gennaio2013

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gennaio2013
donne chiesa mondo
Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2013 numero 8
Isabella Ducrot,
«La preghiera» (2012,
tecnica mista su seta tibetana,
fotografia di Giorgio Benni)
La differenza
che fa crescere la Chiesa
Con il nuovo anno anche il nostro inserto presenta
delle novità: uscirà il 2 di ogni mese, in modo che sia
possibile abbonarsi al solo mensile, e comunque
trovarlo in edicola con sicurezza.
Speriamo così che faccia parte della vita di un
numero di lettrici/lettori sempre più ampio.
Diciamo lettori, oltre che lettrici, perché non solo su
queste pagine — come avrete visto — scrivono anche
uomini, ma pure perché noi ci rivolgiamo anche ai
lettori di genere maschile.
Sia per informarli della varietà e della ricchezza della
presenza femminile nella vita della comunità cattolica
in particolare, ma in sostanza cristiana,
del presente e del passato, sia perché, di fronte a
questo punto di vista, si rendano conto con maggiore
consapevolezza della loro identità.
Il riconoscimento e la conoscenza
del ruolo femminile presuppongono, infatti, una
analoga presa di coscienza della diversità maschile che
agisce nella Chiesa, delle sue modalità
di vivere l’esperienza religiosa e di trasmetterla, del
suo rapporto con le donne.
Perché il rapporto fra donne e uomini non è
riconducibile semplicemente alla constatazione dei
diversi gradi di visibilità e di potere,
ma deve portare a un interrogarsi
sulla necessità di una vitale presenza,
nella comunità cattolica, di entrambe le parti che la
compongono.
La vitalità della Chiesa può riaccendersi solo
rispettando quella differenza costitutiva dell’umanità
voluta da Dio, e operando per un suo riequilibrio.
Non solo la procreazione umana, infatti,
ma anche quella simbolica e spirituale richiede un
apporto di diversa natura,
una collaborazione sempre più viva e riconosciuta
fra donne e uomini, fra approccio maschile e
approccio femminile ai problemi e alle realtà che la
Chiesa deve affrontare.
Perché questo miracolo avvenga, perché la Chiesa
sviluppi sempre più profondamente questo intreccio
di collaborazione fra donne e uomini, che è stato il
suo carisma fin dalle origini evangeliche,
svolgiamo il nostro modesto lavoro di informazione e
riflessione, ma soprattutto siamo consapevoli che è
indispensabile la preghiera, a cui facciamo ricorso,
come spiega la nostra immagine di copertina, per
ispirare un impegno per tutto l’anno. (l.s.)
quale ruolo svolgono la formazione e l’educazione?
Ho trovato energie nuove e una speranza che non avevo prima della malattia. Ho
scoperto soprattutto la forza dell’amore
che mi porta ad aiutare gli altri con senso
di responsabilità, dedizione e disciplina.
Ho imparato che gli antiretrovirali sono
per me il sole del domani. Per quanto riguarda la formazione ogni anno noi attiviste frequentiamo un corso di aggiornamento. Credo inoltre che l’educazione sia
fondamentale, non solo l’educazione sanitaria ma soprattutto l’educazione morale e
civica, l’educazione personale, perché restituisce, promuove la dignità. Essere sieropositivi non significa la fine della vita.
In questo momento che lavoro svolge?
Sono la coordinatrice del centro nutrizionale di Matola. Il nostro centro è frequentato quotidianamente da circa ottocento bambini. Abbiamo anche un asilo, a
escolinha, frequentato per lo più dai “bambini Dream”, nati grazie al programma.
Nel nostro lavoro siamo coadiuvati da
quegli adolescenti che avevano prima frequentato il centro e questo interscambio è
molto importante per i bambini.
Da vittime a protagoniste
Intervista alla mozambicana Artemisa Chiziane, attivista del Progetto Dream
di ALICIA LOPES ARAÚJO
Rivolgersi all’Africa con uno sguardo di
speranza è possibile. Dream lo dimostra.
Acronimo di Drug Resource Enhancement
against Aids and Malnutrition, dal 2002 è
il programma della Comunità di Sant’Egidio per la cura dell’Aids in Africa. Il so-
donne chiesa mondo
Credo che l’educazione sia fondamentale
Non solo l’educazione sanitaria
ma soprattutto l’educazione
morale e civica
perché restituisce e promuove la dignità
gno è una nuova visione del continente,
lontana dagli stereotipi e dall’afropessimismo. Questa volta per l’Africa è stata scelta l’eccellenza delle cure, adottando standard occidentali. Il programma è gratuito,
proprio per superare l’estrema difficoltà
d’accesso per le popolazioni ai centri di
salute e ai farmaci. Il I° dicembre, in occasione della ricorrenza della giornata mondiale contro l’Aids, Benedetto XVI ha lanciato un appello in favore di quanti sono
colpiti da questa malattia, in particolare
dei bambini che ogni anno contraggono il
virus dalle proprie madri, sebbene esistano
terapie, per impedirlo. La prima esperienza concreta di Dream è stata realizzata in
Mozambico, divenendo un modello praticato efficacemente in altri Paesi dell’Africa
sub-sahariana: Angola, Camerun, Guinea,
Guinea Bissau, Kenya, Malawi, Nigeria,
Repubblica Democratica del Congo e
Tanzania. Dream ha cambiato significativamente la vita a molti pazienti, in
particolare donne, coinvolgendoli direttamente nella diffusione del programma. In
Mozambico un gruppo di donne sieropositive ha fondato l’associazione «Donne
per il sogno». Artemisa Chiziane è una
protagonista di questo sogno.
Quando e in quale occasione ha conosciuto il
centro Dream?
Era il 2005. Durante la gravidanza mi
recai per una visita medica al centro di salute del mio quartiere, Matola 2. Dovetti
sottopormi al test dell’Hiv, perché altrimenti non sarebbe stato possibile aprire la
cartella clinica. Eravamo dieci donne: sette
risultarono sieropositive, me inclusa. Non
Come è nato il movimento delle attiviste e
quanto è importante questa figura, a cui ha
appena accennato?
fu facile affrontare la notizia. Ero molto
spaventata, ma non riuscivo a piangere,
perché avevo già avvertito i primi sintomi
della malattia, pertanto non ebbi alcun
dubbio, quando mi comunicarono il risultato. Feci tutte le analisi presso il centro
Dream e il medico decise che avrei dovuto
iniziare immediatamente il trattamento antiretrovirale, la cosiddetta triterapia, per
evitare la trasmissione del virus al mio
bambino.
In cosa consiste il programma Dream?
Si tratta di un’azione completa di controllo, prevenzione e trattamento, cioè di
lotta globale contro l’infezione da Hiv. Per
la Comunità di Sant’Egidio è fondamentale il valore della persona e Dream nasce
con l’obiettivo di riunire prevenzione e terapia farmacologica dell’Aids anche
nell’Africa sub-sahariana, così come avviene in Occidente. Il principio è che non
basta prevenire, ma è necessario salvare vite, mentre lo scopo della terapia per le
donne in gravidanza è garantire una generazione libera dall’Hiv.
