Franz e Lapo Era una luminosa mattina di fine ottobre e come

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Franz e Lapo Era una luminosa mattina di fine ottobre e come
Franz e Lapo
Era una luminosa mattina di fine ottobre e come ogni giorno Franz e Lapo stavano andando insieme a
prendere l’8. Aspettarono qualche minuto alla fermata e subito l’autobus si accostò al marciapiedi per farli
salire. Le porte davanti si spalancarono e i due salirono a bordo facendo un cenno di saluto all’autista. Non
appena Franz e Lapo ebbero preso posto in una delle coppie di sedili di dietro, l’autista chiuse le porte e pigiò
il piede sull’acceleratore. I due si guardarono con un cenno d’intesa e Franz disse: “Barca!”. Subito il vento si
alzò a scompigliargli i capelli! Eccoli che ondeggiavano a destra e sinistra, assecondando il moto delle onde
mentre con il cannocchiale scrutavano l’orizzonte. L’autista era ora un capitano dalla lunga barba bianca che
con destrezza maneggiava il timone cavalcando il mare in tempesta. Ad un tratto avvistarono nella nebbia la
sinistra bandiera di una nave pirata. I pirati si stavano avvicinando minacciosi, già si scorgevano i bagliori
delle loro lame, quando Franz vide un gruppo di delfini che nuotavano e saltavano proprio accanto alla barca,
“Ehi Lapo, ci sono i tuoi amici!”, disse Franz. La barca rallentò, Franz gettò l’ancora e non appena quella
toccò la superficie dell’acqua tutto svanì e le porte dell’autobus si aprirono. Tre bambini salirono a bordo,
affannati per la corsa. Lapo li salutò con la mano. I tre andarono a sedersi proprio dietro di loro, poi le porte
si richiusero e Lapo esclamò: “Adesso tocca a me! Elicottero!”. L’elica iniziò a girare velocissima e in pochi
secondi Lapo, Franz e i tre bambini dietro di loro si alzarono in volo sopra Firenze. La città sembrava così
piccola vista da lassù! Lapo vide la strada del fornaio, la piazza con i giochi e poi la via dove abitava. Ecco,
quella era proprio la sua casa! La indicò a Franz, che seguì con lo sguardo il dito di Lapo e annuì.
All’improvviso si accorsero di essere inseguiti da un grosso jet nero. Franz aumentò la velocità cercando di
seminarlo ma il jet si avvicinava sempre di più e li fiancheggiava tentando di speronarli. Per fortuna però i
voli in elicottero duravano sempre troppo poco e i cinque iniziarono la ridiscesa lasciando il perfido jet con
un pugno di mosche. L’elicottero toccò il suolo e subito le porte dell’autobus si riaprirono davanti alla
penultima fermata. Nuovi passeggeri presero posto a bordo e mentre l’autobus chiudeva le porte e
s’incamminava sulla corsia preferenziale Lapo e Franz osservarono divertiti una signora infuriata a bordo di
un grosso SUV nero bloccato nel traffico. Lapo e Franz avevano i capelli arruffati e lo stomaco sottosopra,
ma subito si guardarono divertiti ed esclamarono: “Batbus!”. L’autista accese il propulsore ionico, l’autobus
si staccò leggermente dal suolo e partì come un fulmine. Franz e Lapo urlavano d’entusiasmo, mentre la forza
d’inerzia li schiacciava contro i sedili. Ad un tratto Lapo urlò: “ImmobilBus!”. L’autobus si immobilizzò.
Una signora con una carrozzina stava attraversando la strada mentre una grossa Rattomoto nera le veniva
incontro senza accennare a rallentare. Franz afferrò il Raggio-Teletrasporto e lo puntò contro la perfida
Rattomoto. Subito la immobilizzò e la mandò dritta dritta tra le dune di Rub’ al-Khali, dove atterrò proprio
sopra il nido di grossi ragni velenosi. La signora con la carrozzina attraversò la strada e raggiunse il
marciapiede dall’altro lato. Allora Lapo disse: “BolideBus”e il Batbus si rimise in moto. Tagliavano l’aria
velocemente e vista attraverso il finestrino la città sembrava un film riavvolto dal videoregistratore. Poi il
Batbus rallentò di nuovo e si accostò al ciglio della strada. Lapo prese il suo zaino, Franz si rimise il cappello
e insieme scesero alla fermata. Attraversarono la strada e si salutarono davanti all’ingresso della scuola.
