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RASSEGNA STAMPA
venerdì 13 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 12/03/15
Mineo, quando l'accoglienza diventa un
business a scapito di rifugiati e richiedenti
asilo
Una nota dell'Arci sulle inchieste che riguardano il Cara di Mineo, aperte
dalle procure di Catania e Caltagirone, dopo la denuncia di Raffaele
Cantone sull'irregolarità della gara d'appalto per la gestione. "Tutto
questo non fa che confermare quel che da tempo andiamo
denunciando"
ROMA - Rifugiati e richiedenti asilo rischiano di diventare una merce su cui fare affari. Lo
sono per i trafficanti di esseri umani, che solo con l'apertura di canali di ingresso umanitari
e legali si potrebbero efficacemente contrastare. Ma potrebbe diventarlo anche per un
sistema d'accoglienza che va profondamente ripensato, per evitare le infiltrazioni criminali
nella gestione degli appalti e per garantire condizioni di vita dignitose e possibilità di
integrazione per chi viene "accolto". Non a caso lo scandalo ora è scoppiato al Cara di
Mineo, un mega centro - il più grande d'Europa - dove il controllo sulle condizioni in cui
sono tenuti i rifugiati e l'integrazione col territorio in cui è insediato sono praticamente
impossibili.
Che questo serva per riflettere. Controllo e integrazione sono infatti possibili in strutture
piccole, inserite in comunità dove sia stato fatto un lavoro preventivo di sensibilizzazione,
con personale preparato, che si occupi dell'inserimento sociale e lavorativo di chi vi è
ospitato. "Auspichiamo - si legge in un comunicato dell'Arci - che quest'ennesimo episodio
di malaffare, se le accuse verranno confermate, serva a far aprire una riflessione seria
nelle istituzioni, avendo ben chiaro che l'interesse da considerare prioritario dev'essere
quello delle persone che vengono accolte. Così come ci auguriamo - prosegue la nota che per una volta tanto chi, per propaganda politica, specula su queste vicende cercando
di convincere l'opinione pubblica che migranti e rifugiati vanno semplicemente respinti, e
magari lasciati affogare in mare, abbiano il buon gusto di astenersi da qualsiasi
commento razzista".
http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2015/03/12/news/mineo_quando_l_acco
glienza_diventa_un_business_a_scapito_di_rifugiati_e_richiedenti_asilo-109384809/
Da Quotidiano di Sicilia del 12/03/15
Cara Mineo, Sel: “Il ministro Alfano riferisca
in Aula”
CATANIA - “Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, venga a riferire in Aula su quello che
sta accadendo a Mineo. Il Centro d'accoglienza più grande d'Europa non può essere
derubricato ad una semplice questione locale”. Lo chiede il deputato siciliano di Sel
Erasmo Palazzotto, sottolineando che “il governo non può continuare a fare finta di
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niente”. Quanto sta emergendo sul Cara di Mineo “non fa che confermare quel che da
tempo andiamo denunciando”: l'Arci commenta così le notizie sulle inchieste che
riguardano il Centro di accoglienza rifugiati e richiedenti asilo.
http://www.qds.it/index.php?sez=news_leggi&id=9326
Del 13/03/2015, pag. I Sbilanciamoci
Syriza svela l’Europa
Luciana Castellina
«Gliela faremo pagare». In questa frase che le cronache sull’ultima riunione
dell’Eurogruppo ci rimandano c’è tutto il caso greco. Al di là di ogni questione di merito,
è evidente che a Bruxelles si sta giocando una partita politica di massima importanza
e che ci riguarda: bisogna punire chi, per la prima volta in 58 anni di storia, ha osato sfidare i vertici dell’Unione europea e ha messo in discussione i criteri di conduzione di
quella che dovrebbe essere una comunità. Questo è quel che conta: non deve più accadere, chi ci ha provato deve essere punito. Guai se si aprisse un varco alla politica. Cioè
alla condivisione.
Perciò il signor Jeroen Dijssebloem ha alzato il ditino per dire no, sette riforme non ci
bastano, ne vogliamo venti. La prossima volta diranno 25, chissà. Contro Varoufakis ci
sono diciassette robot che continuano a chiedere al governo Tsipras, forte di un appoggio
popolare senza precedenti, di pagare per le malefatte accumulate da chi sarà pur greco,
ma è compagno di partito, e di casta, proprio di chi vorrebbe impartire lezioni di moralità:
i ministri del governo Samaras. Proprio nelle stesse ore in cui questa scena andava in
onda uno di loro, anzi il più importante perché l’ex ministro delle Finanze, Gikas Hardouvelis, veniva accusato di aver esportato illegalmente 450 mila euro in un paradiso fiscale
inglese. «Volevo mettere al sicuro il capitale per i miei figli», si è scusato. Poveretto.
Non sono passati neppure due mesi da quando inediti personaggi , diversissimi da chi da
sempre aveva comandato il paese, hanno preso le redini della Grecia, trovandosi a dover
gestire un immane disastro economico e ormai umanitario. Ma la meravigliosa Europa non
è disponibile a dargli tempo affinché possano riparare e riavviare lo sviluppo del paese,
nonostante sempre più numerosi siano gli avvertimenti di economisti europei ed americani, che invitano Bruxelles a ragionare anziché ad emettere editti imperiali.
La partita in atto è durissima. Del resto sapevamo che così sarebbe stato. Ma è stato fondamentale avere accettato la sfida. Per la Grecia e per tutti noi che vorremmo un’altra
Europa. Finalmente la grande questione di cosa voglia dire essere una comunità, che
è cosa diversa da un mercato, è stata posta sul tappeto. Non si potrà più nasconderla
sotto. E sarà stridente ascoltare, dopo questa vicenda, ripetere le retoriche invocazioni
sull’Europa che ha portato pace e prosperità. Anche questa in corso è una guerra. Con le
sue vittime umane. Ci sono perplessità, e anche critiche per come Varoufakis e Tsipras
hanno condotto le cose? Sì, certo. Provenienti dal loro stesso partito e Consiglio dei ministri. È comprensibile. Credo però che esse siano ingiuste. Si tratta di una guerra di lunga
durata, non di una rapida e conclusiva battaglia, destinata a conoscere arretramenti
e passi in avanti, per molti versi una vera guerriglia. Ma bisogna tenere i nervi saldi: i risultati non possono esser misurati nell’immediato, è già una vittoria aver imposto un nuovo
discorso, aver aperto contraddizioni (che nonostante l’apparente unità del fronte di Bruxelles già emergono), aver forse, anche questo per la prima volta, animato un movimento
popolare davvero europeo in solidarietà con Syriza, su un tema che riguarda tutti. È già
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molto. Ha dato coraggio a tutti. Per questo ringraziamo i compagni di Syriza e li invitiamo
a continuare.
Da Rassegna.it del 13/03/15
Mafie: la Cgil denuncia l'indifferenza del
governo
Nuove operazioni della Dia a Gioia Tauro in Calabria, con sequestri per centinaia di milioni
di euro anche a Roma. Fracassi (Cgil): l'economia mafiosa vale un terzo del Pil.
Fenomeno "devastante" ma il governo sembra "totalmente indifferente"
Mafie: la Cgil denuncia l'indifferenza del governo
“Un cancro, una vera e propria metastasi alla quale il governo sembra essere totalmente
indifferente”. Così il segretario confederale della Cgil, Gianna Fracassi, commenta le
operazioni della Dia di giovedì 12 marzo a Gioia Tauro in Calabria, con undici arresti e
beni per 210 milioni di euro sequestrati, tra i quali il più grande parco commerciale
calabrese, e i due ristoranti sequestrati a Roma nei pressi del Pantheon, per un valore che
ammonta a circa 10 milioni di euro. Operazioni legate a personaggi di 'ndrangheta.
“Da due anni - prosegue la dirigente sindacale - la Cgil, insieme a Libera, Arci, Acli,
Avviso Pubblico, ha consegnato al Parlamento la proposta di iniziativa popolare 'Io Riattivo
il Lavoro' per dare alla gestione delle aziende confiscate gli strumenti per ritornare alla
legalità e ancora né il Governo né il Parlamento hanno trovato il tempo di occuparsene e
decidere“.
La segretaria confederale Cgil, con delega alla Legalità, di fronte all'ennesima notizia di
beni sequestrati alle mafie, osserva: “Un fenomeno devastante e in crescita continua che
segna pesantemente le prospettive di sviluppo del Paese. Un fenomeno, quello della
economia mafiosa, che vale un terzo del Pil”. Quanto invece ai sequestri, e a ciò che ne
consegue, Fracassi conclude: “È una vergogna, ci troviamo al cospetto di una ricchezza
immensa, tolta dalle mani della mafia per passare in quelle dello Stato ma che
sistematicamente va in malora, per responsabilità stessa dello Stato”.
http://www.rassegna.it/articoli/2015/03/12/119753/mafie-la-cgil-denuncia-lindifferenza-delgoverno
Da il Mattino.it del 13/03/15
Napoli, tempo di cinema di qualità con
«Astradoc»: dalla Danco a Tony D'Angelo
tanti grandi appuntamenti
Proseguono con grande successo di pubblico gli appuntamenti del
venerdì sera al cinema Astra di via Mezzocannone con Astradoc 2015 –
Viaggio del Cinema del Reale, rassegna sul documentario d’autore a
cura di Arci Movie e Parallelo 41 Produzioni in collaborazione con
Università degli Studi di Napoli Federico II e COINOR.
Venerdì 13 marzo, sempre alle 21.00, in anteprima nazionale a Napoli, N-CAPACE di
Eleonora Danco, premiato al 32° Torino Film Festival con una menzione speciale della
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Giuria. Autrice, regista, attrice, performer, Eleonora Danco, che ha scritto diretto e
interpretato il film, sarà presente in sala per salutare il pubblico.
Prodotto e distribuito da Bibi Film in collaborazione con Rai Cinema, N-CAPACE racconta
di una donna, un’anima in pena, che si aggira tra Roma e Terracina, dove vive l'anziano
padre. Vaga tra campagne, mare e città, con un letto e in pigiama. Spesso con un piccone
in mano, vorrebbe distruggere la nuova architettura che ha tradito i suoi ricordi.
Il rapporto con il tempo e la memoria è motivo di struggimento per lei, unico personaggio
lucido del film, il più sofferente. Comunica solo con adolescenti e anziani, compreso suo
padre, interrogandoli sull’infanzia, la morte, il sesso, attraverso delle provocazioni, degli
stimoli, anche fisici.
Il corpo e i luoghi diventano sogni, incubi, ricordi. Una intimità tanto personale quanto
universale.
Astradoc 2015 proseguirà fino al 29 maggio con un programma che conferma le
anteprime, le testimonianze e gli incontri con gli autori.
Venerdì 20 marzo sarà la volta di LARGO BARACCHE di Gaetano Di Vaio, per un viaggio
nei meandri di una Napoli decadente nel cuore pulsante dei Quartieri Spagnoli. Nella
stessa serata ORE 12 di Toni D’Angelo, tra melodramma di Hong Kong e spaghetti
western, racconta la storia di Sara e Davide, due piccoli bambini, cresciuti nello stesso
parco di un rione popolare, inseparabili, fino a quando davanti ai loro occhi, i rispettivi
padri, si uccidono a vicenda dando inizio ad una faida tra le due famiglie. E
CENTOQUATTORDICI di Massimiliano Pacifico sull’assurdo omicidio di una ragazza di 22
anni, Gelsomina Verde, centoquattordicesima vittima della Camorra, finita per amore nella
brutale lotta fra clan.
Venerdì 27 marzo ospite Antonietta De Lillo con LET'S GO presentato al 32° Torino Film
Festival nella sezione ‘Diritti & Rovesci’ firmata da Paolo Virzì, è la storia di un esodato,
professionalmente ed emotivamente: Luca Musella, fotografo, operatore, scrittore, che ha
perso tutto. O forse no. Il protagonista ripercorre la propria vita in un testo-lettera da lui
scritto e in un viaggio reale e ideale attraverso l’Italia, da Napoli, sua città natale, a Milano,
il luogo della sua nuova esistenza. Insieme alle persone che popolano il suo mondo, Luca
Musella diventa portavoce di una condizione universale, specchio del nostro Paese
nell’era della crisi.
Nella stessa serata presentazione al pubblico del progetto FILMaP e delle produzioni 2015
a cura del coordinatore scientifico di Atelier del Cinema del Reale Leonardo Di Costanzo.
Giovedì 2 aprile (e non venerdì in occasione della Pasqua) Emiliano Dante accompagnerà
in sala HABITAT – NOTE PERSONALI, che ha aperto la sezione italiana.doc a Torino
2014 e racconta di cosa significhi abitare all’Aquila dopo il terremoto, evento catastrofico
trasformatosi per molti in esperienza quotidiana. La storia, lunga cinque anni, del regista e
dei suoi due ex compagni di tenda Alessio e Paolo. Il primo è uno squatter divenuto
agente immobiliare, l’altro era un proprietario di immobili e ora, senza più nulla da affittare,
si dedica alla pittura. Alessio vive con Gemma in una frazione distrutta dal terremoto;
Paolo sta per diventare padre in una situazione di precarietà assoluta. Uno sguardo
dall’interno alla realtà alienante dei progetti C.A.S.E., non-luoghi privi d’identità, lontani dal
tessuto urbano, storico e culturale della città.
Nella stessa serata LA BEAUTÉ C’EST TA TÊTE di ZimmerFrei sulla riqualificazione del
waterfront di Marsiglia, Capitale della Cultura 2013.
Venerdì 10 aprile JE SUIS FEMEN di Alain Margot, ritratto intimo di un gruppo femminista
fuori dal comune: il percorso difficile e affascinante delle Femen con la leader Oxana
Shanko: dall'ingresso in convento, nell'adolescenza, alla ribellione e al desiderio di
cambiare il mondo. La realtà complessa, violenta e rischiosa di queste militanti che, prima
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di tutti, hanno denunciato il malfunzionamento di un governo che non pensa che al proprio
tornaconto lasciando un paese alla deriva.
Venerdì 17 aprile IN VIAGGIO CON CECILIA di Mariangela Barbanente e Cecilia Mangini
film che segna il ritorno alla regia (questa volta insieme a Mariangela Barbanente) di
Cecilia Mangini, prima e più importante documentarista italiana del dopoguerra: un viaggio
tra passato e presente, contraddizioni e speranze.
Da Venezia.71 invece arriva BELLUSCONE - UNA STORIA SICILIANA di Franco
Maresco sull’epopea politica di Silvio Berlusconi ripercorsa osservando una delle sue
principali roccaforti, la Sicilia, e attraverso le disavventure dell’impresario palermitano di
cantanti neomelodici, organizzatore di feste di piazza, Ciccio Mira e dei due artisti della
sua "scuderia", Erik e Vittorio Ricciardi.
Giovedì 30 aprile (e non venerdì per la festività del 1° maggio) QUI di Daniele Gaglianone,
racconto in soggettiva di dieci valsusini che da 25 anni si oppongono con tenacia al
progetto Tav Torino-Lione: cittadini qualsiasi che hanno scelto di lottare, ogni giorno.
Venerdì 8 maggio doppio appuntamento con Joshua Oppenheimer: THE ACT OF
KILLING e THE LOOK OF SILENCE premiato a Venezia.71 con il Gran Premio della
Giuria che descrive la purga anticomunista avvenuta in Indonesia tra il 1965 e il 1966, che
portò alla morte di mezzo milione di persone, raccontata dal punto di vista di due preman
(gangster), Anwar Congo e Adi Zulkadry, diretti responsabili dell'uccisione di centinaia di
uomini ed oggi rispettabili membri di organizzazioni paramilitari indonesiane.
http://www.ilmattino.it/SPETTACOLI/CINEMA/napoli-astradoc/notizie/1234288.shtml
Da Repubblica.it del 13/03/15
"Roma Sinti Fest", una giornata di cinema,
musica e dibattiti sui rom e sinti
Al Nuovo Cinema Aquila di Roma, sabato 14 marzo, Roma Sinti Fest
propone un pomeriggio e una serata di musica, film e dibattiti per
approfondire chi sono i rom e i sinti. Dagli organizzatori arriva un forte
"no" alla politica dei campi attrezzati, con cui le amministrazioni italiane
hanno speso milioni di euro
di STEFANO PASTA
ROMA - Oggi, venerdì 14 marzo, dalle 15.00 alle 24.00 al Cinema Aquila si svolge nella
Capitale il "Roma Sinti Fest", una giornata di cinema, musica, teatro e dibattiti sui popoli
rom, sinti e caminanti, la loro storia, cultura e condizione sociale. È organizzato da ZaLab,
collettivo di film maker e operatori sociali, in collaborazione con l'Associazione 21 Luglio e
altre realtà, da Amnesty International e OsservAzione ad Asgi e Arci.
Un libro di legge basato su stereotipi. La fitta programmazione vuole aiutare ad andare
oltre l'immagine che solitamente si associa a queste popolazioni. Quella per esempio che
il Tribunale di Roma ha sanzionato il 10 marzo scorso condannando la casa editrice
Simone, colpevole di aver pubblicato un libro per aspiranti avvocati che spiegava il reato
previsto dall'articolo 712 del codice penale (acquisto di cose di sospetta provenienza)
indicando come possibili venditori "un mendicante, uno zingaro o un noto pregiudicato".
Stereotipo - dal greco "immagine rigida" - è una parola che deriva dalle tecniche
tipografiche: indicava la piastra di metallo che veniva impressa per creare le matrici per la
stampa, cioè con la funzione di replicare l'immagine in modo fisso e statico.
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Solo un terzo vive nei campi e la metà sono italiani. È quello che succede con i campi
nomadi. Le stime parlano di meno di 200mila rom e sinti in Italia, lo 0,23% della
popolazione, quindi una percentuale ben più bassa di molti altri Stati europei. Di questi,
solo 40mila vivono in situazioni di disagio abitativo, che siano baracche, container, "centri
d'accoglienza" in muratura o edifici fatiscenti occupati. La maggior parte dei rom, invece,
non vive nei campi, ma nelle case e affronta i problemi quotidiani come tutti. Al "Roma
Sinti Fest" ne parla il documentario "Fuori campo" del regista Sergio Panariello, da
Cosenza a Bolzano, passando per Firenze e Rovigo. I protagonisti sono Sead Dobreva,
Kjanija Asan, Leonardo Landi e Luigi Bevilacqua: sì, metà dei cognomi sono "italianissimi",
come la metà dei rom e sinti che vivono in Italia.
Campi monoetnici da superare. Proprio sui campi nomadi è intervenuta l'11 marzo la
Commissione Diritti umani del Senato, approvando una risoluzione che impegna il
Governo verso il superamento definitivo dei campi, come del resto era già previsto dalla
Strategia nazionale del 2012. In realtà, negli ultimi decenni sono stati spesi milioni di euro
per i campi. Definendoli opportunisticamente quanto erroneamente "nomadi" (secondo un
Rapporto del Senato solo il 2-3% dei rom e sinti in Italia pratica il nomadismo), le politiche
pubbliche - spiegano gli autori di "Fuori campo" - "avvallano l'opinione comune per la
quale sono gli stessi rom a sceglierlo come stile di vita. Come diceva Bernard Shaw:
l'Americano bianco, in sostanza, relega il negro al rango di lustrascarpe, e ne conclude
che è capace solo di lustrare scarpe".
Ma come si vive in un campo? Come in un ghetto, risponde il documentario "Container
158" di Stefano Liberti ed Enrico Parenti sul "villaggio attrezzato" di via di Salone, un
campo oltre il Raccordo anulare in cui l'amministrazione di Roma ha raggruppato circa
1200 rom. Fu creato da Alemanno, che stanziò 3,5 milioni di euro l'anno per la gestione.
Una politica condannata come "segregazione forzata su base etnica" dal Consiglio
d'Europa e che ha elementi di continuità con le giunte precedenti e con quella successiva.
Voci dal villaggio attrezzato di via di Salone. Giuseppe, che abita in via di Salone,
sintetizza: "Li butti fuori dal Raccordo, li chiudi dentro 'sto coso, lo recinti tutto e dici:
integrati!!!". Gli fa eco Miriana che, quando abitava in città, incontrava ogni giorno a scuola
le mamme italiane, mentre ora parla "solo il romanès". Per sentire l'italiano, deve guardare
Maria de Filippi in televisione. Intanto, i ragazzi cresciuti ai margini della città soffrono
maggiormente l'esclusione sociale di cui è vittima il gruppo a cui appartengono.
La quotidianità del ghetto. Le telecamere di Liberti e Parenti filmano la quotidianità del
campo. Giuseppe si alza ogni mattina e va in giro col furgone a cercare il ferro. Remi è un
meccanico senza officina: aspetta che qualcuno gli porti una macchina da aggiustare.
Brenda vorrebbe un lavoro, ma è senza documenti: è nata in Italia, non ha la nazionalità.
Né ha quella del suo Paese di origine, il Montenegro, che l'ha "scancellata", come dice lei.