Perché proprio il Mozambico?
La Comunità di Sant’Egidio è storicamente e profondamente legata al Mozambico, per aver facilitato gli accordi di pace, firmati il 4 ottobre del 1992.
Quali sono le sfide principali che la Comunità di Sant’Egidio deve affrontare?
Il maggiore successo è stato far nascere
diecimila bambini sani in Mozambico da
madri sieropositive, come pure aver salvato le madri grazie alla terapia antiretrovirale. È come la mia storia. È necessario
però che questo miracolo sia ancora possibile per tutte le madri sieropositive. Oggi
la grande sfida è lavorare insieme al ministero della Salute, per donare questa speranza a tutti. Il modello va portato in tutte le province, così da aiutare le donne ad
avere bambini sani. Bisogna salvare le madri specialmente nelle zone rurali, dove la
popolazione non ha accesso ai farmaci e
non dispone di ospedali di prossimità né
d’informazioni adeguate. Le persone che
tuttora si rivolgono ai guaritori, i curandeiros, se avessero informazioni corrette da
parte delle attiviste di Dream, cambierebbero idea: le credenze possono cambiare,
la mentalità può cambiare!
Artemisa Chiziane,
nata a Mandjakaze
(Gaza) in
Mozambico il 14
ottobre 1978, si
trasferì da piccola
con i genitori a
Maputo a causa
della guerra civile.
Madre di cinque
figli, il più piccolo
dei quali, Hilário, è
nato sano grazie al
Programma Dream.
Vive a Boane
(periferia di
Maputo) con i tre
figli minori.
Attivista del
Programma Dream,
è coordinatrice del
Centro nutrizionale
della Comunità di
Sant’Egidio, a
Matola (Maputo).
Il suo desiderio è
diventare
infermiera. (foto
Paola Rolletta)
Che ruolo possono svolgere le donne mozambicane e, in generale, le donne africane nella
lotta contro l’Aids? Come possono contribuire
a cambiare il destino dell’Africa?
Noi donne siamo i pilastri della società
in qualsiasi angolo del mondo. Ovunque
siamo portatrici di vita e di speranza, ma
il flagello dell’analfabetismo femminile in
Africa rappresenta ancora uno dei maggiori freni allo sviluppo. Possiamo cambiare
il nostro destino solo attraverso la conoscenza, l’istruzione, l’educazione dei figli e
dei mariti, la formazione professionale e il
lavoro. Secondo un vecchio proverbio africano: chi educa una donna educa una nazione!
Sono un’attivista molto orgogliosa di
esserlo. Si tratta di un compito delicato, Alla luce della sua esperienza che valore hanperché noi attiviste ci relazioniamo diretta- no la fede e la speranza?
mente con i pazienti, lavorando in prima
Il valore della speranza è la vita che ho
linea. Incoraggiamo e appoggiamo i mala- avuto finora. Non sarei viva, se non avessi
ti e le loro famiglie! Andiamo nelle loro avuto pazienza e fede. Il dialogo quotidiacase, offrendo un servizio di orientamento su
Il maggior successo è stato fare nascere
più livelli: nutrizione,
igiene, corretta sommiin Mozambico diecimila bambini sani
nistrazione e assunzione
da madri sieropositive
dei medicinali e sostegno psicologico. GaranEssere sieropositivi non significa la fine della vita
tiamo una presenza costante in tutti i centri
Dream, per accogliere i malati che arriva- no che intrattengo con Dio mi conferisce
no per la prima volta e devono iniziare la la forza per aiutare gli altri.
terapia antiretrovirale, infondendo forza e
coraggio. Partecipiamo alle campagne di Qual è il sogno di suo figlio più piccolo, Hiinformazione sia nei quartieri sia nei luo- lário?
ghi di lavoro. Siamo l’esempio vivente che
Ha appena sette anni e per ora non
è possibile vincere la battaglia contro
parla di sogni, ma di certo ne fa. È nato
l’Aids.
sano grazie al programma Dream e mi auCosa ha imparato dalla sua storia personale guro che possa studiare medicina, per poe com’è cambiata la sua visione della vita? E ter aiutare le persone che soffrono.
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Dove andrai tu, andrò anch’io
Il romanzo
L’estate dei barbari
In una villa moresca sul Pacifico, Araceli,
la cameriera messicana, osserva la famiglia
molto perbene per cui lavora. Non però il
viceversa: per i “padroni” la persona
dietro la donna delle pulizie («si sfilò
l’uniforme, liberandosi della sua identità
come domestica nel momento in cui
camicetta e pantaloni finivano nel cesto
della roba sporca») non esiste. Finché —
dopo essere spariti, ognuno per conto
suo, abbandonando i due viziatissimi figli
— tornati a casa e realizzato il baratro del
loro gesto, i coniugi sono costretti a fare i
conti con la donna Araceli.
Svela tantissimo di noi il romanzo di
Héctor Tobar, L’estate dei barbari
(Einaudi, 2012). Svela il razzismo
inconsapevole che ci portiamo dietro;
svela la tentazione di scaricare la colpa
sugli altri, il non vedere per comodità, la
spirale perversa dei fraintendimenti. Svela
i cambiamenti nelle relazioni tra emigranti
e famiglie di origine.
Ma svela, soprattutto, la voce di una
donna che vive con noi, ma che ci
ostiniamo a non ritenere dei nostri. (giulia
galeotti)
La storia di Ruth e Noemi, suocera e nuora, diventate sorelle
di GIULIA GALEOTTI
uocera e nuora nella stessa
casa sono come due mule
selvatiche nella stessa stalla», sosteneva lo scrittore
italiano Giovanni Verga,
cogliendo un’opinione sperimentata. Pur con
tutte le sfumature e possibili gradazioni del
caso, le difficoltà di relazione tra la madre del
figlio e la moglie del figlio, infatti, sono evidenti agli occhi di tutti. Le eccezioni rappresentano una boccata d’aria. Preziose, nella loro rarità.
Personalmente conosciamo solo due meravigliosi casi. In uno, la suocera prese con forza
le parti della nuora quando, una ventina d’anni fa, il figlio lasciò la moglie con una bimba
piccola per un’altra donna. La nuora, per di
più, era straniera. Ma la suocera non ebbe
dubbi: suo figlio era solo un bambino cresciuto in rughe e altezza; essere uomo, invece, era
tutta un’altra faccenda (e la nuora le ricordò
che comunque doveva volergli bene: era pur
«S
Queste quattro donne vere e preziose
hanno fusa nella loro storia
una delle narrazioni bibliche
più belle e incredibili
Quella che narra
il mistero dell’amore incondizionato
sempre suo figlio). La madre che difende i
suoi cuccioli, anche se non li ha partoriti.
O il cucciolo che difende la madre, anche
se non è stato da lei partorito: conosciamo anche la storia di una donna — madre di un figlio disabile e con il marito fuggito lontano —
che quando la suocera restò vedova e incapace
di vivere da sola, se la prese in casa. E se la
tenne fino all’ultimo giorno.
