L`AUTONOMIA PER APPRENDERE – APPRENDERE L

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L`AUTONOMIA PER APPRENDERE – APPRENDERE L
L’AUTONOMIA PER APPRENDERE – APPRENDERE L’AUTONOMIA
di Andrea Canevaro
Premessa
Ogni persona vive una pluralità di ambienti, di organizzazioni e di relazioni. In questa
complessità ognuno di noi crea il proprio linguaggio e la propria autonomia in un percorso di
esplorazione del mondo che è personale e che mira a stabilire contatti e agganci tra le “differenze”
che lo costituiscono.
E’ un’operazione che non si conclude mai. Si impara un mondo che si crea, non un mondo
che è dato da qualcuno in dosi sensate, in ragione del livello di età, etc. In questo percorso di
conoscenza si incontrano cose prevedibili e cose imprevedibili, che tuttavia ognuno di noi contiene
attraverso un linguaggio che si costruisce quotidianamente: il linguaggio delle abitudini. Esiste una
dimensione maternante (ricorsiva), quella delle cose che sono da fare ogni giorno, che danno ordine
al tempo e allo spazio. E se esiste una dimensione dell’apprendimento lineare, progressiva, questa è
possibile solo nei luoghi del confronto con tale aspetto ricorsivo.
I bambini che sono in situazione di handicap, tutti coloro i quali esaltano la nostra stessa
differenza, propongono questo tema: l’autonomia per apprendere; e l’apprendimento per
l’autonomia.
1. Le “buone prassi”
L’espressione “buone prassi” è entrata nell’uso comune in Europa per indicare quelle azioni
necessarie a trasformare le organizzazioni culturali, sociali, istituzionali, perché tengano conto di
una realtà completa e non della realtà che potremmo definire amputata. Amputata di cosa? Della
parte che spesso non viene ritenuta l’elemento a cui fare riferimento per costruire le organizzazioni,
la parte che esce e non entra nel concetto di normalità. Sembra quasi un discorso scontato ma non è
così. Il modello di riferimento nel costruire la rete dei trasporti, la rete dei servizi bancari, postali, le
stazioni ferroviarie, gli accessi alla cultura, alle biblioteche, non è fatto tenendo presente il reale di
una società che contiene delle differenze; tra queste le disabilità.
La possibilità di seguire un percorso di buone prassi è quindi la necessità di mettere in moto
progressivamente la costruzione di un modello più reale e che si perfeziona in itinere. Le stazioni
ferroviarie ne sono un esempio. Più volte abbiamo rilevato, con l’aiuto delle studentesse e degli
studenti, che il personale delle ferrovie ha una disposizione d’animo molto positiva, ed è quindi
capace di risolvere molte situazioni difficili. Lo fa avendo indicazioni di un modello organizzativo
che non è presente in tutte le stazioni ma, laddove è presente, è costruito secondo l’idea di un
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percorso differenziato. Chi ha una disabilità dovrebbe segnalarsi in anticipo, prendere contatto,
possibilmente con un certo numero di ore di anticipo, per potere avere a disposizione una buona
organizzazione personalizzata: accesso ai binari attraverso vie diverse da quelle che tutti gli altri
viaggiatori percorrono, possibilità di accesso ad un bagno attrezzato, abitualmente chiuso per non
deteriorarne l’uso, ecc.; molte particolari condizioni che, a guardar bene, possono essere utili non
solo per chi ha una disabilità in termini conclamati ma anche per coloro che, per l’età, per un
periodo di transizione che può comportare sia una gravidanza che una gamba ingessata, per una
particolare situazione che è propria – parliamo di stazioni ferroviarie - di chi viaggia (molti bagagli,
un bambino piccolo da sorvegliare in qualche modo e portare con sé nel viaggio), o condizioni
culturali (ad esempio difficoltà di comprendere perché si parla un’altra lingua, si appartiene ad
un’altra cultura). Gli stessi sportelli per fare il biglietto non sono molto adatti a offrire un servizio
che sia accogliente per tutte queste ipotesi e le altre che si possono fare.Cambiare una stazione
ferroviaria non è cosa che si realizza in un momento, però avere in testa un modello e utilizzare
tutte le situazioni che si presentano di ammodernamento, di manutenzione, per conseguire quel
modello è possibile.
Questa è la dinamica delle buone prassi, e dunque una dinamica che ha come elemento di
fondo quello di riconoscere una realtà nel suo complesso e non la realtà che abbiamo definito
‘amputata’.Ma questa non è un’operazione semplicissima. Perché? Le stesse persone disabili
potrebbero avere come riferimento per la risposta ai propri bisogni il modello che non è delle buone
prassi, e quindi richiedere, forse con l’elemento urgenza, come quello che fa scattare la richiesta,
percorsi speciali non integrabili nella riorganizzazione: ottenere sostegni, ausili particolari, piste
facilitate, straordinarie, e quindi far sempre riferimento alla eccezionalità e non alla buona prassi
normale; quindi le persone handicappate hanno bisogno di essere coinvolte nella progettazione delle
buone prassi, della comprensione della logica che sta sotto le buone prassi, e devono diventare
protagoniste di una realizzazione che va un po’ oltre la soddisfazione immediata del bisogno,
perché esige non tanto il superamento quale che sia dell’ostacolo, in qualsiasi modo, quanto
l’organizzazione che consenta di ridurre o eliminare gli ostacoli organizzativi. Questa disponibilità
a costruire un progetto è necessaria in tutti, quindi, negli stessi disabili che a volte potrebbero
ritenere più urgente la soluzione in qualsiasi modo del proprio problema contingente, più che la
costruzione delle buone prassi.
Esige anche, naturalmente, la stessa capacità di conversione delle attitudini, delle abitudini,
da parte di molte professioni, si potrebbe dire di tutte, perché è evidente, o dovrebbe esserlo, che la
dizione “buone prassi” non è riservata; non è un elemento che rivolge le proprie attenzioni ai tecnici
e ha bisogno unicamente degli specialisti, dei professionisti che si occupano di disabilità ma
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riguarda un’organizzazione sociale nel suo complesso, più completa, e quindi tutti coloro che ne
fanno parte, con altre professioni che non ritenevano, nello sceglierle o nel trovarsi a svolgerle, di
doversi occupare di persone disabili e handicappati, di riduzione di handicap; ritenevano che tutto
ciò sarebbe stato lontano dalle loro competenze, e invece devono essere implicati e farsi competenti.
Questo comporta una riorganizzazione delle attitudini di competenza e, elemento molto importante,
comporta la possibilità di riconoscere come le competenze che per una certa abitudine culturale
vengono definite ‘grezze’, cioè non accademiche, siano un arricchimento perché si trovano diffuse
in tutte le situazioni umane e hanno bisogno di un collegamento con le competenze formate
professionalmente e più specificamente dedite a una professionalità in un campo. Facciamo un
esempio: può capitare che in una situazione familiare vi sia stato un caso di una persona colpita da
ictus. La famiglia si è resa partecipe di questa situazione e ha appreso alcune cose, dei
comportamenti, delle attitudini di cura, ha organizzato le proprie competenze aggiungendo nuove
competenze. La vita domestica ha dovuto assumere delle dimensioni diverse.
Supponiamo che un membro di questa famiglia – pensiamo a un bambino o a una bambina –
entri in un contesto scolastico e trovi un altro bambino, un’altra bambina che viene indicato ed è un
disabile o una disabile. E’ possibile collegare le competenze domestiche derivare dalla presenza di
una persona colpita da ictus con la disabilità del compagno o della compagna? Dipenderà dalla
disabilità, ma è possibile. Solo che non sempre questo collegamento viene fatto e quindi si creano
quelle competenze ben delimitate, negli specialisti, delle competenze ‘grezze’ molto dipendenti
dalle indicazioni degli specialisti e non incoraggiante a rivedersi e riformularsi in funzione di un
nuovo contesto che si crea attorno a un nuovo bisogno. Questo è un modo molto dissipatorio, è uno
sperpero. Vi sono molte risorse che vengono buttate via perché non costruite da un tessuto che le
rivalorizza, le riutilizza, le riconverte; sono monete scadute, buone da mettere nel fuoco. E invece si
potrebbe andare avanti.
