroni” la persona dietro la donna delle pulizie («si sfilò l’uniforme, liberandosi della sua identità come domestica nel momento in cui camicetta e pantaloni finivano nel cesto della roba sporca») non esiste. Finché — dopo essere spariti, ognuno per conto suo, abbandonando i due viziatissimi figli — tornati a casa e realizzato il baratro del loro gesto, i coniugi sono costretti a fare i conti con la donna Araceli. Svela tantissimo di noi il romanzo di Héctor Tobar, L’estate dei barbari (Einaudi, 2012). Svela il razzismo inconsapevole che ci portiamo dietro; svela la tentazione di scaricare la colpa sugli altri, il non vedere per comodità, la spirale perversa dei fraintendimenti. Svela i cambiamenti nelle relazioni tra emigranti e famiglie di origine. Ma svela, soprattutto, la voce di una donna che vive con noi, ma che ci ostiniamo a non ritenere dei nostri. (giulia galeotti) La storia di Ruth e Noemi, suocera e nuora, diventate sorelle di GIULIA GALEOTTI uocera e nuora nella stessa casa sono come due mule selvatiche nella stessa stalla», sosteneva lo scrittore italiano Giovanni Verga, cogliendo un’opinione sperimentata. Pur con tutte le sfumature e possibili gradazioni del caso, le difficoltà di relazione tra la madre del figlio e la moglie del figlio, infatti, sono evidenti agli occhi di tutti. Le eccezioni rappresentano una boccata d’aria. Preziose, nella loro rarità. Personalmente conosciamo solo due meravigliosi casi. In uno, la suocera prese con forza le parti della nuora quando, una ventina d’anni fa, il figlio lasciò la moglie con una bimba piccola per un’altra donna. La nuora, per di più, era straniera. Ma la suocera non ebbe dubbi: suo figlio era solo un bambino cresciuto in rughe e altezza; essere uomo, invece, era tutta un’altra faccenda (e la nuora le ricordò che comunque doveva volergli bene: era pur «S Queste quattro donne vere e preziose hanno fusa nella loro storia una delle narrazioni bibliche più belle e incredibili Quella che narra il mistero dell’amore incondizionato sempre suo figlio). La madre che difende i suoi cuccioli, anche se non li ha partoriti. O il cucciolo che difende la madre, anche se non è stato da lei partorito: conosciamo anche la storia di una donna — madre di un figlio disabile e con il marito fuggito lontano — che quando la suocera restò vedova e incapace di vivere da sola, se la prese in casa. E se la tenne fino all’ultimo giorno. Queste quattro donne, vere e preziose, hanno fusa nella loro storia una delle narrazioni bibliche più belle e incredibili, quella che narra il mistero dell’amore incondizionato, l’amicizia che dà senza che nulla le venga chiesto, capace di fruttificare anche laddove non umanamente “necessario”. Al tempo dei Giudici, una grande carestia obbliga un uomo di Betlemme, Elimelech, a emigrare nella terra di Moab, con la moglie Noemi e i due figli Maclon e Chilion. Lì si stabiliscono, ma poco dopo Elimelech muore. I figli si sposano con due donne locali, Orpa e Ruth, ma dopo circa dieci anni anch’essi muoiono. Noemi, è chiaro, ha perso tutto e alle nuore, ancora giovani, dice: «Tornate ciascuna a casa di vostra madre; il Signore usi bontà con voi, come voi avete fatto con quelli che sono morti e con me! Il Signore conceda a ciascuna di voi di trovare riposo in casa di un marito». Le giovani si oppongono, ma Noemi insiste: Orpa, baciatola, sebbene a malincuore, parte, ma Ruth è irremovibile: «Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te». Vistala così decisa, Noemi accetta e le due donne fanno il viaggio di ritorno insieme verso Israele. È il solo racconto biblico che abbia al suo centro suocera e nuora. Riflettendo sulla storia, la scelta di Ruth ha veramente dell’incredibile. Esempio di eroica fedeltà e di pietà, la sua decisione implica l’abbandono del proprio popolo e l’adesione a un popolo straniero, dove l’estraneità (ieri come oggi) è per solito sinonimo di ostilità. Eroina coraggiosa della perseveranza, Ruth — il cui nome significa «l’amica» — compie a ritroso con Noemi («la mia graziosa, la mia dolcezza») un viaggio non suo. Lascia i genitori e tutto ciò che possiede a Moab, compiendo un voto di amore e di fede: non è infatti mossa da voci profetiche, né (come avviene per altri “itineranti” personaggi biblici) è stata invitata da un messaggero di Dio. Semplicemente, sente di avere una missione. È come se il legame tra queste due donne fosse connaturato alle loro reciproche vicende: entrambe sono rimaste vedove, entrambe sono sospinte dal desiderio di sopravvivere alle avversità e dal sogno della maternità. L’alleanza tra loro è spontanea, siglata dalle celebri parole di Ruth: «Dove tu andrai andrò anch’io, dove tu dimorerai dimorerò anch’io, il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio». Il libro di Ruth da secoli è per eccellenza visto come il libro dell’accoglienza e della generosità. Il libro della famiglia fondata sulla fedeltà. La sua umanità e la sua semplicità hanno generato un grande fascino. Nel 1829, ad esempio, Nicolò Tommaseo le dedicò un poemetto in rima, seguito da due novelle, La nuora buona (incentrata su Ruth e Noemi) e La carità rispettosa (Ruth e Booz), uscite nel 1867. Più di recente, la scrittrice Dacia Maraini (nell’introduzione al volume Rut e Ester, 2001) ha