Queste quattro donne, vere e preziose, hanno fusa nella loro storia una delle narrazioni
bibliche più belle e incredibili, quella che narra il mistero dell’amore incondizionato, l’amicizia che dà senza che nulla le venga chiesto,
capace di fruttificare anche laddove non umanamente “necessario”.
Al tempo dei Giudici, una grande carestia
obbliga un uomo di Betlemme, Elimelech, a
emigrare nella terra di Moab, con la moglie
Noemi e i due figli Maclon e Chilion. Lì si
stabiliscono, ma poco dopo Elimelech muore.
I figli si sposano con due donne locali, Orpa
e Ruth, ma dopo circa dieci anni anch’essi
muoiono. Noemi, è chiaro, ha perso tutto e
alle nuore, ancora giovani, dice: «Tornate ciascuna a casa di vostra madre; il Signore usi
bontà con voi, come voi avete fatto con quelli
che sono morti e con me! Il Signore conceda
a ciascuna di voi di trovare riposo in casa di
un marito».
Le giovani si oppongono, ma Noemi insiste: Orpa, baciatola, sebbene a malincuore,
parte, ma Ruth è irremovibile: «Non insistere
con me perché ti abbandoni e torni indietro
senza di te; perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il
mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi
sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da
te». Vistala così decisa, Noemi accetta e le
due donne fanno il viaggio di ritorno insieme
verso Israele. È il solo racconto biblico che
abbia al suo centro suocera e nuora.
Riflettendo sulla storia, la scelta di Ruth ha
veramente dell’incredibile. Esempio di eroica
fedeltà e di pietà, la sua decisione implica
l’abbandono del proprio popolo e l’adesione a
un popolo straniero, dove l’estraneità (ieri come oggi) è per solito sinonimo di ostilità.
Eroina coraggiosa della perseveranza, Ruth
— il cui nome significa «l’amica» — compie a
ritroso con Noemi («la mia graziosa, la mia
dolcezza») un viaggio non suo. Lascia i genitori e tutto ciò che possiede a Moab, compiendo un voto di amore e di fede: non è infatti mossa da voci profetiche, né (come avviene per altri “itineranti” personaggi biblici) è
stata invitata da un messaggero di Dio. Semplicemente, sente di avere una missione.
È come se il legame tra queste due donne
fosse connaturato alle loro reciproche vicende:
entrambe sono rimaste vedove, entrambe sono
sospinte dal desiderio di sopravvivere alle avversità e dal sogno della maternità. L’alleanza
tra loro è spontanea, siglata dalle celebri parole di Ruth: «Dove tu andrai andrò anch’io,
dove tu dimorerai dimorerò anch’io, il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio
Dio». Il libro di Ruth da secoli è per eccellenza visto come il libro dell’accoglienza e della
generosità. Il libro della famiglia fondata sulla
fedeltà.
La sua umanità e la sua semplicità hanno
generato un grande fascino. Nel 1829, ad
esempio, Nicolò Tommaseo le dedicò un poemetto in rima, seguito da due novelle, La nuora buona (incentrata su Ruth e Noemi) e La
carità rispettosa (Ruth e Booz), uscite nel 1867.
Più di recente, la scrittrice Dacia Maraini
(nell’introduzione al volume Rut e Ester, 2001)
ha sottolineato la singolarità di un legame così
stretto tra suocera e nuora soprattutto all’interno di una società «gerarchicamente prestabilita», in cui la gelosia nei confronti dei figli
era mossa dal fatto che per le donne la maternità rappresentava il solo modo di avere un
ruolo determinante nella famiglia. Qui invece
le due donne, private dei mariti, si sostengo-
no. Il loro «strano colloquio» sposta al centro
della scena l’amicizia di Ruth con Noemi, e
così — sempre secondo Dacia Maraini — la sua
scelta di seguirla in terra d’Israele appare come la sola possibile risposta al mondo patriarcale.
Ruth, del resto, è una capostipite: viene citata anche da Matteo in apertura del suo Vangelo come la straniera che ha dato le origini al
seme di Davide e quindi a Cristo (Matteo 1, 5).
A tal punto che Erri De Luca (1999) ne ha
sottolineato la «forza di avvinghiarsi a rampicante intorno alla base del Nuovo Testamento» (Ruth è legata all’avvento di Cristo anche
da un nodo geografico, la città di Betlemme,
in ebraico Bet Lehen, «casa di pane», dove
Ruth segue la suocera Noemi e dove genererà
Obed).
Da Ruth, la straniera, dipenderanno le future generazioni di ebrei e cristiani.
Vetrata della Saint James Anglican Church
(Halifax, Nova Scotia, Canada)
Arrivò lei e io divenni uomo e scrittore
L’incontro con una suora ospedaliera trasformò per sempre un giovane agnostico
Pubblichiamo stralci dalla «Lettera
a una suora» che lo scrittore pubblicò in «Scritti cristiani» nel 1979. Il
testo è tratto da Ferdinando Castelli,
«Sentinelle dell’assoluto» (Àncora,
2012).
di MARIO POMILIO
ara Sorella, non so se avrà
mai occasione di leggere
questa lettera. Nemmeno
so se, anche leggendola, lei potrà
riconoscervisi: non ricordo il suo
nome, né quello dell’ordine al
quale apparteneva. Del resto nella
sua vita di suora ospedaliera avrà
avuto tanti incontri simili a quello
avuto con me, che ciò che sto per
raccontarle, eccezionale per me
ma così normale per lei, non può
esserlesi stampato particolarmente
nella memoria. Sono in grado di
indicarle solo due cose precise, un
luogo e una data. La data è quella
del marzo 1953 e il luogo la Villa
delle Querce di Napoli, una clini-
C
ca privata situata a mezza costa
tra il Museo Archeologico e il
quartiere del Vomero.
Le parlerò di noi, mia moglie
ed io, una giovane coppia senza
figli originaria dell’Abruzzo e che
le circostanze della vita avevano
sbalzato da pochissimi mesi a Napoli, dove vivevamo ancora male,
tra difficoltà anche economiche, e
dove soprattutto stentavamo ad
ambientarci, senza parenti in città
e quasi senza amici. Ma a renderci
ben più duri quei mesi furono
una malattia di mia moglie e l’urgenza d’un intervento delicato.
In sé l’evento, lo so, non ha
nulla di straordinario, non siamo
stati certo la prima coppia a dover
affrontare un’esperienza del genere. Ma a farcela apparire penosa
forse più del necessario, a parte le
preoccupazioni sull’esito dell’intervento, i disagi, la penuria economica, erano molte altre impalpabili cose, a cominciare dalla nostra immaturità. Venivamo ambedue da una adolescenza e da una
giovinezza abbastanza protette ed
era la prima volta che ci trovavamo a scontrarci, almeno in sede
privata, con preoccupazioni più
grandi di noi. Era la “vita” con le
sue durezze che improvvisamente
ci piombava addosso, sorprendendoci impreparati. Ricordo ancora
le lunghe ore piene di silenzi che
trascorrevamo, noi due soli, nel
clima della clinica, e la mia impotenza d’improvvisato e maldestro
assistente, e la malinconia dell’imbrunire, l’ora più triste in una clinica, e l’angustiata lunghezza delle notti.