Questa possibilità è legata allo stabilirsi delle “buone prassi” che quindi non è unicamente
legata a delle architetture istituzionali rivisitate, riviste, aggiornate, ma anche molto a un imprinting
culturale che vorremmo si diffondesse: quello della assunzione di responsabilità che cerca nelle
proprie vicende umane le competenze da riconvertire in funzione di una rete sociale a cui
apparteniamo. Nelle buone prassi troviamo questa necessità di stabilire una linea di continuità tra
colui che ha un ruolo di cittadinanza senza apparenti competenze e colui che è specialista; una linea
di continuità che è la ricostruzione o la costruzione di rete sociale complementare alla funzione del
tecnico, dello specialista, del professionista. Ma anche costui, costei, deve aderire a un processo di
cambiamento perché anche lo specialista, o la specialista, deve capire che il proprio specialismo non
ha un perimetro chiuso ma ha una frontiera aperta, uno scambio, si arricchisce perché non è
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totalmente ricco, non è un assoluto, non ha una competenza tale da potersi ritenere ormai compiuta;
è sempre incompiuta ed ha bisogno di uno scambio con coloro che sono attivi in un’esperienza
diretta. Ed è indispensabile, quindi, fare in modo che l’esperienza avuta in un determinato contesto
non sia esaurita e buttata ma sia riformulata e utile per essere perfezionata, completata, in un nuovo
contesto.
Questa linea di continuità è la dinamica delle buone prassi. Certamente le buone prassi
hanno bisogno di rivedere leggi, regolamenti, strutture organizzative, ma hanno anche grande
bisogno di costruire questa linea di continuità. E la fase di deistituzionalizzazione che abbiamo
vissuto dovrebbe essere la premessa per questo. Nella prima fase della deistituzionalizzazione è
stato proprio il momento più interessante quello che ha visto i tecnici e le altre professioni, i ruoli
sociali
più
disparati,
alleati
insieme
per
costruire
una
realtà
diversa.
Il
termine
deistituzionalizzazione contiene un equivoco che tuttora permane: non si tratta tanto di cancellare le
istituzioni quanto di trasformarle. Di istituzioni abbiamo bisogno: la riorganizzazione delle
istituzioni, non la cancellazione, questo è il dovere.
Spariti, se sono spariti davvero, i grandi contenitori che mascheravano le differenze
all’interno delle categorie e costruite delle piccole realtà - si pensi per quello che riguarda una
regione come l’Emilia Romagna le realtà dei piccoli centri per handicappati adulti – va verificato se
questa revisione dell’organizzazione istituzionale ha davvero comportato, è stata davvero
accompagnata dalla linea di continuità degli specialisti, competenti, aperti e raggiunti dalle
competenze grezze. Questo probabilmente è stato fatto, ma non forse con una piena coscienza e non
ancora costruendo il modello culturale delle buone prassi. Questo è da costruire. La possibilità di
raggiungere un abbattimento delle barriere organizzative è legato ad un riconoscimento di una realtà
ampia e non amputata, e questo significa potere individuare in una condivisione di base dei bisogni
l’elemento di appartenenza: apparteniamo a un gruppo umano che ha bisogni simili, e nel “noi” vi è
tanto la persona disabile che la persona atleticamente prestante, tanto la persona “performante”
quanto la persona che ha una età avanzata, con difficoltà a realizzare tutti i compiti in autonomia, e
ha bisogno degli altri.
La persona capace di far da sé e la persona bisognosa dell’aiuto degli altri hanno bisogni
comuni. E’ la larga base di una piramide che ha più punte. La base comune, poi, permette di alzare
vertici verso bisogni più individualizzati. Vediamo la piramide di Ma slow.
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BISOGNI CULTURALI
BISOGNO DI REALIZZARE SE
STESSI
Sviluppo del proprio potenziale-
Bisogno di
realizzare la
propria vita
Crescita personale
BISOGNO DI STIMA DAGLI
ALTRI
Riconoscenza, dignità
Bisogno di
essere
riconosciuto/a
BISOGNO DI AUTOSTIMA
Sentimento di essere utile, di sentirsi
Autonomo/autonoma
BISOGNO DI APPARTENENZA
Essere con chi si cura - con amici Bisogni
secondari
Amore - Affezione - Accettazione - Relazioni
Bisogno di
amare e di
essere amati
calorose significative
BISOGNO DI SICUREZZA
Protezione dal pericolo fisico e dalle
minacce psicologica - liberazione dal dolore
BISOGNI FISIOLOGICI
Bisogni
primari
Respirazione - Temperatura corporea Alimentazione - Digestione ed
evacuazione - Sonno e riposo - Attività Stimolazioni - Sessualità
Piramide dei bisogni di A. Maslow
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2. I ritmi di base e la “piramide dei bisogni”
Prendiamo come riferimento la Piramide dei bisogni di A. Maslow. Maslow non intese
questa costruzione in un senso geometrico e neanche stratificato, ma la rappresentò secondo uno
schema che ha tutte le caratteristiche dello schema che va scomposto, riorganizzato, per capire che
la realtà non è uno schema. Alla base vi sono quelli che vengono chiamati i bisogni fisiologici; e
sotto questo termine leggiamo la respirazione, la temperatura corporea, l’alimentazione, la
digestione e l’evacuazione, il sonno e il riposo, le attività corporee, le stimolazioni, la sessualità.
La respirazione è fatta di un ritmo, di un’alternanza di pieni e di vuoti dei nostri polmoni, e
un neonato, bambina o bambino, respira e ha quindi un ritmo, un’alternanza di pieni e di vuoti. E
poi si alimenta, e quando deve succhiare il latte deve combinare la respirazione e l’alimentazione.
In questa combinazione deve imparare a fare qualcosa che noi chiamiamo controllo: deve
controllare la propria respirazione in rapporto al suo bisogno di alimentazione, al suo appetito.
L’alimentazione è determinata da un vuoto e, con il cibo, il vuoto sparisce, si colma un bisogno.
Rimane, però, il gusto dell’alimentazione che potrebbe andare oltre il bisogno e arrivare a creare
una situazione di saturazione. Occorre che quel bambino, quella bambina, abbia una capacità di
essere controllato da un adulto (la figura materna) e poi pian piano assuma il controllo
dell’operazione dell’alimentazione e non mangi troppo, altrimenti farà una piccola indigestione.
Ma anche nella digestione e nell’evacuazione entra la parola controllo, perché l’evacuazione
segue un percorso che va dalla possibilità di non avere un controllo della evacuazione alla
costruzione di ritmi e di controllo dei ritmi; e viene il giorno in cui quel bambino, quella bambina,
non ha più bisogno del pannolino, nella nostra organizzazione di civiltà.
Anche il sonno e il riposo hanno un ritmo e hanno un controllo: il controllo è svolto da una
figura adulta. Il sonno ha bisogno forse di una protezione e gli adulti possono controllare che questa
protezione vi sia. Si tratta, per esempio, di creare una penombra, di avere cautela nel non fare
rumori; quando il sonno ha raggiunto una quantità giusta la figura materna provvede a considerare
che il riposo è avvenuto e quindi è ora di svegliare un bambino: si aprono le finestre, si dicono delle
parole con la voce più alta, si riprende un contatto con quel bambino, con quella bambina, che piano
piano comincia ad assumere il controllo del proprio sonno, del proprio riposo. Diventa, così, una
persona più grande che utilizza una sveglia per potere alzarsi all’ora giusta, ....
Tutti i bisogni fisiologici della base larga hanno un rapporto con questa parola molto
importante che è controllo.