sottolineato la singolarità di un legame così stretto tra suocera e nuora soprattutto all’interno di una società «gerarchicamente prestabilita», in cui la gelosia nei confronti dei figli era mossa dal fatto che per le donne la maternità rappresentava il solo modo di avere un ruolo determinante nella famiglia. Qui invece le due donne, private dei mariti, si sostengo- no. Il loro «strano colloquio» sposta al centro della scena l’amicizia di Ruth con Noemi, e così — sempre secondo Dacia Maraini — la sua scelta di seguirla in terra d’Israele appare come la sola possibile risposta al mondo patriarcale. Ruth, del resto, è una capostipite: viene citata anche da Matteo in apertura del suo Vangelo come la straniera che ha dato le origini al seme di Davide e quindi a Cristo (Matteo 1, 5). A tal punto che Erri De Luca (1999) ne ha sottolineato la «forza di avvinghiarsi a rampicante intorno alla base del Nuovo Testamento» (Ruth è legata all’avvento di Cristo anche da un nodo geografico, la città di Betlemme, in ebraico Bet Lehen, «casa di pane», dove Ruth segue la suocera Noemi e dove genererà Obed). Da Ruth, la straniera, dipenderanno le future generazioni di ebrei e cristiani. Vetrata della Saint James Anglican Church (Halifax, Nova Scotia, Canada) Arrivò lei e io divenni uomo e scrittore L’incontro con una suora ospedaliera trasformò per sempre un giovane agnostico Pubblichiamo stralci dalla «Lettera a una suora» che lo scrittore pubblicò in «Scritti cristiani» nel 1979. Il testo è tratto da Ferdinando Castelli, «Sentinelle dell’assoluto» (Àncora, 2012). di MARIO POMILIO ara Sorella, non so se avrà mai occasione di leggere questa lettera. Nemmeno so se, anche leggendola, lei potrà riconoscervisi: non ricordo il suo nome, né quello dell’ordine al quale apparteneva. Del resto nella sua vita di suora ospedaliera avrà avuto tanti incontri simili a quello avuto con me, che ciò che sto per raccontarle, eccezionale per me ma così normale per lei, non può esserlesi stampato particolarmente nella memoria. Sono in grado di indicarle solo due cose precise, un luogo e una data. La data è quella del marzo 1953 e il luogo la Villa delle Querce di Napoli, una clini- C ca privata situata a mezza costa tra il Museo Archeologico e il quartiere del Vomero. Le parlerò di noi, mia moglie ed io, una giovane coppia senza figli originaria dell’Abruzzo e che le circostanze della vita avevano sbalzato da pochissimi mesi a Napoli, dove vivevamo ancora male, tra difficoltà anche economiche, e dove soprattutto stentavamo ad ambientarci, senza parenti in città e quasi senza amici. Ma a renderci ben più duri quei mesi furono una malattia di mia moglie e l’urgenza d’un intervento delicato. In sé l’evento, lo so, non ha nulla di straordinario, non siamo stati certo la prima coppia a dover affrontare un’esperienza del genere. Ma a farcela apparire penosa forse più del necessario, a parte le preoccupazioni sull’esito dell’intervento, i disagi, la penuria economica, erano molte altre impalpabili cose, a cominciare dalla nostra immaturità. Venivamo ambedue da una adolescenza e da una giovinezza abbastanza protette ed era la prima volta che ci trovavamo a scontrarci, almeno in sede privata, con preoccupazioni più grandi di noi. Era la “vita” con le sue durezze che improvvisamente ci piombava addosso, sorprendendoci impreparati. Ricordo ancora le lunghe ore piene di silenzi che trascorrevamo, noi due soli, nel clima della clinica, e la mia impotenza d’improvvisato e maldestro assistente, e la malinconia dell’imbrunire, l’ora più triste in una clinica, e l’angustiata lunghezza delle notti. Per fortuna c’era lei, pronta a sorriderci e rincuorarci, pronta a dirci la parola giusta, pronta agli umili servigi di fronte ai quali magari arretrava la professionalità sbrigativa e piuttosto mercenaria delle infermiere. Ci abituammo presto ad aspettarla, le nostre ore erano anzi scandite dall’attesa di lei. Arrivava lieve e rapida; ed eccola subito dedicarsi amorevole, sollecita, misteriosamente percettiva, alle necessità di mia moglie. Fin dal principio andavo domandandomi il perché di tutto questo. Perché una così totale offerta di sé agli altri e, propriamente, tanta carità. E perché tanta gioia nella carità. E perché tanta umiltà. E perché tanta differenza tra il suo comportamento e quello degli altri, di tutti noi altri, ristretti nella cerchia dei nostri piccoli egoismi e delle nostre vanità. E aggiunga lei stessa i mille altri perché che sorgevano nella mia mente. Ma, soprattutto, non se ne meravigli. Consideri piuttosto qual ero io in quel momento: per dirla in breve, un agnostico assai poco interessato al fenomeno religioso in sé e oltre tutto affatto ignaro, se si escludevano le sue normali estrinsecazioni culturali, della realtà effettiva della Chiesa e delle mille invenzioni di vita cristiana, dei mille modi di testimonianza, dei mille eroismi cui, co- me nel suo caso, la fede può dar luogo. Beninteso, narrata così la mia storia si semplifica, cancella le penombre, ma tenga conto ad esempio del persistere d’una sensibilità morale impressasi in me durante l’adolescenza che sopravviveva ai miei rifiuti. Ma più ancora consideri la predilezione che in queste letture avvertivo tuttora per certi libri di scavo, di interrogazione