“Ciao nonno, a domani!”, disse Lapo. Poi si voltò e corse verso l’entrata.
Una stanza della sua mente
Anche quel giorno Elisa, si apprestava a chiudere la porta di casa.
Nonostante fossero appena le 6.00, aveva già le braccia cariche di buste e sacchetti per la spesa.
“Nani, Peppo, Luca, andiamooooo”, si sentiva gridare con voce tonante ogni mattina.
I vicini lo sapevano e non si erano ancora abituati a quel brusco risveglio.
Elisa viveva in quel condominio da due anni e, nonostante uscisse abitualmente, non aveva stretto
amicizia con nessuno.
Aveva quarantasette anni e lavorava come operaia in una fabbrica.
Di corsa, trascinandosi le pesanti buste, ogni mattina prendeva l’autobus delle 6.15.
Occupava sempre l’ultima fila, quasi fosse stato un posto prenotato. Una volta in viaggio, con i pochi
ospiti del bus, era solita interrogare i ragazzi su quello che avrebbero fatto quel giorno a scuola.
Riprendeva puntuale il fiocco dei capelli di Nani, che non riusciva mai a contenere quella massa di
neri riccioli ribelli. Gli stessi suoi di quando aveva la sua età.
Peppo e Luca erano gli inquieti: saltellavano di posto in posto come due piccoli grilli.
La stessa scena si ripeteva al ritorno. Il bus della sera era però più affollato.
Di tanto in tanto Elisa, distoglieva lo sguardo dai ragazzi per guardarsi in torno. Non capiva perché
tutti la fissassero.
Il ritorno a casa era il momento più bello. Finalmente si godeva i suoi ragazzi.
Siccome di giorno lavorava, appena sbrigate le faccende, giocava e si divertiva con loro.
La sua casa diveniva - di volta in volta - un campo di calcio, una discoteca, una pista da bowling, un
campo da golf.
Non risparmiava loro nessun gioco.
Erano tutta la sua vita e li amava profondamente.
I vicini non ne potevano più. Elisa non si rendeva conto del rumore assordante che partiva dal suo
appartamento per disperdersi in tutto il condominio.
Il signor Valentino, che abitava al piano di sotto, era allo stremo. Il rumore non cessava sino a
mezzanotte. Vi lascio per un istante immaginare, quando era in “scena” la serata in discoteca.
Valentino con sua moglie Teresa, aveva sollecitato molte volte l’amministratore, che a sua volta,
aveva scritto ai servizi sociali.
Fino a quel giorno sembrava che nulla potesse inquietare i giochi serali di Elisa; anzi, la routine non
subiva alcun cambiamento.
Il caso volle che alla signora Gilda, inquilina del secondo piano, venisse un infarto. Al suo rientro a
casa Elisa, notò grand’agitazione.
L’ansia d’improvviso l’invase tanto che quella sera decise di rinunciare ai soliti giochi, facendo andare
a letto i ragazzi prima del solito.
La mattina dopo, era sull’uscio di casa, quando il suono del campanello la bloccò.
“Non aprite”, urlò ai bambini; ma il suono era insistente.
Le rimbombava nella testa. Con piccoli e lenti passi, aprì la porta.
Due braccia la strinsero.
Non se l’immaginava cosi possenti.
Una mano forte l’afferrava in una morsa, mentre si dibatteva disperatamente.
Dovette serrare i denti per impedirsi di gridare, non voleva spaventare i bambini.
In un istante non riuscì più a muoversi e l’ultima cosa che mise a fuoco fu una strana camicia bianca
in cui velocemente la infilarono.
La sola figura che ebbe vivida per molti giorni, ad occhi chiusi, era l’immagine dei suoi piccoli e,
quando le stringhe le dolevano i polsi, pregava che fossero al sicuro.
La straziante sofferenza le impediva di dormire.
Le parole che le giungevano ovattate dai medici erano sempre le stesse: “È stabile”.
Cosi passavano i giorni. Si susseguivano volti ai bordi del suo letto.