Per fortuna c’era lei, pronta a
sorriderci e rincuorarci, pronta a
dirci la parola giusta, pronta agli
umili servigi di fronte ai quali magari arretrava la professionalità
sbrigativa e piuttosto mercenaria
delle infermiere. Ci abituammo
presto ad aspettarla, le nostre ore
erano anzi scandite dall’attesa di
lei. Arrivava lieve e rapida; ed eccola subito dedicarsi amorevole,
sollecita, misteriosamente percettiva, alle necessità di mia moglie.
Fin dal principio andavo domandandomi il perché di tutto
questo. Perché una così totale offerta di sé agli altri e, propriamente, tanta carità. E perché tanta
gioia nella carità. E perché tanta
umiltà. E perché tanta differenza
tra il suo comportamento e quello
degli altri, di tutti noi altri, ristretti nella cerchia dei nostri piccoli
egoismi e delle nostre vanità. E
aggiunga lei stessa i mille altri
perché che sorgevano nella mia
mente. Ma, soprattutto, non se ne
meravigli. Consideri piuttosto
qual ero io in quel momento: per
dirla in breve, un agnostico assai
poco interessato al fenomeno religioso in sé e oltre tutto affatto
ignaro, se si escludevano le sue
normali estrinsecazioni culturali,
della realtà effettiva della Chiesa e
delle mille invenzioni di vita cristiana, dei mille modi di testimonianza, dei mille eroismi cui, co-
me nel suo caso, la fede può dar
luogo.
Beninteso, narrata così la mia
storia si semplifica, cancella le penombre, ma tenga conto ad esempio del persistere d’una sensibilità
morale impressasi in me durante
l’adolescenza che sopravviveva ai
miei rifiuti. Ma più ancora consideri la predilezione che in queste
letture avvertivo tuttora per certi
libri di scavo, di interrogazione
sull’uomo, sul suo senso e mistero, quei tipici libri insomma che
non sarebbero possibili senza un
presupposto e una radice religiosi.
Il filo cioè, probabilmente, non
era interrotto, ma la mia fisionomia nel suo complesso restava
quella dell’agnostico che pensa
d’aver chiuso con certi problemi o
al massimo li vive solo culturalmente e per una ragione latamente estetica.
Ed ecco che a un tratto mi veniva incontro lei, cambiandomi
molte carte in mano e introducendo molte perplessità nel mio tranquillo universo laico. La scoperta
tangibile, e non più solo per udito
dire, che esistessero scelte simili
alla sua, esperienze di vita così
esclusive e sconcertanti vissute
con un’intrepidezza così serena e
così sorgiva, modificava insomma
radicalmente la mia visione del
Cristianesimo e, oltre a spogliarmi
della mia scorza polemica, infiltrava in me delle inquietudini che in
seguito sarebbero venute fermentando per vie impensate. Lasciando infatti da parte gli effetti psicologici e intimamente esistenziali
provocatimi da quell’esperienza, e
senza arrivare a parlare di conversione, che diventerebbe un termine troppo facile per un itinerario
lungo, dibattuto e intricato, e che
non userei, in ogni caso, senza
pudore, posso dire che la mia
stessa vicenda letteraria mi appare
fortemente intrecciata con essa. In
breve, sono nato scrittore all’indomani di quell’incontro e assai probabilmente proprio in seguito a
quell’incontro.
Ad opera sua erano venuti in
luce, di me, l’io profondo e lo
scrittore insieme.
di LUCETTA SCARAFFIA
brutta, è vecchia e coperta di
stracci. Per di più, vola in cielo su
una scopa, proprio come le streghe, anche se si è cercato di salvarla da questo sospetto girando
la scopa in direzione opposta a quella delle
streghe. Ma ci dobbiamo accontentare: questo inquietante personaggio è l’unica presenza femminile nelle feste invernali, quelle feste
legate, per i cristiani, al Natale e alla distribuzione dei doni ai bambini, che si svolgono
nel periodo del solstizio d’inverno, cioè da
Ognissanti al 6 gennaio, quando le giornate
diventano sempre più corte, il buio sembra
inghiottire la vita quotidiana e portare con sé
le ombre dei morti.
Befana, infatti, che oggi è divenuto sinonimo di donna brutta e vecchia, è una corruzione lessicale di epifania, che significa «apparizione» e in senso traslato «apparizione
sensibile di una divinità», cioè la presentazione di Gesù ai pagani, e quindi ci riporta
all’arrivo dei Magi dall’O riente.
La festa dei re Magi con cui inizia gennaio
è una festa della luce, della stella, dell’«apparizione», ed è legata al tema del dono: i tre
sapienti che arrivano dall’Oriente portano
doni preziosi al santo Bambino. Questa festa
contiene due elementi — luce e dono — che
compaiono in tutte le feste che si svolgono
nella fase collegata al solstizio d’inverno, elementi già presenti nelle feste pagane per il
Sol invictus, legate alla rinascita della luce.
L’Epifania si svolgeva la dodicesima notte
dopo il solstizio invernale, in un momento in
cui si celebrava la morte e la rinascita della
natura. L’aspetto da vecchia, il vestito stracciato, sarebbero dunque simboli dell’anno
vecchio, della natura morta che deve rinascere. Esiste anche una leggenda — non tanto
antica — che cerca di trovare un posto nella
tradizione cristiana a questa figura: i re Magi, andando verso Betlemme, si sarebbero rivolti a una vecchia per avere delle indicazioni sulla strada, cercando pure di convincerla
a seguirli per andare ad adorare il piccolo re.
Ma la donna si sarebbe rifiutata. In seguito,
pentita, si sarebbe messa in cammino con un
cesto di dolci, senza trovare né i Magi né il
Bambino, così avrebbe donato i dolci ad
ogni bambino che incontrava sul suo cammino. Da allora, per farsi perdonare, la vecchia
ha continuato a fare regali ai bambini.
Ma la leggenda non riesce a convincere: la
vecchia Befana mantiene sempre qualcosa di
inquietante, confermato anche dal fatto che
È
Emanuele Luzzati, «I Re Magi»
Il saggio
La vecchina che narra ai bimbi l’aldilà
The Perfume
of the Gospel
Inchiesta sulla Befana, unica presenza femminile nelle feste invernali
L’emorroissa, la sirofenicia, la peccatrice,
le sue discepole, Maria di Betania e
Sophia (Sapienza): sono sei gli incontri
tra Gesù e le donne che — partendo dai
sinottici e dal Vangelo di Giovanni —
Nuria Calduch-Benages, docente di
Antico Testamento, racconta in Il profumo
del vangelo (Paoline, 2007) ora uscito nella
traduzione inglese (The Perfume of the
Gospel. Jesus’ Encounters with Women,
Gregorian & Biblical Press, 2012). Un
tratto che torna costantemente è la
presenza del profumo, presenza carica di
connotazioni e ricca di contenuto
simbolico. Un profumo capace di aprirsi a
molteplici interpretazioni in base ai
contesti, ma ciò che immediatamente
evoca è la generosità, la gratuità, la
nobiltà d’animo. Accoglienza,
disponibilità, ospitalità, bellezza, eleganza,
intelligenza e amore. E se un profumo
annuncia la morte di Gesù, è sempre un
profumo — scrive l’autrice, nata a
Barcellona — ad annunciarne la
risurrezione. (giulia galeotti)
punisce i bambini cattivi portando loro del
carbone, a differenza di Gesù Bambino o
Santa Klaus - Babbo Natale che sono figure
interamente positive e non prevedono regali
“in negativo”.