Anche il secondo strato della Piramide di Maslow, il bisogno di sicurezza, che contiene la
protezione dal pericolo fisico, dalle minacce psicologiche e la liberazione dal dolore, ha un rapporto
con la parola controllo. Noi abbiamo bisogno di controllare i rischi per evitare di metterci in
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pericoli fisici eccessivi. Dobbiamo, per esempio, ragionare in rapporto a quel bisogno fisiologico
che è la temperatura corporea anche in rapporto al pericolo di scottare la nostra pelle entrando in
contatto con delle fonti di calore ustionante; la temperatura corporea aveva, in un bambino, in una
bambina piccola il controllo dovuto al fatto che un abito pesante è in rapporto a una temperatura
rigida, un abito leggero a una temperatura esterna più calda. Il rapporto, quindi, tra la temperatura
dell’ambiente e i bisogni della temperatura corporea, è tenuto in conto per mantenere una buona,
utile, vitale, temperatura corporea. E’ un elemento talmente vissuto da non avere, ovviamente, una
riflessione da parte di quel bambino, di quella bambina, mentre, probabilmente, la protezione dal
pericolo fisico di una scottatura ha già una rappresentazione in parole. Le parole possono
accompagnare anche la temperatura corporea, perché vi può essere un adulto – una mamma – che
dice a un bambino: “Ti tolgo la coperta perché non è più la stagione perché tu dorma sotto una
coperta.” … “Ti tolgo il golf”… ecc. E’ un’operazione di parola che accompagna dei gesti: più forti
sono le parole che ammoniscono: “Non ti avvicinare, non toccare quella pentola perché ti scotti!”.
E’ già una rappresentazione in cui le parole significano una possibilità di controllo.
Come sono importanti le parole per il controllo delle nostre azioni! Come sono importanti le
parole per pensare e prevedere se le azioni che vorremmo fare avranno una possibilità di
raggiungere la finalizzazione che vogliamo! Come sono importanti i tempi che potremmo avere,
come potremmo non avere, per pensare le parole, per scambiare le parole, per le parole! Come è
importante usare bene le parole, e non dissipare un patrimonio di parole facendole diventare delle
chiacchiere! Tutto questo ha un rapporto con il controllo.
La base larga delle buone prassi è legata alle parole con cui pensiamo un progetto. Ma per
questo abbiamo bisogno di qualcosa di molto importante: è il bisogno di appartenenza.
L’organizzazione dell’appartenenza è legata anche alla nostra visione del mondo e non è un
elemento stabile, duraturo, costante. Noi potremmo sentirci di essere parte di tutta l’umanità in certi
momenti della nostra storia, della nostra cultura, di fronte a certi avvenimenti e in altri giorni, in
altri tempi, di fronte ad altri avvenimenti, sentire un’appartenenza a un circoscritto numero di
persone. Certamente, quindi, il termine appartenenza si declina in molti modi: in un piccolo paese la
morte di una persona anziana svela un’appartenenza per gli abitanti di quel paese: chi non
conosceva quella persona, chi non conosceva quel paese, chi non ha passato del tempo in quel paese
vive quella morte con un senso di rispetto, ma di rispetto estraneo, si sente un po’ fuori da questa
situazione. E così molte delle situazioni che si vivono, in cui il contesto scenico è pregnante di
un’appartenenza sedimentata giorno dopo giorno, che si è costruita attraverso le abitudini.
In una delle commedie di Goldoni più delicata, più struggente anche per la capacità di
rappresentare con gioia malinconica le quotidianità, il personaggio che in qualche modo è Carlo
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Goldoni stesso conclude la commedia ritenendo che la festa attivata dalla fine delle baruffe, dalla
riconciliazione, non possa vederlo tra i protagonisti, non si sente di appartenere al popolo che fa
festa. Perché? Perché è di un’altra categoria sociale, perché esercita una professione intellettuale
che lo mette in un angolo rispetto a una scena di gioia popolare; le appartenenze, e non
l’appartenenza.
Ma la base larga della Piramide di Maslow può permettere di far sentire tutti gli umani con
un’appartenenza. E’ un elemento che non può rimanere, però, nella base; è qui che lo schema
mostra i suoi limiti di schema. Deve salire e deve fare una visita alla punta della piramide, a quei
bisogni culturali che sono di ciascuno di noi e sono diversi per ciascuno di noi; hanno come
dotazione l’individualità. I bisogni fisiologici sono anche individuali e nello stesso tempo comuni.
C’è bisogno di culturalizzare, termine che non è elegantissimo, i bisogni fisiologici, per capire che
contengono la nostra appartenenza, o meglio per partire, per capire che ciascuno è parte di
un’appartenenza molto ampia, quasi senza confini; ma bisogna fare un passaggio attraverso i
bisogni culturali. E quel personaggio che ricordavamo delle “Baruffe Chiozzotte” che si tiene in
disparte mentre il popolo fa festa non sente il diritto di appartenenza anche perché è arrivato dopo e
non si fermerà. E questo ci spiega qualche cosa a proposito del rapporto tra appartenenza e
controllo.
3. Controllo, scelta, finalizzazione
Abbiamo incontrato un bambino la cui vicenda si divide su due paesi: una prima parte della
sua vita è stata vissuta in un paese, ha vissuto in un istituto perché la sua famiglia di origine non era
in grado, per ragioni che non conosciamo, di crescerlo e di assicurarne l’educazione; ha quindi
perso i contatti con i suoi genitori di origine, è stato posto in stato di adattabilità ed è stato adottato
con successo, si è molto bene integrato con quelli che bisogna considerare i suoi genitori veri e tutto
è proceduto bene sul piano dei legami affettivi più importanti, più radicali.
Non ha avuto un buon successo scolastico, anzi la scuola ha rappresentato un punto di
difficoltà: apparentemente e inizialmente i rapporti con i coetanei sono stati buoni ma con dei
piccoli episodi che ne rompevano la qualità, episodi di aggressività. Improvvisamente quel bambino
era aggressivo senza una ragione comprensibile e tirava i capelli o dava dei colpi nella pancia di
altri bambini, dava dei calci ai suoi coetanei, bambini e bambine – per l’età dovremmo dire
ragazzini e ragazzine, perché l’età era attorno ai nove anni. Gli apprendimenti non erano brillanti,
ma non per una incapacità manifesta di usare l’intelletto, quanto proprio in rapporto a quei momenti
di aggressività che prendevano il sopravvento anche come immagine di quel bambino.
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Come comportarsi, come cercare di capire quel bambino? La prima operazione che fu
tentata era di trovare delle relazioni causali ai suoi comportamenti aggressivi, e vi furono due modi
di ragionare, uno che cercava di trovare le cause nelle relazioni: quel bambino aveva usato
un’azione di violenza nei confronti di una coetanea, di un’altra bambina e gli adulti cercavano di
capire se vi fosse stato, volontariamente o involontariamente, qualcosa che avesse motivato quel
tipo di atteggiamento da parte del bambino. Quella bambina aveva forse fatto uno sgarbo
inavvertitamente o volutamente nei giorni precedenti: la ricerca della causa legata a qualcosa
interno alla relazione con colui, o colei, che era aggredita. L’altro modo di cercare le ragioni era
quello di ipotizzare qualcosa che fosse avvenuto nell’altro paese, nell’altra parte della vita di quel
bambino. E le ipotesi non potevano andare oltre al fatto di essere ipotesi, non vi erano possibilità di
accertamenti, ma allora si poteva genericamente ipotizzare che nell’altra parte della vita di quel
bambino vi fossero state delle violenze, violenze di vario tipo: abbandono, prepotenze da parte di
altri bambini. Questo poteva essere anche letto nei comportamenti di quel bambino, ma solo come
ipotesi.
Cercando di mettere il tempo su questa analisi si trascurava qualcosa che accadeva anche
nella vita di quel bambino, e quindi trascurandolo fu scoperto in ritardo, o perlomeno fu valorizzato
con ritardo. Dopo un certo periodo si pose l’attenzione sul fatto che quel bambino partecipava a un
laboratorio di falegnameria, che non è una delle attività centrali di una scuola, è collaterale, e quindi
non veniva all’attenzione immediatamente; non era né svilita né esaltata, era semplicemente un fatto
“del pomeriggio”, mentre la scuola che conta è più quella della mattina. Nelle attività del
laboratorio di falegnameria quel bambino mostrava una grande capacità di autocontrollo: avrebbe
avuto strumenti per realizzare violenze ancora maggiori, e più pericolose; e questo non era mai
accaduto, anzi, vi era una capacità di lavorare con precisione, con calma, con l’energia giusta, e
controllare le proprie forse e anche di compiere dei lavori che esigevano una destrezza, un
equilibrio, non presente nei suoi coetanei. Non andava d’accordo con l’immagine del bambino che
emergeva dalle tante preoccupazioni del corso della giornata nelle altre attività.