Una notte, un rumore ruppe il silenzio e la fece sobbalzare. La stanza era buia. Si sforzo di sentire
meglio. Di nuovo quel suono. Nitido, cristallino.
E poi tutto ad un tratto li vide.
Nani, Peppo e Luca erano di nuovo lì con lei.
Erano tornati. Non l’avevano abbandonata.
Potevano continuare a vivere li, tutti e quattro in una stanza della sua mente.
Le stringhe non le facevano più male, mentre iniziava a raccontare una fiaba ai suoi bambini.
Il giorno dopo i medici non notarono che stava dormendo con un sorriso che illuminava il volto.
IL FORMIDABILE GANCIO SINISTRO DI CARLOS PORTERO E IL CAPPELLINO
PORTAFORTUNA DI BABETTE.
Appena il formidabile gancio sinistro di Carlos Portero mi si è abbattuto sulla mascella, la folla ha cominciato a urlare.
All’angolo, il vecchio Giò mi sta strillando: “Nino! Nino! Diosantissimo! La guardia! Alta! Dove cazzo
hai la testa! Dove cazzo hai la testa!”
Dove ho la testa? Sul collo, senza dubbio. Il problema è dove ho il collo. Attaccato ad un corpo che si è
appena abbattuto al tappeto.
L’arbitro che comincia a contare.
“Uno!”
Chissà dov’è Babette. Lei dice che non si siede mai in prima fila. Dice che se vede qualcuno che mi
prende a pugni vorrebbe salire sul ring e prendere lei a pugni quell’altro. Una volta l’ha fatto. Non durante un incontro. Ci mancherebbe. In strada. In macchina. Un tipo ci ha sorpassato e ci ha fatto un gestaccio. Babette si è incazzata come una bestia, cosa che succede spesso. Quando si incazza, il Vecchio
Testamento dovrebbe cambiare cattivo di turno, invece del solito Dio. Allora l’ha rincorso, l’ha costretto a accostare e se non era per me prendeva a pugni il tipo fino a ucciderlo. Guidava lei. Io non ho
la patente, la macchina non l’ho mai saputa portare.
“Due!”
Chissà dov’è Babette. Avrà messo il cappellino portafortuna? Evidentemente no. Il cappellino che apparteneva a sua nonna. Lo indossava quando l’ho vista la prima volta. Babette lavorava al Carcere Minorile, dov’ero finito un anno prima. C’era una Sala Polivalente dove si teneva un corso di teatro e poi
quello di boxe. Lei insegnava teatro, prima che ci andassimo noi a tirare pugni. La prima volta che l’ho
vista ho capito che quegli occhi dovevano appartenermi. Lei usciva dalla sala e io entravo. Ho pensato:
“Finirò per sposarla e moriremo nello stesso letto senza lacrime ma guardandoci e ricordandoci di
quando ci siamo visti la prima volta quando lei usciva dalla sala e io ci entravo”.
“Tre!”
Quando le ho detto che ero innamorato di lei, le ho portato una rosa. Lei l’ha annusata e io ho pensato:
“Finirò per sposarla e i nostri figli avranno i suoi occhi e i suoi capelli e il suo sorriso sghembo di
quando le ho detto che ero innamorato di lei e avevo ancora i guantoni alle mani e per poco non piangevo per la paura che mi dicesse di no”.
“Quattro!”
La prima volta che abbiamo fatto l’amore lei profumava esattamente come immaginavo avrebbe profumato la prima volta che avremmo fatto l’amore.
“Cinque!”
Babette, chissà dove sei adesso. In mezzo a tutte queste facce che mi stanno fissando adesso non vedo
la tua. Non hai messo il cappellino, vero? Quella ridicola paglietta che dici che porta fortuna e che tenevi stretta sulla testa con tutte e due le mani, ricordi, quando facemmo il picnic sul fiume e si mise a
piovere che Dio la mandava e cominciammo a correre. Era il giorno in cui uscivo dal Carcere, ricordi?
Ti ho trovata fuori dal cancello, come nei film. Avevi la tua Renault 5 e il vestito bianco di lino. Mi hai
baciato e sapevi di cannella e menta. Come i tuoi capelli. In quel momento ho pensato: “Finirò per sposarla e faremo l’amore talmente tante volte che i vicini si chiuderanno nelle loro stanze e proveranno a
fare l’amore come noi e i loro vicini anche, e i vicini dei loro vicini uguale”.