La notte dell’Epifania — cioè la «dodicesima notte» — veniva considerata nelle campagne una notte magica, in cui gli animali parlano, nelle stalle e nei boschi. In molte feste
popolari il 6 gennaio, invece dei Re Magi,
compare la Befana, raffigurata come un fantoccio che talvolta viene anche bruciato, come avviene per i simboli dell’anno vecchio.
In alcuni Paesi cattolici — come la Spagna e
alcune regioni d’Italia — sono i Magi che
portano i regali ai bambini, e non la Befana.
In altri, è Gesù Bambino che a Natale porta
i regali più importanti, e la Befana piccole
cose il 6 gennaio, se non addirittura il carbone. In ogni caso, è posta in un ruolo secondario nei confronti del suo rivale importante,
Gesù Bambino, che si è trasformato nel XX
secolo, per effetto della secolarizzazione, in
Babbo Natale, tanto che oggi la Befana sta
perdendo sempre più importanza, surclassata
dal rivale laico, Babbo Natale.
Babbo Natale, infatti, nella sua forma attuale è una creazione moderna, così come la
credenza che viva in Groenlandia e giri su
una slitta trainata da renne. È vestito di scarlatto come i re, stivali e pelliccia evocano
l’inverno e — unico aspetto in cui somiglia
alla Befana — è vecchio.
Come spiega Lévi-Strauss in un suo celebre
saggio, Babbo Natale suppliziato, egli non è un
personaggio mitico o leggendario, dal momento che manca materiale narrativo sulle sue
gesta, ma è «fissato una volta per tutte nella
sua forma e definito in base ad una funzione
esclusiva e a un periodico ritorno, appartiene
piuttosto alla famiglia delle divinità».
Lévi-Strauss non lo dice, ma le stesse cose
si potrebbero scrivere sulla Befana. Si tratta
di divinità minori proprie di una classe di
età, l’infanzia. Un momento di passaggio per
l’età adulta, infatti, è quello della rivelazione
sulla non esistenza di Babbo Natale e della
Befana. Ma — scrive il grande antropologo —
dietro a questa contrapposizione fra bambini
che credono e adulti che sanno, si nasconde
una contrapposizione più fondamentale,
quella fra morti e vivi.
Infatti vediamo che i protagonisti religiosi
di questo periodo dell’anno sono tutti giovani — da san Nicola, il giovane vescovo di Mira da cui derivano calze e caminetti, che in
molti Paesi porta i regali il 6 dicembre, a Gesù Bambino fino ai Re Magi — ma, quando
si trasformano in personaggi mitici come
Babbo Natale e la Befana, diventano vecchi.
Vecchi come i morti.
In molte tradizioni locali, a cominciare dalla festa di Ognissanti, l’ormai famosissima
Halloween, i bambini si travestono da scheletri e da fantasmi e girano perseguitando gli
adulti che se ne liberano solo donando soldi o
dolci. Perché in questo periodo critico dell’anno, quando la notte minaccia il giorno, si teme che possano tornare i morti a tormentare i
vivi. Con il ritorno della luce, i morti se ne
andranno, ma intanto bisogna tenerli buoni
con doni e servigi. Le feste di Natale e
dell’Epifania sono feste che celebrano il ritorno della luce, e quindi obbligano i morti al
congedo. In quei giorni, si possono quindi
anche festeggiare i morti, ma chi li può rappresentare nella società dei vivi? Lévi-Strauss
risponde che sono i bambini ad assumere la
parte dei morti, in quanto incorporati al gruppo umano ancora in modo incompleto, sono
“altri” dai vivi adulti: «La festa dei morti è essenzialmente la festa degli altri, poiché il fatto
di essere altro è la prima immagine ravvicinata
che possiamo rappresentarci della morte».
Siamo noi adulti che portiamo i regali ai
bambini, ma ci piace che loro credano, almeno per qualche anno, che i regali arrivino
dall’aldilà, sia stato Gesù Bambino o Babbo
Natale o la Befana a portarli.
Non sappiamo se la Befana, e il suo collega Babbo Natale, immagini di quei morti
che vengono a disturbare i vivi durante l’au-
tunno, e che poi se ne vanno al ritorno della
luce, portando in cambio regali ai bambini,
sono veramente — come scrive l’antropologo
francese — «il bastione più solido, e uno dei
focolai più attivi del paganesimo nell’uomo
moderno». Lévi-Strauss scriveva nei primi
anni Cinquanta, quando il consumismo era
una realtà lontana: oggi che conosciamo la
follia consumista che divampa fra Natale e
l’Epifania siamo indotti a pensare che sia
questa, e non le innocenti figure mitiche di
Babbo Natale e della Befana, a rappresentare
la soglia avanzata del paganesimo.
Oggi è più facile pensare che almeno attraverso questi due mitici vecchi si veicola il
È la festa della luce
Della stella, dell’apparizione, del dono
e del Bambino appena nato
senso della morte e della vita, nonché l’esistenza dell’aldilà: per molti bambini, questa
sarà l’unica esperienza di “aldilà” nel corso
della loro educazione. E il loro esistere al
fianco di episodi della Sacra Scrittura o della
vita dei santi continua a segnalare un legame
con la tradizione cristiana. Il Natale non è
solo la festa dell’albero illuminato e di Babbo Natale, l’Epifania non è solo la buffa Befana che porta dolci e regali: lo sdoppiamento pagano delle feste cristiane contribuisce a
tenerle vive, e possiamo sperare che qualcuno
di questi bambini, crescendo, cerchi di capire
meglio la loro storia. Ed entrambi, nel loro
nome, riportano tracce della tradizione cristiana: Natale, e quindi la nascita di Gesù,
per Babbo Natale, ed Epifania nascosta nel
nome della Befana, e quindi i Magi e, di
nuovo, il Bambino.
In ogni caso, una storia migliore di una
glorificazione dell’acquisto fine a se stessa,
una storia misteriosa che fa pensare che esista una realtà “altra” oltre la nostra.
Il film
La bicicletta verde
Wadjda è una bambina di dieci anni che
vive alla periferia di Riyadh, capitale
dell’Arabia Saudita. È sveglia, affettuosa,
sorridente, curiosa, piena di vita, anche
della vita che non è ammessa per le
donne nel suo Paese. Su tutto, Wadjda
desidera una bicicletta, che i suoi genitori
non solo non si possono permettere, ma
che non ritengono consona a una
femmina. Ma la bimba non si arrende.