Una certa abitudine fa pensare che chi ha delle difficoltà intellettive ha maggiori possibilità
quando si tratta di azioni concrete, ed è in difficoltà con l’astratto. Ma non è una spiegazione
sempre convincente. Abbiamo ragionato in termini di controllo; abbiamo, cioè, formulato un’ipotesi
- e come tale la manteniamo; non è una realtà: è un’ipotesi – che ha permesso di avanzare con
un’azione educativa. L’ipotesi è la seguente: quel bambino aveva la possibilità di entrare in
relazione con un ambiente – il laboratorio di falegnameria – in cui tutto cominciava con il suo
ingresso; le regole, le indicazioni, i materiali da utilizzare, gli attrezzi da utilizzare, i
comportamenti, tutto aveva inizio con l’ingresso suo insieme agli altri, non entrava in una storia già
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iniziata ma la storia cominciava con lui; non così per altre situazioni che avevano molto più
collegamento con le trasmissioni informali che ciascun bambino, che ciascuna bambina ha
accumulato per sedimentazione da quando è nato. Giorno dopo giorno sono entrate negli occhi,
nelle orecchie, nella pelle di quel bambino, di quella bambina, una quantità innumerevole di
informazioni informali che hanno costituito una sorta di telaio su cui poteva innescarsi la
trasmissione di informazioni formali. Quel bambino, forse, riteneva – lo diciamo con queste parole,
non era certamente un suo pensiero con queste parole, ma è nella nostra ipotesi – di non avere il
controllo delle informazioni per potere scegliere, selezionare, individuare, quelle utili per finalizzare
le proprie azioni. Questa operazione era per lui ritenuta impossibile. Nello stesso tempo aveva
bisogno di essere controllato, forse.
Il rapporto tra controllare e essere controllato è un rapporto che ricorda le coppie di muscoli
per cui uno tende e l’altro flette. E così: “Io sono controllato, e aumenta la mia capacità di
controllare; quindi mi libero dalla necessità di essere controllato da altri. Io so controllare quindi
non ho bisogno che altri controllino per me”. Quel bambino avrebbe potuto dire: “Io non so
controllare quindi chiedo che altri controllino” e quindi l’aggressività poteva diventare un elemento
che rompesse la falsa supposizione: “Tu sei in grado di vivere come gli altri”. “No, non è vero, io
ho bisogno di qualcosa di più. Ho bisogno di capire di più, di controllare meglio quello che sta
accadendo intorno a me che non capisco, che mi confonde”. Questa è l’ipotesi. Ha permesso, però,
di lavorare su qualcosa, per esempio di contrassegnare meglio i tempi di lavoro attraverso piccole
ritualizzazioni che scandivano meglio la giornata, e quindi fornivano elementi di controllo del
tempo.
La possibilità di controllare il tempo è di grande importanza, e abbiamo già avuto occasione
di marcarla come una delle indicazioni più forti dell’azione educativa.
Possibilità, anche, di controllare le informazioni per finalizzare quelle giuste, alla
realizzazione di quello che è il proprio compito; capacità, quindi, di riprendere una indicazione nel
modo giusto, e non lasciarsi confondere dalla molteplicità di sollecitazioni che sembrano, a chi le
formula, andare tutte nello stesso senso ma che forse creano non poca confusione nella testa di chi
non ha, o crede di non avere, il filtro che le metta in ordine, che le discrimini. Per agire
correttamente bisogna sapere discriminare, tra le tante informazioni che ci raggiungono, quelle utili
alla nostra azione.
E nella nostra ipotesi quel bambino sembrava non essere capace di discriminare le
informazioni utili per il raggiungimento dei compiti a cui era tenuto e che voleva poter fare. Nel
laboratorio di falegnameria il campo è ben delineato e delimitato, le indicazioni sono funzionali e
possono essere quindi organizzate discriminando quelle giuste per raggiungere un certo risultato e
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lasciando cadere - mettere da parte naturalmente, perché potrebbero poi essere utilizzate in altri
momenti – quelle che in quel momento non servono.
L’ipotesi del controllo si collega, quindi, a una capacità di inibire costruttivamente alcune
nostre azioni, rinviarne l’esecuzione perché non sono in quel momento quelle giuste. La capacità
inibitoria è legata a dei processi di attenzione. Nel 1973 un filmato canadese del Quebec spiegava la
Trisomia 21. Il filmato aveva un titolo: “La leçon des Mongoliens” e mostrava, in un certo
momento, il modo con cui venivano imboccati – si dava da mangiare – due bambini: un bambino
normale e un bambino trisomico. L’organizzazione del film metteva in rilievo una differenza che
allora poteva sembrare senza conseguenze ma che oggi, a distanza di un certo numero di anni, ci fa
riflettere: il bambino normale era tenuto in braccio da una persona, un figura materna, vestita in
abiti borghesi normali; il bambino trisomico era tenuto in braccio da una figura materna, però
poteva non essere la madre, ed era una professionista perché stava con un camice bianco, tipo
un’infermiera, una differenza di immagine che partiva da una netta delimitazione dei bisogni
speciali messi in braccio – in questo caso è proprio vero – al personale particolare, mentre i bisogni
normali sono messi in braccio alle persone che fanno parte del contesto naturale di un bambino, di
una bambina.
Ma quello che interessa rilevare è il dato, che viene consegnato allo spettatore come tale. Il
bambino normale ama molto la purea di patate, non ama un puré che potrebbe essere di spinaci. I
colori differenziano i due puré, e gli occhi possono rendersi conto di quello che arriverà alla bocca:
il cucchiaio con il puré di patate trova la bocca ben spalancata perché gli occhi hanno dato un
segnale, hanno avvisato la bocca: “è quello buono”, mentre gli occhi segnalano il pericolo del
nemico, il puré verde di spinaci; la bocca non si apre, rimane ben chiusa, convinta di difendersi,
visto che è stata avvisata dagli occhi. Dentro la bocca c’è il sapore, il sapore aveva segnalato agli
occhi: “Attenzione! Quando arriva questo che è il sapore buono ed è legato al bianco, tu dimmelo
che faccio aprire la bocca.” Il sapore aveva segnalato il messaggio contrapposto agli occhi:
“Attenzione! Quando arriva il verde dillo alla bocca, che si tenga chiusa.” Il bambino trisomico ha
sentito il sapore buono, ha sentito il sapore cattivo, e sembra che il sapore non abbia avvisato gli
occhi e gli occhi non abbiano avvisato la bocca, per cui i circuiti sensoriali - è questa la spiegazione
del film – non sono integrati tra loro, e quindi il controllo degli occhi, la vedetta, non si fa; arriva il
nemico, non è controllato, la bocca è sempre spalancata ed è invasa tanto dal buono che dal cattivo.
La conseguenza è che quando è invasa dal cattivo vi è una smorfia e un piccolo pianto, perché il
bambino trisomico ha lo stesso gusto del bambino non trisomico, ama il purè delle patate e non ama
il puré di spinaci.