sull’uomo, sul suo senso e mistero, quei tipici libri insomma che non sarebbero possibili senza un presupposto e una radice religiosi. Il filo cioè, probabilmente, non era interrotto, ma la mia fisionomia nel suo complesso restava quella dell’agnostico che pensa d’aver chiuso con certi problemi o al massimo li vive solo culturalmente e per una ragione latamente estetica. Ed ecco che a un tratto mi veniva incontro lei, cambiandomi molte carte in mano e introducendo molte perplessità nel mio tranquillo universo laico. La scoperta tangibile, e non più solo per udito dire, che esistessero scelte simili alla sua, esperienze di vita così esclusive e sconcertanti vissute con un’intrepidezza così serena e così sorgiva, modificava insomma radicalmente la mia visione del Cristianesimo e, oltre a spogliarmi della mia scorza polemica, infiltrava in me delle inquietudini che in seguito sarebbero venute fermentando per vie impensate. Lasciando infatti da parte gli effetti psicologici e intimamente esistenziali provocatimi da quell’esperienza, e senza arrivare a parlare di conversione, che diventerebbe un termine troppo facile per un itinerario lungo, dibattuto e intricato, e che non userei, in ogni caso, senza pudore, posso dire che la mia stessa vicenda letteraria mi appare fortemente intrecciata con essa. In breve, sono nato scrittore all’indomani di quell’incontro e assai probabilmente proprio in seguito a quell’incontro. Ad opera sua erano venuti in luce, di me, l’io profondo e lo scrittore insieme. di LUCETTA SCARAFFIA brutta, è vecchia e coperta di stracci. Per di più, vola in cielo su una scopa, proprio come le streghe, anche se si è cercato di salvarla da questo sospetto girando la scopa in direzione opposta a quella delle streghe. Ma ci dobbiamo accontentare: questo inquietante personaggio è l’unica presenza femminile nelle feste invernali, quelle feste legate, per i cristiani, al Natale e alla distribuzione dei doni ai bambini, che si svolgono nel periodo del solstizio d’inverno, cioè da Ognissanti al 6 gennaio, quando le giornate diventano sempre più corte, il buio sembra inghiottire la vita quotidiana e portare con sé le ombre dei morti. Befana, infatti, che oggi è divenuto sinonimo di donna brutta e vecchia, è una corruzione lessicale di epifania, che significa «apparizione» e in senso traslato «apparizione sensibile di una divinità», cioè la presentazione di Gesù ai pagani, e quindi ci riporta all’arrivo dei Magi dall’O riente. La festa dei re Magi con cui inizia gennaio è una festa della luce, della stella, dell’«apparizione», ed è legata al tema del dono: i tre sapienti che arrivano dall’Oriente portano doni preziosi al santo Bambino. Questa festa contiene due elementi — luce e dono — che compaiono in tutte le feste che si svolgono nella fase collegata al solstizio d’inverno, elementi già presenti nelle feste pagane per il Sol invictus, legate alla rinascita della luce. L’Epifania si svolgeva la dodicesima notte dopo il solstizio invernale, in un momento in cui si celebrava la morte e la rinascita della natura. L’aspetto da vecchia, il vestito stracciato, sarebbero dunque simboli dell’anno vecchio, della natura morta che deve rinascere. Esiste anche una leggenda — non tanto antica — che cerca di trovare un posto nella tradizione cristiana a questa figura: i re Magi, andando verso Betlemme, si sarebbero rivolti a una vecchia per avere delle indicazioni sulla strada, cercando pure di convincerla a seguirli per andare ad adorare il piccolo re. Ma la donna si sarebbe rifiutata. In seguito, pentita, si sarebbe messa in cammino con un cesto di dolci, senza trovare né i Magi né il Bambino, così avrebbe donato i dolci ad ogni bambino che incontrava sul suo cammino. Da allora, per farsi perdonare, la vecchia ha continuato a fare regali ai bambini. Ma la leggenda non riesce a convincere: la vecchia Befana mantiene sempre qualcosa di inquietante, confermato anche dal fatto che È Emanuele Luzzati, «I Re Magi» Il saggio La vecchina che narra ai bimbi l’aldilà The Perfume of the Gospel Inchiesta sulla Befana, unica presenza femminile nelle feste invernali L’emorroissa, la sirofenicia, la peccatrice, le sue discepole, Maria di Betania e Sophia (Sapienza): sono sei gli incontri tra Gesù e le donne che — partendo dai sinottici e dal Vangelo di Giovanni — Nuria Calduch-Benages, docente di Antico Testamento, racconta in Il profumo del vangelo (Paoline, 2007) ora uscito nella traduzione inglese (The Perfume of the Gospel. Jesus’ Encounters with Women, Gregorian & Biblical Press, 2012). Un tratto che torna costantemente è la presenza del profumo, presenza carica di connotazioni e ricca di contenuto simbolico. Un profumo capace di aprirsi a molteplici interpretazioni in base ai contesti, ma ciò che immediatamente evoca è la generosità, la gratuità, la nobiltà d’animo. Accoglienza, disponibilità, ospitalità, bellezza, eleganza, intelligenza e amore. E se un profumo annuncia la morte di Gesù, è sempre un profumo — scrive l’autrice, nata a Barcellona — ad annunciarne la risurrezione. (giulia galeotti) punisce i bambini cattivi portando loro del carbone, a differenza di Gesù Bambino o Santa Klaus - Babbo Natale che sono figure interamente positive e non prevedono regali “in negativo”. La notte