Sasha, Diego, Marta, Cruis vanno a scuola "tutti i santi giorni". Ma non arrivano mai in
tempo: il campo è a chilometri di distanza, il pulmino fa ritardo e rimane spesso
imbottigliato nel traffico. Quando capita che qualche maestra sbuffi, provano a spiegare
che non è colpa loro.
I ghetti fisici e quelli mentali. "Mostrare la vita in un campo attrezzato - dice ZaLab a
nome degli organizzatori del "Roma Sinti Fest" - significa evidenziare le contraddizioni di
un meccanismo, ormai istituzionalizzato, che da anni forza i rom a porsi in situazioni di
conflitto con gli altri cittadini". I ghetti in cui confiniamo i rom delle città italiane non sono
solo quelli fisici, fuori dal Grande Raccordo Anulare. Ci sono anche quelli mentali.
Secondo l'Eurobarometro, solo il 7% degli italiani risponde positivamente alla domanda:
"Sei disponibile ad avere amici rom?". È uno dei valori più bassi in tutta Europa. L'iniziativa
al Nuovo Cinema Aquila può aiutarci a ricordare chi sono i rom e sinti in Italia: pochi, la
metà italiani, tutti non più nomadi, più della metà ragazzini (il 40% in età scolare).
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http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2015/03/13/news/festa_sinti-109429272/
Da Redattore Sociale del 13/03/15
Una maratona di film e parole sulla cultura di
rom, sinti e caminanti
Il "Roma Sinti Fest", organizzato a Roma da Zalab, si svolgerà il 14
marzo. Proiezioni di documentari, film, concerti e dibattiti, per
conoscere la storia e riflettere sull’attuale condizione sociale. Tra gli
ospiti Moni Ovadia, Andrea Segre, Christian Raimo e Stefano Liberti
ROMA - Una giornata dedicata alla cultura, alla storia e alla condizione sociale di rom, sinti
e caminanti. Arriva al Nuovo cinema Aquila di Roma il “Roma Sinti Fest”, che dalle 15 alle
24 di sabato 14 marzo, ospiterà la programmazione continua di film e documentari italiani
e stranieri, dedicati al tema.Tra le sale e il foyer del cinema si svolgeranno inoltre, dibattiti
e interventi informativi, per riflettere sulla situazione attuale di una popolazione che vive ai
margini della società. Non mancheranno poi l’intrattenimento, la musica, il teatro. Tra gli
interventi previsti quelli dei Dynamis, Moni Ovadia, Andrea Segre, Christian Raimo e
Stefano Liberti.
L’evento prenderà il via dalle 15. Molti i film e i documentari che verranno proiettati durante
tutta la giornata alla presenza degli autori. Tra questi “Container 158” di Stefano Liberti ed
Enrico Parenti, “FuoriCampo” di Sergio Panariello, “Lo sterminio dei Popoli Zingari” di
Andrea Segre, “Rom Tour” di Silvio Soldini e Giorgio Garini, “Terrapromessa” di Marco
Leombruno e Luca Romano. Saranno inoltre visibili i videoclip di Mannarino e Nuove Tribù
Zulu girati nei campi o in collaborazione con musicisti rom, un videointervento di Moni
Ovadia, e il video vincitore del concorso di video e scrittura “ROMpiamo PreGiudizi”,
diretto ai ragazzi sino a 21 anni, scelto da una giuria composta da rappresentanti di
Amnesty International, Asgi, Associazione 21 Luglio, My Movies, attivisti, giornalisti e
personalità della cultura, spettacolo e informazione. Al vincitore verrà consegnata un’opera
dello scultore Paolo Camiz.
Spazio anche al dibattito nel foyer, dove si svolgerà la tavola rotonda “Oltre i campi
attrezzati – buone pratiche per il superamento della segregazione abitativa”, a cui
parteciperanno il sindaco di Alghero Mario Bruno, il consigliere del Comune di Roma
Riccardo Magi, Manuele Hadzovic, abitante nel campo di Alghero, gli attivisti Sabrina
Milanovic, Nedzad Husovic e Roberto Mazzoli, ricercatore sociale. Modera Carlo Stasolla,
presidente di associazione 21 Luglio. Sempre nel foyer si svolgeranno anche una
performance dei Dynamis, una lettura di Christian Raimo, la presentazione del libro
“Derive - Piccolo mosaico del disumano” di Flore Murard-Yovanovitch ed infine un buffet
preparato dalle donne rom in collaborazione con Popica Onlus.
In serata, a partire dalle 20.00 si svolgerà la presentazione di “Just the wind” di Benedek
Fliegauf, vincitore del Premio Lux, e di “Spartacus and Cassandra” di Ioanis Nuguet, in
collaborazione con Alice nella Città. A chiusura, proiezione di “Gadjo Dilo” di Tony Gatlif e
concerto del musicista rom di origine serba Jovica Jovic. In contemporanea My Movies
Live trasmetterà in streaming gratuito nazionale il documentario Container 158 di Stefano
Liberti ed Enrico Parenti. L’iniziativa sostiene la petizione “Oltre I Mega-Campi” promossa
congiuntamente da Associazione 21 Luglio e ZaLab per il superamento della politica
ghettizzante e dei Campi attrezzati.
Il “Roma Sinti Fest” è organizzato da ZaLab in collaborazione con Associazione 21 Luglio,
con la partnership di Amnesty Italia, Redattore Sociale, MyMovies, OsservAzione, ASGI,
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Arci Roma, Left, Radio Città Aperta, Alice Nella Città, Popica onlus, il patrocinio di
Consiglio d’Europa – ufficio di Venezia, Roma Capitale e Premio Lux ed il sostegno di
Open Society Foundations e Banca Etica.
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ESTERI
del 13/03/15, pag. 10
Libia, accordo fra partiti
“Tutti uniti contro l’Isis”
Successo del vertice di Algeri: 10 punti per la pace Anche i Fratelli
musulmani firmano il documento
Guido Ruotolo
Non era mai successo prima. Nella Libia del dopo Gheddafi non si erano mai incontrati.
Due elezioni «democratiche», nel 2012 e 2014, e mai che si fossero trovati neppure a
prendere un caffè insieme. Miracolo di Bernardino Leon, delegato speciale delle Nazioni
unite, che è riuscito a mettere tutti i partiti libici attorno allo stesso tavolo, con l’aiuto del
governo algerino che ha ospitato il meeting nella capitale Algeri.
E se il clima favorevole ha prodotto dopo due giorni di discussione l’approvazione di un
documento, in cui si elencano dieci priorità da affrontare, adesso dovremo aspettare che
Leon incontri per la prima volta le milizie e i capitribù per capire se il dialogo ha delle
possibilità di produrre fatti nuovi, concreti. Se, insomma, possiamo sperare che la Libia
torni quanto prima ad essere un paese «sotto controllo».
In questo ping pong di speranze e delusioni, ottimismo e pessimismo, anche se le armi
non hanno mai taciuto neppure in queste ore, l’approvazione dei partiti di un documento
unitario rappresenta un fatto nuovo, importante. Almeno oggi il barometro segna sereno,
anche se tutti sono consapevoli che la strada è ancora in salita.
No a interferenze straniere
I dieci punti sottoscritti da tutti i partiti, anche dai Fratelli Musulmani, sono un manifesto
contro il terrorismo e la violenza. Alle richieste di far cessare l’uso delle armi, come «il
pieno rifiuto della escalation militare, l’immediata cessazione delle operazioni militari in
modo di permettere al dialogo di proseguire in modo proficuo», seguono le enunciazioni di
principio: «Ci impegniamo perché il processo politico si basi sui principi della democrazia e
del pacifico trasferimento dei poteri. Riaffermiamo la necessità di proteggere l’unità
nazionale del territorio, l’indipendenza e la sovranità, così come il controllo totale dei suoi
confini interni e il rifiuto di ogni interferenza straniera».
Lotta all’integralismo
Mentre ad Algeri si respirava aria di tregua, lo sforzo di trovare una soluzione alla crisi, a
Tripoli i tagliagola dell’Isis si facevano sentire con un’attentato a un commissariato di
polizia. Prima l’albergo Corinthya, poi l’autobomba davanti la residenza dell’ambasciatore
iraniano. Adesso le forze di polizia.
Una minaccia, quella dell’Isis, che i partiti leggono in maniera unitaria: «Il deterioramento
della sicurezza in Libia pone in serio pericolo la stabilità del Paese, così come la sua unità
e coesione sociale». I nemici da battere sono Ansar al Sharia, Isis, Al Qaeda. E bisogna
agire subito prima che l’integralismo islamico, il terrorismo, mettano radici.
Le altre priorità sono il disarmo e lo scioglimento delle milizie (individuando proposte di
lavoro alternative per le reclute). E un governo dei tecnici con «personalità competenti».
Nel documento si fa riferimento anche a un piano per la riorganizzazione delle forze
armate e della polizia nel Paese.
Intanto si muove anche la diplomazia internazionale. Leon, il delegato speciale delle
Nazioni Unite, la prossima settimana incontrerà capitribù e milizie. Incontri davvero
risolutivi per capire la piega che prenderà la crisi libica. È come se oggi il nemico
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principale della pace sia soprattutto la fretta. Insomma, il tempo non gioca certo a favore
della soluzione della crisi.
del 13/03/15, pag. 14
«A Tikrit l’Isis ha usato bombe al cloro»
Nuove minacce all’Occidente: «Faremo esplodere Casa Bianca, Big Ben
e Torre Eiffel»
Bombe artigianali al cloro e un diciottenne australiano convertito all’Islam spinto a
«immolarsi» come kamikaze: sono le armi più recenti utilizzate dallo Stato islamico (Isis) in
Iraq. Che ieri sera è tornato a lanciare minacce altisonanti: «Se l’Occidente e gli Stati Uniti
vogliono le roccaforti dell’Isis, l’Isis vuole Parigi, Roma e l’Andalusia, dopo aver fatto
esplodere la Casa Bianca, il Big Ben e la Torre Eiffel», ha detto in un audio-messaggio il
portavoce dello Stato islamico, Abu Muhammad al Adnani.
L’utilizzo delle armi chimiche, non letali, è stato denunciato dai portavoce militari iracheni a
Bagdad. I giornalisti locali al seguito delle truppe e le milizie sciite impegnate nella
battaglia per Tikrit hanno filmato colonne di fumo giallo-arancione sprigionarsi da alcune
bombe sparate da Isis. Anche la Bbc lo documenta sul suo sito web. «Abbiamo avvertito
bruciori alla gola e difficoltà di respirazione. Per fortuna siamo stati raccolti da
un’ambulanza», raccontano alcuni ufficiali. In realtà gli effetti del gas sono minori —
offuscamento temporaneo della vista, tosse, conati di vomito, fastidi polmonari — e,
sembra, molto difficilmente mortali. Il cloro è usato in piccole quantità, le bombe esplodono
al suolo, presto le nubi si dissolvono al vento. Tuttavia, ciò potrebbe costituire la prova che
Isis in qualche modo si è impadronito degli agenti chimici e delle bombe per spararli. Già
due anni fa era cresciuto il sospetto in Siria che le milizie jihadiste si fossero appropriate di
alcuni depositi di ordigni non convenzionali dell’esercito di Assad (il quale a sua volta le
armi chimiche le aveva utilizzate con effetti letali). Un’altra fonte di approvvigionamento
per Isis potrebbero confermarsi i vecchi depositi di Saddam Hussein.
Si combatte nel frattempo per la conquista del centro di Tikrit, dove le colonne armate agli
ordini di Bagdad assieme alle «Hashid Shaab» (le milizie sciite di mobilitazione popolare)
e i corpi scelti dell’esercito iraniano sono arrivati già mercoledì mattina dopo una
campagna durata quasi due settimane. Gli scontri ieri restavano complicati dalle autokamikaze, i cecchini e le cariche esplosive organizzati da Isis. È guerra dura attorno ai
vecchi palazzi presidenziali, tra i più lussuosi di Saddam sulle sponde del Tigri. Il capo di
stato maggiore americano, generale Martin Dempsey, conferma che le forze Usa non
sono coinvolte direttamente nella battaglia, ma mette in allarme sul rischio che le milizie
sciite attacchino la popolazione sunnita. Isis cerca di diversificare le battaglie. La regione
sunnita tra Ramadi e Falluja è interessata dalla recrudescenza delle auto-bomba guidate
da kamikaze. Uno di questi mercoledì sarebbe stato Jake Bilardi, un giovane australiano
convertito all’Islam e assoldato tre le file di Isis sin dall’agosto scorso. La macchina della
propaganda jihadista ora mostra la sua foto e quella del suo veicolo bianco ripreso poco
prima di saltare in aria con la scritta ben evidente sulla carrozzeria del suo nome di
battaglia: Abu Abdullah al Australi.
Lorenzo Cremonesi
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del 13/03/15, pag. 14
Il buio è calato sulla Siria In 4 anni di guerra
civile si è spento l’83% delle luci
Le Ong accusano Damasco e i Paesi Onu: in milioni a rischio fame
C’è il buio nell’anima e il buio nelle strade. La Siria, da quattro anni in guerra con se
stessa, è un Paese nelle tenebre. La conferma, se ce n’era bisogno, viene dalle immagini
satellitari raccolte e analizzate da uno scienziato cinese, il dottor Xi Li dell’Università di
Wuhan. Dal 2011, anno in cui la fiamma della rivolta si accese a Dar’a, ad oggi, l’83 per
cento delle luci della Siria si è spento: in tutte le province del Paese, i livelli di illuminazione
notturna sono diminuiti drasticamente, con punte massime ad Aleppo (97%), Idlib (96%),
Dei ez-Zor (90%), Hama e Homs (entrambe 87%). I lampioni di Damasco sembrerebbero
resistere al «blackout»: l’illuminazione notturna in città è calata «solo» del 33 per cento.
Ma il dato è fuorviante. Perché in alcuni quartieri e sobborghi, considerati roccaforte
dell’opposizione, l’oscurità è totale.
L’ennesimo grido d’allarme, alla vigilia di quel 15 marzo in cui tutto cominciò quattro anni
fa, è stato lanciato ieri dalla Coalizione #WithSyria, formata da 130 organizzazioni
umanitarie tra cui Amnesty international, Oxfam e Save the Children, che hanno diffuso in
Rete il video Afraid of the dark e una petizione ai leader del mondo per porre fine al
conflitto e aumentare gli aiuti ai civili.
I numeri sono agghiaccianti. Ad oggi sono 220.000 i morti nel conflitto, fra cui migliaia di
bambini, e 12,2 milioni di siriani — due terzi della popolazione — hanno bisogno di aiuti
d’emergenza. Di questi, 4,8 milioni sono imprigionati in aree «difficilmente raggiungibili»
dalle organizzazioni umanitarie. Senza contare i 4 milioni di profughi ammassati nei Paesi
confinanti, ormai considerati personae non gratae , da rispedire in fretta a casa o altrove.
Oltre i numeri, c’è il destino di un popolo che non vede alcuna luce in fondo al tunnel. Se il
2014 è stato l’ annus horribilis per i civili siriani, bersaglio inerme sia delle forze
governative che dei ribelli e dell’Isis, il futuro si preannuncia nerissimo. «Il quarto anno di
crisi in Siria è stato finora il peggiore, con un aumento del 30% delle persone in situazioni
d’emergenza. Il quinto anno porterà solo altre sofferenze se non agiamo, efficacemente,
subito», concorda Christos Stylianides, Commissario agli aiuti umanitari dell’Unione
Europea, che si è distinta come leader fra i donatori internazionali. «La nostra principale
preoccupazione è raggiungere la popolazione che ha un disperato bisogno di assistenza, il
che è diventato sempre più difficile a causa delle crescenti restrizioni imposte dai
belligeranti». Nonostante le tre risoluzioni approvate lo scorso anno dal Consiglio di
sicurezza dell’Onu, l’accesso alle aree di crisi e spesso anche ai valichi di frontiera è infatti
diventato off-limits per gli operatori umanitari.
L’agonia del popolo siriano sembra diventata un problema troppo grande da affrontare, o
troppo poco importante. E’ la denuncia lanciata dal rapporto «Failing Syria», redatto da
Oxfam, Save the Children e altre organizzazioni umanitarie, che chiama in causa
direttamente le grandi potenze. Da un lato per la riduzione dei finanziamenti agli aiuti
umanitari: se nel 2013 è stato infatti stanziato il 71% del budget necessario per sostenere i
civili all’interno della Siria e i rifugiati nei Paesi vicini, nel 2014 questa percentuale è scesa
al 57% e nulla fa ben sperare per l’anno in corso. Dall’altro, ed è politicamente ancor più
grave, le Ong mettono gli Stati dell’Onu sul banco degli imputati per la loro ipocrisia: «Più
del 90% delle armi presenti in Siria sono prodotte in Paesi che sono membri permanenti
del Consiglio di Sicurezza, in particolare la Russia — si legge nel rapporto —. Gli Stati
Uniti hanno fornito armi e munizioni a gruppi dell’opposizione armata e la Francia ha
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espresso la volontà di fare altrettanto. Si rileva inoltre un flusso continuo di munizioni e
armamenti pesanti dall’Iran al governo siriano e dagli Stati del Golfo a vari gruppi di
opposizione».
Chi scappa — dalla fame, dalle bombe, dall’arruolamento forzato, dagli stupri utilizzati
come strumento di guerra — cercando salvezza oltre confine, ormai trova le porte
sbarrate. Giordania, Turchia e Libano, sommersi dalle ondate di profughi, hanno
drasticamente inasprito le loro politiche d’accoglienza. I Paesi occidentali, da parte loro, ne
hanno accolti finora poco più di 80.000.
Del 13/03/2015, pag. 16
SIRIA, LA GUERRA DIMENTICATA E LA
STRAGE DEI CAMICI BIANCHI
QUARTO ANNIVERSARIO DEL CONFLITTO: 600 MEDICI UCCISI DA BOMBE E
CECCHINI 4, 8 MILIONI DI SFOLLATI SOPRAVVIVONO FRA PROSTITUZIONE E
LAVORO MINORILE
Il quarto anniversario del conflitto siriano è stato, ancora una volta, un giorno di sangue e
lutto. Un’autobomba è scoppiata a Homs uccidendo quattro persone e ferendone una
quindicina. Almeno 50 civili sono rimasti uccisi nel nord-ovest della Siria in violenti scontri
tra le forze del regime di Bashar al-Assad e i ribelli. Mentre inizia il quinto anno della più
sanguinosa guerra civile dell’epoca contemporanea, la situazione dei milioni di rifugiati
interni e nei paesi limitrofi è sempre più disperata. La denuncia arriva dall’Alto
Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. António Guterres ha poi spiegato che per
“la peggiore crisi umanitaria del nostro tempo dovrebbe scattare in realtà un grande
supporto globale, invece il sostegno sta diminuendo”. In assenza di una soluzione politica
nel paese, per i circa 3, 9 milioni di profughi siriani rifugiati in Turchia, Libano, Giordania,
Iraq ed Egitto non sembra esserci possibilità di tornare a casa. Mentre sono 4, 8 milioni i
siriani sfollati all’interno del proprio paese e più di 212. 000 di loro si trovano nelle zone di
combattimento sotto assedio. “Molti rifugiati vivono in condizioni disumane – ha proseguito
Guterres – dopo anni di esilio hanno esaurito i loro risparmi e sempre più rifugiati cercano
di sopravvivere con l’accattonaggio, la prostituzione o attraverso il lavoro minorile mentre
molti tentano di fuggire in Europa rischiando la vita attraverso pericolosi percorsi via terra
o mare”. UNA DENUNCIA ancora più circostanziata contro l’indifferenza della comunità
internazionale e l’inconsistenza dell’Onu è quella contenuta in un rapporto intitolato Il
colpevole fallimento in Siria. Lo hanno stilato ben 21 organizzazioni per la difesa dei diritti
umani, tra le quali Oxfam, Save the Children, International Rescue Committee, World
Vision e il Norwegian Refugee Council che accusano il Consiglio di Sicurezza di aver
“fallito” nell’attuazione di tre risoluzioni approvate lo scorso anno per alleviare le sofferenze
dei civili siriani. Quello passato, affermano, è stato “l’anno peggiore” per i civili dal 2011.
Le tre risoluzioni sono state “ignorate o indebolite dalle parti in conflitto, da Paesi membri
dell’Onu e persino dai membri dello stesso Consiglio di Sicurezza”, si legge nel dossier.
Insomma, questo orribile conflitto che ha già causato la morte di almeno 200 mila persone,
è ormai cronicizzato e pertanto non desta più l’attenzione né dei media né dei principali
attori internazionali. Tutti sembrano essere rassegnati o incapaci di trovare una soluzione.