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Il dato non è convincente se rimane inerme, e il compito di chi è educatore di quel bambino
trisomico è quello di permettere un’integrazione di quei circuiti sensoriali che sembrano incapaci di
entrare in contatto e di collaborare tra loro; e quindi possiamo immaginare una revisione della scena
che abbiamo descritto e, cambiando anche l’abito e mettendo un abito borghese alla persona che
tiene in braccio il bambino trisomico, la immaginiamo capace di fermare il cucchiaio col purè, sia
esso di patate o di spinaci non importa, farlo osservare per un istante dagli occhi del bambino,
quindi richiamare gli occhi alla loro funzione, forse anche dire quella parola che permette di far
sentire un suono che piano piano coinciderà con un senso, per cui dire: “Buono il puré!” o dire: “Ti
piace questo puré?”, e gli occhi devono vederlo, si ferma il cucchiaio e poi prosegue la sua corsa
verso una bocca che può essere avvisata. Il gusto si collega e piano piano, ma forse neanche tanto
piano, incomincia ad esserci una collaborazione tra occhi, gusto e bocca, e quel bambino trisomico
supera l’incapacità di controllo con l’aiuto di un gesto più competente e più attento alla sua realtà.
Sviluppa, quindi un’autonomia che è capace di accogliere le informazioni giuste, metterle insieme
finalizzandole al suo gusto.
Il termine controllo in questo caso significa capacità di inibire costruttivamente l’apertura
della bocca quando si ritiene che arrivi un cibo che non è gradito: inibizione costruttiva.
4. Inibizione costruttiva
E’ stato rivisitato uno degli esperimenti più noti di Piaget (O. Houdé, 2000), quello che si
riferisce alle quantità: i bambini vengono posti di fronte a due mucchietti di bastoncini, e chiedendo
loro qual’è il mucchietto che ha più bastoncini, indicano senza esitazioni il mucchietto composto
dai bastoncini che sono più lunghi, che sono di numero minore rispetto agli altri, più piccoli di
lunghezza; sono maggiori i più piccoli, sono minori i più lunghi ma la risposta dei bambini è riferita
al mucchietto dei bastoncini più lunghi. Questo portò Piaget a fare l’ipotesi che a quell’età i
bambini non abbiano la percezione del numero. La rivisitazione modifica questa ipotesi perché fa
riferimento al fatto che a quell’età i bambini non abbiano la capacità di trattenere quella che è
l’istintiva prima risposta e quindi si affidino a un’immediatezza che si appoggia su quello che
colpisce di più. Colpisce di più la massa - i bastoncini più lunghi compongono una macchia
maggiore - e quindi diventa quella la prima risposta non controllata con una capacità di inibirla per
riprendere la domanda e controllare se il rapporto tra domanda e prima risposta è quello giusto, è
quello che viene richiesto. Manca quindi quella che abbiamo chiamato una inibizione costruttiva.
La rivisitazione dell’esperienza piagetiana porta a mettere in luce quanto sia importante la
possibilità di avere un interlocutore che riprende il senso della domanda; questo interlocutore può
essere esterno oppure il soggetto stesso può essere interlocutore di sé stesso. Diventa interessante
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capire se nella crescita, o anche una volta cresciuto, un soggetto che abbia cambiato alcune delle sue
condizioni – per esempio per un evento traumatico – conquisti questa capacità di riprendere la
prima risposta e verificarne l’esattezza in rapporto alla domanda. Questo significa avere una
capacità di un controllo più esteso nel tempo di elaborazione, che non sta quindi nell’istante; e
questo significa anche avere una capacità di trattenere per sé le conclusioni senza consegnarle
immediatamente al committente: non avere fretta, si direbbe con termini molto semplici. Ma non è
solo la fretta, è anche l’ansia, è anche la capacità di auto-organizzare un proprio percorso che tenga
conto di un tempo di verifica. Le parole sembrano complicare qualche cosa che invece avviene
molte volte in noi con un processo che non sappiamo descrivere.
Quando abbiamo bisogno, invece, di descriverlo, di farne emergere le componenti? Quando
vi sono degli elementi che ne disturbano l’immediatezza, che la rendono più complicata: un evento
traumatico, oppure una difficoltà connaturata a un individuo che ha bisogno di non sviluppare per
conto proprio le capacità che definiamo di inibizione costruttiva ma ha bisogno dell’aiuto dell’altro.
Torniamo all’immagine del bambino trisomico che mangia il puré che non gli piace deve essere
messo nella possibilità di un controllo visivo che comunichi internamente a quel bambino che è
quello cattivo. Ci vuole un’azione che permetta di mettere in ordine alcune sequenze abitualmente
sviluppate in una sorta di scatola nera che non si apre che contiene i processi senza che vengano
individuate le loro componenti. Bisogna invece individuare le loro componenti dei processi anche
quando questo non avviene con quella spontaneità, istintività, che in molti casi è realizzata. Allora
si può capire come questo abbia una difficoltà maggiore perché contiene qualcosa che potremmo
definire innaturale. L’altro, che è nella funzione educativa o riabilitativa, deve avere la capacità di
non prendere una posizione dominante stabile, non essere quello che tiene sempre in mano le chiavi
del comando, ma deve in qualche modo prevedere una trasmissione delle chiavi del comando al
soggetto stesso.
Vi è la necessità, quindi, che non si metta come elemento indispensabile la conquista di una
totale organizzazione autonoma ma anche la possibilità che l’organizzazione autonoma significhi:
io, soggetto da riabilitare, soggetto che ha bisogno dell’aiuto degli altri, indico agli altri le
operazioni da fare. E non: gli altri le fanno senza le mie indicazioni ma aspettano le mie richieste.
Questa può essere una situazione che ha bisogno di molti esempi per non cadere in una sorta di
indicazione generale che non sembra adattarsi mai alle singole situazioni, che sono molto
differenziate. Per esempio: un bambino cerebroleso crescendo bisogna che incontri persone adulte
capaci ma non competenti con lui, a cui lui deve chiedere cosa devono fare, ed è necessario, quindi,
che chi ha in mente un percorso già organizzato in termini di efficienza accetti che vi sia una fase
transitoria in cui le cose verranno disordinatamente, poco perfette, perché quel bambino, o
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ragazzino, crescendo deve imparare a fare degli errori costruttivi. Darà delle indicazioni non esatte a
chi deve accudirlo, a chi deve fare in modo che lui riesca a fare certe cose se è disposto in un
ambiente, se è disposto in una certa postura, ecc. ecc. Darà lui delle indicazioni, e queste indicazioni
si riveleranno non del tutto esatte; chi assistesse e conosce l’esattezza dei compiti deve trattenersi,
deve evitare di intervenire a correggere subito, perché - tranne nel caso di errori catastrofici - è bene
che quel bambino si accorga di come le esecuzioni dovute a sua inesattezza gli provochino qualche
difficoltà che lui stesso deve aggiustare, e non che deve essere aggiustata dagli altri, diversamente
ricade nella situazione di dipendenza.
Questo trasferimento delle chiavi, simbolico:- prima le chiavi le ha un adulto, una mamma,
una riabilitatrice, un riabilitatore, un educatore, e poi le hai tu soggetto, ragazzo, ragazza, adulto accade anche nel traumatizzato adulto. La possibilità che arrivi il momento in cui bisogna che sia
lui o lei ad avere la regia della situazione vuol dire anche attraversare un periodo in cui la regia
compie degli errori, ma li correggerà. Bisogna essere attenti a che non ci siano errori talmente
catastrofici da provocare dei disastri, ma gli altri errori bisogna tollerarli: tolleranza dell’errore nel
percorso educativo o riabilitativo. Questo è molto importante e riconduce a un’immagine utilizzata
anche per capire cosa funziona e come funziona nel maternage: ‘scuola-guida’. Anche l’istruttore di
scuola-guida deve consentire un’autonomia, sorvegliata certamente, per evitare che una manovra
sbagliata provochi una catastrofe, ma le altre manovre, sbagliate senza esiti catastrofici, devono
essere eseguite accorgendosi dell’errore e correggendolo.
E’ solo così che si acquista non l’autonomia intesa come “saper fare anche quello che non
saprò mai fare”. Se le gambe non mi funzionano, non avrò modo di farle funzionare in futuro; ma
avrò modo di fare un conto autonomo delle necessità di cui ho bisogno e quindi di indicare agli altri
che cosa devono fare perché le mie esigenze vengano assolte. In questo caso la discriminazione
costruttiva è tanto più importante perché devo costruire un rapporto tra il contesto in cui sono, gli
elementi che mi circondano, e che non so usare direttamente, e gli intermediari che devo fare agire.
