Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio

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Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio
DAVIDE
Crescere è la fregatura più grande, penso, guardando le distese di
pini fuori dal finestrino; mi suggeriscono che mi sto avvicinando a
casa. Sono anni che non ci torno... Sterzo bruscamente, un gatto mi
ha attraversato la strada. L’auto s’incunea tra due fusti di pino
piegati dalle folate provenienti dall’Isola d’Elba. Be’, sto fermo
finché non passa un’altra auto. Preferisco non rischiare nulla,
soprattutto
in
questo
momento.
Maledizione!
Periodo
innegabilmente nero, proprio come il colore di quel gatto. Be’ non
ho fretta di tornare, anzi, forse il gatto è un avvertimento. Meglio
così. Il battito del cuore riprende il ritmo normale e magari mi
passa il senso di soffocamento che mi ha impantanato rivedendo
questi posti. Mi hanno accusato di essere un “cervello in fuga”. E
io che mi ero illuso di essere scappato da questo posto anche con
tutto il resto. Rieccomi. Volente o nolente. Più nolente. A chi piace
tornare dove decantano i ricordi tormentosi? A me no. Torno
indietro. E chissenefrega di quel che dirà mia madre. – Davide sei
sempre il solito, non crescerai mai!
– Mamma cara, le risponderò, – crescere per me è stata una gran
fregatura.– La compatisco, povera donna, perché non sa, o forse sì.
Il che è pure peggio. Mi ha implorato di tornare perché zio Guido
sta morendo. Lo zio vuole da me un’ultima carezza. Non devo
deluderlo.
Sì, lo so, a zio Guido piacevano tanto le carezze. Ogni occasione
era buona per darne e riceverne. In particolar modo quando
ottenevo un successo. Poi, zio Guido trovava sempre un momento
solo per noi.
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– Bravo. Stai crescendo, Davide–, disse la prima volta che prese la
mia mano paffuta e se la passò sulla fronte stempiata, sugli occhi,
sulle guance increspate in una carezza che pareva senza fine. Gli
occhi socchiusi, un sorriso secco che gli tirava le labbra. Con
l’altra accarezzava Belzebù, il gatto nero che lo seguiva a ogni
passo. Divenne un’abitudine. Lo zio aveva mani calde, morbide,
suadenti. Quando scriveva, le vedevo svolazzare sulla tastiera
come farfalle. M'incantavano, mi facevano sognare come le storie
che mi raccontava. Quelli erano i miei unici momenti d’affetto.
Mia madre era sempre impegnata, le sue carezze indifferenti,
ruvide, scorticanti sorvolavano sui miei capelli ispidi. Se mi
sentivo triste pensando al babbo, lei mi esortava: – Davide smettila
di lagnare come un bimbetto. Cresci che è l’ora!
Più lo zio era affettuoso, più lei si allontanava da me e mi
escludeva dal suo amore. Un giorno, al mare, lo zio propose una
gara fino allo scoglio più lontano. Vinsi io ma ebbi il sospetto di
una vittoria non meritata; lui allenava per hobby una squadra di
piccoli nuotatori. Ci offrimmo ai raggi del sole e poco dopo
eravamo asciutti.
– Bravo Davide, sei sempre il migliore! Ti meriti in premio delle
carezze speciali. Tranquillo, ti guido io, eh... proprio come il mio
nome. Prese la mia mano e se la passò lungo tutto il corpo. Poi
accarezzò tutto il mio corpo. Su quegli scogli, non riuscii a dire no.
Mi scattò il panico. Se avessi rifiutato, cosa avrebbe fatto? Da
allora fra noi scese un pesante silenzio su quell’argomento, le
carezze continuarono. Gli volevo bene. Mi rassicurava. Non avrei
mai voluto crescere per non perdere quell’amore. Mi sentivo
degno di considerazione quando mi conduceva con sé. L’idea era
che conoscessi tutta l’arte possibile per capire cosa mi
appassionava, coinvolgeva. Nei luoghi religiosi si dilungava in
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spiegazioni
particolareggiate
sulle
iconografiche
dei
santi
raffigurati, ma sorvolava sulla rappresentazione di Cristo. Spesso
si allontanava per inginocchiarsi nell’ultimo banco con il capo fra
le mani. Era stato in seminario per alcuni anni; mi aveva confidato
che non era stata una bella esperienza. Io desideravo farlo felice e
m'impegnavo all’inverosimile per ottenere sempre i migliori
risultati. Fino al giorno in cui, alla fine di una gara, in doccia con i
ragazzi, intesi dei discorsi allusivi. Erano affermazioni che la mia
sensibilità rivelò profondamente vere e carpii il segreto che esse
manifestavano. Provai sofferenza, malinconia, inquietudine.
Zio Guido non si era mai approfittato di me completamente, ma
non mi piacevano le cose che mi faceva. Percepivo ripulsa quando
mi chiedeva di togliermi i vestiti. Svicolavo quando mi
abbracciava ansimando e mi chiedeva di accarezzargli il sesso.
Trovavo mille scuse e mi chiudevo in bagno per evitare la richiesta
di dormire insieme. Avevo paura, tanta paura. Chiesi di andare a
studiare in un’altra città. Mia madre ne fu felice. Tornavo
saltuariamente e malvolentieri. Ogni volta zio Guido mi diceva: –
Davide, come sei cresciuto! Diventerai un uomo di successo e ogni
volta penserai a me, vero? A me che ti ho fatto diventare ciò che
sei.– Gli occhi mi bruciavano nello sforzo di trattenere le lacrime.
Dopo il dottorato in Genetica Molecolare, sono partito.