Solo la Russia e l’Iran continuano a lavorare strenuamente per mantenere al potere il loro
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stretto alleato, il presidente Bashar al Assad, il quale, dalla comparsa dell’Isis nel suo
Paese sembra essere diventato il meno “cattivo”. Ma non è così. Proprio ieri l’associazione
umanitaria Physician for Human Rights, ha pubblicato un dato da far accapponare la pelle:
dall’inizio del conflitto sono stati uccisi 600 tra medici e infermieri in attacchi e
bombardamenti deliberati da parte delle forze leali ad Assad. CIOÈ SIGNIFICA che sul
totale, l’ 88 % degli attacchi contro il personale sanitario sono stati ordinati dal presidente
siriano. Non solo, l’uso dei barili esplosivi e di bombe a base di acido cloridrico, sempre da
parte dell’esercito regolare siriano, durante tutto il 2014, hanno reso il conflitto ancora più
“sporco” e disumano.
del 13/03/15, pag. 1/18
Tra quattro giorni il paese è chiamato al voto Il premier del Likud ha
scommesso tutto sulla sfida a Obama contro il negoziato con l’Iran. Ma
Herzog e la Livni alleati
sotto la bandiera dell’Unione sionista guadagnano consensi puntando
sui problemi sociali. E nessuno parla del conflitto con i palestinesi
Tra i seguaci di Netanyahu che ora temono le
urne . La sinistra di Israele torna a sognare la
vittoria
BERNARDO VALLI
GERUSALEMME
PER farsi rieleggere dagli israeliani, Benjamin Netanyahu ha sfidato il presidente
americano. Fantasia e audacia non sono mai mancate al primo ministro. Usando quei forti
lati del suo carattere, ai quali deve gran parte del lungo potere, adesso ha dato
un’impronta internazionale al voto nazionale di martedì prossimo. L’idea non tanto
occultata era di ridurre l’elezione a un referendum sulla propria persona. Il successo non
poteva mancare al garante della sicurezza, pronto a far fronte all’alleato americano tratto
in inganno dagli ayatollah di Teheran, occupati nelle intenebrate centrali nucleari a
preparare una minaccia “esistenziale” contro Israele. Ma, a quattro giorni
dall’appuntamento, il terzo mandato come primo ministro appare molto più incerto per
Benjamin Netanyahu. Gli oppositori si stanno rivelando assai meno insignificanti di quel
che pensasse. Al centrosinistra, giudicato tanto innocuo, gli ultimi pronostici assegnano
più seggi alla Knesset, il Parlamento, di quelli attribuiti al Likud. Nelle sedi del grande
partito di destra si avverte un certo smarrimento. L’euforia tradizionale si è smorzata.
Anche se poi ci si affida alla scarsa credibilità delle inchieste d’opinione per ritrovare un
po’ di ottimismo. In effetti sbagliano spesso. Se il suo partito perde terreno, personalmente
Netanyahu resta comunque il leader che raccoglie più consensi, per ora virtuali.
Nel progettare la campagna elettorale, Barack Obama è apparso a Netanyahu il solo vero
avversario da sfidare. E se l’è costruito su misura: un avversario estraneo alla prova
elettorale, ma ben presente nell’essenziale problema della sicurezza di Israele. Gli
avversari locali, almeno in un primo tempo, non gli sono sembrati degni di un’attenzione
esclusiva. Il laburista Isaac Herzog, capo della principale coalizione nemica, dava
l’impressione di non voler esibire il nome del proprio partito troppo impopolare. Per questo
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lo si descriveva nascosto dietro una vaga Unione sionista, sigla patriottica e mimetica
creata per l’occasione.
Herzog? Un cognome prestigioso. Nipote di un grande rabbino. Figlio di un presidente
della Repubblica. Nipote di un famoso ministro degli Esteri, Abba Eban. Ma un
personaggio di 54 anni senza carisma: l’aria di un secchione, la voce chioccia, la faccia di
un ragazzo, pessimo oratore. Un fastidio, non un pericolo.
Nella scelta del vistoso antagonista fuori competizione deve avere pesato il fatto che
l’attuale inquilino della Casa Bianca non susciti molte simpatie nello Stato ebraico, benché
egli sia il capo della grande nazione alleata e protettrice di Israele. Un personaggio
potente conferisce prestigio a chi osa affrontarlo. È un rischio, ma consente di evadere
dall’insidiosa area della politica interna. Di abbattere i confini di una campagna elettorale
che dà risalto a scandali e insuccessi economici.
Ma oltre alla fantasia e all’audacia, Benjamin Netanyahu ha anche il senso del dramma,
ha la capacità di scavare nei profondi sentimenti dei connazionali, tra i quali occupa uno
spazio particolare il problema della sicurezza, motivato dalla storia e dall’agitato presente
mediorientale. E ha quindi enfatizzato la minaccia esterna, che rende appunto trascurabili i
fastidiosi fatti interni dei quali deve rispondere come primo ministro durante due mandati.
In tutto per nove anni.
La grande minaccia è l’Iran, che preparerebbe l’arma nucleare. Barack Obama, l’ingenuo,
vale a dire l’incapace, crede nella sincerità degli Ayatollah che auspicano puntualmente la
distruzione di Israele, e si prepara a concludere un accordo con Teheran prima della fine
del mese. Un’intesa che impegnerebbe l’Iran a limitarsi al nucleare per uso civile, ma che
già da adesso, prima di essere raggiunta, non va presa sul serio vista l’inaffidabilità dei
discepoli di Khomeini. Grazie all’invito dei repubblicani, maggioritari nel Congresso e
decisi oppositori del presidente, Netanyahu ha potuto esprimersi a Washington, con
l’azzardata convinzione che si trattasse di una lite in famiglia, e non di un rischio per il
privilegiato ed essenziale rapporto tra Stati Uniti e Israele. E ha detto in sostanza che
Barack Obama è appunto un ingenuo, o un incapace. Aggettivi che ovviamente si è ben
guardato dal pronunciare. Anzi, nella forma è stato cauto. Bastava la sua presenza,
ufficialmente sgradita dalla Casa bianca, e il tono del suo discorso, in aperta opposizione
alla politica del presidente, per rendere chiara la sfida.
Per la sua storia e la sua posizione, Israele attira un’attenzione spropositata rispetto alle
sue dimensioni. Un’attenzione con aspetti che vanno dalla geopolitica alla morale. Dalla
solidarietà dovuta alla memoria alle ondeggianti passioni sollecitate dagli avvenimenti. Ne
sono la prova i riconoscimenti simbolici dello Stato palestinese votati da democrazie
occidentali, con la premessa che debba essere garantita l’incolumità e l’integrità dello
Stato ebraico. Gli israeliani si lamentano di questi ossessivi sguardi puntati su di loro. Al
tempo stesso, secondo i casi, capita che non siano tanto disturbati, se non proprio
lusingati, da tanta premura.
L’elezione del 17 marzo non è esente da quei sentimenti, ma si distingue in parte per
l’impronta internazionale che il primo ministro le ha dato. Oltre a rivelarci quel che più
conta, cioè gli essenziali dati dello scrutinio riguardante gli undici partiti in gara, il risultato
di martedì sera ci dirà se a spuntarla sia stato lo sfidante di Gerusalemme o lo sfidato di
Washington. La sconfitta di Netanyahu sarà un successo (non gridato) di Obama. E in tal
caso per quest’ultimo risulterà meno tormentato arrivare, entro fine mese, a un accordo
con l’Iran sul problema nucleare. Vale a dire alla conclusione di una delle più difficili e
lunghe trattative nella storia della diplomazia. E quindi a una delle più rilevanti imprese
finora portate a termine da Obama nei suoi due mandati. E non sono tante.
Non trascurabili saranno le conseguenze in Medio Oriente dove la coalizione organizzata
dagli americani cerca a stento di contenere l’espansione dello Stato islamico in Siria e in
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Iraq. E dove le milizie sciite comandate da generali iraniani hanno un ruolo decisivo, come
truppe di terra, con l’appoggio inevitabile (anche se non ufficiale) dell’aviazione americana
e quella dei reticenti alleati sunniti. Netanyahu, come del resto l’Arabia saudita, teme un
recupero dell’Iran da parte degli Stati Uniti.
Non ha del tutto torto quando punta l’indice contro l’Iran degli ayatollah, da dove si alzano
puntuali minacce contro lo Stato ebraico. Ma non propone un’alternativa seria al negoziato
condotto dagli americani. Le sanzioni hanno dato scarsi risultati e sull’opportunità di un
intervento militare avanzano seri dubbi generali e uomini dell’intelligence israeliani. Per
loro la minaccia iraniana non è scontata e sarebbe comunque prevedibile e contenibile nel
caso dovesse rivelarsi concreta.
E se vincesse Netanyahu? Se uscisse dalle urne per la terza volta capo del governo, sia
pure un governo raffazzonato, di coalizione? Quando ha sciolto il Parlamento in anticipo
era convinto di farcela. Adesso un po’ meno. Dopo qualche settimana di comizi e riunioni
la voce di Isaac Herzog si è rafforzata. È meno acuta. Più incisiva. Lui si muove con
agilità. Non come un intellettuale impacciato. C’è chi gli riconosce un certo carisma. Per
alcuni ricorda Levi Eshkol, a lungo primo ministro negli agitati anni Sessanta: un
personaggio evocato con grande rispetto anche per la sua semplicità un tempo scambiata
per esitazione.
L’Unione sionista non appare più una formula dietro la quale il partito laburista nasconde
l’impopolarità e la lunga decadenza. Ha via via assunto una fisionomia. Il richiamo al
sionismo non è un ricorso al nazionalismo, ma un richiamo al carattere sociale del
movimento, fino alla svolta liberista degli anni Settanta, quando arrivò al potere la corrente
di destra (detta “riformista”). Insomma, dice il deputato Stav Shaffir, animatore delle
rivendicazioni del 2011, il sionismo va inteso anche come formula sociale. Come una
politica di sinistra contro la disuguaglianze, l’aumento dei prezzi, in particolare degli affitti,
in favore delle classi colpite dalla crisi. La quale non ha risparmiato Israele, benché la
disoccupazione sia bassa come quella tedesca.
Non è sotto l’ala dei repubblicani americani, sbandierando la minaccia iraniana al
Congresso di Washington, che Benjamin Netanyahu può nascondere gli insuccessi
economici dei suoi anni di governo. Negli Stati Uniti, appoggiandosi sull’opposizione a
Barack Obama, il primo ministro mette soltanto a rischio l’alleanza con l’America. Questo
dice l’Unione sionista. Adesso sempre più ascoltata. Nelle riunioni si ricorda che
Netanyahu ha l’appoggio incondizionato di Sheldon Adelson, miliardario americano
proprietario di casinò e finanziatore in patria delle campagne repubblicane. Adelson gli
paga il giornale gratuito Israel Hayom , definito a Tel Aviv la “Pravda del primo ministro”. È
anche per evitare una legge che avrebbe proibito la diffusione gratuita di Israel Hayom, al
fine di non danneggiare la vendita degli altri quotidiani, che si sarebbe arrivati allo
scioglimento anticipato della Knesset. Dopo cinque anni di paralisi del processo di pace
nessuno parla del problema palestinese, né della sorte di Gerusalemme, né dei territori
occupati, né si affronta sul serio il conflitto interno tra laici e religiosi. È con desolazione
che un deputato laburista enumera i problemi essenziali trascurati anche dal suo partito.
Che però ha un attenuante: non si dichiara contrario al processo di pace. E la presenza
nell’Unione sionista della centrista Tzipi Livni, a lungo sfortunata animatrice del processo
di pace, apre qualche timido spiraglio. Ma è singolare la posizione di alcuni palestinesi di
Ramallah, i quali si augurano la vittoria della destra israeliana. E spiegano la loro
posizione dicendo che almeno la destra al potere è criticata dai paesi occidentali, mentre
la sinistra (ad eccezione di Meretz, a loro avviso rappresentante la sola vera sinistra), pur
comportandosi allo stesso modo, riscuote simpatia.
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del 13/03/15, pag. 40
La grande armata
Un solo esercito europeo con tanto di comandi e reparti unificati.
Juncker ha lanciato l’idea, Merkel è d’accordo, gli Stati maggiori sono in
fermento Ma la realtà sono anche i caccia che non decollano e i tank
che si inceppano Ecco i numeri di una sfida
COME all’apice della guerra fredda, si addestrano ancora insieme tra la pianura di Fulda, i
fiordi norvegesi e la Sardegna, i nostri bersaglieri, i legionari francesi, i Panzergrenadiere
tedeschi, ma sono sempre di meno, e a fronte di americani britannici e canadesi fanno
figuracce: mancano mezzi munizioni e tempo di training per imparare a uccidere ipotetici
aggressori, i jet in panne non decollano, i carri armati sono in riparazione, i fucili
s’inceppano, mancano intelligence, radar e armi da cyberwar per combattere al buio. I
soldati tedeschi addirittura, in omaggio al rigore merkeliano, a volte fanno “bum bum” o
“rattattatà” imitando fucili, cannoni e mitra con la voce. Da Kiel a Palermo, i caccia in grado
di decollare su allarme in ogni attimo e non fermi per eterne riparazioni sono ben pochi.
Eccola, l’Europa militare di oggi: un nano, più ancora che in politica. Generali e ammiragli
disperati, politici a corto d’idee e di soldi: come vuoi contare così nel mondo, davanti alle
aggressioni di Putin, ad America e Cina assertive e superarmate, ad arsenali agguerriti
d’India o Brasile? Basta, dicono i tedeschi spalleggiati da Jean-Claude Juncker: facciamo
in corsa l’unione europea della Difesa. Insomma, un euro e una Bce con le stellette, forze
armate europee. La proposta scuote governi e Stati maggiori, e rappresenterebbe una
svolta dopo 25 anni di addio alle armi dopo il crollo del gigante sovietico. Bentornato
riarmo, riecco i rischi di guerra, avvertiva The Economist pochi giorni fa. E allora, ha detto
Juncker: o l’Europa sarà anche militare o non sarà mai unione politica né potenza. «Ha
ragione, il tema è serio e urgente», ha subito fatto eco la cancelleria. «Bisogna pensarci
con impegno», ha aggiunto il ministro degli Esteri spd Frank-Walter Steinmeier. Il sasso è
lanciato nello stagno: ci vorrà un Mario Draghi futuro comandante in capo di forze armate
europee, pazienza se spesso litigherà con Berlino o sgriderà la Grecia. Non c’è tempo per
il dubbio, avvertono strateghi della Bundeswehr o del comando Nato, le minacce sono alle
porte: a est e nei cieli, coi bombardieri atomici Tupolev intrusi muti sulla rotta d’atterraggio
di Londra-Heathrow a rischio di collisioni e stragi in cielo, poi le guerre ibride russe in
Ucraina, e magari domani contro i Baltici e la Moldavia, l’Is a breve tempo di volo da
Lampedusa o Reggio Calabria e con i foreign fighters tra noi. «Minacce troppo più vicine
dell’ombrello d’un’America sempre più lontana da noi nella mente». I conti del gap con
Mosca e gli altri Grandi sono da shock, dicono anonimi gli esperti militari tedeschi e della
Nato. Se escludiamo Royal Air Force, Royal Navy e corpi speciali britannici, l’Europa —
paesi Nato “militarmente attendibili” cioè Italia Germania, Francia, Polonia, Olanda, Belgio
più le neutrali Svezia e Finlandia — conta su circa mille jet, ma molti vecchi, non operativi,
sempre scassati, un migliaio di carri armati di troppi modelli diversi, una collezione di
marine costiere o poco più. Putin ha 1500 supersonici, migliaia di panzer, divisioni e
divisioni di parà e corpi speciali, una flotta oceanica, senza parlare dell’arsenale nucleare.
E che dire dei sogni vuoti di sovranità militare della Francia, la cui unica portaerei, la
Charles de Gaulle, è più spesso in riparazione che in missione? Bilanci al minimo, e casi
estremi: in Germania, denuncia Der Spiegel , al massimo una trentina di jet è sempre
operativo tra caccia Eurofighter e bombardieri Tornado, mentre all’Eliseo desideroso
d’intervenire in Siria per fermare i massacri i capi dell’Armée de l’Air spiegarono «monsieur
le président, Assad ha tre volte più aerei di noi». E il male assoluto è un altro: tanti piccoli
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eserciti, come i piccoli indiani di Agatha Christie. Ognuno comanda e obbedisce nella sua
lingua, ognuno ha le sue armi di produzione gelosamente nazionali, incompatibili per
ricambi comunicazioni e tutto l’una con l’altra: tre tipi di caccia (Eurofighter, Gripen,
Rafale), quattro tank (Leopard, Challenger, Ariete, Leclerc), ciascuno le sue fregate e
corvette. Piccole produzioni, troppo costose per avere abbastanza armi, troppo diverse per
minacciare insieme di usarle. E tutti, tranne il Regno Unito, i polacchi e i baltici, hanno
tagliato le spese per l’intelligence e la cyberwar internettiana. Benvenuto rigore, sul lavoro
giovanile come in uniforme. Realtà disastrosa, e davanti alla minaccia di Putin di prendere
la Polonia in 15 giorni e dell’Is di arrivare a Roma, la paura monta. Il piano Merkel-Juncker
è chiaro, ma chiede una rivoluzione copernicana: comando unico, reparti unici o congiunti,
armi uguali per tutti scelte insieme. La Bce della Difesa, appunto, come un euro in divisa,
uniti e meno deboli che non con armate e valute nazionali.
Rivoluzione copernicana necessaria, dicono gli staff di Merkel e Juncker. Illusione, ribatte
Gilles Merrit dell’istituto “Amici dell’Europa”: «Purtroppo se ne parla invano da 60 anni, nel
‘54 fu Parigi a bocciare l’Unione della Difesa». Pessimismo in Germania: «Cameron ha
detto che non vuole le forze armate europee, dietro di lui francesi, tedeschi e altri, gelosi di
sovranità-liliput, poltrone e piccole linee di produzione di armi si nascondono», osserva
Markus Kaim del think tank Swp di Berlino. Molti, troppi punti non sono chiari, notano qui
fonti diplomatiche di paesi scandinavi e del centro-est. Forze armate europee credibili di
fronte a Russia, Cina, Usa e ai Grandi di domani dovrebbero dividersi i compiti senza
pietà: magari a inglesi italiani e polacchi la difesa aerea, ai tedeschi i reparti corazzati,
marina e intelligence elettronico divise tra Londra e gli olandesi, e così via. E chi avrebbe
la sovranità sulle 500 atomiche ora in mano (200 moderne) a Downing Street e (300
obsolete) all’Eliseo dove forse traslocherà Marine Le Pen? E quante industrie urleranno,
perché un caccia, un tank, una fregata del vicino sarà preferito al proprio?
Bando ai distinguo, il tempo stringe, insistono gli ottimisti a oltranza della Bce della Difesa.
Urge pensare subito ai sistemi d’arma comuni, al comando comune, alle lingue comuni
con cui capirsi in reparti misti. «Come col mercato comune, poi con la moneta unica e con
lo spazio Schengen delle frontiere aperte, l’Europa passo passo va costruita, anche in
divisa, o sarà il nano del mondo globale», incalzano. Belle parole, ma costa: l’euro amato
o meno è in tasca a tutti, calcola crediti e mutui di tutti noi. Moderne forze armate comuni
con la bandiera blu dalle tante stelle imporrebbero più spese a tutti, oltre il 2 per cento del
Pil chiesto dalla Nato ai suoi membri e soddisfatto solo da Uk e Polonia. Avvicinarsi al 4,5
per cento e oltre di Usa, Russia e Cina peserebbe forse troppo. Sacrifici per tornare tra i
Grandi, o tanti soft power sdentati e a sovranità nazionale? Ogni notte, come quando nei
cieli estoni e lituani caccia britannici, tedeschi o polacchi di modelli diversi si alzano in volo
al minimo allarme da est senza strumentazioni elettroniche capaci di “parlarsi”, il dilemma
d’Europa torna in scena.
del 13/03/15, pag. 14
Berlino mostra i muscoli all’Europa e alla Bce
“Atene irresponsabile”. E torna lo spettro
default
ETTORE LIVINI
MILANO .
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Nein, nein e poi ancora nein. I primi timidi spiragli di ripresa economica nella Ue non
hanno ammorbidito la posizione della Germania. Anzi. Berlino è preoccupata dai sorrisi e
dall’ottimismo spuntati all’improvviso in quasi tutta l’Europa. E in queste ore, con una sorta
di riflesso pavloviano, ha accentuato il suo ruolo ufficiale di “Signornò” del Vecchio
continente. Il quantitative easing di Mario Draghi? «Ora è inopportuno — ha sentenziato
Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank — Rischia di frenare i processi di riforme
nei Paesi più deboli». La Grecia? «Ha perso la fiducia del mercato », ha aggiunto,
candidandosi in pectore a capofila di quel fronte dei falchi che — irritato dalle mosse del
nuovo governo di Atene — inizia seriamente a non escludere l’ipotesi di staccare la spina
dei finanziamenti al governo Tsipras.