Inizia a darsi da fare per trovare i soldi,
impegnandosi addirittura nella
preparazione della gara di Corano della
sua rigidissima
scuola femminile,
lei che non ha
alcuna
“predisposizione”
per le materie
religiose. La
bicicletta verde
(2012) di Haifaa
Al-Mansour, prima
regista donna
dell’Arabia Saudita,
ha diversi meriti:
primo
lungometraggio
interamente girato
nel regno, affronta
e denuncia la terribile oppressione degli
uomini sulle donne (e delle donne sulle
donne) senza rabbia o vittimismo, ma
attraverso gli occhi di una bambina, vitale
e determinata, che non accetta le regole
imposte. Una bimba che attacca, con una
forcina per i capelli, all’albero genealogico
ufficiale della sua famiglia che campeggia
in salotto — tutto composto
esclusivamente di nomi maschili — anche
il suo. La libertà di Wadjda non passa
tanto per l’oggetto desiderato, quanto per
il percorso fatto per conquistarlo. Un
percorso che cambierà anche sua madre,
che da donna radicalmente imbevuta della
mentalità sociale, impara a capire sua
figlia. E a starle accanto. (giulia galeotti)
women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women
LE
D ONNE DI
HAITI
Accanto ai campesinos e ai bambini, ad Haiti le principali
vittime dell’emarginazione sono le donne, che con il loro
lavoro sostengono gran parte delle famiglie
monoparentali. Secondo le informazioni inviate a Fides
dalla curia generalizia dei gesuiti, il terremoto di due anni
fa le ha colpite in modo particolare: centinaia di migliaia
di donne (venditrici ambulanti, collaboratrici domestiche
e operaie) si sono improvvisamente trovate senza mezzi di
sussistenza. Per aiutarle, nell’ottobre 2011 il Servizio dei
Gesuiti per i Rifugiati (Jrs) ha avviato un progetto di
auto-sostentamento economico e promozione socioculturale volto al miglioramento delle condizioni di vita
di 2.040 donne sfollate di Port-au-Prince. A oltre un
anno dall’avvio del progetto, in quattro accampamenti
nella capitale 108 donne capofamiglia sono state istruite
nella gestione del commercio spicciolo e si sono
organizzate in un gruppo di cooperazione economica,
ricevendo ognuna in prestito dal Jrs una piccola somma.
GRANO
AVARIATO
La denuncia della dottoressa Giuliana Icardi,
dell’università del Piemonte Orientale, è netta: da quando
non è più italiana ma batte bandiera a stelle e strisce, una
nota ditta alimentare ha iniziato a usare grano con tassi
altissimi di micotossine, cioè (per i non addetti ai lavori)
grano ammuffito, derivante da lunghi stoccaggi,
acquistato al prezzo più basso possibile. Nel 2006
l’Unione europea (Ue) ha alzato, con un colpo di mano,
i livelli accettati di micotossine presenti nel grano duro:
tanti Paesi potranno così produrre grano duro in climi
non adatti, concentrandosi solo sulla quantità. Il che
significa, tra l’altro, distruggere i contadini del sud Italia,
il cui grano non contiene micotossine, e portare al
fallimento quelle industrie sementiere mediterranee che
non usano grano ammuffito. Non solo, ma giacché per
esportare pasta in Nord America il grano deve avere un
tasso di micotossine che è circa la metà di quello che la
Ue ora accetta per le importazioni di grano duro dagli
stessi Paesi, i commercianti italiani e i monopolisti
internazionali acquistano al prezzo più basso possibile da
contadini che hanno bisogno di soldi per pagare i debiti,
per poi speculare quando tutto il grano è nei loro
magazzini. Essi esportano il grano migliore italiano
all’estero, lucrando sul prezzo, e importano invece grano
ammuffito e radioattivo dall’estero. Attenzione, dunque,
alla spesa. Acquistare solo pasta da grano duro coltivato
in Italia e da coltura biologica è scelta seria.
ALLE
AFGHANE PO CHI DIRITTI E TANTI ABUSI
«Tradite e uccise»: Davide Frattini, inviato del «Corriere
della Sera», ha ricordato Najia Sidiqi, Hanifa Safi, Anisa
e le altre donne afghane che — dopo aver creduto nelle
promesse occidentali e nella nuova Costituzione — sono
state uccise perché hanno osato fare qualcosa per le loro
simili. Un rapporto delle Nazioni Unite presentato
qualche settimana fa apre la contabilità dolorosa delle
violenze con la storia di una quindicenne che si è data
fuoco: picchiata quotidianamente da marito e suocero, dai
poliziotti ai quali li aveva denunciati era stata invitata a
tacere e tornarsene a casa. La Commissione indipendente
per i diritti umani ha registrato 4.100 casi di violenze nei
primi mesi del 2012, quasi il doppio rispetto all’anno
precedente. È vero che i numeri crescono
anche perché in molte hanno trovato
il coraggio di denunciare, ma — fa notare il dossier
dell’Onu di cui ha scritto il giornalista —
in 16 delle 34 province solo il 21 per cento delle querele
ha portato a condanne. Magistrati, giudici e poliziotti
hanno cominciato ad applicare la legge del 2009 per
l’eliminazione della violenza contro le donne (che
punisce, tra l’altro, nozze forzate, stupri, botte in
famiglia, compravendita di donne con la scusa di
sistemare dispute tra clan), ma la strada perché le donne
siano davvero protette e la loro eguaglianza riconosciuta è
Uscite e abbonamento
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L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2013 numero 8
Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI
www.osservatoreromano.va
ancora lunga. «Gli attivisti — conclude Frattini — sanno
che le donne rischiano di essere le vittime del negoziato
con i talebani».
SEICENTO
MILIONI DI BIMBE FANTASMA
Dei 600 milioni di bambine e adolescenti che vivono nei
Paesi in via di sviluppo, molte continuano a essere
invisibili per le strutture e i programmi nazionali.
Milioni di loro vivono in condizioni di povertà,
vittime di discriminazione, disuguaglianza, violenza,
sfruttamento, come lavoro minorile e matrimoni precoci.
L’America Latina, ad esempio, è la sola regione in cui si
registrano tassi di fertilità adolescenziale ancora stabili o
addirittura in aumento. Si tratta di bambine e adolescenti
evidentemente molto vulnerabili:
la maggior parte lascia la scuola, limitando così la
possibilità di trovare un lavoro e acuendo il proprio stato
di dipendenza (spesso dai loro stessi aguzzini).
Il matrimonio infantile è un’altra piaga: secondo le ultime
statistiche dell’Unicef, 70 milioni (cioè una su tre) di
giovani donne tra 20 e 24 anni si sono sposate prima di
aver compiuto 18 anni, e 23 milioni prima dei 15 anni.
A livello mondiale, 400 milioni di donne tra 20 e 49 anni
si sono sposate quando erano ancora minorenni.