dell’Epifania — cioè la «dodicesima notte» — veniva considerata nelle campagne una notte magica, in cui gli animali parlano, nelle stalle e nei boschi. In molte feste popolari il 6 gennaio, invece dei Re Magi, compare la Befana, raffigurata come un fantoccio che talvolta viene anche bruciato, come avviene per i simboli dell’anno vecchio. In alcuni Paesi cattolici — come la Spagna e alcune regioni d’Italia — sono i Magi che portano i regali ai bambini, e non la Befana. In altri, è Gesù Bambino che a Natale porta i regali più importanti, e la Befana piccole cose il 6 gennaio, se non addirittura il carbone. In ogni caso, è posta in un ruolo secondario nei confronti del suo rivale importante, Gesù Bambino, che si è trasformato nel XX secolo, per effetto della secolarizzazione, in Babbo Natale, tanto che oggi la Befana sta perdendo sempre più importanza, surclassata dal rivale laico, Babbo Natale. Babbo Natale, infatti, nella sua forma attuale è una creazione moderna, così come la credenza che viva in Groenlandia e giri su una slitta trainata da renne. È vestito di scarlatto come i re, stivali e pelliccia evocano l’inverno e — unico aspetto in cui somiglia alla Befana — è vecchio. Come spiega Lévi-Strauss in un suo celebre saggio, Babbo Natale suppliziato, egli non è un personaggio mitico o leggendario, dal momento che manca materiale narrativo sulle sue gesta, ma è «fissato una volta per tutte nella sua forma e definito in base ad una funzione esclusiva e a un periodico ritorno, appartiene piuttosto alla famiglia delle divinità». Lévi-Strauss non lo dice, ma le stesse cose si potrebbero scrivere sulla Befana. Si tratta di divinità minori proprie di una classe di età, l’infanzia. Un momento di passaggio per l’età adulta, infatti, è quello della rivelazione sulla non esistenza di Babbo Natale e della Befana. Ma — scrive il grande antropologo — dietro a questa contrapposizione fra bambini che credono e adulti che sanno, si nasconde una contrapposizione più fondamentale, quella fra morti e vivi. Infatti vediamo che i protagonisti religiosi di questo periodo dell’anno sono tutti giovani — da san Nicola, il giovane vescovo di Mira da cui derivano calze e caminetti, che in molti Paesi porta i regali il 6 dicembre, a Gesù Bambino fino ai Re Magi — ma, quando si trasformano in personaggi mitici come Babbo Natale e la Befana, diventano vecchi. Vecchi come i morti. In molte tradizioni locali, a cominciare dalla festa di Ognissanti, l’ormai famosissima Halloween, i bambini si travestono da scheletri e da fantasmi e girano perseguitando gli adulti che se ne liberano solo donando soldi o dolci. Perché in questo periodo critico dell’anno, quando la notte minaccia il giorno, si teme che possano tornare i morti a tormentare i vivi. Con il ritorno della luce, i morti se ne andranno, ma intanto bisogna tenerli buoni con doni e servigi. Le feste di Natale e dell’Epifania sono feste che celebrano il ritorno della luce, e quindi obbligano i morti al congedo. In quei giorni, si possono quindi anche festeggiare i morti, ma chi li può rappresentare nella società dei vivi? Lévi-Strauss risponde che sono i bambini ad assumere la parte dei morti, in quanto incorporati al gruppo umano ancora in modo incompleto, sono “altri” dai vivi adulti: «La festa dei morti è essenzialmente la festa degli altri, poiché il fatto di essere altro è la prima immagine ravvicinata che possiamo rappresentarci della morte». Siamo noi adulti che portiamo i regali ai bambini, ma ci piace che loro credano, almeno per qualche anno, che i regali arrivino dall’aldilà, sia stato Gesù Bambino o Babbo Natale o la Befana a portarli. Non sappiamo se la Befana, e il suo collega Babbo Natale, immagini di quei morti che vengono a disturbare i vivi durante l’au- tunno, e che poi se ne vanno al ritorno della luce, portando in cambio regali ai bambini, sono veramente — come scrive l’antropologo francese — «il bastione più solido, e uno dei focolai più attivi del paganesimo nell’uomo moderno». Lévi-Strauss scriveva nei primi anni Cinquanta, quando il consumismo era una realtà lontana: oggi che conosciamo la follia consumista che divampa fra Natale e l’Epifania siamo indotti a pensare che sia questa, e non le innocenti figure mitiche di Babbo Natale e della Befana, a rappresentare la soglia avanzata del paganesimo. Oggi è più facile pensare che almeno attraverso questi due mitici vecchi si veicola il È la festa della luce Della stella, dell’apparizione, del dono e del Bambino appena nato senso della morte e della vita, nonché l’esistenza dell’aldilà: per molti bambini, questa sarà l’unica esperienza di “aldilà” nel corso della loro educazione. E il loro esistere al fianco di episodi della Sacra Scrittura o della vita dei santi continua a segnalare un legame con la tradizione cristiana. Il Natale non è solo la festa dell’albero illuminato e di Babbo Natale, l’Epifania non è solo la buffa Befana che porta dolci e regali: lo sdoppiamento pagano delle feste cristiane contribuisce a tenerle vive, e possiamo sperare che qualcuno di questi bambini, crescendo, cerchi di capire meglio la loro storia. Ed entrambi, nel loro nome, riportano tracce della tradizione cristiana: Natale, e quindi la nascita di Gesù, per Babbo Natale, ed Epifania nascosta nel nome