Destinazione Australia. Con il tempo la lontananza non è più stata
un problema, preso com’ero dai miei studi, e dalla sofferenza che
mi provocavano i successi ottenuti. Da qualche tempo ero in
analisi per la smania di morte che sequestrava la mia voglia di
vivere ogni volta che raggiungevo un obiettivo. Lo psicoterapeuta
temeva che cedessi a quel desiderio di morte, mi aveva intimato di
ritornare, incontrare il passato e sconfiggere i miei demoni.
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I sentimenti li evitavo. Ero chiuso dentro a una durezza che
proteggeva la mia fragilità. L’amore, quella forma di follia che è,
mi dava angoscia. Temevo le difficoltà emotive e relazionali
esistenti nell’intraprendere un percorso diverso, nello scardinare le
norme della coppia tradizionale, nell’abbattere le barriere
dell’eterosessualità obbligatoria, e le strutture patriarcali che si
fondano sulla famiglia tradizionale. Desideravo esplorare le
infinite possibilità che le relazioni d’amore e la sessualità offrono.
Era tanto difficile capire ciò che provavo; la ricerca dell’identità
sessuale non è così facile, mi chiedevo chi ero e a quale genere
appartenessi. Mi è stato insegnato che non si deve negare niente, e
non ci si deve giustificare. Mi maceravo in quella linea sottilissima
che c’è tra l’amore e l’ossessione.
Costanza, una collega all’Istituto di Ingegneria Genetica e
Biotecnologie di cui ero il responsabile, mi osservava di sottecchi
e cercava di scalfire con occhi languidi la mia corazza. Senza
risultato, in apparenza. Anch’io la osservavo quando lei non se ne
accorgeva, adoravo la sua dolcezza e i suoi seni impudichi che
sollevavano il camice. Ero bloccato. Prima dovevo risolvere i miei
enigmi. Compresa l’attrazione per Silvano. Un nome perfetto per
la sua natura selvatica e il carattere boscoso. Perfino l’odore che
emanava, quando stavamo accanto durante gli esperimenti nel
laboratorio, mi stordiva. Avrei voluto essere consapevole dei miei
sentimenti, ma era una riflessione impossibile perché avevo a che
fare con impulsi, sensazioni e altri misteri che non sapevo
decifrare. A volte avevo la sensazione di essere dalla parte
sbagliata ma non sapevo quale fosse quella sbagliata. Attendevo,
ma non sapevo cosa. Finché arrivò il giorno in cui conclusi la
ricerca. Avevo trovato la minuscola molecola microRNA in grado
di modificare l’espressione dei geni e controllare il destino di tutte
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le cellule dell’organismo. La sperimentazione aveva dato il miglior
risultato. Il farmaco che poteva salvare molte vite, compresa quella
di zio Guido, era pronto. Il merito era tutto mio e io avevo solo una
gran voglia di morire. Nascosi la formula. L’Istituto mi licenziò e
mi citò in giudizio per danni. Volevo scegliere io come utilizzarla.
È stato zio Guido che mi ha fatto diventare ciò che sono. Non
posso dimenticarlo.
– Dimentica, Davide. Perdonalo, è un uomo malato.
Perdonaci–, sussurra mia madre, davanti al letto del moribondo.
Il rosso del tramonto lima il profilo del suo volto, s’incanala sulla
fronte corrucciata.
– Sospettavo sin dall’inizio che il suo affetto per te fosse un amore
malato. Cerca di comprendermi... Tuo padre se n’era andato, ero
alla deriva. Suo fratello mi ha soccorso, si è affezionato tanto a te.
Anch’io l’ho amato, non volevo perderlo.–
L’ascolto con le palpebre calate quasi per intero sugli occhi e quel
che sembra un mezzo sorriso. Un nervo mi solleva ritmicamente il
lato destro delle labbra. La guardo con lo sgomento del bimbo
divenuto uomo, che guarda la persona che avrebbe dovuto capirlo
senza bisogno di parole, salvarlo dalla paura e dal dolore, e non
l’ha fatto. Lei doveva proteggere “il mostro”, per il buon nome
della famiglia.
Il morente apre appena gli occhi. Sofferma lo sguardo sul
mazzo di garofani bianchi screziati di rosso sangue, i suoi preferiti,
posato sulle coperte. Li ho portati in ricordo di quell’amore che
non dimentica, non perdona, non fa sconti; eppure resiste nella
visione lucida e amara delle responsabilità di adulto.
– Davide, sei qui. Sei tornato da me. Bravo.– Lo zio Guido
porge la mano gonfia, chiede una carezza. Il petto si solleva
nell’inutile sforzo di rialzarsi. L’altra mano accarezza Belzebù; il
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gatto artiglia il cuore del morente, dagli occhi socchiusi luccica un
bagliore rossastro.
– Davide, caro, qualunque cosa tu faccia hai il mio perdono–,
sillaba avaramente. – Non ci sono grandi uomini, solo piccoli, ma
tu hai il nome di un piccolo che con l’intelligenza e la forza
d’animo sconfisse il male. Dammi ancora una carezza ti prego…
concedimi di penetrare l’oblio in pace.–
La stanza è satura dell’aria che attrae le mosche autunnali e
stanca il fiato. Abbasso le palpebre del tutto e resisto all’invito. La
mano affondata nella tasca. Il freddo mi risale i piedi, brividi mi
percorrono le vene. Stringo nel pugno la fialetta del medicinale,
basterebbe una dose iniettata in vena e i miglioramenti sarebbero
immediati. Stringo sempre più forte le dita. La fialetta si rompe.
Dolore.
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