“Sei!”
Vorrei vederti in mezzo a tutte queste facce che mi fissano eccitate e che urlano così tanto, Babette. Hai
le mani guantate, no? Che ti coprono gli occhi, no?
No.
“Sette!” “Otto!”
“Nino! Puttana miseria! Nino!” Il vecchio Giò che si sgola.
Ti voglio bene, vecchio Giò. Mi mancherai, e anche la tua palestra. E i poster di Monzòn e LaMotta. E
i tuoi guantoni appesi sotto il quadretto di Gesù Cristo.
“Gesù Cristo! Nino!”
“Nove!”
Babette, io vorrei tanto rivederti. Io vorrei tanto fare come quella volta, la prima volta che persi un incontro. Siamo tornati a casa e tu hai messo su quel disco, ricordi, “Round About Midnight”, la tromba
di Chet Baker, ricordi? E ci siamo messi a ballare, lenti, in mezzo alla stanza, ricordi? E io affondavo il
naso nei tuoi capelli e sapevano come sempre di cannella e menta e tutto andava bene, ricordi? Ricordi
il jazz, Babette? Ricordi come mi prendevi in giro quando io piangevo ogni volta che sentivo John
Coltrane suonare “Naima”?
“Dieci!”
La campanella. La folla urla ancora di più. Il formidabile gancio sinistro di Carlos Portero è andato a
segno. K.o.
Vorrei tanto rivederti, Babette. Ti giuro che ricominceremo a mettere i dischi sul piatto e tratterremo
ancora il respiro quando si sentirà solo il rumore della puntina, e poi respireremo quando comincerà la
musica e staremo zitti. Pensando alle volte che faremo l’amore e ai risotti bruciati che si attaccheranno
sul fondo delle pentole. Ti giuro che penserò solo a te. Giuro che questo sarà l’ultimo incontro.
Babette, vorrei tanto rivederti.
Ce le aveva le sue idee, Barore Gungui.
Aveva sentito ad un convegno in municipio delle “fonti
alternative”, le pale eoliche, i pannelli solari, ma quello che
gli era piaciuto di più era il biogas. E gli era venuta l’idea.
Altro che coltivare erba da bruciare. Tutte quelle cornacchie,
in campagna, e tutti quei piccioni, in città, cosa ci facevano.
In campagna gli mangiavano tutto, e in città, le poche volte
che ci andava, doveva stare attento a dove si fermava, non si
poteva fidare, erano cosi’ tanti e ne bastava uno solo che in
volo avesse mal di stomaco e il vestito era rovinato, oltre che
la brutta figura. L’idea era che bisognava prenderli tutti,
piccioni e cornacchie, e bruciarli dentro quei macchinari che
avevano fatto vedere al convegno e si ricavava praticamente
energia gratis. “Due piccioni con una fava” diceva ridendo
quando finiva i suoi interventi al bar, “e dopo i piccioni anche
le cornacchie!”. Che poi, se funzionava davvero si poteva
pensare ai gabbiani, agli storni e perché no, anche ai gatti e
cani randagi. Però non si poteva fare così, dall’oggi al
domani, ci voleva sicuramente una legge, così dopo davano
anche i contributi per l’acquisto dei macchinari. Lo diceva
sempre a tutti, e quando invitava da bere lo ascoltavano e gli
promettevano anche che il giorno che fosse passata la legge
lo avrebbero aiutato. Anche perché si sarebbero creati posti di
lavoro, che so, un tanto a cornacchia abbattuta, e insomma
era una cosa utile.
Si era proprio convinto. Cosi’ convinto che aveva
cominciato a cercare i politici per aiutarlo nella sua idea, ma
il sindaco, gli assessori, i consiglieri comunali del suo paese
gli dicevano che loro da soli non potevano fare niente, ci
voleva una legge apposta, almeno regionale, e poi sì che
l’avrebbero aiutato. Anzi lui, Barore Gungui, sarebbe
diventato il capitano dei barracelli. Si vedeva già, con la
divisa, sul suo vespino color bluruggine, con la doppietta di
traverso, avrebbe potuto fermare tutta la gente in campagna e
chiedergli cosa ci facevano, anche se lo sapeva già, perché
chissà cosa va a fare uno in campagna con l’aratro. Ma li
poteva fermare e glielo dovevano dire. E lui poteva dire
vabbene, come se dipendesse da lui se uno poteva arare o no.