5. Gli oggetti-calamita
Gli studiosi di matematica, e in particolare di didattica delle matematica, hanno sovente
descritto delle procedure di pensiero sbagliate che vengono deviate dalla logica. della richiesta che
viene fatta ponendo un problema, da qualche elemento disturbatore. Ad esempio, in uno studio
ripreso da Emmanuelle Yanni (2001), viene descritto un problema in cui vi sono un certo numero di
ceste che devono essere vendute ma una cesta non è in vendita e il problema pone la necessità di
stabilire a che prezzo devono essere vendute le ceste per avere un certo ricavo.
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La questione della cesta non in vendita attira talmente l’attenzione di molti di coloro che
affrontano questo problema da mandare fuori strada la ricerca della soluzione. Diventa un elemento,
se si può dire, disturbatore, ma è anche un oggetto-calamita.
Riteniamo che molte volte vi siano, nelle nostre organizzazioni mentali, parole che vengono
ad essere dei veri e propri oggetti-calamita; noi portiamo un’attenzione molto forte nei confronti di
determinati elementi che possono essere oggetti materiali, parole, altre persone, che in qualche
modo sembrano dover organizzare tutto il percorso di ragionamento e, in realtà, diventano elementi
disturbatori del ragionamento. Questa operazione, quindi, potrebbe però avere l’altro riscontro,
positivo, e cioè che noi abbiamo degli oggetti attorno a cui organizziamo correttamente il pensiero.
E’ evidente che abbiamo la possibilità di delineare dei percorsi di pensiero con risultati positivi
attorno a un oggetto e delineare organizzazioni che vanno fuori dal seminato attorno allo stesso
oggetto.
Come risolvere, quindi, questo problema: avere degli oggetti-calamita che permettano di
non essere oggetti distruttori o depistatori della ricerca delle soluzioni? Parliamo sempre in termini
di problemi anche quando non sono poste situazioni con la definizione “problema” ma affrontiamo
qualcosa per cui dobbiamo trovare una soluzione. Anche il semplice atto di servirsi da un piatto di
portata della parte di minestra che deve essere poi mangiata (e quindi mettere nel piatto) potrebbe
diventare un problema. E potrebbe essere combinato da azioni mentali (come il prevedere quanto ho
bisogno di mangiare, quindi quanta parte di quella minestra deve essere nel mio piatto) e da azioni
fisiche: devo fare dei gesti, devo impugnare le posate, e devo fare in modo che questi gesti siano
corretti per non macchiare la tovaglia.
Questa serie di operazioni potrebbero essere disturbate dal fatto che c’è una particolare
minestra, o un particolare condimento della minestra – ragù, sugo, ecc. – che attira talmente la mia
attenzione da esagerare nel mettere minestra nel mio piatto, e dal portare anche a un gesto non
corretto perché troppo entusiasta, troppo agitato, per cui macchio la tovaglia. Un’operazione che si
svolge attorno a quello che abbiamo chiamato oggetto-calamita che invece di organizzare disturba
l’organizzazione. Devo avere un autocontrollo: ragionare un po’ di più, soffermarmi sul vero
obiettivo che è quello di mangiare, ma probabilmente anche quello di condividere, se sono a tavola
con altri, il cibo che viene offerto in modo tale che ciascuno ne abbia un po’.
L’oggetto-calamita pone molti problemi di percezione. Quando noi abbiamo un marciapiede
o un portico che è anche il marciapiede pedonale e nel bel mezzo di questo marciapiede c’è una
motocicletta posteggiata, lasciata lì per un giorno, una notte, ecc. ecc., abbiamo una possibilità di
pensare - in questi termini è quasi ridicolo pensarlo – che il proprietario o la proprietaria di quella
motocicletta abbia avuto una percezione dominata da un oggetto-calamita in maniera tale da
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disordinare i suoi comportamenti in rapporto al contesto, perché non ha pensato che quello è un
transito pedonale ed ha pensato unicamente alla propria motocicletta e alla propria comodità di
metterla in quel punto.
Oggetti-calamita, a dire il vero, ne troviamo ad ogni istante, tanto è vero che potrebbe anche
essere questo un punto su cui esercitare una certa critica circa questa definizione, perché diventa
talmente onnipresente nelle nostre giornate da costituire quasi una banalità. Però li incontriamo
davvero per cui dobbiamo realmente pensare a come utilizzarli in senso positivo e non in senso
negativo. Ed è un elemento dell’apprendimento: è la possibilità che vi sia una decontrazione, una
possibilità di spostarsi senza muoversi fisicamente per capire che cosa accade se… E’ il
procedimento ipotetico o esplorazione ipotetica: noi abbiamo bisogno di capire che cosa accade se
evitiamo di fare un gesto e ne facciamo un altro, cosa succede se invece facciamo quel gesto: quali
sono le conseguenze per noi, per gli altri, per gli attori di una certa scena?
Questa operazione è più difficile se una persona vive in quella condizione che chiamiamo
assistenziale, cioè vive di assistenzialismo. Che cosa significa in sintesi questa parola
assistenzialismo nel contesto in cui la troviamo, nel nostro contesto di riflessione? Significa che
altri pensano al mio posto. Altri pensano che io ho sete e mi procurano da bere, altri pensano che ho
fame e mi danno da mangiare, altri pensano che io debba essere alzato da dove sono sdraiato e mi
mettono a sedere in una poltroncina, ecc. ecc. Altri pensano che io debba imparare questo e non
quell’altro, che io debba procedere secondo determinate tappe, senza sbalzi. Tutto è nelle mani
degli altri. Abbiamo già utilizzato l’espressione “passare le chiavi” in mano al soggetto che deve
agire, soggetto che deve avere le chiavi della casa, del motore, dell’automobile, per potere
procedere.
Questa operazione è un apprendimento; questa operazione di decentramento per vedere le
conseguenze del gesto è un apprendimento e ha bisogno di un esercizio. Come tutti gli
apprendimenti, gli esercizi più interessanti sono quelli che fanno la spola - fanno la navette - tra le
quotidianità più banali che vengono fatte senza neanche troppo pensarci e le operazioni applicate a
scenari inediti, inusuali. Scenari inediti, inusuali che hanno a che fare con la logica dell’oggettocalamita sono i romanzi o i film “gialli”, i film o i racconti in cui vi è un enigma da risolvere. Nella
maggior parte degli enigmi da risolvere vi è una sorta di oggetto-calamita che attira l’attenzione del
lettore o dello spettatore in termini tali da nascondere il vero colpevole, per cui vi è una
concentrazione di indizi che porta a un certo personaggio del racconto, dell’azione – e questo è il
buon “giallo” – e costituire una sorpresa credibile, e non semplicemente l’amore per il colpo di
scena: non è il personaggio che raccoglie tutti gli indizi il vero colpevole ma è un altro che era
presente dall’inizio ma emerge nelle ultime scene.
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Questo è uno degli esercizi che potremmo immaginare di fare appassionando e
appassionandoci, in modo tale da capire quale può essere il percorso organizzato attorno a un
oggetto-calamita, positivamente o negativamente. Certo, esige un interlocutore che abbia una
capacità di leggere visivamente, auditivamente, un’azione complessa, ma vi sono anche delle
operazioni molto più semplici che possono essere rappresentate da quello che viene chiamato il
“gioco del Kim”, nelle attività che fanno parte dell’educazione attiva, in particolare di un certo
settore dell’educazione attiva che è lo scoutismo. Il “gioco del Kim” è utilizzato riprendendolo da
una azione narrativa che è dello scrittore Rudyard Kipling (1865 – 1936). L’esercizio è di memoria
per ricordare gli oggetti che sono su un tavolo, avendo potuto vederli solo per un istante, o ricordare
i colori che sono contenuti in un certo quadro avendolo visto solo in un istante. Questo ci può fare
capire quanto l’oggetto-calamita può attirare l’attenzione occultando o organizzando: o eclissa gli
altri oggetti – oggetto vuol dire anche parole – oppure organizza la memoria degli altri oggetti
attorno a lui stesso. Se, per esempio, noi ricordiamo i numeri di telefono a volte li ricordiamo
perché abbiamo determinato un oggetto organizzatore di quella sequenza attorno a un elemento che
potremmo ancora una volta chiamare oggetto-calamita, che ci organizza. Però è anche vero che a
volte non ricordiamo con precisione un numero di telefono perché un certo numero, una certa
sequenza, è disturbante e falsa il ricordo.