Il copione è lo stesso che va in onda da cinque anni. Quando è iniziata la crisi dei debiti
sovrani, la Germania si è presa sulle spalle l’onere di impersonare — con grande
professionalità — il ruolo di vestale del rigore. Attori protagonisti: Weidmann e il ministro
delle Finanze Wolfgang Schaeuble incaricati di impugnare l’artiglieria pesante e la
cancelliera Angela Merkel, impegnata a fare da pontiere in zona Cesarini per ricucire con
Draghi e con gli altri partner. Un gioco delle parti, dicono in molti, necessario a Berlino per
questione di marketing politico interno (contro l’ascesa dei partiti anti-euro) e dove il
confine tra buoni e cattivi è molto più labile di quanto sembri. Un gioco che comunque, a
quanto pare, non sembra destinato a finire nemmeno ora che la Ue dà segni di ripresa.
La linea teutonica del rigore assoluto del resto non ha mai ammesso cedimenti. Berlino si
è messa di traverso nel 2010 (allora governatore Buba era Axel Weber) all’acquisto della
Bce di titoli di stato. Poi ha provato a impallinare i prestiti lowcost alle banche, il fondo
salvastati e ora il bazooka di Draghi. Il governatore di Eurotower ha tirato dritto, giocando
spesso di sponda con Merkel e isolando i falchi nel consiglio della banca centrale. E alla
fine ha avuto ragione: l’euro è ancora intero, gli spread sono ai minimi e il crollo della
moneta unica fa da carburante a un rilancio del Pil che potrebbe evitare all’Europa di fare
la fine (più di un decennio a crescita zero) del Giappone. Risultati che però, come dimostra
la polemica di queste ore, non sono bastati a convincere Weidmann & C. a deporre le
armi.
L’altro fronte dove i falchi tedeschi restano sul piede di guerra è quello della Grecia, dove,
a dire il vero, hanno portato a casa qualche risultato in più. Il nuovo governo di Alexis
Tsipras, va detto, non si è dannato l’anima per farsi amare da Berlino: Schaeuble è stato
ritratto dal giornale di Syriza (il partito del premier) in uniforme delle Ss mentre minacciava
di fare saponette dei greci ed è stato etichettato dall’arcivescovo Ambrosios come un
«complessato che odia tutti quelli che non stanno in sedia a rotelle». La richiesta di
risarcimento dei danni per l’invasione nazista fatta da Atene non aiuta certo a rasserenare
il clima, così come i programmi di riforme decisamente un po’ vaghi presentati finora da
Yanis Varoufakis all’Eurogruppo.
Berlino però — malgrado l’evidente disparità di forze in campo — non ha fatto nulla per
svelenire la situazione. Schaeuble si è detto «dispiaciuto per i greci che hanno eletto un
governo irresponsabile» e ieri Atene — irritata per presunti “insulti” del ministro a
Varoufakis — è arrivata a inviare una nota ufficiale tramite l’ambasciata di Berlino
chiedendo spiegazioni. La linea del rigore sul fronte del Partenone ha fatto finora proseliti:
l’Eurogruppo (in primis Spagna e Portogallo che temono il successo di Podemos e degli
emuli di Syriza alle prossime elezioni) si è allineato all’intransigenza tedesca. Isolando il
governo Tsipras e obbligandolo a presentare un nuovo piano di riforme — e d’austerità —
in cambio dei prestiti necessari per evitare il default.
Lo scontro al calor bianco tra Germania e Grecia — al di là delle posizioni degli altri paesi
dell’euro — rischia però di materializzare davvero il rischio di un “Graccident”, come ha
l’ha battezzato la Bild. Cioè di un uscita della Grecia dalla moneta unica legato al cocktail
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esplosivo delle incomprensioni con Berlino sommate alla crisi di liquidità del paese. Tra le
due capitali volano gli stracci: «Non siamo né un protettorato né una Repubblica delle
banane», ha detto il viceministro della salute ellenico Dimitris Stratoulis. «Se nessuno dà
soldi ad Atene non è certo per colpa della Bce», ha gettato sale nella ferita Weidmann,
glissando sul fatto che l’austerity imposta dalla Troika (come provocatoriamente continua a
chiamarla Schaeuble) ha aggravato e di molto i serissimi problemi che la Grecia si era
confezionata da sola. I toni, alla faccia del nome di Unione europea, restano altissimi. La
Bce — con buona pace del numero uno della Bundesbank — ha dato ieri un altro po’
d’ossigeno al governo ellenico aumentando di 600 milioni le linee di emergenza per le
banche. E forse alla fine toccherà di nuovo a Merkel — e a Tsipras rimasto per ora
prudente spettatore — provare a riportare un po’ di calma prima che la situazione sfugga
di mano.
Del 13/03/2015, pag. IV Sbilanciamoci
Cipro contagiata dalla sindrome greca
Eurocrisi. Il Presidente della Repubblica a Mosca per trattare con Putin,
l’opposizione di sinistra chiede di sostenere la politica di Syriza. La visita di Nikos
Anastasiades in Russia è stata un messaggio d'insofferenza verso le ricette della
Troika. Il governo applica a rilento il Memorandum: privatizzazioni bloccate e aste
giudiziarie sulla prima casa bocciate dal Parlamento
Dimitri Deliolanes
A fine febbraio, mentre in Ucraina la tregua si imponeva con difficoltà e a Washington si
parlava di nuove sanzioni, il Presidente cipriota Nikos Anastasiades ha compiuto un viaggio di tre giorni in Russia. Era la prima visita di un leader occidentale a Mosca da quando
è scoppiata la crisi in Ucraina. La visita ha prodotto dodici accordi bilaterali, il più importante dei quali è senz’altro quello che riguarda l’estensione e l’ampiamento della cooperazione militare tra i due paesi. Il nuovo accordo estende la validità di una precedente intesa,
firmata nel 1996, che permette alle navi militari russe di accedere ai porti ciprioti e in particolare a Limassol, l’approdo più importante.
Proprio nei giorni di permanenza di Anastasiades a Mosca, la Duma russa ha anche provveduto a ristrutturare il prestito offerto a suo tempo da Putin al precedente Presidente
cipriota, il comunista Dimitris Christofias, di 2,5 miliardi di euro. Il saldo del debito è stato
posticipato dal 2018 al 2022 e gli interessi abbassati dal precedente 4,5% all’attuale 2,5%.
Un regalo generoso. Durante l’incontro con i vertici della Duma, il Presidente cipriota ha
anche incassato i ringraziamenti per il fatto che in campo europeo Cipro più volte si era
schierata contro le sanzioni a Mosca, considerate un boomerang per le economie dei
paesi maggiormente coinvolti nell’interscambio con la Russia. Un altro importante settore
di cooperazione previsto dagli accordi è quello energetico. Cipro sta attivamente esplorando i giacimenti (in particolare di gas) nella sua Zona Economica Esclusiva e ha avviato
da tempo un’intensa collaborazione con i due dirimpettai, Israele ed Egitto.
Nell’esplorazione delle riserve partecipa attivamente anche l’Eni, che si è aggiudicata due
blocchi di mare. Il Presidente di Cipro non ha certo evitato che la sua visita avesse una
visibilità e un’esposizione che andava ben oltre la sua effettiva importanza. Il segnale era
rivolto verso l’Unione europea ed era un chiaro messaggio di insofferenza: mentre
l’Europa si dimostra matrigna, i vecchi amici aiutano finanziariamente, mandano milioni di
turisti nelle nostre spiagge (+5% nel 2014), comprano i nostri prodotti agricoli e, alla bisogna, ci possono anche proteggere di fronte all’aggressività turca. Va segnalato che le
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forze armate turche tengono sotto occupazione militare la parte nord dell’isola fin dal 1974,
malgrado le ripetute condanne da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Cipro infatti è un paese membro dell’Ue (dal 2004) e dell’eurozona (dal 2008) ma non
della Nato. Lo stesso Anastasiades, leader del partito di centrodestra Adunata Democrarica (Disy), aveva proposto nel 2013 che l’isola abbandonasse la sua tradizione politica
non allineata (Cipro era stata tra i fondatori del movimento agli inizi degli anni ’60) per aderire a Partnership for Peace. Il ragionamento del nuovo Presidente era che l’adesione di
Cipro all’Alleanza Atlantica avrebbe costituito un importante passo verso la sua sicurezza,
rendendola alleata della scomoda vicina Turchia. La proposta aveva provocato le forti
obiezioni del potente partito comunista Akel, il quale ricordava che l’invasione turca del
1974 era avvenuta con armamento Nato in esecuzione di un piano dell’Alleanza Atlantica
per la spartizione dell’isola con la Grecia dei colonnelli. Alla fine, anche Anastasiades ha
tacitamente accantonato il proposito di PfP.
Il vero motivo del riavvio dell’intesa tra Mosca e Nicosia va ricercato nella dura crisi economica che ha colpito Cipro due anni fa. La crisi cipriota è strettamente collegata con quella
greca, anche se ha un carattere del tutto diverso: nel primo caso il problema è strettamente legato al sistema bancario, mentre in Grecia l’intervento della troika nel 2010
è stato giustificato da una spesa pubblica eccessiva.
A Cipro la crisi è scoppiata nel marzo 2013, appena una settimana dall’elezione di Anastasiades alla Presidenza della Repubblica. Il fatto è che una delle più grandi banche di
Cipro, la Laiki Bank, era passata sotto il controllo di un banchiere e imprenditore greco,
Andreas Vgenopoulos, già proprietario in Grecia della banca Marfin. Approfittando del
mancato controllo sia della banca centrale di Grecia che di quella di Cipro, Vgenopoulos
aveva provveduto a investire gran parte dei capitali della banca cipriota in bond greci,
i quali, con lo spread alle stelle, offrivano interessi da capogiro. Secondo denunce della
stampa, aveva anche usato le azioni della Laiki per finanziare la vendita di azioni della
Marfin. Il tutto con una politica di generosi crediti al personale politico, sia in Grecia che
a Cipro. Con l’haircut del debito greco verso privati deciso agli inizi del 2012 la banca
cipriota si è trovata priva di liquidità. Nello stesso periodo anche la seconda grande banca
dell’isola, la Bank of Cyprus, aveva esteso in maniera ingiustificata le sue attività, aquistando istituti di credito e aprendo filiali in Romania e in Russia. L’improvviso tracollo della
Laiki ha travolto anche la Bank of Cyprus e minacciava tutta l’isola.
La crisi era scoppiata già nel 2012, ma l’allora Presidente Christofias non aveva suonato
l’allarme. Più tardi ha gettato la responsabilità sull’allora governatore della banca centrale
Athanasios Orfanidis. Alla fine, mentre per la giustizia greca il caso è chiuso, i magistrati
ciprioti continuano a indagare, anche sulle responsabilità politiche. Fatto sta che il nuovo
Presidente di Cipro si è ritrovato tra le mani uno scandalo di grandi dimensioni che stava
minacciando il sistema finanziario dell’isola, all’epoca la vera colonna dell’economia
cipriota. Basti dire che nelle banche di Cipro circolavano capitali che ammontavano al doppio del Pil del paese. La richiesta di aiuto di Nicosia verso il meccanismo europeo di stabilità riguardava in tutto 10 miliardi di euro. Per alcune settimane si è assistito allo stesso
scenario scomposto in campo europeo che ci era stato offerto appena tre anni prima in
Grecia, con l’aggiunta di gravi (ma mai provate) accuse da parte tedesca verso Cipro di
«riciclare il denaro sporco» degli oligarchi russi. Nicosia ha reagito alla fuga di capitali
chiudendo le banche per un periodo e, una volta riaperte, limitando drasticamente i trasferimenti. Alla fine si stima che circa 400 miliardi sono stati trasferiti di preferenza verso istituti austriaci o dei paesi baltici. Ma la novità era quella di applicare per la prima volta la
ricetta del bail-in, cioè attingere alle riserve interne al paese. È così che fu imposta una
tassa del 9,9% per i depositi bancari superiori a 100 mila euro, escludendo dalla tassazione i conti con meno di 20 mila euro.
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Come è successo in tutti gli atri casi, anche a Cipro l’intervento finanziario è stato condizionato dall’imposizione di un programma di severi tagli alle spese pubbliche. Come in
Grecia, la drastica ricetta della troika ha provocato una profonda recessione, anche se di
dimensioni più moderate di quanto previsto: nel 2013 si prevedeva un –9% del Pil, mentre
alla fine è stato del –5,4% e nell’anno scorso doveva essere del –4% e invece è stato del
–2,8%. Per l’anno in corso la Commissione Europea prevede un +0,4% mentre la Banca
Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo è più ottimista, prevedendo un +0,7%, che poi
è il tasso con cui Cipro ha chiuso l’ultimo quadrimestre del 2014. Questo ha permesso
a Moody’s di alzare la valutazione del paese a B3 e a Cipro di tornare nei mercati immettendo a giugno del 2014 bond per 750 milioni. Alto invece rimane il tasso di disoccupazione, stabilmente sul 16%. Tutto bene? Non proprio. Nei memorandum di austerità sottoscritti dal governo erano comprese le privatizzazioni per un totale di 2,8 miliardi entro il
2018 e le aste giudiziarie per le prime case con il mutuo non saldato. Tutte e due le procedure incontrano seri problemi politici. Sulle privatizzazioni il governo prende tempo:
l’aeroporto di Larnaca è da tempo in mani private, l’ente pubblico per l’elettricità Athk, in
attivo, forse non sarà venduto e il governo cerca di garantire l’apertura del mercato invitando i privati a investire nelle energie rinnovabili. Neanche i porti saranno messi all’asta,
ma solo «alcuni servizi» portuali. Rimane la lotteria di stato, un’altra importante fonte di
introiti per le casse pubbliche cipriote. Le aste giudiziarie per la prima casa sono state bocciate per ben due volte dal Parlamento di Cipro. Questo ha provocato l’annullamento della
rituale visita della troika e un duro braccio di ferro tra l’esecutivo (in particolare il ministro
delle Finanze Harris Georgiadis, un tecnocrate) e la Camera dei Rappresentanti. L’organo
legislativo insiste per una regolamentazione favorevole alle famiglie meno abbienti, mentre
la troika è molto preoccupata per la rapida ascesa dei debiti non esigibili dele banche
cipriote, ora al 49,7% del totale. Felice eccezione le banche cooperative, che controllano
circa un terzo dei depositi dell’isola, le quali a fine febbraio hanno annunciato di abbassare
il tasso dei mutui per i suoi 132 mila debitori all’1%. In questa dialettica interna si è inserita
la vittoria elettorale della sinistra greca. La politica anti-austerità del nuovo premier Alexis
Tsipras non poteva non avere impatti su Cipro, paese di antica e solida cultura greca. Già
nella prima riunione dell’eurogruppo con il nuovo ministro delle Finanze greco Yanis
Varoufakis, Cipro si è trovata al centro del ciclone: il minaccioso ultimatum consegnato
a Varoufakis dal presidente dell’eurogruppo Dijsselbloem era stato approvato dai 18 ministri all’unanimità, quindi anche con il voto favorevole del cipriota Georgiadis. Di fronte agli
attacchi della stampa isolana, il ministro ha risposto di «non aver compreso bene» le proposte del governo greco. Era il segnale che aspettava l’opposizione di sinistra e di centro
per attaccare la politica del governo e chiedere il rapido adeguamento della sua politica
con quella di Atene. A gettare benzina sul fuoco è giunta la precisazione della Commissione Europea che i paesi membri sono tenuti a rendere conto degli accordi sottoscritti in
campo energetico. La dichiarazione di Bruxelles riguardava le intese, in parte ancora
segrete, firmate da Gazprom con altri paesi membri europei, come l’Austria, la Slovenia, la
Bulgaria, l’Ungheria, la Croazia e anche la Grecia. Ma a Cipro è stata interpretata come
un’inammissibile intromissione nella politica energetica portata avanti dall’intraprendente
ministro cipriota dell’Energia Yiorgos Lakkotrypis, che ha recentemente firmato accordi per
l’esportazione del gas cipriota all’Egitto e in Giordania. Ma anche una sconfessione degli
accordi sottoscritti a Mosca, che prevedono il coinvolgimento russo nelle ricerche e nella
produzione del gas cipriota. L’esempio negativo viene, di nuovo, dall’esperienza greca: per
ben due volte la Commissione Europea ha bloccato la privatizzazione delle società greche
del gas Depa e Desfa, ma anche di quella delle ferrovie, malgrado le offerte russe fossero
di gran lunga le migliori. A Cipro, in conclusione, prevale un senso di delusione verso l’Ue.
La stessa adesione del 2004 era dettata non certo da motivazioni di carattere economico,
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quanto invece dalla ricerca di uno spazio di sicurezza. In questo decennio invece l’Europa
ha fallito nell’esercitare adeguate pressioni su Ankara perfino rispetto a una richiesta elementare, come era il riconoscimento di tutti i paesi membri — compresa la Repubblica di
Cipro — per far andare avanti il negoziato di adesione. Nessuno parla di uscita
dall’eurozona. Ma sembra maturata la decisione di non aspettarsi molto da Bruxelles e di
intraprendere una politica estera rivolta in ogni direzione.
del 13/03/15, pag. 21
“Aiutateci, non siamo eroi” Contro i media
stranieri pugno di ferro sugli interpreti
Arrestata e fatta sparire nel nulla Miao Zhang, che lavorava per “Die
Zeit” Tremano tutti i collaboratori dei giornalisti: temono le trasferte
sensibili
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO .
Gli assistenti cinesi dei corrispondenti esteri dai sei mesi vivono nel terrore. Temono per
se stessi e per i propri famigliari. I media per cui lavorano chiedono loro di supportare i
giornalisti nella ricerca della verità sui fatti che stanno mutando il profilo della Cina.
Traducono i documenti ufficiali, sbrigano le pratiche, fanno gli interpreti, rintracciano le
fonti. Le autorità da cui dipendono, a partire dal ministero degli Esteri, li sottopongono però
a crescenti pressioni quotidiane, minacciando il pugno di ferro contro i «comportamenti
anti-patriottici ». La definizione vaga serve a punire chiunque e in qualsiasi momento,
senza la necessità di accuse precise.
L’assistente cinese, oltre che un obbligo, per un corrispondente è una necessità. Diversi
collaboratori rifiutano ora di essere impiegati in servizi e trasferte politicamente sensibili.
Osservano che un corrispondente straniero rischia di non vedersi rinnovare l’annuale
permesso di soggiorno. Gli assistenti cinesi invece, adesso è chiaro, vengono arrestati e
spariscono. Chiedono così di essere protetti dalla comunità internazionale, di non essere
costretti a «diventare vittime ed eroi» della repressione. Mettere in carcere uno straniero
per far tacere un giornale o una tv oggi è costoso anche per Pechino.
Sequestrare un cinese che lavora per la stampa estera, diffondere il panico, resta una
gratuita «questione interna». Zero rischi, stesso risultato: rendere impossibile
l’accertamento di fatti cruciali. L’intimidazione contro la libertà di espressione, dopo
l’ascesa del presidente Xi Jinping, è esplosa. La sua missione, definita «il sogno cinese»,
è salvare il partito comunista per evitare che la Cina faccia la fine dell’Urss di Gorbaciov.
Per riuscirci ha dichiarato guerra alla corruzione di funzionari e generali, ma anche
all’«influenza dei valori occidentali », resa incontrollabile dai social media. La democrazia
e la libertà d’espressione, con il dovere di denunciare gli abusi del potere, sono tra i suoi
nemici più pericolosi.
Miao Zhang ha 40 anni e lo scorso 2 ottobre è stata arrestata per questo. È scomparsa a
Pechino e ogni tentativo di rintracciarla è fallito. Miao Zhang era l’assistente di Angela
Koeckritz, corrispondente dalla Cina del settimanale tedesco Die Zeit . Gli agenti l’hanno
bloccata il giorno successivo al rientro da Hong Kong, dove aveva seguito la rivolta degli
studenti pro-democrazia contro la legge elettorale truffa imposta dal potere cinese. I servizi
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di sicurezza l’accusano di «incitamento al disordine pubblico », imputazione standard che
il regime applica ai dissidenti. Miao Zhang rischia dieci anni di carcere. Angela Koeckritz il
14 ottobre ha lasciato Pechino ed è rientrata ad Amburgo, costretta a interrompere la
corrispondenza dopo quattro anni. Per mesi, sostenuta dai diplomatici tedeschi e dalla
cancelleria, ha cercato invano di far liberare la sua assistente. Ha infine raccontato questa
impressionante storia normale sul suo giornale. Il resoconto è stato ripreso dalla stampa
internazionale, contribuendo se possibile a peggiorare la situazione.
Nel terribile diario della sua scomparsa, Angela Koeckritz ricostruisce eventi che tutti i
corrispondenti da Pechino, l’autunno scorso, hanno vissuto. Miao Zhang l’aveva seguita a
Hong Kong quando la polizia, per la prima volta nella storia dell’ex colonia britannica,
aveva sparato gas lacrimogeni contro gli studenti che chiedevano elezioni libere nel 2018.