Poteva persino con la scusa della vigilanza avvicinarsi alle
coppiette. Quelle che di giorno parcheggiavano la macchina
sotto gli alberi di fico, a parlare, dicevano, ma ci passava
dopo lui e li vedeva i fazzoletti e tutto il resto, buttati lì, che
schifo. Aveva anche scritto delle lettere alla Regione, ma
visto che le cose non si muovevano e nessuno gli rispondeva
mai, aveva deciso di andarci personalmente, in quel palazzo
alto e marrone, lo avrebbero sicuramente ascoltato. C’era
quel politico amico dei cacciatori, in televisione sembrava
bravo e gli avevano detto che il sabato sera andava sempre in
chiesa e dopo la messa stringeva le mani a tutti, anche se poi,
dopo che l’avevano eletto, aveva sempre molti impegni, il
partito, le riunioni di partito, le missioni, le commissioni, le
missioni, le riunioni di partito, il partito. Ma un minuto per
lui l’avrebbe avuto, il babbo dell’onorevole era di Guroni, e
Barore conosceva uno di Guroni che aveva fatto il militare
con lui, erano passati anni ormai ma bastava rintracciarlo ed
era fatta. E infatti c’era riuscito, ed era riuscito a farsi invitare
ad una battuta di caccia al cinghiale, l’ultima della stagione,
proprio a Guroni dove, forse, l’onorevole sarebbe venuto
come ospite. Barore si preparò di tutto punto, lucidò il calcio
del fucile con gli intarsi mangiati dal sudore e si comprò
anche un cappello da cacciatore coi colori militari, anche se
lui era contrario alle guerre, uno spreco di soldi e di benzina
per i carri armati. Al raduno l’onorevole arrivò veramente e
furono decise le postazioni. Lui riuscì solo a stringergli la
mano un attimo e poi ognuno prese posizione. Barore era
appostato a duecento metri circa dall’onorevole, e voleva,
doveva assolutamente parlargli. Cinghiali non se ne
vedevano, erano passate due ore ormai e lui sempre fermo.
Fece anche due volte pipì, e dopo la seconda volta decise di
andare a parlargli, l’avrebbe ascoltato, tanto non c’era niente
da fare. L’onorevole era andato alla battuta di caccia per
cercare voti per il sindaco di Guroni amico suo, e certo che se
abbatteva il cinghiale faceva proprio una bella figura, erano
una cinquantina di voti almeno, se poi il cinghiale era vecchio
e grosso, la voce sarebbe corsa anche nei bar dei paesi vicino
e si poteva arrivare in tutto anche ad un centinaio di voti.
Fatto sta che quando l’onorevole vide il lentisco muoversi
non ci pensò due volte, e sparò.
Barore Gungui fece giusto in tempo a pensare alla madre
che gli accarezzava la testa quando era andata a prenderlo il
primo giorno all’asilo, e poi gli venne in mente lo schiocco
che faceva il flipper quando la pallina colpiva il bersaglio,
solo che adesso il bersaglio era lui. L’onorevole fu consolato
da tutti per la tragica fatalità, il cinghiale vecchio aveva
ancora minimo un altro anno di vita, le cornacchie e i
gabbiani potevano tranquillamente continuare a mangiare
tutta l’immondezza che trovavano, le coppiette potevano
ancora andare tranquille di giorno sotto gli alberi di fico. Lui,
Barore Gungui, non le avrebbe certo disturbate.
Sogni di speranza.
Giugno 1944. In località La Querce, nelle vicinanze di
Prato e in prossimità della linea ferroviaria Firenze
Bologna, i tedeschi hanno installato un campo di raccolta
per i prigionieri di Firenze e zone limitrofe.