La riflessione sugli oggetti-calamita ha una certa importanza quando si tratta di guidare un
apprendimento che ha avuto delle difficoltà per diverse ragioni. Le ragioni possono essere una
situazione traumatica accaduta, un cambio di contesto che ha provocato in maniera forse meno
visibile una piccola situazione traumatica, un’insufficienza mentale che accompagna la vita di un
soggetto o altre situazioni in cui la difficoltà a utilizzare gli intermediari materiali o mentali per
ragioni che possono essere anche legate a difficoltà di movimento, a impedimenti nel movimento.
E’ per questo che abbiamo bisogno di capire che cosa significano e che importanza possono
avere i campi percettivi.
6. I campi percettivi
Il nume tutelare di questo segmento è Wygotskyj. La sua intuizione molto importante e
spesso troppo poco approfondita è quella della zona potenziale di sviluppo, una zona che si colloca
secondo delle possibilità originali di ciascun soggetto. Collegato a questo elemento vi è il lavoro di
chi educa. Intanto chi educa è anche il soggetto che si educa e che, a volte in maniera che
chiamiamo ‘naturale’ prova a comportarsi con gli oggetti che lo circondano, anche con le parole,
secondo quelle che sono le proprie abilità, riconosce le proprie abilità rispetto a certi oggetti e
capisce, intuisce, vive, alcune difficoltà o disabilità rispetto ad altri oggetti.
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E questo è un elemento che caratterizza anche i primi mesi di vita di un bambino o di una
bambina: gli apprendimenti non seguono delle strade tutte uguali ma vivono a seconda dello
sviluppo originale che ciascun bambino, ciascuna bambina, ha in rapporto all’esplorazione della
realtà e sviluppa meglio gli elementi che gratificano la propria capacità. E’ per questo che un
bambino, una bambina, rispetto a un altro o a un’altra, impara prima a camminare che non a
sviluppare il linguaggio, o viceversa. L’esplorazione: a volte l’esplorazione deve essere organizzata,
aiutata, da un altro. E’ il lavoro degli educatori e delle educatrici, e può essere a volte anche il
lavoro dei riabilitatori, può essere il lavoro degli insegnanti, ciascuno con una caratteristica propria
e in un contesto istituzionale che gli è proprio. In cosa consiste questo lavoro?
Nell’esplorazione delle possibilità e dei campi percettivi. A volte vi sono delle situazioni in
cui una persona traumatizzata è conosciuta per le proprie abilità, professionali, artistiche, sociali,
precedenti al trauma, e questo può facilitare il compito di chi organizza la riabilitazione perché può
permettere di fare esplorare campi percettivi più vicini alle competenze pregresse, alle competenze
che vi erano e si erano organizzate secondo un certo ordine di capacità, sconvolto e a volte
amputato dal trauma, ma che si riorganizza se ha la possibilità di esplorare in modalità e campi noti.
Però vi può essere anche la controindicazione: proprio perché quel campo percettivo, quel campo di
esperienza era quello in cui il soggetto mostrava grandi capacità, sentirsi incapace di riprenderlo
può determinare un aggravamento della propria situazione di traumatizzato. Quel soggetto potrebbe
essere incoraggiato a esplorare campi nuovi con strumenti forse già noti. E’ la situazione che si può
verificare quando si tratta di riorientare una persona adulta in una competenza vitale e anche
professionale, quando un trauma impedisce di sviluppare un percorso così come era abituata a fare.
I campi percettivi hanno un nume tutelare, si diceva, che è Wygotskyj, il quale non si
accontenta di stabilire una competenza o una incompetenza ma vuole aggiungere che quella
competenza vi è se - e seguono le condizioni materiali e psicologiche in cui la competenza può
svilupparsi – o non vi è se – e seguono le descrizioni delle condizioni che impediscono. Sembra
consequenziale che l’impegno degli educatori e delle educatrici – e ancora questa parola racchiude
diversi profili professionali – è la moltiplicazione delle prove. E’ esplorare cosa viene dopo il se.
Cosa viene? Cosa può venire? Un soggetto, bambino, bambina, adulto, uomo, donna, non sa
utilizzare una matita che viene messa accanto al soggetto stesso con un foglio di carta bianco.
Possiamo fermarci a questo e stabilire che non sa utilizzare una matita e un foglio? O non
dovremmo fare una esplorazione di tutte le possibili variabili: la matita possono essere le matite,
può essere sostituita quindi da molte matite di diversa morbidezza, diverso colore, diversa foggia;
possono essere pennarelli, penne; il foglio, invece di essere bianco, può essere di diverse sfumature,
di diverse paste di carta. Abbiamo una serie di combinazioni quasi infinita.
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La buona qualità di chi educa è anche data dal fatto che anziché sottoporre questa
esplorazione a un meccanismo ripetitivo procura di introdurla in variabili scenografici, cioè procura
di collegarla a degli elementi che rendano queste prove non afflittive ma con qualche possibilità di
essere lievi: non entrare tutte in una sequenza unica ma essere distribuite nel tempo, pochi minuti
alla volta; oppure essere collegate a diverse finalizzazioni. Abbiamo spesso a che fare con delle
prove che sembrano realizzare o voler realizzare una sorta di fusione a freddo, una possibilità che
due atomi si fondano senza energia esterna – e si sa che questo è molto complicato –. Il calore è
l’energia. E nelle prove educative, nell’esplorazione, l’energia è necessaria e viene da due direzioni
che spesso non sono combinate tra loro: da una parte la motivazione (cercare unicamente questa a
volte vuol dire cercare senza successo) e dall’altra la finalizzazione. La finalizzazione è a volte
contenuta in parole molto semplici: “fammi questo regalo, fammi un sorriso, fammi uno
scarabocchio”. Cioè “regala a me qualcosa, visto che ci vogliamo bene, che siamo amici, che siamo
in un buon rapporto”. Abusare di una semplice finalizzazione, diventando ripetitivi e noiosi non
funziona: è come se l’energia, il calore, non avesse un’alimentazione e quindi non fosse più tale,
raffreddandosi. La fusione a freddo è un elemento di difficoltà, a volte di impossibilità.
L’esplorazione va fatta tenendo conto della possibilità che campi percettivi diversi procurino
risultati diversi. Perché usiamo questa espressione campi percettivi? Perché ci rifacciamo ad una
letteratura particolare. Abbiamo bisogno di rinviare ad alcune pagine che inseriamo nel nostro
percorso come una piccola antologia. Abbiamo bisogno di riferirci a tre autori, diversi tra di loro:
Olson, Affolter e Bronfenbrennen.
Olson tratta di una questione, ripresa poi da molti altri autori, e lui stesso lavora su
un’ipotesi che ha molti precedenti; privilegiamo un autore per fare riferimento ad alcune pagine in
particolare. Si tratta di capire l’importanza dei mediatori o media, e sapere che quella ricerca delle
matite, dei pennarelli, della carta, della pasta di carta, del colore della carta, altro non è che lo
sviluppo di una proposta che ha in Olson uno degli autori di riferimento possibile; l’attenzione,
quindi, agli strumenti mediatori per realizzare un certo processo. La possibilità che un individuo
utilizzi meglio le parole o meglio i gesti fa sì che noi scegliamo i mediatori che hanno la possibilità
di collegarsi all’uso delle parole oppure all’uso dei gesti, ecc.