Le manifestazioni di Hong Kong sono state le più massicce in Cina dalla rivolta in piazza
Tiananmen del 1989, repressa nel sangue. Durante gli scontri Miao Zhang aveva inviato
online alcune fotografie agli amici di Pechino. L’1 ottobre, anniversario della rivoluzione, è
stata costretta a rientrare perché le era scaduto il visto. Il giorno seguente è andata a
trovare i famigliari di un poeta vicino di casa, arrestato per aver sostenuto la “rivoluzione
degli ombrelli” su Wechat. I poliziotti l’hanno intercettata e portata via su una volante.
Per giorni nessuno ha saputo dove fosse finita, sorte comune ad oltre 200 simpatizzanti
cinesi di Occupy Central. I servizi di sicurezza di Pechino hanno infine ammesso che
«l’agitatrice » era «detenuta». Dal primo centro di custodia preventiva della capitale è stata
trasferita nel carcere di Tongzhou. I funzionari hanno tentato di farle firmare un atto di
accusa per sostenere che Angela Koeckritz era una spia inviata a Hong Kong da «forze
straniere». Pechino aveva bisogno di un capro espiatorio per dimostrare al mondo che la
voglia di libertà di Hong Kong non è che un’altra «rivoluzione a colori», come quelle contro
Mosca, ispirata dai nemici occidentali. Il bersaglio principale è stato mancato, quello
secondario no.
Dopo sei mesi, dell’assistente Miao Zhang non c’è traccia e i suoi colleghi cinesi sono
costretti a limitarsi a tenere i conti dei corrispondenti. Le riforme di Xi Jinping per ora
finiscono qui. Forse è per questo che lo chiamano «il nuovo Mao».
Del 13/03/2015, pag. 6
Greenwald: «Gli Usa vogliono il petrolio»
Venezuela. Maduro schiera le portaerei in vista di un possibile attacco
nordamericano
Geraldina Colotti
Può un paese alleato degli stati che più calpestano i diritti umani fare la voce grossa contro il Venezuela e addirittura considerare il governo Maduro «una minaccia straordinaria
alla sicurezza nazionale»? La domanda apre la riflessione del giornalista Glenn Greenwald, celebre per aver divulgato il grande scandalo delle intercettazioni illegali di produzione Usa, detto il Datagate. Greenwald ricorda che l’Arabia Saudita, uno degli alleati più
stretti dell’amministrazione Obama, ha appena condannato «uno dei pochi attivisti indipendenti per i diritti umani» a 10 anni di carcere con l’accusa di «terrorismo». E arriva subito al
punto: quella dei «diritti umani», dice, è un’arma usata dagli Usa per demonizzare cinicamente governi che si rifiutano di seguire i suoi dettami, mentre «regimi compiacenti» vengono applauditi anche quando si rendono responsabili delle peggiori nefandezze.
Il Venezuela — rileva Greenwald — custodisce le prime riserve di petrolio al mondo e le
sue politiche redistributive, aliene ai dettami di Washington, «pietrificano le istituzioni neoli24
beriste per la loro capacità di fornire un esempio» com’è stato per Cuba. Anche il giornalista statunitense, Mark Weisbrot, in un articolo su al-Jazeera ha commentato le nuove sanzioni di Obama contro sette funzionari venezuelani e il discorso sulla «minaccia eccezionale» costituita dal Venezuela. Ha paragonato le affermazioni di Obama a quelle pronunciate dal presidente Ronald Reagan contro il Nicaragua nel 1985 con parole quasi identiche. Contro il «pericolo rosso», vennero allora foraggiati i Contras a dispetto di tutti i «diritti
umani», come ora si cerca di proteggere i golpisti, già amnistiati da Chavez, e tornati in
servizio permanente effettivo. Negli organismi internazionali — tutti i paesi dell’emisfero
tranne Usa e Canada che compongono la Celac hanno condannato le sanzioni — c’è
grande attenzione verso Caracas. Nel paese si teme un’aggressione armata, fortemente
sollecitata dalle destre oltranziste, che sono in giro per l’Europa con gran dispendio di
mezzi, ma poca partecipazione. Dal Parlamento europeo hanno ottenuto un voto di condanna al Venezuela sempre per presunte violazioni ai diritti umani, ma non ancora
sanzioni. E, in Italia, appelli e prese di posizioni chiedono al ministro degli Esteri Paolo
Gentiloni di ascoltare la voce del buon senso e quella dei famigliari delle vittime delle guarimbas, le violente trappole da strada messe in campo dai «pacifici» oppositori venezuelani. A Cuba, Gentiloni ha incontrato il suo omologo Bruno Rodriguez Parilla e si è augurato che il blocco economico contro Cuba, messo in atto dagli Usa, finisca. I due discuteranno anche di altre tematiche di politica estera regionale, e fra queste il processo di pace
in Colombia, in corso all’Avana con la mediazione del Venezuela e anche della situazione
critica esistente a Caracas. «Il Venezuela chiede agli Usa relazioni di rispetto e di pace»,
ha detto il vicepresidente venezuelano, Jorge Arreaza. Anche alcuni esponenti
dell’opposizione moderata hanno espresso contrarietà alle sanzioni e criticato il loro
campo per le modalità poco trasparenti in cui si stanno svolgendo le primarie della destra.
E domani, le forze armate bolivariane faranno una grande dimostrazione militare per dire:
«siamo un paese di pace, ma se ci attaccano, siamo pronti a difenderci».
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INTERNI
del 13/03/15, pag. 11
I paletti della Consulta per l’Italicum
Il presidente Criscuolo: il vaglio preventivo tradisce il ruolo della Corte
costituzionale E annuncia tempi brevi per il giudizio sulla legge
Severino: saremo solleciti
ROMA Già da sette mesi, la riforma Renzi-Boschi (ancora all’esame del Parlamento)
prevede che la Corte costituzionale dica la sua sulla legge elettorale prima e non dopo la
sua entrate in vigore: però, ora, questo nuovo meccanismo di garanzia, perfezionato dalla
Camera dopo il varo l’8 agosto al Senato, va a sbattere contro un vero muro di cemento
eretto dal presidente della Consulta.
Il giudice Alessandro Criscuolo ha bocciato l’istituto del «controllo preventivo sulla legge
elettorale» che, dal suo punto di vista, «tradisce il ruolo della Corte e può essere una
forma non opportuna». Criscuolo, che ha risposto a una domanda nella conferenza
stampa di bilancio annuale, ha usato mille cautele perché il cantiere della riforma è ancora
aperto: «Stiamo parlando di una legge che non è ancora entrata in vigore e non è
opportuno anticipare possibili scenari. Ma un controllo preventivo ancorché circoscritto alla
sola legge elettorale meriterebbe un’ulteriore fase di riflessione che non mi risulta ci sia
stata». In altre parole, la riforma «affida alla Corte un ruolo» politico «che non le spetta e la
consulenza preventiva può essere una formula non opportuna».
Quella toccata dal presidente Criscuolo non è materia neutra per il governo. Il controllo
preventivo sulla legge elettorale fu introdotto al Senato su richiesta della minoranza del Pd
(recepita dall’emendamento Finocchiaro) e poi perfezionato alla Camera con due novità:
quorum più basso per la richiesta (da ⅓ a 1/4) e, soprattutto, estensione del controllo
all’«Italicum» (la legge elettorale che, se tutto va bene, entrerà in vigore a luglio del 2016).
Quando la norma fu varata in agosto al Senato passò più o meno sotto silenzio mentre ora
che c’è in ballo pure l’Italicum il clima si scalda. Anche perché il «controllo preventivo» è
quasi legge in quanto già approvato in «doppia conforme» da Senato e Camera e,
semmai, si possono ancora modificare il quorum e l’estensione all’Italicum deliberati solo
dalla Camera.
La minoranza del Pd non l’ha presa bene, spiega il bersaniano Andrea Giorgis:
«Stupiscono le perplessità avanzate dal presidente Criscuolo perché, come ha detto la
stessa Corte nella sentenza 1/2014 con cui ha dichiarato la parziale incostituzionalità della
legge (elettorale) Calderoli, se la decisione avviene dopo che si sono svolte le elezioni non
è possibile rimuovere gli effetti già prodotti». Conclude Giorgis, «L’unico modo per non
ripetersi è consentire alla Corte di esprimersi prima e non dopo. Come in Francia».
Presto la Corte si esprimerà anche sui punti della legge Severino che vietano ai sindaci
(de Magistris, a Napoli) e ai governatori (De Luca, in Campania) di candidarsi se
condannati anche solo in primo grado: «Tratteremo l’esame delle legge Severino con una
certa sollecitudine» ha detto Criscuolo che, quando era in Cassazione, difese il pm de
Magistris davanti alla sezione disciplinare del Csm. Si conoscerà dopo il 7 aprile la data
dell’udienza sulla «Severino» che, però, difficilmente si terrà prima delle Regionali di
maggio.
Dino Martirano
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Del 13/03/2015, pag. 8
“Abbiamo già detto no, ci disprezzano”
Proviamo a essere ottimisti: nel 2005 ci fu un tentativo di riforma costituzionale: si ricorda
Calderoli? Ecco, la Costituzione riscritta da un dentista fu respinta al mittente dai cittadini
con il referendum dell’anno successivo. Potrebbe succedere anche questa volta”, spiega
Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova. Perché ricorda
oggi la riforma di Berlusconi? In qualunque Paese – non dico civile, ma appena appena
decente – non si riproporrebbero riforme che vanno nella stessa direzione di altre bocciate
qualche anno prima. La cosa che mi allarma di più è l’assenza di considerazione, per non
dire il disprezzo, verso l’opinione dei cittadini. Il popolo ha già detto no a una riforma che
rafforzi i poteri del governo a scapito delle istituzioni rappresentative e li concentri in un
unico vertice: la legge attuale diminuisce più dell ’ altra il peso della volontà popolare,
abbassa ancora il livello di democrazia. Il governo esulta, il dado è tratto. O quasi. Al
premier esultante vorrei dire che la democrazia non ha bisogno di capi, ha bisogno di
partecipazione. Comunque, da un punto di vista procedurale sottolineo che non è la
Costituzione che impone al Senato di soffermarsi solo sulle parti emendate dalla Camera,
in prima lettura. Sono i regolamenti parlamentari. In un caso così grave, dove in realtà non
c’è stato un dibattito serio e approfondito, ma il testo è stato approvato – a mio avviso
illegittimamente – utilizzando ‘ canguri ’ per eliminare dalla discussione emendamenti
sgraditi e i tempi sono stati forzati con sedute notturne, impensabili in una democrazia
normale, la possibilità di riconsiderare alcune norme, le più discutibili, sarebbe
indispensabile. È davvero un ’ occasione perduta. Si poteva fare una riforma utile, invece
di questo sgorbio con un Senato non elettivo cui si attribuisce il potere di decidere su
materie costituzionali. Non credo che Renzi, l’innovatore, si sia reso conto del carattere
profondamente conservatore di questa riforma. Perché conservatore? Il nuovo Senato
tanto mal concepito avrà competenza in materia costituzionale e dunque anche in un
eventuale iter correttivo della riforma. Il suo voto è determinante, allo stesso modo di
quello della Camera dei deputati. Se domani qualcuno avesse l’idea di mettere ordine in
questa riforma strampalata del Senato, magari modificandone la composizione e le
modalità di elezione, i nuovi ‘ senatori ’ (consiglieri regionali e sindaci che si nominano fra
loro!) potrebbero bloccare qualunque modifica contraria ai loro interessi. Così, anziché
rinnovarsi, questo ceto politico non fa altro che auto conservarsi. Lei ha detto più volte che
il carattere non elettivo è fortemente antidemocratico. Ma certo: una repubblica
democratica non può avere una Camera alta non elettiva che esercita funzioni
costituzionali! Se uniamo questa riforma alla eliminazione delle Province – che in realtà ci
sono ancora, ma senza alcun organo eletto dal popolo – e una legge elettorale dove l’esito
del voto è completamente alterato, si vede bene che il popolo, anzichè il sovrano, è
considerato un fastidio da tacitare. Che pensa dei deputati divisi, quelli che volevano
votare no e hanno votato sì per fedeltà alla ditta e viceversa? È stato un gioco delle parti,
sia in Forza Italia che nel Pd, una buffonata, come se si trattasse di una decisione di poco
conto e non del delicatissimo equilibrio dei poteri che sta alla base della nostra architettura
costituzionale. C’è ancora la partita della legge elettorale. La famosa legge truffa del 1953
che scatenò tante battaglie in Parlamento e fuori, era più democratica dell’Italicum perché
il premio di maggioranza veniva attribuito alla coalizione che otteneva il 50 per cento,
ossia a chi la maggioranza l’aveva già. E poi, se nessuno raggiungeva questa soglia, il
premio non scattava; e infatti non scattò! Nell’Italicum invece – che ricorda la legge Acerbo
27
del 1923 – se nessuno raggiunge il 40 per cento, il premio viene comunque attribuito dopo
il ballottaggio tra le due liste più votate qualunque sia la percentuale ottenuta! Si prende
tutto anche con un seguito popolare assai modesto: la minoranza governa indisturbata.
del 13/03/15, pag. 1/12
Landini lancia il suo movimento: coalizione
sociale
di Alessandra Coppola
Poche righe che hanno però il passo e la sostanza di un manifesto programmatico. Con
una lettera, Maurizio Landini ha convocato per domani, nella sede nazionale della Fiom, la
costituente di quella «coalizione sociale» di cui parla da tempo: un rassemblement plurale,
a sinistra del Partito democratico, in grado di raccogliere il dissenso anti Renzi. E
«fratello» di esperienze come Syriza e Podemos.
Raduno e lancio del manifesto Nasce la
«Podemos» di Landini
Il progetto del segretario per la «coalizione sociale». Domani l’incontro
alla Fiom
MILANO La «coalizione sociale» nasce già domani, nella sede della Fiom nazionale.
«Dovremmo trovare il modo di dare forma e forza ad un progetto innovativo, individuando
punti di programma condivisi (...). Queste poche righe per invitarti\vi a incontrarci», dalle
10, in corso Trieste. Sindacalisti assieme ad «associazioni, reti, movimenti e
“personalità”». L’ora della fondazione è arrivata. «Cari saluti» e la firma: Maurizio Landini.
Eccolo al dunque, il segretario nazionale dei metalmeccanici della Cgil. «Nelle scorse
settimane (...) abbiamo ragionato sulla necessità di un momento assembleare per
dibattere in modo libero e aperto l’ipotesi di costruire una “coalizione sociale”». Se ne parla
da tempo. Landini l’ha portata ad ogni attivo regionale, in un lungo tour attraverso il Paese.
E poi, alla fine, all’assemblea dei delegati a Cervia, il 27 febbraio: l’idea di un’associazione
di associazioni, un rassemblement a sinistra del Partito democratico, e ampiamente
plurale, in grado di raccogliere il dissenso anti-Renzi. Un partito? «Faccio politica, ma non
un partito», diceva ancora a Cervia il leader. E rimandava alla manifestazione della Fiom il
28 marzo a Roma. Prima di quella data, però, la «cosa» landiniana avrà già una forma,
che si delineerà di sabato in sabato: domani, poi il 21 alla XX Giornata della Memoria
organizzata dalla rete di Libera a Bologna, infine con la piazza del 28.
Le «poche righe» contenute nella lettera d’invito alla «costituente» di corso Trieste, allora,
hanno il passo e la sostanza di un manifesto programmatico. O quanto meno della sua
bozza, da limare. «Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con molti — scrive il
segretario — e di condividere sin da subito l’idea che il tentativo di costruire una coalizione
sociale muove da una certezza: la politica non è proprietà privata». L’ultima frase è
evidenziata in grassetto. Quindi, sottolinea il leader, è la stessa Costituzione a promuovere
«la partecipazione alla vita pubblica». L’obiettivo è dichiaratamente questo. All’attivo della
Fiom Lombardia, il 17 febbraio, Landini portava l’esempio del Partito laburista, nato per
iniziativa dei lavoratori, che sono pertanto chiamati a entrare in scena. «Il sindacato a
Detroit finanzia il Partito democratico», spiegava a Milano. Dal lavoro alla politica attiva,
saltando le intermediazioni.
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Perché questo passaggio è necessario? Si parte «da due assunti che si stanno
affermando», annota ancora nella convocazione il segretario. Due idee nefaste alimentate
dalla «crisi economica e sociale» e dalle «politiche di austerità europee»: «”La fine del
lavoro” e “la società non esiste, esistono solo gli individui e il potere che li governa” credo
diano vita allo spettro di un futuro già presente con cui siamo chiamati a fare i conti in tutta
Europa». Riferimento importante, quello alla Ue, che serve ad agganciarsi alle due
«coalizioni sociali» evidentemente sorelle: Syriza in Grecia e Podemos in Spagna.
«La politiche della Commissione e della troika — continua Landini —, anche in Italia
stanno mettendo in discussione la democrazia, il lavoro e i suoi diritti, l’istruzione e la
formazione, la salute, i beni comuni e la cultura, la giustizia». Ecco allora che bisogna
superare «il frazionamento» e «coalizzarsi insieme per una domanda di giustizia sociale
sempre più inascoltata e — passaggio chiave — senza rappresentanza». Nasce qualcosa
di nuovo e di diverso dai partiti conosciuti: «La coalizione sociale dovrà essere
indipendente e autonoma — conclude il leader Fiom —: significa che per camminare
dovrà potersi reggere sulle proprie gambe e pensare collettivamente con la propria testa».
del 13/03/15, pag. 20
Squadre speciali, artificieri e soldati Ecco il
piano per difendere Expo
ROMA Ci saranno i reparti mobili e gli artificieri, le squadre speciali e gli esperti delle
telecomunicazioni: in tutto 3.200 uomini che si aggiungono ai 2.000 già in servizio a
Milano. Forze dell’ordine e soldati per un dispositivo di sicurezza che mira alla protezione
totale dell’Expo.
Il piano del Viminale è pronto, stanziati anche i fondi per una spesa che già supera i 90
milioni di euro. Gli ultimi dettagli saranno decisi nelle prossime settimane, al passo con
l’avanzamento dei lavori per l’allestimento dei padiglioni. Ma il servizio Ordine Pubblico ha
già elaborato le disposizioni del capo della polizia Alessandro Pansa e varato il progetto
per la vigilanza dell’evento che per sei mesi metterà l’Italia sotto i riflettori del mondo.
Nessuna segnalazione particolare è arrivata, ma appare evidente come il rischio
terrorismo jihadista — proprio per la ribalta internazionale — venga tenuto nella massima
considerazione. E proprio prevedendo ogni eventualità — anche le peggiori — sono state
modulate le misure.
Varchi
e metal detector
Saranno quattro gli accessi pedonali con ben 225 tornelli, sette quelli per i veicoli. Per
entrare bisognerà passare sotto i metaldetector, anche vetture e camion saranno
sottoposte ai «raggi x» per il rilevamento degli esplosivi e delle apparecchiature
metalliche. L’ingresso ai vari padiglioni potrebbe prevedere una serie di controlli
straordinari a campione. Da tutta Italia arriveranno di rinforzo 1.300 poliziotti, 700
carabinieri, 600 finanzieri oltre ai 600 militari collocati esclusivamente all’interno dell’area
di oltre cinque chilometri quadrati per occuparsi della sorveglianza fissa, in modo
particolare durante la notte. Il percorso esterno sarà invece vigilato da 200 uomini per
turno (dunque 800 ogni giorno).
I momenti
di massima allerta
29
L’arco di tempo di massima criticità è ritenuto quello tra le 23 e l’1 di notte, quando l’area
espositiva chiude e comincia l’accesso dei veicoli per l’approvvigionamento delle merci. Le
stime fornite dagli organizzatori parlano di 257 tonnellate di cibo e bevande consumate
ogni giorno e 37 tonnellate di rifiuti da portare via ogni notte. Numeri necessari da
conoscere proprio per poter regolare il flusso dei camion: la previsione quotidiana prevede
la gestione di circa 700 veicoli con picchi che potranno raggiungere addirittura i 1.000.
Il momento più temuto è quello dell’inaugurazione del 1 maggio, con il corteo di protesta
che porterà a Milano migliaia di manifestanti. Le adesioni dei gruppi di contestatori si
conosceranno soltanto nell’ultima settimana di aprile, ma la mobilitazione è già partita e
per questo si stanno pianificando le eventuali contromisure non escludendo di poter
utilizzare ulteriori reparti di rinforzo.
Internet
e telecomunicazioni
Massima attenzione sarà naturalmente dedicata alla protezione delle reti. La minaccia più
temuta è quella di un blocco delle telecomunicazioni e per questo si è deciso di utilizzare il
sistema — già operativo a livello nazionale — che invia un «alert» di fronte a intrusioni,
sottrazioni di dati, manomissioni per avere, come sottolinea il direttore delle Specialità
Roberto Sgalla, «un monitoraggio costante e la possibilità di intervenire in tempo reale sia
a fronte di azioni di hackeraggio, sia per scongiurare possibili blocchi a livello di web, ma
anche di comunicazioni». Proprio per questo sarà messo in piedi un sistema che consenta
la piena funzionalità dei telefoni cellulari e di tutti gli altri dispositivi portatili.