ANTONINA E LE ALTRE IN CANTIERE
FABBRICA DI SAN PIETRO
NELLA
Anche se assenti nelle liste di presenza giornaliera, molte
donne hanno lavorato nel cantiere della Reverenda
Fabbrica di San Pietro. Erano per lo più vedove di
operai, impiegate in compiti per cui non era richiesta una
specifica competenza tecnica. Come ricorda il foglio
«All’ombra del cupolone» (completamente rinnovato),
queste donne sostituivano i mariti per non incorrere nelle
penalità previste dai contratti. Antonina de Pozzo, vedova
di Giacomo Carone, ad esempio, compare nell’elenco dei
trasportatori di travertino dal 1548 al 1550. Mentre risulta
che madonna Perna, “lavandara di Nostro Signore”, nel
1542 affittò i suoi sei somari a mastro Lorenzo per
trasportare, a quindici baiocchi la giornata, la terra
necessaria per realizzare una strada di servizio dietro la
basilica. Durante tutto il XVI secolo, la presenza
femminile figura anche tra la manovalanza, e (pare) senza
differenze remunerative con gli uomini. Perfino alcune
nobildonne strinsero rapporti economici con la Reverenda
Fabbrica. È il caso di Francesca Farnese (che fornì legna
dalla selva di sua proprietà nel 1546) e della contessa di
Anguillara. Impegnatasi a tagliare in breve tempo i suoi
abeti di Cerveteri, il 17 maggio 1549 fu sollecitata “ad
affrettare la consegna in cantiere”.
donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne
Martina, testimone nell’accoglienza
La santa del mese raccontata da Francesca Romana de’ Angelis
oglio un gennaio col
sole d’aprile» cantava
nella Filastrocca di Capodanno Gianni Rodari,
straordinario narratore
di storie per i «grandi di domani». E invece neve, ghiaccio, luce corta e notti lunghe, perché a gennaio siamo nel pieno
dell’inverno. Una leggenda gentile accompagna gli ultimi tre giorni di questo mese
che la tradizione vuole i più freddi
dell’anno. Per sfuggire il gelo una merla
con i suoi piccoli trovò riparo in un comignolo e quando a febbraio ne uscì, sperando che il peggio fosse passato, le sue
piume bianche si erano fatte scure per la
fuliggine. Da allora i merli divennero di
un nero lucente, anche se conservarono
l’arancio del becco e il canto melodioso e
flautato.
A riscaldare il cuore nei “giorni della
merla” è santa Martina, celebrata il 30
gennaio. Di lei, come del resto della gran
parte dei martiri della cristianità delle origini, sappiamo pochissimo perché spesso
le uniche fonti che restano sono le Passiones, scritti agiografici che avvolgendo queste figure nella leggenda sfumano la verità
storica. A differenza di altre martiri più
celebri Martina non ha avuto il dono di
una devozione costante, capace di conservarne il ricordo nel tempo. La sua è una
storia affascinante fatta di oblio e ritorni
di memoria finché l’entusiasmo di un
Pontefice e l’emozione di un grande artista le restituirono voce, gesti e sentimenti.
Siamo nella prima metà del III secolo
quando la giovanissima Martina, nata in
una nobile famiglia romana, rimane orfana
di entrambi i genitori. Sola, donna e cristiana: una condizione di fragilità estrema
che Martina sa trasformare in una forza
inesauribile. Il suo primo atto, rinunciare
a tutte le sue ricchezze per donarle ai bisognosi, precede di secoli la povertà in letizia di Francesco. Martina si fa testimone
dell’accoglienza dedicando la vita ai poveri e ai malati e interpretando così il ruolo
attivo che le donne avevano nelle prime
comunità cristiane, un modello femminile
che attingeva direttamente alla parola
evangelica, dove le donne sanno accogliere e comprendere Gesù. Regnava allora
Alessandro Severo ma la tolleranza di questo imperatore venuto dalla lontana Fenicia, che aveva incluso Cristo nel suo larario, non basta a proteggere Martina dalla
persecuzione di Ulpiano, celebre giureconsulto e potente prefetto del Pretorio.
Arrestata e sottoposta a crudeli torture
viene decapitata nell’anno 228. Da questo
momento su Martina scende il silenzio.
Dopo quattro secoli dal suo martirio
Onorio I le dedica una piccola chiesa ai
piedi del Campidoglio. Nei secoli successivi, mentre la chiesa viene adibita a usi
civili, si perde nuovamente la memoria di
questa martire delle origini. Nel 1256, sotto il pontificato di Alessandro IV, nel corso
dei lavori di ripristino della chiesa, vengono alla luce le reliquie di Martina e di altri tre martiri, Concordio, Epifanio e un
terzo rimasto senza nome. Restaurata e riconsacrata, la chiesa va incontro a un nuovo destino di abbandono e di Martina si
perde un’altra volta il ricordo. Nel 1588
Papa Sisto V concede la chiesa di Santa
Martina all’Università delle Arti della pittura, della scultura e del disegno (l’attuale
Accademia Nazionale di San Luca) in sostituzione della chiesa all’Esquilino dedicata a Luca, il santo evangelista protettore
dei pittori, che era stata demolita. I lavori
di ricostruzione della chiesa, adesso dedicata ai due santi, vengono avviati solo nel
1634 per iniziativa di Pietro da Cortona, il
pittore architetto allora protagonista della
scena artistica romana. La riscoperta delle
reliquie di Martina durante gli scavi preliminari suscita l’entusiasmo di Urbano VIII
che, recatosi subito a rendere omaggio alla
martire, decide di finanziare l’opera insieme a suo nipote il cardinale Francesco
Barberini, fissa al 30 gennaio la celebrazione di Martina e la eleva a compatrona
di Roma.
Quanto a Pietro da Cortona, l’emozione intensa che prova al ritrovamento delle
reliquie modifica le sue prospettive e il
progetto architettonico diventa una testimonianza di commossa devozione. Nella
realizzazione della chiesa mette tutto: talento, passione, impegno, denari e il risultato è un gioiello del barocco romano. Nel
cuore del Foro romano, accanto ai marmi
istoriati dell’arco di Settimio Severo e
all’umbilicus urbis, cioè il centro ideale della città di Roma, la chiesa dei Santi Luca
e Martina che si innalza tra tanto cielo è
un capolavoro di armonia, di morbidezza
e di luce, con la curvatura dolce della facciata, la preziosità della cupola, la sapiente successione di rientranze e di aggetti, la
candidezza degli stucchi ornatissimi e della statua di Martina giacente. Nella cripta,
dove sono conservate le reliquie della santa e dei suoi compagni di martirio, bronzo, marmi policromi, alabastro e il buio,
«V
La vita monastica secondo mère Geneviève
Acquarelli
dal chiostro
di PAOLA MARTINI
arcelle Gallois nasce a Parigi nel 1888 da una famiglia
di scarse simpatie religiose; dopo aver frequentato l’Ecole de Beaux-Arts di Montpellier e, successivamente, di
Parigi, è notata dall’illustratore e caricaturista francese Adolphe
Willette che la spinge a cimentarsi nel disegno satirico, bloccando, con un tratto ironico, ma non distaccato, passanti e scene di
strada. A seguito di una profonda crisi esistenziale nel settembre
1917, Marcelle entra nel monastero benedettino di Saint Louis du
Temple, a Parigi, prendendo il nome di mère Geneviève. Per diversi anni, all’interno della clausura, la sua creatività viene fortemente limitata: la giovane monaca, fedele al voto di obbedienza,
è destinata ad altre attività.