della Befana, e quindi i Magi e, di nuovo, il Bambino. In ogni caso, una storia migliore di una glorificazione dell’acquisto fine a se stessa, una storia misteriosa che fa pensare che esista una realtà “altra” oltre la nostra. Il film La bicicletta verde Wadjda è una bambina di dieci anni che vive alla periferia di Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. È sveglia, affettuosa, sorridente, curiosa, piena di vita, anche della vita che non è ammessa per le donne nel suo Paese. Su tutto, Wadjda desidera una bicicletta, che i suoi genitori non solo non si possono permettere, ma che non ritengono consona a una femmina. Ma la bimba non si arrende. Inizia a darsi da fare per trovare i soldi, impegnandosi addirittura nella preparazione della gara di Corano della sua rigidissima scuola femminile, lei che non ha alcuna “predisposizione” per le materie religiose. La bicicletta verde (2012) di Haifaa Al-Mansour, prima regista donna dell’Arabia Saudita, ha diversi meriti: primo lungometraggio interamente girato nel regno, affronta e denuncia la terribile oppressione degli uomini sulle donne (e delle donne sulle donne) senza rabbia o vittimismo, ma attraverso gli occhi di una bambina, vitale e determinata, che non accetta le regole imposte. Una bimba che attacca, con una forcina per i capelli, all’albero genealogico ufficiale della sua famiglia che campeggia in salotto — tutto composto esclusivamente di nomi maschili — anche il suo. La libertà di Wadjda non passa tanto per l’oggetto desiderato, quanto per il percorso fatto per conquistarlo. Un percorso che cambierà anche sua madre, che da donna radicalmente imbevuta della mentalità sociale, impara a capire sua figlia. E a starle accanto. (giulia galeotti) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women LE D ONNE DI HAITI Accanto ai campesinos e ai bambini, ad Haiti le principali vittime dell’emarginazione sono le donne, che con il loro lavoro sostengono gran parte delle famiglie monoparentali. Secondo le informazioni inviate a Fides dalla curia generalizia dei gesuiti, il terremoto di due anni fa le ha colpite in modo particolare: centinaia di migliaia di donne (venditrici ambulanti, collaboratrici domestiche e operaie) si sono improvvisamente trovate senza mezzi di sussistenza. Per aiutarle, nell’ottobre 2011 il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (Jrs) ha avviato un progetto di auto-sostentamento economico e promozione socioculturale volto al miglioramento delle condizioni di vita di 2.040 donne sfollate di Port-au-Prince. A oltre un anno dall’avvio del progetto, in quattro accampamenti nella capitale 108 donne capofamiglia sono state istruite nella gestione del commercio spicciolo e si sono organizzate in un gruppo di cooperazione economica, ricevendo ognuna in prestito dal Jrs una piccola somma. GRANO AVARIATO La denuncia della dottoressa Giuliana Icardi, dell’università del Piemonte Orientale, è netta: da quando non è più italiana ma batte bandiera a stelle e strisce, una nota ditta alimentare ha iniziato a usare grano con tassi altissimi di micotossine, cioè (per i non addetti ai lavori) grano ammuffito, derivante da lunghi stoccaggi, acquistato al prezzo più basso possibile. Nel 2006 l’Unione europea (Ue) ha alzato, con un colpo di mano, i livelli accettati di micotossine presenti nel grano duro: tanti Paesi potranno così produrre grano duro in climi non adatti, concentrandosi solo sulla quantità. Il che significa, tra l’altro, distruggere i contadini del sud Italia, il cui grano non contiene micotossine, e portare al fallimento quelle industrie sementiere mediterranee che non usano grano ammuffito. Non solo, ma giacché per esportare pasta in Nord America il grano deve avere un tasso di micotossine che è circa la metà di quello che la Ue ora accetta per le importazioni di grano duro dagli stessi Paesi, i commercianti italiani e i monopolisti internazionali acquistano al prezzo più basso possibile da contadini che hanno bisogno di soldi per pagare i debiti, per poi speculare quando tutto il grano è nei loro magazzini. Essi esportano il grano migliore italiano all’estero, lucrando sul prezzo, e importano invece grano ammuffito e radioattivo dall’estero. Attenzione, dunque, alla spesa. Acquistare solo pasta da grano duro coltivato in Italia e da coltura biologica è scelta seria. ALLE AFGHANE PO CHI DIRITTI E TANTI ABUSI «Tradite e uccise»: Davide Frattini, inviato del «Corriere della Sera», ha ricordato Najia Sidiqi, Hanifa Safi, Anisa e le altre donne afghane che — dopo aver creduto nelle promesse occidentali e nella nuova Costituzione — sono state uccise perché hanno osato fare qualcosa per le loro simili. Un rapporto delle Nazioni Unite presentato qualche settimana fa apre la contabilità dolorosa delle violenze con la storia di una quindicenne che si è data fuoco: picchiata quotidianamente da marito e suocero, dai poliziotti ai quali li aveva denunciati era stata invitata a tacere e tornarsene a casa. La Commissione indipendente per i diritti umani ha registrato 4.100 casi di violenze nei primi mesi del 2012, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. È vero che i numeri crescono anche perché in molte hanno trovato il coraggio di denunciare, ma — fa notare il dossier dell’Onu di