Le polizie
degli stranieri
L’elenco delle autorità e delle personalità che parteciperanno alla cerimonia inaugurale
viene aggiornato continuamente e di pari passo si stringono accordi con le polizie straniere
che dovranno cooperare nel piano di sorveglianza e in quello per le scorte. La
collaborazione diventerà indispensabile nei giorni degli eventi dedicati ad ogni Stato,
quando sarà necessario potenziare le misure in modo particolare per quei Paesi ritenuti
maggiormente a rischio come Stati Uniti, Israele, Francia e Gran Bretagna. Non a caso si
è deciso di istituire il comando delle operazioni all’interno dell’Expo con una vera e propria
sala di controllo che dovrà occuparsi di tutti gli aspetti collegati alla sicurezza. E proprio
sulla necessità di avere indicazioni chiare, battono i sindacati. Gianni Tonelli del Sap
evidenzia come «ci stiamo preparando a sei mesi di ordine pubblico con organici ridotti
all’osso, senza regole di ingaggio chiare e in assenza di garanzie funzionali per proteggere
gli operatori. Siamo preoccupati, ci rimane solo la speranza che tutto vada per il meglio».
E Daniele Tissone della Silp Cgil chiede di «realizzare al più presto un efficace quanto
reale coordinamento tra le forze in campo visto che al momento non si hanno neppure
certezze su dove il personale aggregato alloggerà, oltre alla riapertura dell’ufficio della Dia
di Malpensa e il presidio adeguato delle aree urbane come della periferia, rete di trasporti
compresa, dove, peraltro, visitatori e abitanti si muovono e ai quali va garantita la massima
sicurezza e incolumità personale».
Del 13/03/2015, pag. 9
Il Mudec fra le spire dell’Expo
Architettura. Il Museo delle culture aprirà, sfruttando gli spazi degli ex capannoni
Ansaldo, il 27 marzo prossimo, dopo anni di incidenti di percorso. Ma le polemiche
non sono finite e l'architetto David Chipperfield minaccia di togliere la firma
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Giulia Menzietti
La scelta di limitare il consumo di suolo riciclando il patrimonio dismesso sembra comparire, seppur in misura assai marginale, nel contesto dell’Expo 2015. All’interno del palinsesto Art di Expo in città si prevede infatti l’apertura del Mudec, il Museo delle culture che
David Chipperfield ha ricavato negli spazi dei capannoni dell’ex officina finmeccanica
Ansaldo, e a seguire l’apertura della nuova sede della Fondazione Prada, che lo studio
Oma ha disegnato riciclando una distilleria dei primi del Novecento. Nonostante i dissapori
fra comune e Chipperfield (con tanto di minaccia di ritiro della firma dal progetto, per le
divergenze sulle finiture dell’edificio), si avvicina la data dell’inaugurazione del Mudec,
annunciata per il 27 marzo, con due mostre curate, tra gli altri, da Fluvio Irace e da Martina
Pugliese, la direttrice del museo. In realtà, il debutto delle collezioni permanenti
e dell’intero museo milanese continua a essere rimandato, e forse slitterà a data da destinarsi, sicuramente dopo l’apertura dell’Expo.
Sfuma così, ancora una volta, la possibilità della definitiva risoluzione di una vicenda iniziata sedici anni fa, quando nel 1999 l’allora assessore alla cultura Salvatore Carrubba
bandiva il concorso per la riqualificazione dell’area ex Ansaldo da trasformare in Città delle
culture. L’impianto originario del 1904 venne rilevato nel 1908 dall’Aeg per la produzione di
componenti elettriche, per poi divenire nel 1966 proprietà del gruppo FinmeccanicaAnsaldo, impegnato nella produzione di locomotive e carrozze. Vincitore del concorso per
la trasformazione di quest’area è stato il progetto di Chipperfield, la proposta che meglio
risolveva «il rapporto tra nuovo e vecchio, senza dissonanze, ricercando i propri valori in
un non facile contesto». Se pure in contesti completamente differenti, l’architetto londinese
vanta interventi esemplari nel progetto sull’esistente: vincitore nel 2011 del premio Mies
van der Rohe per la ristrutturazione del Neues Museum di Berlino, è stato recentemente
incaricato per intervenire sulla Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe, inaugurata
a Berlino nel 1968. Il progetto di Chipperfield per il Mudec recupera il fronte esistente su
via Tortona, e al di là di questa cortina costruisce un edificio introverso, frutto del dialogo
tra parallelepipedi duri e luminescenti, rivestiti in zinco titanio, e un elemento trasparente
dalla forma organica che sembra sbocciare dalla corte interna. Questo volume centrale,
già identificabile con l’immagine del futuro museo, fa da snodo tra le varie sale e diventerà
una lanterna per l’intera area nelle zone serali.
I lavori per la realizzazione, iniziati nel 2008 dopo una fase di progettazione durata sei anni
(dal 2001 al 2007) non sembrano oggi del tutto conclusi. L’apertura del museo, prevista
per il 2013 e poi ripetutamente posticipata, non è ancora avvenuta per via della mancanza
di arredi e allestimenti. Disegnati da Chipperfield appositamente per il museo e dunque
non acquistabili con la prassi canonica, è stato necessario bandire una gara europea per
la realizzazione, fornitura, posa in opera degli stessi.
L’inaugurazione del 27 marzo non sarà che un’anteprima del museo, che si presenterà al
pubblico ancora incompleto, tenendo all’oscuro le collezioni permanenti e offrendo degli
assaggi con le due mostre di apertura: Mondi a Milano e Africa, due occasioni di confronto
tra la cultura lombarda e quella di mondi «lontani». Nell’idea iniziale, il Mudec avrebbe
dovuto offrire nuove aree espositive per l’arte extraeuropea, oggi collezionata nel Castello
Sforzesco e nei depositi di via Savona; nell’arco della sua lunga gestazione questa visione
ha cambiato connotati e il museo oggi è pensato come un crocevia tra epoche, culture
e lingue diverse, dedicato alle interferenze tra contemporaneo e interculturalità. Il progetto
di un museo etnografico, di un Quai Branly italiano, ha destato non poche perplessità, sia
in riferimento a una storia coloniale esigua, come quella italiana rispetto ad altri paesi
come la Francia, sia in riferimento alla musealizzazione della cultura etnografica in un contesto multiculturale come quello attuale. Altre perplessità sono emerse dalle parole dello
stesso progettista, che già nel 2013, in un’intervista rilasciata alla Repubblica, lasciava tra31
pelare il suo scetticismo sulla conclusione dell’opera: «Per ora è un involucro senz’anima
che aspetta un referente, un programma di mostre. Manca uno sviluppo funzionale:
oggetti, idee, curatori, un direttore (…). L’edificio è costruito bene ma ora inizia la sua
decadenza. Nessuno è felice di finire un progetto senza scopo. Ansaldo è una tragedia: la
città ha pagato per un museo vuoto e gigantesco». Con queste parole, l’autore del Mudec
aveva preso le distanze dai toni rassicuranti usati dalle amministrazioni, restituendo il
punto di vista critico di un osservatore coinvolto nella vicenda, ma estraneo o meno
avvezzo a prassi e tempi che ormai in Italia sembrano assodati. Chipperfield ha già lavorato nel nostro paese, nel 2012 come direttore della XIII Biennale d’Architettura a Venezia
e precedentemente per la sede del negozio Valentino in via Montenapoleone, a Milano;
diversa è, però, la vicenda del Mudec, nella quale l’architetto londinese si è scontrato con
un meccanismo molto più complesso, consistente nel recupero di un brano di città
dismesso e nella costruzione di un nuovo edificio, il tutto all’interno di una macchina infernale come quella di un expo, con organizzazione, burocrazia e tempistiche italiane. Non
stupisce, quindi, una delle sue ultime dichiarazioni: «In passato, l’archittettura italiana ha
prodotto cose fantastiche, ma la grande tradizione si è interrotta. Da trent’anni, l’Italia non
produce una generazione di architetti. Forse perché fare questo mestiere qui è un
incubo». Un giudizio molto duro, che fa riflettere su un’incapacità, ormai radicata, nel
gestire concorsi, eventi e realizzazioni, e che diviene preoccupante nella capacità di rendere questo paese sempre meno attraente per chi lo guarda da lontano. In questo senso
un evento come l’Expo 2015 di Milano, già per sua natura complesso e rischioso soprattutto per lo scenario del «post», già indagato e sotto accusa prima ancora di essere inaugurato, si prospetta come una dura partita per il nostro paese, col rischio di un effetto boomerang capace di comprometterne ulteriormente la situazione.
del 13/03/15, pag. 1/36
La battaglia di Francesco tra potere e
misericordia
VITO MANCUSO
A UN amico argentino Bergoglio avrebbe confidato di «non essere sicuro di farcela »,
intendendo evidentemente rimandare al processo di riforma iniziato due anni fa quando
venne eletto e tra la sorpresa generale scelse di chiamarsi Francesco. Allora la mente di
molti corse all’affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi con papa Innocenzo III
che vede in sogno un frate che sorregge una chiesa che sta per crollare.
Due anni fa la Chiesa era in quelle condizioni, come certificarono le coraggiose dimissioni
di Benedetto XVI: travolta dagli scandali, al minimo della credibilità morale, sempre più
priva del favore popolare. E in quel contesto si profilò un nuovo Francesco a sobbarcarsi il
compito di sorreggere l’edificio pericolante, questa volta non più semplice frate ma
Pontefice massimo. A distanza di due anni, che ne è di quell’intento riformatore?
Oggi assistiamo a un fenomeno paradossale.
ASSISTIAMO alla crescita continua del favore popolare verso papa Francesco e
contestualmente alla crescita altrettanto continua dell’opposizione interna verso di lui,
particolarmente dura tra i cardinali, la Curia romana e alcuni episcopati.
Il che è la perfetta radiografia dello scollamento di buona parte della gerarchia
ecclesiastica rispetto alla vita reale, quello scollamento di cui il cardinal Martini parlava
dicendo «la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni». Nel primo anno Francesco forse
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credeva di poter convertire la mente dei prelati mostrando con il suo stile cosa significa
essere autorità nella Chiesa. Nel secondo anno però ha dovuto prendere atto che ci vuole
altro, perché mentre lui vive in una settantina di metri quadrati vi sono cardinali che non
hanno rinunciato per nulla al lusso e soprattutto ve ne sono molti del tutto contrari a
seguirlo nelle riforme. Si spiega così il suo insistere contro i vizi del clericalismo, culminato
nella predica alla Curia del 22 dicembre scorso con la denuncia dei quindici mali della
burocrazia vaticana, riassumibili in uno solo: l’identificazione con il potere. La battaglia
infatti è tra misericordia e potere, tra Chiesa “ospedale di campo” funzionale ai bisogni
della gente e Chiesa somma autorità cui la gente deve obbedire, tra Chiesa dei poveri e
Chiesa potente tra i potenti. Nessuno sa come finirà questa battaglia iniziata due anni fa,
ma di certo i cardinali e i curiali che si oppongono a Francesco sono l’espressione di ciò
che per secoli è stato il papato, sicché riformare la loro mentalità significa riformare il
papato come potere assoluto.
Ora però quel potere assoluto è nelle mani di Francesco e se lui volesse potrebbe
utilizzarlo proprio per decretarne la riconversione: basterebbe una sua firma infatti per
rimandare nelle rispettive parrocchie di origine i prelati che maggiormente si oppongono
alla sua azione riformatrice e sceglierne altri più in linea con lo stile evangelico. Perché
non agire così, visto che la posta in gioco è enorme?
Essa consiste nel diritto dei battezzati di avere una Chiesa di cui fidarsi, dove i vescovi
vengano scelti per effettive qualità e non per giochi di potere e siano sobri come gli
apostoli e non opulenti come i magnati, dove la banca vaticana dello Ior sia per lo meno al
livello etico di una banca ordinaria, dove non vi sia la sporcizia a suo tempo denunciata da
Benedetto XVI, dove gli uomini e le donne di oggi si sentano a casa perché capiti anche
nei loro errori e non giudicati da una mentalità freddamente dottrinale, dove gli scandali di
pedofilia non siano insabbiati e i colpevoli coperti. La posta in gioco è una Chiesa degna
della passione dei numerosi sacerdoti onesti che le hanno dedicato la vita. È per una
Chiesa di questo tipo che lavora papa Francesco insistendo sul primato della coscienza,
l’apertura alla modernità, la consultazione dei fedeli sui temi della morale, il riaccredito
della teologia della liberazione, la preferenza verso i poveri, un linguaggio in grado di
arrivare a tutti. Bergoglio sa che il primo passo della Chiesa è tornare a credere al Vangelo
anzitutto ai suoi vertici, sa cioè che l’evangelizzazione riguarda la gerarchia ecclesiastica,
ben prima del mondo.
Oltre all’enorme favore popolare, papa Francesco in questi due anni ha conseguito altre
notevoli acquisizioni. Penso al processo sinodale che culminerà nel prossimo ottobre con
la seconda puntata del Sinodo sulla famiglia, l’aver scongiurato l’intervento militare
occidentale in Siria e l’aver favorito la storica riconciliazione tra Cuba e Usa, i passi di
avvicinamento alla Cina, l’essere diventato un faro per il Sud del mondo e per i poveri.
Ma come ho detto all’inizio, sembra che egli abbia confidato a un amico di non essere
sicuro di farcela a causa della crescente opposizione interna. Occorre quindi chiedersi
cosa succederebbe se Francesco fallisse. Io penso che per il cattolicesimo sarebbe un
colpo terribile, perché le enormi speranze che questo Papa sta suscitando si
rivolgerebbero in un’altrettanto enorme delusione e il contraccolpo sulla credibilità della
Chiesa potrebbe essere devastante, se non letale. Non morirebbe la spiritualità, che è
radicata da sempre nel cuore umano, ben prima della nascita del cristianesimo. Non
morirebbe neppure il cristianesimo, che troverebbe altre forme per esprimersi, come ha
fatto in altri luoghi del mondo. Si avvierebbe invece irreversibilmente alla morte la Chiesa
cattolica gerarchica così come la conosciamo, perché nessuno potrà e vorrà avere più
fiducia in una struttura dimostratasi restia a seguire un cristiano sincero e un uomo buono
come Jorge Mario Bergoglio. Il fallimento del Papa venuto dalla fine del mondo
segnerebbe la fine della Chiesa gerarchica e istituzionale. Non so se è questo che
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vogliono i numerosi cardinali, vescovi e curiali che gli si oppongono, ma penso sia bene
che lo sappiano.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 13/03/15, pag. 12
Reati lievi, ora si può evitare il processo Sulla
prescrizione è scontro Pd-Ncd
Niente procedimento solo se la vittima è d’accordo nel concedere il
perdono Furti e rapine, aumenti di pena confermati
LIANA MILELLA
ROMA .
Diventa legge la “tenuità del fatto”. Sì, si chiama proprio così, è il classico reato non grave,
non abituale, non ripetuto, per il quale, se la vittima è d’accordo, il giudice può evitare il
processo. Misura deflattiva per gli indici della giustizia e l’affollamento delle carceri. Il tetto
dei delitti inclusi è alto, tutti quelli puniti «nel massimo con 5 anni», ma dopo le polemiche
degli animalisti e delle vittime di stalking, il governo ha messo dei paletti assai rigidi.
Espressamente escluso dal beneficio chi «ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà,
anche a danno di animali, o ha adoperato sevizie, o ha profittato delle condizioni di
minorata difesa della vittima, anche per l’età, o se la condotta ha cagionato, quali
conseguenze non volute, la morte o lesioni gravissime». Quindi via omicidio e lesioni
colpose. Via i maltrattamenti in famiglia. Ovviamente restano dentro molti altri reati, visto
che il tetto a 5 anni ne include tantissimi. Scontata la polemica della Lega, ma anche di
M5S. Non basta a frenarli che passino anche gli aumenti di pena per il furto e la rapina (da
1-6 anni a 2-8 anni, e da 3-10 anni a 4-10 anni), già annunciati oggi da Repubblica.
Il consiglio dei ministri dà il via libera al decreto legislativo sulla tenuità che, a questo
punto, potrà essere citato senza problemi nel falso in bilancio dove prima suonava come
un “abusivo”. Lunedì prossimo dovrebbe essere la giornata decisiva per presentare
l’emendamento al Senato. La commissione Giustizia è già convocata per lo stesso giorno.
Se non martedì (in aula c’è ancora il divorzio breve), tra mercoledì e giovedì il testo sulla
corruzione, con dentro il falso in bilancio, dovrebbe andare in aula per essere votato. Ieri,
da palazzo Madama, è arrivato un segnale positivo, perché restano gli sconti per chi
collabora, aumentati da un terzo alla metà. Non passa invece l’aumento di pena della
concussione, che era contenuto nel testo originario del presidente Piero Grasso. Testo
che domenica compirà ben 2 anni di attesa al Senato per essere approvato. Ma si lavora
per un accordo.
Alla Camera invece, sulla prescrizione, si arriva allo scontro tra Pd e gli alfaniani. Lite
annunciata che il Guardasigilli Andrea Orlando non è riuscito a sanare. In commissione
Giustizia si arriva inesorabilmente alla spaccatura. I Dem votano per la prescrizione
sospesa dopo il primo grado, congelata in attesa che trascorrano i due anni concessi al
processo d’appello e ai 12 mesi per la Cassazione. Ma anche per dare più tempi ai reati di
corruzione. Non solo il massimo della pena, ma anche una metà di quel massimo di pena
in più. Ncd si sfila e non vota il mandato ai relatori Sofia Amoddio (Pd) e Stefano
Dambruoso. Polemici il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, il capogruppo alla
Camera Nunzia De Girolamo, Alessandro Pagano. Costa si augura che il Pd faccia marcia
indietro. Ma la presidente Pd della commissione Giustizia Donatella Ferranti esulta:
«Finalmente, dopo dieci anni, stiamo mandando in archivio la ex-Cirielli». Parla di riforma
«equilibrata ma sostanziale». Va in aula da lunedì prossimo.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 13/03/15, pag. 23
Scontro al vertice Ue sui migranti
BRUXELLES .
L’Europa è spaccata sull’immigrazione. Da un lato Italia, Francia, Germania e i paesi
mediterranei che chiedono nuove regole. Dall’altro la Gran Bretagna, i baltici e i paesi
dell’Est capitanati dalla Polonia che non vogliono fare passi avanti nella gestione comune
dei flussi migratori. È questa l’istantanea scattata ieri al termine della riunione dei ministri
dell’Interno dell’Unione a Bruxelles. Si tratta di una partita nella quale i governi si
confronteranno ancora per qualche mese, almeno fino a maggio, quando la Commissione
europea presenterà la sua proposta di riforma delle politiche sull’immigrazione. E il peso
politico dei due schieramenti che si fronteggiano certamente inciderà sul livello di
ambizione che sarà presentato da Bruxelles. Lunedì toccherà ai ministri degli Esteri
confrontarsi, con Lady Pesc Federica Mogherini che premerà su soluzioni coraggiose.
Arrivando al vertice ieri il ministro Alfano ha ribadito la necessità di creare nei paesi intorno
alla Libia centri di raccolta per chi fugge dai propri paesi. Il ministro spagnolo Fernandez
Diaz ha invece lanciato l’allarme affermando che in Italia potrebbero arrivare 200mila
persone, anche se lo stesso Alfano e la Commissione hanno sottolineato che al momento
è impossibile fare stime.
Italia e Francia, seguendo l’idea di base sulla quale lavora Bruxelles, chiedono appunto
che si stringano accordi con i paesi di origine e di transito per combattere i trafficanti prima
che arrivino in Libia. Si prevede anche la costruzione di campi nei paesi subsahariani e in
quelli confinanti — Sudan, Niger, Tunisia ed Egitto — gestiti dall’Unhcr dove vengono
scremati i clandestini da chi ha diritto all’asilo. I primi verrebbero rimpatriati con incentivi
economici Ue, i secondi verrebbero, e questa sarebbe la vera novità che spacca i governi
del nostro continente, distribuiti tra tutti i 28 paesi dell’Unione con un vero sistema
europeo. Mentre oggi chi si sobbarca il maggior peso sono appunto Germania, Francia,
Italia, Svezia, e un’altra manciata di paesi. Ed è questa proposta che ha trovato contrari gli
inglesi e i paesi dell’Est, questi ultimi praticamente ad immigrazione zero.