Nel 1931, alcuni suoi
schizzi realizzati per una
vendita benefica vengono
in mano a Paul Alexandre, già amico e scopritore del talento di Modigliani, che rimane colpito
dall’emotività e dalla freschezza dei disegni. A lui
va il merito di averne intuito e valorizzato le
grandi possibilità artistiche, sostenendo e incoraggiando il suo difficile
cammino di artista all’interno della clausura monastica.
Artista prolifica, mère
Geneviève si è espressa
attraverso mezzi differenti, passando dalla pittura
a olio al ricamo, all’incisione, alla realizzazione
di vetrate. Il suo contributo più originale è sicuramente costituito dai numerosi fogli ad acquerello
con cui ferma — grazie a
un tratto originale e a
una singolare immediatezza — la quotidianità
immutabile della vita monastica.
Prima ancora della sua
morte nel 1967, per il tramite di Paul Alexandre, l’opera di mère
Geneviève già suscita l’interesse dei critici contemporanei tra cui
André Malraux. Adolphe Willette paragona il suo stile a Toulouse-Lautrec nella capacità di cogliere, con un tratto veloce, il profilo grottesco e talvolta caricaturale dei soggetti ritratti. Nel 1951
prende avvio, grazie a François Mauriac, un grande dibattito
sull’attualità e il significato dell’arte sacra, e l’opera di mère Geneviève viene paragonata a Georges Rouault nel suo ruolo di rinnovamento dell’arte sacra.
Durante gli ultimi anni della sua vita, a partire dal 1950, mère
Geneviève si dedica alla realizzazione di due grandi cicli di incisioni, aventi come tema la Passione di Cristo e La vie du petit
saint Placide, tratto dall’illustrazione del vangelo di Luca. Infine,
il ciclo di vetrate per la chiesa abbaziale di Limon-Vauhallan e
per la chiesa di Petit-Appeville, a cui si dedicò dal 1955 al 1962,
anno della sua morte.
Malgrado la vita monastica le impedì il contatto diretto con
gli artisti contemporanei, mère Geneviève rimase sempre al passo
con le nascenti correnti artistiche e sebbene trattasse tematiche
differenti, nello stile aderì appieno alla nascita di quella che di lì
a poco verrà definita grafica pubblicitaria. Uso di colori primari,
tratto secco, partizione geometrica dell’area di lavoro, riduzione
dell’anatomia a simbolo puro del gesto e utilizzo delle scritte con
caratteri privi di grazie, queste le grandi innovazioni che l’artista
apporta alla sua produzione. Ma contestualizzandola nel suo
tempo vediamo che sono gli stessi linguaggi assunti dall’espressionismo scandinavo, dal De stile, dalla Bauhaus e dalla produzione pittorica degli artisti aderenti alla Secessione viennese.
Al centro dell’attenzione di mère Geneviève c’è la vita monastica in tutti i suoi aspetti, presentata in circa 150 acquarelli che
costituiscono la parte più cospicua e caratterizzante della sua
produzione artistica dove l’artista sofferma il suo sguardo sulla
scansione del tempo per bloccare, dal mattutino a compieta, tutti
i momenti della vita monastica. Successivamente il suo sguardo
abbandona gli spazi della dimensione religiosa per concentrarsi
su les bisognes basses et abjectes della cucina, della lavanderia, e su
ogni attività umile e manuale.
Su semplici fogli (generalmente 213 x 278 mm) preparati a colla e gesso, l’artista lavora con un tratto incisivo e forte, senza ripensamenti. Pochi tratti per delineare, con acutezza psicologica,
le consorelle, utilizzando una gamma sorvegliatissima di tonalità,
dai bruni ai blu intensi. Se la scena occupa una parte importante
del foglio, è il testo, che la accompagna, a chiarirne il significato
più intimo, prendendo spunto dai Salmi e dalle opere di Paul
Claudel o Charles Péguy con un rapporto tra immagine e scrittura estremamente innovativo e graficamente moderno.
Senso del colore e del gesto artistico, humour e profondo spirito religioso promanano da queste opere, alle quali sono già state dedicate diverse iniziative espositive, tra cui, più recenti, le
mostre tenutesi presso il Musée des Beaux-Arts de Rouen (14
maggio - 23 agosto 2004) e il Musée National de Port Royal des
Champs (10 aprile - 7 luglio 2008).
M
El Greco,
«Santa Martina»
(1597-1599, particolare)
Francesca Romana
de’ Angelis è nata a
Roma dove vive e
lavora. Dopo la
laurea in Lettere ha
insegnato in un
liceo classico.
Studiosa di
Letteratura italiana
del Cinquecento,
ha pubblicato saggi
ed edizioni di testi.
Per molti anni ha
collaborato a
programmi culturali
e scritto
sceneggiature per la
Rai. Tra le sue
opere La divina
Isabella (Sansoni,
1991), Solo per
vedere il mare
(Edizioni Studium,
2005, Premio
Massarosa), Storie
del Premio Viareggio
insieme a Gabriella
Sobrino (Pagliai
Editore, 2008), Con
amorosa voce
(Polistampa, 2008).
alleggerito dal filo di luce che filtra da
una grata circolare posta sul soffitto in
corrispondenza della cupola.
Forse se volessimo dare un volto a Martina dovremmo immaginarla come una
delle sante vergini nel corteo di
Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, figurine immateriali e fluttuanti che con le corone del martirio e il velo bianco simbolo
di verginità avanzano guardando verso
l’infinito e il divino. Martina invece ha
per sempre le forme
piene, i colori lucenti,
la bellezza tersa e mite
che Pietro da Cortona,
il pittore che aveva «il
fuoco nel pennello», le
donò nelle sue tele.
Davanti al Matrimonio
mistico di Santa Martina, un piccolo prezioso
olio su rame che il cortonese realizzò come
ex voto dedicato a Filippo Neri, l’altro santo di cui era devoto,
proviamo la stessa avvolgente sensazione di
serenità di quando entriamo nella chiesa da
lui realizzata. La drammaticità degli uncini
che la santa tiene nella
mano sinistra, simbolo
del suo martirio, cede
di fronte allo splendore del giglio che occupa il centro della tela.
Perché l’immagine racconta, più che come è
uscita dal mondo, come Martina è stata nel
mondo.
Il 30 gennaio 1948
cadeva colpito a morte
Mahatma Gandhi. Diciassette secoli separano la morte violenta della fanciulla cristiana da quella del moderno apostolo della
non violenza. Il mondo è migliorato, ma
non abbastanza. E allora nel giorno dedicato a Martina, in questo scorcio del mese
che apre le porte al nuovo anno, forse il
modo migliore di ricordarla è ripetersi le
parole di sant’Agostino: «La speranza ha
due figli bellissimi: lo sdegno e il coraggio; il primo di fronte a come vanno le cose, il secondo per cambiarle».