cui ha scritto il giornalista — in 16 delle 34 province solo il 21 per cento delle querele ha portato a condanne. Magistrati, giudici e poliziotti hanno cominciato ad applicare la legge del 2009 per l’eliminazione della violenza contro le donne (che punisce, tra l’altro, nozze forzate, stupri, botte in famiglia, compravendita di donne con la scusa di sistemare dispute tra clan), ma la strada perché le donne siano davvero protette e la loro eguaglianza riconosciuta è Uscite e abbonamento Grandi novità per il nostro inserto. Da questo mese siamo in edicola ogni secondo giorno del mese. È ora anche possibile abbonarsi all’inserto «donne chiesa mondo» al costo di 10 euro per gli undici numeri annuali. Non manca la formula regalo, attraverso la cartolina con il disegno di Isabella Ducrot riprodotta qui a fianco. A chi attiverà più di tre abbonamenti, in dono il numero speciale dell’«O sservatore Romano» dedicato ai centocinquanta anni della sua storia. Per sottoscrivere l’abbonamento, scrivere all’indirizzo [email protected] o chiamare il numero 06 69899470 (fax 06 69882818). L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2013 numero 8 Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI www.osservatoreromano.va ancora lunga. «Gli attivisti — conclude Frattini — sanno che le donne rischiano di essere le vittime del negoziato con i talebani». SEICENTO MILIONI DI BIMBE FANTASMA Dei 600 milioni di bambine e adolescenti che vivono nei Paesi in via di sviluppo, molte continuano a essere invisibili per le strutture e i programmi nazionali. Milioni di loro vivono in condizioni di povertà, vittime di discriminazione, disuguaglianza, violenza, sfruttamento, come lavoro minorile e matrimoni precoci. L’America Latina, ad esempio, è la sola regione in cui si registrano tassi di fertilità adolescenziale ancora stabili o addirittura in aumento. Si tratta di bambine e adolescenti evidentemente molto vulnerabili: la maggior parte lascia la scuola, limitando così la possibilità di trovare un lavoro e acuendo il proprio stato di dipendenza (spesso dai loro stessi aguzzini). Il matrimonio infantile è un’altra piaga: secondo le ultime statistiche dell’Unicef, 70 milioni (cioè una su tre) di giovani donne tra 20 e 24 anni si sono sposate prima di aver compiuto 18 anni, e 23 milioni prima dei 15 anni. A livello mondiale, 400 milioni di donne tra 20 e 49 anni si sono sposate quando erano ancora minorenni. ANTONINA E LE ALTRE IN CANTIERE FABBRICA DI SAN PIETRO NELLA Anche se assenti nelle liste di presenza giornaliera, molte donne hanno lavorato nel cantiere della Reverenda Fabbrica di San Pietro. Erano per lo più vedove di operai, impiegate in compiti per cui non era richiesta una specifica competenza tecnica. Come ricorda il foglio «All’ombra del cupolone» (completamente rinnovato), queste donne sostituivano i mariti per non incorrere nelle penalità previste dai contratti. Antonina de Pozzo, vedova di Giacomo Carone, ad esempio, compare nell’elenco dei trasportatori di travertino dal 1548 al 1550. Mentre risulta che madonna Perna, “lavandara di Nostro Signore”, nel 1542 affittò i suoi sei somari a mastro Lorenzo per trasportare, a quindici baiocchi la giornata, la terra necessaria per realizzare una strada di servizio dietro la basilica. Durante tutto il XVI secolo, la presenza femminile figura anche tra la manovalanza, e (pare) senza differenze remunerative con gli uomini. Perfino alcune nobildonne strinsero rapporti economici con la Reverenda Fabbrica. È il caso di Francesca Farnese (che fornì legna dalla selva di sua proprietà nel 1546) e della contessa di Anguillara. Impegnatasi a tagliare in breve tempo i suoi abeti di Cerveteri, il 17 maggio 1549 fu sollecitata “ad affrettare la consegna in cantiere”. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Martina, testimone nell’accoglienza La santa del mese raccontata da Francesca Romana de’ Angelis oglio un gennaio col sole d’aprile» cantava nella Filastrocca di Capodanno Gianni Rodari, straordinario narratore di storie per i «grandi di domani». E invece neve, ghiaccio, luce corta e notti lunghe, perché a gennaio siamo nel pieno dell’inverno. Una leggenda gentile accompagna gli ultimi tre giorni di questo mese che la tradizione vuole i più freddi dell’anno. Per sfuggire il gelo una merla con i suoi piccoli trovò riparo in un comignolo e quando a febbraio ne uscì, sperando che il peggio fosse passato, le sue piume bianche si erano fatte scure per la fuliggine. Da allora i merli divennero di un nero lucente, anche se conservarono l’arancio del becco e il canto melodioso e flautato. A riscaldare il cuore nei “giorni della merla” è santa Martina, celebrata il 30 gennaio. Di lei, come del resto della gran parte dei martiri della cristianità delle origini, sappiamo pochissimo perché spesso le uniche fonti che restano sono le Passiones, scritti agiografici che avvolgendo queste figure nella leggenda sfumano la verità storica. A differenza di altre martiri più celebri Martina non ha avuto il dono di una devozione costante, capace di conservarne il ricordo nel tempo. La sua è una storia affascinante fatta di oblio e ritorni di memoria finché l’entusiasmo di un Pontefice e l’emozione di un grande artista le restituirono voce, gesti e sentimenti. Siamo