La seconda autrice è Affolter: Affolter ha un campo di esperienza legato a traumi e ad
afasici, persone che hanno perso la possibilità di organizzare i loro percorsi attraverso la voce e le
parole. E una delle sue descrizioni di prove, di percorsi riabilitativi, fa riferimento proprio alla
progressiva riorganizzazione dei campi percettivi, in modo tale che un problema sia con una
possibilità di percezione nello stesso tempo tattile e visiva. E’ chiaro che questa è una scelta.
Potremmo variare e utilizzare una percezione sonora, tattile e visiva. La possibilità è che questo
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campo di percezione del tutto esplicito abbia delle modificazioni e quello che era esplicito, visibile
e immediatamente a contatto del tatto sia invece riposto, in un cassetto ad esempio, e venga
incoraggiata un’esplorazione che comporta un passaggio più complesso per arrivare, in tappe
successive, a una rappresentazione iconica – rappresentare il problema con delle immagini – o
verbale. A quel punto abbiamo una possibilità di utilizzare una rappresentazione evocativa, più
rappresentata e meno in atto.
La possibilità è quella di far percorrere una serie di tappe che anche chi cresce percorre,
avendo come primo contatto gli elementi che sono nel campo percettivo immediato, e quindi venga
introdotto nel campo percettivo qualche cosa che non è presente, evocativo. Evocare, saper che
esiste qualcosa anche se non è sotto il mio diretto controllo percettivo, è l’elemento che si collega al
linguaggio. Linguaggio è anche pensiero:si può pensare il linguaggio, si può evocare dicendo ad
alta voce, scrivendo, dipingendo; e si può anche evocare anche chiamando, con un gridolino,
qualcuno che permetta all’oggetto evocato di essere presente in maniera concreta, o che giustifichi
l’assenza. Il rapporto tra un bambino o una bambina piccola e la figura materna è spesso fatto di una
serie di attività spontanee che dicono, fanno, realizzano quello che adesso stiamo rappresentando in
una maniera artificiosa, argomentata.
Bronfenbrennen è un autore importante per tutta la materia densa dell’ecologia umana e ha
la possibilità di indicarci una sequenza di contesti in cui l’elemento singolo abbia un rapporto con
un altro elemento singolo e si creino successivamente contesti concatenati che arrivano al sistema di
contesti. Bronfenbrennen non si è direttamente occupato dei problemi che noi affrontiamo ma ci
suggerisce qualche cosa di molto interessante che riguarda la possibilità di avere delle procedure.
Le “definizioni” di Bronfenbrennen
Definizione 1
L’ecologia dello sviluppo umano implica lo studio scientifico del progressivo adattamento
reciproco tra un essere umano attivo che sta crescendo e le proprietà, mutevoli, delle situazioni
ambientali immediate in cui l’individuo in via di sviluppo vive, anche nel senso di definire come
questo processo è determinato dalle relazioni esistenti tra le varie situazioni ambientali e dai
contesti più ampi di cui le prime fanno parte.
Definizione 2
Un microsistema è uno schema di attività, di ruoli, e relazioni interpersonali di cui
l’individuo in via di sviluppo ha esperienza in un determinato contesto, e che hanno particolari
caratteristiche fisiche e concrete.
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Definizione 3
Un mesosistema comprende le interrelazioni tra due o più situazioni ambientali alle quali
l’individuo in via di sviluppo partecipi attivamente (per un bambino, ad esempio, le relazioni tra
casa, scuola e gruppo di coetanei che abitano nelle vicinanze di casa sua; per un adulto, quelle tra
famiglia, lavoro e vita sociale).
Definizione 4
Un ecosistema è costituito da una o più situazioni ambientali di cui l’individuo in cui
l’individuo in via di sviluppo non è un partecipante attivo, ma in cui si verificano degli eventi che
determinano, o sono determinati da, ciò che accade nella situazione ambientale che comprende
l’individuo stesso.
Definizione 5
Il macrosistema consiste delle congruenze di forma e di contenuto dei sistemi di livello più
basso (micro- meso- ed ecosistema) che si danno, o si potrebbero dare, a livello di subcultura o di
cultura considerate come un tutto, nonché di ogni sistema di credenze o di ideologie che
sottostanno a tali congruenze.
Definizione 6
Si verifica una transizione ecologica ogniqualvolta la posizione di un individuo
nell’ambiente ecologico si modifica in seguito ad un cambiamento di ruolo, situazione ambientale o
di entrambi.
Definizione 7
Lo sviluppo umano è un processo attraverso il quale l’individuo che cresce acquisisce una
concezione dell’ambiente ecologico più estesa, differenziata e valida, e diventa motivato e capace
di impegnarsi in attività che lo portano a scoprire le caratteristiche di quell’ambiente, e ad
accettarlo o ristrutturarlo, a livelli di complessità che sono analoghi o maggiori, sia nella forma
che nel contenuto.
Definizione 8
Per validità ecologica intendiamo il grado in cui l’ambiente del quale i soggetti hanno
esperienza in una determinata indagine scientifica ha proprio le caratteristiche che il ricercatore
suppone o assume.
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Definizione 9
Per dimostrare che si è verificato uno sviluppo è necessario stabilire che la modificazione
prodotta nelle concezioni e/o attività di un individuo è trasferibile ad altre situazioni ambientali e a
momenti diversi. Chiamiamo ciò validità evolutiva.
Definizione 10
Chiamiamo esperimento ecologico una ricerca che ha come oggetto l’adattamento
progressivo tra l’organismo umano in via di sviluppo e il suo ambiente attuata per mezzo di un
contrasto sistematico tra due o più sistemi ambientali o componenti strutturali di questi ultimi,
cercando di controllare accuratamente altre fonti di influenza o con l’assegnazione casuale
(esperimento strutturato) o con l’abbinamento (esperimento naturale).
Definizione 11
Un esperimento di trasformazione implica l’alterazione sistematica e la ristrutturazione dei
sistemi ecologici esistenti in modi che rimettono in discussione le forme di organizzazione sociale, i
sistemi di credenze, egli stili di vita che sono prevalenti in una particolare cultura o subcultura.
Un esperimento di trasformazione altera in modo sistematico alcuni aspetti di un
macrosistema. L’alterazione può essere effettuata ad ogni livello dell’ambiente ecologico, dal
micro- all’esosistema, eliminando, modificando o aggiungendo elementi e interconnessioni.
Vi è un principio generale che pervade tutti i concetti di base propri di una ecologia
sperimentale dello sviluppo umano: tale principio viene formulato come la prima di una serie di
proposizioni che descrivono le caratteristiche distintive dei modelli di ricerca adeguati all’indagine
dello “sviluppo del contesto”.
Avere delle procedure potrebbe sembrare a qualcuno irrigidire il nostro operato, togliere al
nostro operato quell’elemento di spontaneità che nel rapporto educativo sembra così importante,
addirittura sostanziale. E questo è vero. Avere delle procedure in un primo tempo può fare questo
effetto; ma metabolizzarle e farle diventare rigore interiorizzato che riconquista la propria
spontaneità è l’elemento di avanzamento nelle proprie competenze professionali. E quindi
percorrere, le indicazioni che fornisce Bronfenbrennen significa capire come le nostre interazioni
possano essere organizzate avendo cura di riprendere i due autori precedenti: l’attenzione ai mezzi
che utilizziamo, agli strumenti, agli intermediari (Olson); l’attenzione alla possibilità che i campi
percettivi forniscano o meno uno sviluppo (Affoltar); e arrivare a capire che vi può essere un
rapporto a due che garantisce una certa possibilità, ma questo va collocato all’interno di quella che
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sarà la definizione n. 11 (anzi, consigliamo di partire dalla definizione n. 11) di Bronfenbrennen per
capire quale è l’organizzazione complessa, e comprenderne la costituzione riprendendo le
definizioni precedenti. E tutto questo col nume tutelare di Wygotskyj.
La riorganizzazione di alcuni autori in un’ipotesi di lavoro diventa la tappa fondamentale di
un lavoro educativo che si prepara attrezzandosi mentalmente e materialmente, per poter affrontare
le differenze e realizzare un’educazione che segua la dinamica delle buone prassi.
NOTA BIBLIOGRAFICA
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