L’Italia ha ottenuto il prolungamento di Triton fino a dicembre e ha chiesto di rinforzarla,
ma la sensazione è che la domanda difficilmente verrà accettata, visto che molti paesi
pensano che farebbe solo aumentare le partenze dalla Libia. Mentre a Bruxelles si
discuteva della riforma della politica sull’immigrazione, in Italia il leader della Lega Matteo
Salvini twittava: «I clandestini hanno diritto a cure gratis, la Lombardia ha speso 100
milioni e lo Stato le rimborsa zero. Io sospenderei le cure ai clandestini». Gli ha risposto il
Pd accusandolo di avere «toccato il fondo cercando consenso sulla pelle di altri esseri
umani». ( a. d’a)
Del 13/03/2015, pag. 5
Campi in Africa per fermare i migranti
Bruxelles. Roma chiede all’Ue un intervento nei Peasi di transito. Ma
Triton continuerà a guardare i confini
Carlo Lania
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L’idea è quella di dar vita a un processo di Khartoum in piccolo, vale a dire di provare
a interrompere i flussi di migranti dall’Africa allestendo campi di raccolta in tre Paesi di
transito: Niger, Sudan e Tunisia. Il ministro degli Interni Angelino Alfano l’ha spiegata ieri
a Bruxelles ai colleghi dell’Unione europea convocati proprio per discutere di immigrazione. E Alfano ha raccolto manifestazioni di interesse che però, almeno per ora, non si
sono trasformate in un via libera politico al progetto. Un’altra tappa importante ci sarà
lunedì, quando a vedersi a Bruxelles per affrontare il dossier immigrazione saranno i ministri degli Esteri convocati dal capo della diplomazia Ue Federica Mogherini. «L’italia è in
una situazione complicata, ma non è sola», ha promesso il commissario Ue per
l’immigrazione, Dimitris Avramopoulos, che nei prossimi giorni si recherà in Egitto,
Marocco e Tunisia per discutere di possibili accordi di collaborazione.
Per certi versi sembra di essere tornati a sette mesi fa, quando l’Italia chiedeva all’Europa
di non essere lasciata sola nell’opera di salvataggio dei migranti e Bruxelles prendeva
tempo. Allora il risultato, voluto proprio da Alfano e Renzi, fu lo stop alla missione Mare
nostrum e l’avvio di Triton, con gli scarsi risultati che conosciamo. Adesso le cose potrebbero andare diversamente a patto che i 28 riescano prima o poi a mettersi d’accordo.
Alla base della proposta italiana c’è il tentativo di sottrarre i migranti alle mani dei trafficanti
esaminando già in Africa le richieste di asilo e trasferendo poi coloro che ne hanno diritto
Europa dividendoli in proporzione tra gli Stati mebri. In questo modo oltre ad assestare un
colpo ai trafficanti di uomini, si aggirerebbe anche il regolamento di Dublino III che oggi
obbliga i migranti a presentare domanda di asilo nel Paese in cui sbarcano. I campi destinati a ospitare (e si spera a proteggere) i profughi saranno gestiti dall’Ue in collaborazione
con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzione internazionale per le
migrazioni (Oim). I campi «non sono una missione di polizia, sono una missione umanitaria. Una missione che consente all’Ue di fare uno screening e di sottrarre un bacino di
mercato enorme ai mercanti di morte e ai trafficanti di esseri umani», ha spiegato ieri
Alfano. Perché il progetto prenda corpo c’è bisogno però del permesso dei governi locali
alla costruzione dei campi che non dovranno essere come quelli già esistenti ad esempio
in Sudan, che altro non sono che depositi dove i profughi sono condannati a restare per
anni. Alfano conta poi di poter arrivare alla stipula di nuovi accordi di collaborazione con
altri paesi di transito in modo da mettere un argine alle partenze dei migranti. Il modello
è la collaborazione già in corso con la Turchia che, ha spiegato il ministro, «funziona
bene». «A inizio anno stavano cambiando le rotte con navi che partivano dalla Turchia»,
ha ricordato. «L’ottimo lavoro con i colleghi turchi ha migliorato la situazione». «Vogliano
fare in modo che i flussi siano gestiti», gli ha fatto eco il collega francese Bernard Cazeneuve. Un’altra possibilità per affrontate l’emergenza è quella avanzata ieri dall’Unhcr, che
all’Ue ha proposto un progetto pilota per trasferire i rifugiati siriani soccorsi in Grecia e Italia in diversi paesi europei «sulla base di un sistema equo di distribuzione».
Tutto questo, però, riguarda il futuro. Il presente è fatto invece ancora di barconi carichi di
disperati che provano ad attraversare il canale di Sicilia per arrivare fino a noi. Barconi fatiscenti che le organizzazioni criminali riempiono fino all’inverosimile di migranti e che
rischiano di affondare ogni volta che c’è un’onda più forte delle altre. Qualce giorno fa il
direttore esecutivo di Frontex, l’agenzia europea addetta al controllo del frontiere, ha parlato di 500 mila, un milione di profughi pronti a salpare dalla Libia. Cifre spropositate che il
funzionario non ha saputo giustificare. Più realistica quella fatta sempre a Bruxelles dal
ministro degli Interni spagnolo Jeorge Fernandez Diaz che, sulla base degli sbarchi avuti
nei primi mesi dell’anno, ha stimato in circa 200 mila i profughi che potrebbero arrivare in
Italia entro la fine del 2015. Per loro, però, Diaz non sembra intenzionato a modificare la
missione Triton in modo da assicurare un maggior numero di interventi di soccorso. Frontex «ha per missione la sicurezza e non può trasformarsi in un’agenzia di salvataggio», ha
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spiegato senza mezzi termini. «Il principio umanitario è sempre valido e in qualunque caso
le persone in difficoltà vanno salvate, ma una cosa è questa e un’altra è che ci sia un
effetto chiamata che snatura la missione di Frontex».
Del 13/03/2015, pag. 16
MEDITERRANEO DA GENNAIO MORTI 470
MIGRANTI
Dall’inizio dell’anno sono circa 470 le persone che hanno perso la vita o scomparse nel
Mediterraneo, rispetto alle 15 dello stesso periodo dell’anno scorso: lo rende noto l’Unhcr,
che ha chiesto all’Ue una operazione come quella di “Mare Nostrum”.
Del 13/03/2015, pag. 5
APPALTI E RIFUGIATI IN SICILIA INDAGATO
SOTTOSEGRETARIO NCD
CASTIGLIONE SOTTO INCHIESTA PER IL CENTRO DI MINEO DOVE I
SUOI PRENDONO IL 40 %
Non è un sottosegretario qualsiasi quello indagato a Catania, secondo l’anticipazione –
non smentita e non confermata dalla Procura – del quotidiano La Sicilia. E non è un
appalto qualsiasi quello che, secondo l’ipotesi dell’accusa, sarebbe stato truccato. Il
sottosegretario Giuseppe Castiglione è nell’ordine: l’uomo forte del Ncd, l’asse portante
del governo Renzi e il grande sponsor dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella.
L’appalto incriminato invece è invece quello da 98, 7 milioni (triennale e assegnato prima
in via provvisoria nel 2011 e poi definitivamente nel 2014) del centro di assistenza ai
rifugiati più grande di Europa: il Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di
Mineo (Catania), con i suoi 4 mila ospiti. Castiglione è stato soggetto attuatore, in qualità
di presidente della Provincia di Catania, nella fase di emergenza per diventare presidente
del Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, composto dagli enti locali, per gestire il
centro. Quando è stato eletto deputato nel 2013 e poi nominato sottosegretario
all’Agricoltura da Enrico Letta e da Renzi, Castiglione ha lasciato il posto al sindaco Ncd di
Mineo Anna Aloisi. LE INDAGINI per l’abuso d’ufficio e la turbativa d’asta della Procura di
Catania, guidata da Giovanni Salvi e della Procura di Caltagirone, guidata da Giuseppe
Verzera, erano in corso da mesi. Gli indagati sarebbero secondo le indiscrezioni ben
undici. Un’accelerazione decisiva è arrivata quando l’Autorità nazionale anticorruzione ha
spedito alla Procura di Catania il parere n. 15 firmato da Raffaele Cantone e depositato il 3
marzo del 2015. La questione è giudiziaria ma anche politica. Sul Cara di Mineo si regge
l’economia e il consenso elettorale della zona. “All’inizio non volevano il centro adesso se
provi a levarglielo te ammazzano perché… 350 persone ci lavorano. Ma scherzi? Meglio
dell’Ilva”, chiosava Luca Odevaine nelle conversazioni intercettate dal Ros dei carabinieri
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per Mafia Capitale. Odevaine, prima consulente e poi dal giugno 2014 collaboratore a
tempo determinato, pagato 12 mila e 872 euro all’anno del Consorzio, era membro
influente della commissione del Consorzio che ha assegnato questo appalto prima in via
provvisoria e poi in via definitiva nel 2014 con la gara da 97, 8 milioni di euro ora
contestata. Al suo commercialista spiegava: “Tornerò per la commissione per aggiudicarla
però diciamo che è abbastanza blindato insomma, sarà difficile che se lo possa
aggiudicare qualcun altro, vabbè, no vabbè dai, è quasi impossibile”. Nel suo atto Cantone
spiega perché: la scelta di mettere insieme lavori, servizi e forniture eterogenei, già gestiti
dal soggetto che in via provvisoria si era aggiudicato il Cara di Mineo, impediva ai
concorrenti di entrare in gara davvero. L’inchiesta è un colpo al cuore del Ncd che a Mineo
prende il 39 per cento. Odevaine spiegava al suo commercialista che Castiglione sarebbe
stato il vero dominus dell’assegnazione dell’appalto iniziale del 2011 (poi confermato dalla
gara del 2014) a un consorzio che include il Consorzio Sisifo, una cooperativa rossa della
Legacoop, e le coop bianche vicine a La Cascina e a Comunione e Liberazione più il
Consorzio Sol Ca-latino (privato) che ha un nome simile a quello del Consorzio Calatino
Terra di Accoglienza, guidato un tempo da Castiglione, stazione appaltante. Cantone, lo
sceriffo nominato da Renzi, ha avviato la sua azione contro il feudo del Ncd di Alfano su
istanza della Cot società cooperativa: l’unica partecipante alla gara oltre all’associazione
delle imprese (vicine a Castiglione e a Odevaine) uscenti e vincenti. Nel suo parere,
Cantone scrive: “L’assenza di concorrenza e di convenienza per la stazione appaltante è
dimostrata dal fatto che, oltre all’istante (Cot cooperativa, ndr) v’è stato un solo
concorrente che ha partecipato alla procedura – il gestore uscente – cui è stato
aggiudicato l’appalto con un ribasso molto ridotto pari al 1, 00671 per cento”. Odevaine
spiegava così al suo commercialista Stefano Bravo l’inizio della storia nel 2011: “Mi è
venuto a prendere lui (Castiglione, ndr) all’aeroporto, mi ha portato a pranzo, arriviamo al
tavolo… c’era pure un’altra sedia vuota… dico eh “chi?”. E praticamente arrivai a capi ’
che quello che veniva a pranzo con noi era quello che avrebbe dovuto vincere la gara
(ride)”. ODEVAINE, poi arrestato con l’accusa di associazione mafiosa per altri fatti, non fa
il nome del “predestinato” che sarebbe stato invitato a pranzo da Castiglione. I membri
della cordata vincente che gestiscono oggi il Cara grazie alla gara da 97, 8 milioni, oggetto
dell’inchiesta catanese, sono gli stesi di allora: una coop rossa (Sisifo) una serie di coop
bianche legate alla Cascina e il Consorzio Sol Calatino guidato da Paolo Ragusa, uomo
vicino a Castiglione. “Se la vicinanza vuol dire amicizia, allora dico a chiare lettere che
sono veramente onorato e orgoglioso di avere un amico come Giuseppe Castiglione,
persona per bene che ha sempre avuto a cuore lo sviluppo del territorio” scriveva Ragusa
sul sito del Sol Ca-latino, senza nascondere di avere appoggiato il progetto dell’Ncd.
Odevaine inserisce la storia del Cara di Mineo nel contesto politico nazionale che presiede
ai governi Letta e Renzi: “Perché loro adesso… Castiglione si è avvicinato molto a
Comunione e liberazione, insieme ad Alfano e adesso Comunione e liberazione di fatto
sostiene strutturalmente tutta questa roba di Alfano e del centrodestra… Castiglione. Sono
tra i principali finanziatori di tutta questa roba sì… sta dentro Lupi e infatti è il ministro delle
Infrastrutture eh… e Castiglione fa il sottosegretario… all’Agricoltura ed è il loro principale
referente in Sicilia… cioè quello che poi gli porta i voti, ce li hanno tutti in Sicilia”.
Effettivamente il vero azionista di riferimento del Ncd non è Angelino Alfano o Maurizio
Lupi, bensì proprio Castiglione: Ncd ha ottenuto il 9, 1 nella circoscrizione isole e il più
votato, con 56. 446 voti, è stato Giovanni La Via, proprietario, “a sua insaputa”, della sede
del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, sostenuto alle elezioni proprio da Castiglione.
Il ministro Maurizio Lupi si è fermato a 46. 414 preferenze. I numeri parlano da soli.
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del 13/03/15, pag. 7 (Roma)
Ancora tensioni a Tor Sapienza Trasferiti gli
ultimi 40 rifugiati
La nuova destinazione (Aurelio) tenuta segreta per ore nel timore di
rivolte
Questa volta a riaccendere la miccia a Tor Sapienza non è stato l’odio per l’immigrato, ma
gli sfratti. Centinaia di lettere con l’invito a lasciare le abitazioni Ater del quartiere che
hanno spinto i teppisti, nel pomeriggio di mercoledì, a incendiare tre cassonetti nei pressi
del centro d’accoglienza Il Sorriso di viale Giorgio Morandi, teatro di scontri e violenze
nell’autunno scorso, culminate con il trasferimento all’Infernetto e a Latina degli immigrati
minorenni. Dopo quanto accaduto mercoledì il Comune è corso ugualmente ai ripari, per
evitare che le tensioni di Tor Sapienza potessero coinvolgere di nuovo la struttura: fra
mercoledì notte e ieri mattina una quarantina di ospiti maggiorenni sono stati trasferiti in un
altro centro, il Camping Village, all’Aurelio - vigilato dalla polizia -, mentre l’assessore
comunale alle Politiche sociali Francesca Danese, il suo collega alla Legalità Alfonso
Sabella, con il vice sindaco Luigi Nieri e il delegato alla sicurezza del Campidoglio
Rossella Matarazzo, ha incontrato i comitati dei residenti di Tor Sapienza.
«I problemi qui sono ben altri, gli immigrati non c’entrano, spiega Roberto Torre,
presidente di uno dei movimenti -, come non bastano i lampioni e i giardini rifatti. C’è una
bomba pronta a esplodere ogni volta». La tensione nella zona è sempre molto forte, e non
sfugge l’importanza - e forse il collegamento - fra quanto successo due giorni fa e la visita,
sempre mercoledì, degli assessori Danese e Sabella in procura. Poche ore più tardi
proprio la responsabile delle Politiche sociali correva a Tor Sapienza per organizzare il
trasferimento degli immigrati.
Una decisione accompagnata da una spiegazione - «È stata presa anche per il bene di
queste persone che si sono trovate a essere strumento di tensioni di altra natura cavalcate
a destra» - che hanno innescato la replica di Fdi-An: «Ora l’assessore chieda scusa a tutte
quelle persone che appartengono alla destra italiana e che non hanno nulla a che vedere
con atti di violenza».
Rinaldo Frignani
del 13/03/15, pag. 20
Rabbia a Ferguson, spari sulla polizia
Le tensioni razziali riesplodono nella città del Missouri dove ad agosto
un giovane nero disarmato fu ucciso da un agente Nuove
manifestazioni dopo il rapporto del governo che accusa le forze
dell’ordine di abusi. “È stata un’imboscata”
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK .
«È stata un’imboscata, un agguato in piena regola ». Il capo della polizia di Saint Louis,
Jon Belmar, non ha dubbi. A Ferguson, che è sotto la sua giurisdizione, la tensione è di
nuovo alle stelle, dopo le dimissioni dello sceriffo locale, del city manager, e del giudice
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municipale: inchiodati da un rapporto federale che condanna il razzismo delle forze
dell’ordine. Proprio quel rapporto, e quelle dimissioni, hanno riacceso proteste violente
della popolazione nera. Durante una manifestazione sono partiti gli spari. Un poliziotto ha
una pallottola conficcata sotto un orecchio, l’altro è stato colpito a una spalla. «Sono
ricoverati. Sono stati attaccati senza potersi difendere », dice Belmar.
I colpi contro la polizia sono stati sparati mentre una folla circondava il commissariato di
Ferguson, la cittadina del Missouri dove nell’estate scorsa un agente bianco uccise
Michael Brown, un giovane nero disarmato, crivellandolo di colpi. L’agente fu esonerato, il
Gran Giurì locale convocato dal procuratore non ravvisò neppure gli estremi per aprire un
processo. Gli agenti di Ferguson sono per il 95% bianchi mentre la popolazione locale è
per i due terzi afroamericana. Dall’estate 2014 Ferguson è diventata il Ground Zero di una
protesta a livello nazionale: tanto più che la morte di Michael Brown è stata seguita da
altre tragedie simili, per esempio l’uccisione di Eric Garner a Staten Island (New York),
ancora un afroamericano disarmato, strangolato a terra da un poliziotto e morto per
soffocamento. Anche in quel caso, nessun processo a carico dell’agente.
A rilanciare la protesta di Ferguson ha contribuito l’Amministrazione Obama. Dopo
l’uccisione di Brown, il governo federale aprì un’indagine sulla polizia della cittadina del
Missouri, per accertare possibili abusi contro i diritti umani. Il rapporto, uscito la scorsa
settimana, è durissimo. Le sue conclusioni danno ragione ai giovani che per mesi avevano
protestato. Ha riaperto una ferita. Tra gli episodi elencati, è indicativo quello di Jalesa
Lofton, ragazza afroamericana di 25 anni. Fermata e multata più volte da diversi agenti di
polizia per la stessa infrazione: i vetri dell’automobile oscurati; poi arrestata e mandata in
carcere per non aver pagato quelle due multe in tempo. Uno dei metodi persecutori inflitti
sistematicamente sulla popolazione afroamericana è proprio di questo tipo:
un’applicazione implacabile, ossessiva, dei più minuti articoli del regolamento stradale e
delle normative municipali, con l’intento di fare cassa rimpinzando le finanze comunali di
multe. Altri comportamenti elencati nel rapporto federale: l’uso di cani-poliziotto aizzati
contro i neri; gli insulti razzisti rivolti agli afroamericani.
Negli ultimi mesi l’intensità e la frequenza delle proteste a Ferguson si erano andate
affievolendo; le manifestazioni contro la polizia si erano spostate di volta in volta in altre
città come New York e Los Angeles dopo episodi di violenza contro i neri. Ma la
pubblicazione del rapporto ufficiale da parte del Dipartimento di Giustizia ha scatenato di
nuovo i giovani neri di Ferguson: in quelle pagine redatte dagli inquirenti federali, hanno
trovato la conferma autorevole che la loro rabbia aveva un fondamento legittimo.
Le dimissioni dei tre responsabili locali — city manager, capo della polizia e giudice —
anziché soddisfare gli abitanti, hanno fatto da detonatore della nuova protesta. Tanto più
che alla rabbia contro le forze dell’ordine si è aggiunto il disagio socio-economico: la
cittadina di Ferguson non fa nulla per agevolare la ricostruzione di negozi e piccole officine
devastate negli scontri dell’estate scorsa; i permessi per i lavori edili arrivano col
contagocce, in grande ritardo; alimentando il sospetto che si voglia far pagare alla
popolazione nera il conto di quelle manifestazioni.
L’ultima protesta è scatta in modo pacifico, mercoledì, subito dopo l’annuncio delle
dimissioni del capo della polizia Tom Jackson. Col passare delle ore i cordoni della polizia
hanno assunto una posizione più dura, indossando le armature da combattimento. Sono
cominciati i primi arresti. A mezzanotte si sono sentiti i colpi di arma da fuoco, ed è stato il
caos: i manifestanti scappavano in tutte le direzioni.
«Ora la nostra priorità — ha detto il capo della polizia di Saint Louis — è identificare i
colpevoli dell’aggressione ai nostri agenti. In questo caso i poliziotti non hanno risposto al
fuoco, ma in futuro potranno farlo».
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Del 13/03/2015, pag. 1-7
Usa, il sogno vicino all’esplosione
Alessandro Portelli
C’è una classica poesia di Langston Hughes, il grande poeta afroamericano, che
domanda: che succede a un sogno differito? Avvizzisce come un acino d’uva al sole, si
affloscia, marcisce – o esplode? A Ferguson, il sogno americano accarezzato da Martin
Luther e ventilato dall’elezione di Barack Obama sta infine esplodendo. Un altro omicidio
di polizia, nel giro di 24 ore, si è aggiunto ad Atlanta alla definitiva impunità di chi ha ucciso
Michael Brown: come a Los Angeles nel 19992, l’esplosione non avviene dopo l’atto di violenza, ma dopo che le istituzioni l’hanno sancito e cancellato.