nella prima metà del III secolo quando la giovanissima Martina, nata in una nobile famiglia romana, rimane orfana di entrambi i genitori. Sola, donna e cristiana: una condizione di fragilità estrema che Martina sa trasformare in una forza inesauribile. Il suo primo atto, rinunciare a tutte le sue ricchezze per donarle ai bisognosi, precede di secoli la povertà in letizia di Francesco. Martina si fa testimone dell’accoglienza dedicando la vita ai poveri e ai malati e interpretando così il ruolo attivo che le donne avevano nelle prime comunità cristiane, un modello femminile che attingeva direttamente alla parola evangelica, dove le donne sanno accogliere e comprendere Gesù. Regnava allora Alessandro Severo ma la tolleranza di questo imperatore venuto dalla lontana Fenicia, che aveva incluso Cristo nel suo larario, non basta a proteggere Martina dalla persecuzione di Ulpiano, celebre giureconsulto e potente prefetto del Pretorio. Arrestata e sottoposta a crudeli torture viene decapitata nell’anno 228. Da questo momento su Martina scende il silenzio. Dopo quattro secoli dal suo martirio Onorio I le dedica una piccola chiesa ai piedi del Campidoglio. Nei secoli successivi, mentre la chiesa viene adibita a usi civili, si perde nuovamente la memoria di questa martire delle origini. Nel 1256, sotto il pontificato di Alessandro IV, nel corso dei lavori di ripristino della chiesa, vengono alla luce le reliquie di Martina e di altri tre martiri, Concordio, Epifanio e un terzo rimasto senza nome. Restaurata e riconsacrata, la chiesa va incontro a un nuovo destino di abbandono e di Martina si perde un’altra volta il ricordo. Nel 1588 Papa Sisto V concede la chiesa di Santa Martina all’Università delle Arti della pittura, della scultura e del disegno (l’attuale Accademia Nazionale di San Luca) in sostituzione della chiesa all’Esquilino dedicata a Luca, il santo evangelista protettore dei pittori, che era stata demolita. I lavori di ricostruzione della chiesa, adesso dedicata ai due santi, vengono avviati solo nel 1634 per iniziativa di Pietro da Cortona, il pittore architetto allora protagonista della scena artistica romana. La riscoperta delle reliquie di Martina durante gli scavi preliminari suscita l’entusiasmo di Urbano VIII che, recatosi subito a rendere omaggio alla martire, decide di finanziare l’opera insieme a suo nipote il cardinale Francesco Barberini, fissa al 30 gennaio la celebrazione di Martina e la eleva a compatrona di Roma. Quanto a Pietro da Cortona, l’emozione intensa che prova al ritrovamento delle reliquie modifica le sue prospettive e il progetto architettonico diventa una testimonianza di commossa devozione. Nella realizzazione della chiesa mette tutto: talento, passione, impegno, denari e il risultato è un gioiello del barocco romano. Nel cuore del Foro romano, accanto ai marmi istoriati dell’arco di Settimio Severo e all’umbilicus urbis, cioè il centro ideale della città di Roma, la chiesa dei Santi Luca e Martina che si innalza tra tanto cielo è un capolavoro di armonia, di morbidezza e di luce, con la curvatura dolce della facciata, la preziosità della cupola, la sapiente successione di rientranze e di aggetti, la candidezza degli stucchi ornatissimi e della statua di Martina giacente. Nella cripta, dove sono conservate le reliquie della santa e dei suoi compagni di martirio, bronzo, marmi policromi, alabastro e il buio, «V La vita monastica secondo mère Geneviève Acquarelli dal chiostro di PAOLA MARTINI arcelle Gallois nasce a Parigi nel 1888 da una famiglia di scarse simpatie religiose; dopo aver frequentato l’Ecole de Beaux-Arts di Montpellier e, successivamente, di Parigi, è notata dall’illustratore e caricaturista francese Adolphe Willette che la spinge a cimentarsi nel disegno satirico, bloccando, con un tratto ironico, ma non distaccato, passanti e scene di strada. A seguito di una profonda crisi esistenziale nel settembre 1917, Marcelle entra nel monastero benedettino di Saint Louis du Temple, a Parigi, prendendo il nome di mère Geneviève. Per diversi anni, all’interno della clausura, la sua creatività viene fortemente limitata: la giovane monaca, fedele al voto di obbedienza, è destinata ad altre attività. Nel 1931, alcuni suoi schizzi realizzati per una vendita benefica vengono in mano a Paul Alexandre, già amico e scopritore del talento di Modigliani, che rimane colpito dall’emotività e dalla freschezza dei disegni. A lui va il merito di averne intuito e valorizzato le grandi possibilità artistiche, sostenendo e incoraggiando il suo difficile cammino di artista all’interno della clausura monastica. Artista prolifica, mère Geneviève si è espressa attraverso mezzi differenti, passando dalla pittura a olio al ricamo, all’incisione, alla realizzazione di vetrate. Il suo contributo più originale è sicuramente costituito dai numerosi fogli ad acquerello con cui ferma — grazie a un tratto originale e a una singolare immediatezza — la quotidianità immutabile della vita monastica. Prima ancora della sua morte nel 1967, per il tramite di Paul Alexandre, l’opera di mère Geneviève già suscita l’interesse dei critici contemporanei tra cui André Malraux. Adolphe Willette paragona il suo stile a Toulouse-Lautrec nella capacità di cogliere, con un tratto