Gianna con il tram n°28 per Sesto Fiorentino e poi
proseguendo a piedi raggiunge la località indicata dove,
dal carcere delle Murate, è stato trasferito Claudio. Qui
viene a sapere che i prigionieri sono a lavorare a Vernio
nel ripristino dei binari della ferrovia devastati dai
bombardamenti aerei anglo-americani e che il loro rientro
è previsto nel tardo pomeriggio. Dalla sparsa
vegetazione lo stridio delle cicale, lungi da richiamare
poetiche rime bucoliche, fa pensare al danno che possono
arrecare al lavoro dell’uomo. La giornata trascorre in
un’estenuante attesa, poi a piccoli gruppi, con gli
indumenti strappati e polverosi, stanchi per il lavoro sotto
il sole e guardati dai soldati tedeschi con i mitragliatori
puntati addosso, inizia il rientro dei prigionieri. Arriva
anche Claudio che, appena vede Gianna, cerca di
staccarsi dal gruppo, ma un soldato col calcio del fucile
lo ricaccia indietro. Lei non lo aveva riconosciuto tanto
era dimagrito in così pochi giorni. Arrivati al cancello
Claudio si sofferma vicino a Gianna che lo aveva seguito
a breve distanza, questa volta il soldato tedesco lascia
fare, anche lui è stanco adesso ci pensino le guardie del
campo a vigilare sul prigioniero.
Loro cominciano a parlare e a raccontarsi le ultime
peripezie, quando improvvisamente il fischio acuto di
una sirena lancia l'allarme per un’imminente
bombardamento aereo, inizia un fuggi-fuggi generale e
mentre gli altri cercano un rifugio, Claudio e Gianna
decidono di scappare in direzione di Sesto. Gli aerei
passano diretti verso altri obiettivi. Ogni rumore di
motore che giunge alle spalle dei fuggitivi li fa tremare
fintanto che il mezzo non prosegue oltrepassandoli. Le
lancette dell’orologio segnano l’avvicinarsi dell'ora
d’inizio del coprifuoco, si rende necessario trovare un
rifugio per la notte. Istintivamente una casa colonica
sembra l'unica opportunità, si avvicinano, bussano e dopo
qualche iniziale perplessità il contadino decide di
concedere ai due sbandati una sistemazione nella stalla.
Viene data loro dell'acqua per rinfrescarsi, del latte
appena munto, pane fatto in casa, formaggio e frutta.
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Alcune rose si arrampicano sull'intonaco cadente del
muro, Claudio ne coglie una e la porge a Gianna. In
lontananza si ode un indistinto abbaiare di cani, che il
loro pensiero associa a quelli dei soldati tedeschi.
Quando il silenzio si fa più profondo, sopraffatti dalla
stanchezza della faticosa giornata che però li aveva così
inaspettatamente riuniti, teneramente abbracciati si
addormentano su un improvvisato giaciglio di paglia.
Incurante degli intrusi un cavallo continua a mangiare la
biada. Nel loro sogno è un mitico Pegaso con le ali della
libertà. All’alba vengono svegliati da un picchiare
sommesso, cigolando la porta si apre, mentre la luce
invade l'interno, il contadino entra e senza troppi
preamboli propone loro di partire insieme a lui che si
reca in paese a vendere le verdure raccolte, soltanto il
tempo necessario per poter velocemente caricare il
barroccio e quindi partire. Arrivati a Sesto al capolinea
del tram per Firenze, i due salutano il contadino e
commossi lo ringraziano per l'indispensabile aiuto
ricevuto. Il tram è fermo in attesa di ripartire, con il
guidatore che sceso a terra e tutto preso a sistemare la
vettura per il ritorno, girare l'asta della carrucola per
invertire il senso di marcia della vettura e rovesciare i
cartelli metallici della destinazione opposta. I due
salgono, vedono il bigliettaio che sta contando i soldi
della vendita dei biglietti e anonimi passeggeri già
sistemati a sedere che alla vista dei due nuovi arrivati
gettano su di loro fuggevoli occhiate indagatrici ma poi
con indifferenza tornano a guardare fuori dai finestrini
oppure a parlare del tempo che fa e di simili banalità
sempre utili per conversare. Il tram parte sferragliando
verso Firenze. Giunti in piazza Stazione i due cambiano
tram, prendono il 19 circolare che li porterà in Piazza
Beccaria e poi …, e poi il cammino riprende, perché i
sogni di speranza viaggiano sempre.
Settembre 2009
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