veloce, il profilo grottesco e talvolta caricaturale dei soggetti ritratti. Nel 1951 prende avvio, grazie a François Mauriac, un grande dibattito sull’attualità e il significato dell’arte sacra, e l’opera di mère Geneviève viene paragonata a Georges Rouault nel suo ruolo di rinnovamento dell’arte sacra. Durante gli ultimi anni della sua vita, a partire dal 1950, mère Geneviève si dedica alla realizzazione di due grandi cicli di incisioni, aventi come tema la Passione di Cristo e La vie du petit saint Placide, tratto dall’illustrazione del vangelo di Luca. Infine, il ciclo di vetrate per la chiesa abbaziale di Limon-Vauhallan e per la chiesa di Petit-Appeville, a cui si dedicò dal 1955 al 1962, anno della sua morte. Malgrado la vita monastica le impedì il contatto diretto con gli artisti contemporanei, mère Geneviève rimase sempre al passo con le nascenti correnti artistiche e sebbene trattasse tematiche differenti, nello stile aderì appieno alla nascita di quella che di lì a poco verrà definita grafica pubblicitaria. Uso di colori primari, tratto secco, partizione geometrica dell’area di lavoro, riduzione dell’anatomia a simbolo puro del gesto e utilizzo delle scritte con caratteri privi di grazie, queste le grandi innovazioni che l’artista apporta alla sua produzione. Ma contestualizzandola nel suo tempo vediamo che sono gli stessi linguaggi assunti dall’espressionismo scandinavo, dal De stile, dalla Bauhaus e dalla produzione pittorica degli artisti aderenti alla Secessione viennese. Al centro dell’attenzione di mère Geneviève c’è la vita monastica in tutti i suoi aspetti, presentata in circa 150 acquarelli che costituiscono la parte più cospicua e caratterizzante della sua produzione artistica dove l’artista sofferma il suo sguardo sulla scansione del tempo per bloccare, dal mattutino a compieta, tutti i momenti della vita monastica. Successivamente il suo sguardo abbandona gli spazi della dimensione religiosa per concentrarsi su les bisognes basses et abjectes della cucina, della lavanderia, e su ogni attività umile e manuale. Su semplici fogli (generalmente 213 x 278 mm) preparati a colla e gesso, l’artista lavora con un tratto incisivo e forte, senza ripensamenti. Pochi tratti per delineare, con acutezza psicologica, le consorelle, utilizzando una gamma sorvegliatissima di tonalità, dai bruni ai blu intensi. Se la scena occupa una parte importante del foglio, è il testo, che la accompagna, a chiarirne il significato più intimo, prendendo spunto dai Salmi e dalle opere di Paul Claudel o Charles Péguy con un rapporto tra immagine e scrittura estremamente innovativo e graficamente moderno. Senso del colore e del gesto artistico, humour e profondo spirito religioso promanano da queste opere, alle quali sono già state dedicate diverse iniziative espositive, tra cui, più recenti, le mostre tenutesi presso il Musée des Beaux-Arts de Rouen (14 maggio - 23 agosto 2004) e il Musée National de Port Royal des Champs (10 aprile - 7 luglio 2008). M El Greco, «Santa Martina» (1597-1599, particolare) Francesca Romana de’ Angelis è nata a Roma dove vive e lavora. Dopo la laurea in Lettere ha insegnato in un liceo classico. Studiosa di Letteratura italiana del Cinquecento, ha pubblicato saggi ed edizioni di testi. Per molti anni ha collaborato a programmi culturali e scritto sceneggiature per la Rai. Tra le sue opere La divina Isabella (Sansoni, 1991), Solo per vedere il mare (Edizioni Studium, 2005, Premio Massarosa), Storie del Premio Viareggio insieme a Gabriella Sobrino (Pagliai Editore, 2008), Con amorosa voce (Polistampa, 2008). alleggerito dal filo di luce che filtra da una grata circolare posta sul soffitto in corrispondenza della cupola. Forse se volessimo dare un volto a Martina dovremmo immaginarla come una delle sante vergini nel corteo di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, figurine immateriali e fluttuanti che con le corone del martirio e il velo bianco simbolo di verginità avanzano guardando verso l’infinito e il divino. Martina invece ha per sempre le forme piene, i colori lucenti, la bellezza tersa e mite che Pietro da Cortona, il pittore che aveva «il fuoco nel pennello», le donò nelle sue tele. Davanti al Matrimonio mistico di Santa Martina, un piccolo prezioso olio su rame che il cortonese realizzò come ex voto dedicato a Filippo Neri, l’altro santo di cui era devoto, proviamo la stessa avvolgente sensazione di serenità di quando entriamo nella chiesa da lui realizzata. La drammaticità degli uncini che la santa tiene nella mano sinistra, simbolo del suo martirio, cede di fronte allo splendore del giglio che occupa il centro della tela. Perché l’immagine racconta, più che come è uscita dal mondo, come Martina è stata nel mondo. Il 30 gennaio 1948 cadeva colpito a morte Mahatma Gandhi. Diciassette secoli separano la morte violenta della fanciulla cristiana da quella del moderno apostolo della non violenza. Il mondo è migliorato, ma non abbastanza. E allora nel giorno dedicato a Martina, in questo scorcio del mese che apre le porte al nuovo anno, forse il modo migliore di ricordarla è ripetersi le parole di sant’Agostino: «La speranza ha due figli bellissimi: lo sdegno e il coraggio; il primo di fronte a come vanno le cose, il secondo per cambiarle».