La rivolta di Los Angeles nel 1992 non esplose dopo la bastonatura di Rodney King ma
dopo l’assoluzione dei poliziotti responsabili. Non c’è stata risposta violenta a Ferguson
dopo la morte di Brown, ma il verdetto ufficiale che ha ne negato la matrice razzista è stato
quello che fatto traboccare il vaso: perché qui non è più questione solo del razzismo endemico nelle forze di polizia ma della complicità di tutte le istituzioni: i tribunali, il governo,
l’America intera sono incapaci di garantire non dico la parità ma almeno la sicurezza elementare della popolazione afroamericana.
Possiamo aspettarci adesso le solite reazioni scontate: no alla violenza, gesti del genere
sono controproducenti… È probabile che ancora una volta Barack Obama si troverà
messo nell’angolo: inevitabilmente, dovrà stigmatizzare la violenza, esprimere solidarietà
ai due poliziotti feriti (componenti di una struttura ufficialmente riconosciuta, questa sì,
come razzista). e non riuscirà a fare niente per assicurare i diritti della stesa gente che lo
ha fatto eleggere – se no, rischia che qualcuno ritiri fuori ancora una volta nei suoi confronti la litania del “razzismo all’incontrario”. Ma la storia qui è diversa dal gesto individuale
che ha ucciso due poliziotti a New York qualche tempo fa. Qui sono membri di una comunità che ha provato finché ha potuto a mantenere la calma, e che adesso non ne possono
più; quelli che hanno sparato possono non essere i più lucidi e responsabili ma incarnano
uno stato d’animo che va ben oltre loro stessi. Come disse Malcolm X a Selma: l’America
si deve rendere conto che se non dà ascolto alla lotta non violenta di Martin Luther King,
avrà a che fare con me. Sessant’anni di movimento dei diritti civili, le rivolte urbane di
Watts di Harlem e di innumerevoli altri ghetti, la crescita di un ceto medio e professionale
afroamericano, l’elezione di un presidente nero – dopo tutto questo, sembra che la storia
si ripeta ancora come se non fosse successo niente, come se solo l’esplosione violenta
della rabbia potesse far capire all’America in che stato si trova. Perchél’America è in
guerra e rifiuta di accorgersene: a guardare quello che dicono gli opinionisti in TV, si tratta
solo di problemi locali e incidenti isolati. Una catena infinita di «incidenti isolati». Un conteggio probabilmente sottostimato dà la cifra di 3300 persone uccise dalla polizia fra maggio 2013 e febbraio 2015. La pagina facebook Killed by Police elenca con nomi e foto 33
morti (quasi tutti neri, latini o nativi americani) nei primi 15 giorni di questo mese di marzo
2015, più di due al giorno. In 15 anni di guerra in Iraq e Afghanistan i caduti americani
sono stati 5281: circa 350 l’anno, contro i 400 l’anno che secondo i dati ufficiali governativi,
sicuramente sottostimati, sono gli americani uccisi dalla polizia. Avevano ragione quelli
che dicevano che un giovane nero ha più possibilità di essere ucciso nel suo quartiere che
in Afghanistan. Nel frattempo, tutta l’America dei partiti, dei media e delle istituzioni
è sconvolta da un nuovo «scandalo»: pare che Hillary Clinton abbia mandato email ufficiali
con il suo account personale. Sono queste le cose importanti davvero. E l’acino d’uva continua a marcire.
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DIRITTI CIVILI
del 13/05/15, pag. 22
“Nozze gay un diritto umano” svolta
dell’Europarlamento ma il Pd si spacca sul
voto
La relazione passa a Strasburgo a larghissima maggioranza “Sulle
unioni si farà la legge”. Contrari cattolici dell’area dem e Ncd
ALBERTO D’ARGENIO
DAL NOSTRO INVIATO
BRUXELLES .
Per il Parlamento europeo le unioni civili e il matrimonio tra persone dello stesso sesso
sono un diritto umano e civile, che tutti i governi dell’Unione dovrebbero garantire ai propri
cittadini. La presa di posizione della plenaria di Strasburgo, che ha un alto valore politico
ma non è vincolante per le Cancellerie, è arrivata ieri con il voto della relazione annuale
sui diritti umani e la democrazia nel mondo il cui relatore è stato l’europarlamentare
democratico Antonio Panzeri. Ciononostante il Pd al momento del voto si è spaccato. Un
antipasto di quanto potrebbe avvenire a Roma all’interno dei dem e della maggioranza di
governo, visto che il premier Matteo Renzi da tempo ha indicato che quelle sulle unioni
civili sarà tra i provvedimenti che a breve arriverà al Consiglio dei ministri. Tra i ventotto
Paesi dell’Unione, l’Italia è uno dei nove che non prevede alcuna tutela per le coppie
omosessuali.
Il Parlamento europeo dunque prende atto «della legalizzazione del matrimonio e delle
unioni civili tra persone dello stesso sesso in un numero crescente di Paesi del mondo,
attualmente diciassette, e incoraggia le istituzioni e gli Stati membri dell’Ue a contribuire
ulteriormente alla riflessione sul riconoscimento del matrimonio o delle unioni civili tra
persone dello stesso sesso in quanto questione politica, sociale e di diritti umani e civili». Il
testo passa con 390 voti a favore, 151 no e 97 astensioni.
Gli eurodeputati tra l’altro hanno anche stigmatizzato il fatto che ancora oggi
l’omosessualità è sanzionata penalmente in ben 78 Paesi del mondo, alcuni dei quali
prevedono la pena di morte, ovvero Arabia Saudita, Nigeria, Mauritania, Sudan, Sierra
Leone, Yemen, Afghanistan, Iran, Maldive e Brunei.
Da Roma il leader di Sel, Nichi Vendola, commentando il passaggio sulle unioni tra
persone dello stesso sesso ha twittato: «Molto bene il voto di Strasburgo, ora qualcuno
informi Renzi e Alfano». Gli risponde, sempre via social network, il capogruppo del Partito
democratico a Montecitorio, Roberto Speranza: «Dal Parlamento europeo arriva un
messaggio forte per promuovere i diritti civili, al più presto arriverà una legge coraggiosa
anche in Italia».
Ieri il Pd non ha votato compatto, come accaduto martedì scorso sull’aborto, per i
malumori dell’ala cattolica del partito. Il voto sull’articolo che tratta le unioni civili ha
registrato le astensioni della capodelegazione Patrizia Toia e di Caterina Chinnici, mentre
Silvia Costa ha deciso di non prendere parte alla votazione e due sono stati i contrari,
Luigi Morgano e Damiano Zoffoli. Sul testo finale, invece, Costa, Toia e Chinnici hanno
votato sì, mentre sono rimasti contrari Morgano e Zoffoli. Patrizia Toia (Pd) ha spiegato la
sua astensione dicendo che il testo «aveva una formulazione troppo squilibrata sulla parità
tra unioni civili e matrimonio». Ma a Strasburgo a essere andati in ordine sparso sono
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proprio i partiti che in Italia formano la mag- gioranza di governo visto che il Nuovo
Centrodestra di Angelino Alfano ha votato contro il testo, con l’eccezione di Giovanni La
Via.
Dunque i malumori interni al Pd e la spaccatura tra democratici ed Ncd potrebbero tornare
a galla a Roma quando Renzi presenterà il disegno di legge che si ispira al modello
tedesco, a Berlino in vigore dal 2001. Il testo, al quale lavora anche il dem Ivan
Scalfarotto, dovrebbe prevedere delle unioni civili che danno diritti molto vicini a quelli del
matrimonio, ma con alcune differenze. Ad esempio che non si possono adottare bambini
esterni alla coppia.
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INFORMAZIONE
del 13/03/15, pag. 13
Renzi: “Rilancio la Rai altro che mani sopra”
Le Camere eleggeranno la maggioranza del
Cda
Al Parlamento in seduta comune la nomina di 4 membri due al governo,
uno ai dipendenti. Scontro con i 5Stelle
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA .
Matteo Renzi aspetta l’ultimo scampolo di conferenza stampa per parlare della Rai che
vorrebbe. Per ora, sul tavolo del Consiglio dei ministri è arrivato solo questo, un insieme di
intenti di riforma della televisione pubblica che dovrebbero essere trasformati in un
disegno di legge già nel prossimo cdm. «Leggo stravaganti ricostruzioni secondo cui
“Renzi vuole mettere le mani sulla Rai” - dice il premier - Non ero bravo in matematica, ma
voglio ricordare che per come funziona la Gasparri, se rinnovassimo il cda con questa
legge le forze politiche di governo avrebbero già la maggioranza. Se volessi davvero
mettere le mani sulla Rai, mi basterebbe non fare niente. Noi vogliamo dare ossigeno
all’azienda ». Rispetto al documento che girava mercoledì a palazzo Chigi, qualcosa è
cambiato. «Non sarà il governo da solo a nominare i dirigenti della Rai - ha spiegato il
premier - la maggioranza del consiglio di amministrazione sarà eletta dal Parlamento in
seduta comune, come avviene nei momenti importanti, per gli organi di garanzia ». Fino a
poche ore prima si parlava di un cda a sette, con tre persone scelte dal governo e tre dal
Parlamento, insieme a un rappresentante dei dipendenti sul modello tedesco della cogestione. Le cose però stanno cambiando. Il numero dei consiglieri nominati dal governo
(questo però Renzi non lo ha detto ufficialmente) potrebbe passare a due (le Camere ne
avrebbero quattro), per alleggerire un po’ il ruolo dell’esecutivo, considerato esagerato
anche da un professore di Diritto delle Comunicazioni come Roberto Zaccaria. L’ex
presidente Rai sul sito dell’associazione Articolo 21 scrive: «Dalla televisione pubblica
devono essere tenuti fuori sia i partiti che il governo. Se uscissero i primi e restasse il
secondo sarebbe una iattura e non si rispetterebbe il principio enunciato dalla Corte
costituzionale fin dalla sentenza 225 del 1974». Non è un caso, che Renzi abbia
dichiarato: «Rispetteremo tutte le sentenze» e che non si sia soffermato sulla ripartizione
del cda. Quel che però ha voluto sottolineare, è che «bisogna dare a chi gestisce l’azienda
la possibilità di fare scelte di cui risponderà». E quindi, nessun dubbio che l’amministratore
delegato sarà scelto dal governo e confermato dal consiglio di amministrazione. «Non
dev’esserci più contiguità fra Rai e forze politiche, tanto che ogni settimana bisogna
discutere delle scelte con i parlamentari della Vigilanza o i segretari di partito ». E basta
«con le duplicazioni, la pletora di vice, posti creati per sistemare le singole persone e non
per fare l’interesse dei cittadini ». Quanto alle reti, «credo che dovrebbero avere una più
marcata definizione e missione e che ce ne dovrebbe essere una a carattere culturale
senza pubblicità », dice il premier. Poi, per due volte, sferza i Cinque stelle: «Il sorteggio che è una parte della proposta M5S per la nomina del cda - è l’abdicazione della politica di
fronte alla responsabilità. Io scelgo una persona e ne rispondo. Chi vuole fuggire le
responsabilità rifugiandosi sull’Aventino lo faccia, ma il sorteggio va bene per il
superenalotto ». Il presidente della Vigilanza Rai Roberto Fico ribatte: «L’onestà
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intellettuale vuole che si legga una proposta di legge nella sua interezza e non se ne
estrapoli una parte per fare propaganda. Inutile nascondere la lottizzazione governativa
con il concetto di responsabilità ». Così, nonostante gli incontri e i tweet di apertura, il
tanto ventilato dialogo Pd-M5S sulla riforma parte in salita.
del 13/03/15, pag. 5
Reti tematiche (e una senza spot)
«La Rai non inseguirà l’audience»
«Pensiamo alla Rai come una delle più grandi imprese culturali d’Europa. Siamo orgogliosi
della Rai e vogliamo che gli italiani lo siano sempre di più. E vogliamo che non abbia
sempre l’occhio sui dati auditel alle 10 del mattino. Che sono importanti, ma è importante
una Rai capace di rappresentare il Paese. Ha educato intere generazioni all’unità d’Italia
col maestro Manzi, e non solo, ora dev’essere il grande soggetto che prende per mano gli
italiani e li porta nell’era digitale, con attenzione ai contenuti e con il rispetto del compito
informativo del servizio pubblico». Così Matteo Renzi descrive, alla fine del Consiglio dei
ministri, la sua idea di Rai dopo l’avvio della discussione su una prima bozza di riforma.
Come si sapeva già, non esiste ancora un testo che si discuterà nella prossima riunione
del Consiglio dei ministri. Toccherà ai suoi stretti collaboratori metterlo a punto. Ma da ieri
sera è chiara l’idea renziana della nuova tv pubblica riformata.
Basta con i partiti
Per il presidente del Consiglio nella Rai non ci deve più essere «quella contiguità con i
partiti e le forze politiche che porta tutti i giorni a dover discutere e valutare le scelte
magari sentendo il membro della Commissione di vigilanza o il segretario di partito.
Questo non significa che chi ha responsabilità del governo o delle forze politiche si debba
tirare indietro rispetto al compito di individuare la missione strategica dell’azienda e di
individuare le persone che dovranno guidarla. Ma dopo aver scelto la missione e le
persone chiamate a guidare l’azienda non è più possibile aprire una discussione tra le
forze politiche per nominare un vicecaporedattore di non dico quale sede regionale».
Le tre reti tematiche
Renzi conferma le indiscrezioni sul tramonto delle tre reti generaliste: «Le singole reti
dovrebbero avere più marcata definizione e missione. Secondo me dovrebbe esserci una
rete senza pubblicità, destinata alla cultura non in senso noioso o passatista ma come
arricchimento della persona umana». Delle altre due reti già si sa che la prima dovrebbe
essere quella più generalista e la seconda destinava all’innovazione.
L’amministratore delegato
Il nuovo amministratore delegato verrà designato dal governo, assicura Renzi: «Credo che
il governo abbia il dovere di individuare il capo azienda che deve passare dal voto di
conferma del consiglio di amministrazione. E un membro del cda credo che debba essere
espressione dei dipendenti della Rai». Comunque insiste su un «manager forte»: «
Occorre dare la possibilità a chi sarà nominato di fare scelte di cui risponderà a fine
mandato o, in corso dell’incarico, se si allontanerà dalle direttive della commissione di
Vigilanza». E qui il presidente del Consiglio polemizza col disegno di legge del Movimento
5 Stelle che immagina un sorteggio per la scelta dei Consiglieri Rai: «Noi siamo contrari al
sorteggio, che è un’abdicazione della politica di fronte alle responsabilità. Pensiamo che il
governo debba avere un progetto ma il Parlamento sarà decisivo». Renzi cita le sentenze
della Corte Costituzionale che vietano nomine che siano espressione esclusiva o
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prevalente del governo: «Non pensiamo che il governo possa nominare tutto da solo,
anche se ha il 97% della Rai...Ha il dovere, più che il diritto, di individuare il capo azienda
che poi naturalmente deve passare al voto del Consiglio di amministrazione.»
Il consigliere eletto dalla Rai
I consiglieri saranno sette e la maggioranza (quindi presumibilmente quattro), annuncia
Renzi, sarà votata dalle Camere «spero in seduta comune per sottolineare l’importanza
della Rai». Confermata l’ipotesi di un consigliere votato dai dipendenti Rai .Gli altri due, si
può presumere (ma il testo è aperto) verranno votati dal Consiglio dei ministri, e tra loro ci
sarà l’amministrazione delegato. E poi aggiunge: «Mi viene da ridere quando sento dire
che voglio mettere le mani sulla Rai. Ho rinunciato per un anno a parlare con i vertici
attuali per non dare l’impressione dell’ennesimo segretario di partito che si occupa della
gestione Rai. Per controllarla mi bastava la legge Gasparri. Noi vogliamo invece
spalancare la tv pubblica, mettere nelle condizioni un’azienda ricca di grandi
professionalità di competere a livello internazionale». Ora si apre il confronto sulla
proposta del governo, avverte il presidente del Consiglio: «Sarà il Parlamento a decidere.
L’importante è che il capo azienda possa lavorare. E non sia costretto a mediazioni su
mediazioni, con un numero pletorico di vicedirettori, vicecapiredattori, vicestrutture....una
moltiplicazione che serve a occupare la persona e non ad accontentare i cittadini»
Le nomine Gubitosi
Queste ultime frasi di Renzi confermano le voci di un nuovo positivo giudizio di palazzo
Chigi e del Pd sul «piano Gubitosi»>, la riforma dell’informazione del servizio pubblico
voluta dall’attuale direttore generale Luigi Gubitosi. Lo schema è noto: due Newsroom
centrali. Newsroom 1 , formata da Tg1, Tg2, Rai Parlamento e Newsroom1 composta da
Tg3, Rai News più Tgr. Quindi due soli direttori centrali e poi due vicedirettori operativi per
ciascuna testata. La prospettiva è, a fine 2017, approdare al direttore unico delle News
Rai. Secondo voci insistenti, il Pd potrebbe lasciare mano libera a Gubitosi nelle nomine
per le due Newsroom, proprio nel principio della non interferenza, e per lasciare al nuovo
cda una Rai già snellita.
Paolo Conti
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 13/03/15, pag. 2
Dai precari agli sgravi per le private: così in
sei mesi è cambiata la riforma
GLI ORGANICI
Il piano iniziale
Lo scorso 3 settembre veniva annunciata l’assunzione per il 1° settembre
2015 di 148mila supplenti presi dalle Graduatorie a esaurimento, considerate
lo storico blocco al buon funzionamento della scuola.
Il ddl
A settembre 100.700 assunzioni concorso per 60mila nel 2015
ACCANTONATO il decreto legge, ora il disegno con iter parlamentare dà il via libera a un
Piano straordinario di assunzioni per coprire le cattedre vacanti e creare il più ampio
organico dell’autonomia. Vengono stabilizzati dal prossimo 1° settembre 100.701 docenti:
99.000 presi dalle Gae e 1.700 dal concorsone 2012. Altri diecimila avranno un contratto
ponte di un anno: dovranno fare il concorso. Per le assunzioni ci sono 640 milioni in
stabilità su un miliardo totale. Dopo la maxi-stabilizzazione si tornerà ad assumere solo
per concorso. Si prevede nel 2015 un bando fino a 60 mila docenti che coprirà le
assunzioni dell’arco 2016-2019. Si conferma la chiusura delle graduatorie a esaurimento:
restano aperte solo per 23 mila insegnanti della materna. Fuori chi è nelle graduatorie di
istituto: per entrare in cattedra dovrà fare concorso. Il premier ha confermato l’assunzione
dei vincitori del concorso 2012, non degli idonei (8.300). Di questi, 3.400 sono anche nelle
Gae e saranno assunti da quel canale. Si apre un fondo per gli indennizzi per i precari non
assunti che faranno causa e la vinceranno.
GLI STIPENDI
Il piano iniziale
“La Buona scuola” voleva l’introduzione degli scatti di merito per i docenti migliori. Il
ministro Giannini parlava di “abolizione totale” degli scatti di anzianità. Mediazione del
sottosegretario Faraone: 30% anzianità e 70% merito.
Il ddl
Premi per un professore su 20 bonus per i consumi culturali
NELLA versione definitiva gli scatti di merito scompaiono e quelli d’anzianità restano in
toto: cinque avanzamenti nel corso della carriera. In “zona Cesarini” è stato introdotto un
diverso tipo di premio destinato sempre ai docenti: è il bonus annuale delle eccellenze.
Alla fine di ogni anno il dirigente scolastico, sentito il Consiglio di istituto, assegnerà il
premio al 5 per cento dei suoi insegnanti per dare un riconoscimento economico a chi si
impegna di più. Nel giudizio peseranno la qualità dell’insegnamento, la capacità di
utilizzare metodi didattici innovativi, il contributo dato al miglioramento complessivo della
scuola. Per il bonus saranno stanziati dal governo 200 milioni ogni anno. Nella precedente
formulazione si premiava il 66 per cento dei docenti. Nella versione definitiva solo,
appunto, il 5 per cento. Carta per l’aggiornamento e la formazione dei docenti: un voucher
di 500 euro da utilizzare per l’aggiornamento professionale attraverso l’acquisto di libri,
strumenti digitali, iscrizione a corsi, l’ingresso a mostre.
I PRESIDI
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Il piano iniziale
I presidi manager sono stati dall’inizio uno dei capisaldi della riforma. Avranno più soldi e
potere. Sceglieranno gli assistenti (sono ancora chiamati mentor) per valutare i docenti e
quelli utili per organizzare (sono chiamati staff).
Il ddl
Il capo d’istituto sceglie lo staff tra i docenti iscritti all’albo
IL DIRIGENTE scolastico forma la sua squadra. I presidi potranno individuare i docenti
che ritengono più adatti per realizzare i Piani dell’offerta formativa all’interno di albi
territoriali costituiti dagli Uffici scolastici regionali. Gli incarichi affidati saranno resi pubblici
su un apposito portale del Miur. Ogni dirigente potrà poi individuare fino a tre insegnanti in
base ai crediti professionali che resteranno in carica tre anni: aiuteranno il preside
nell’organizzazione della vita scolastica e nei processi di valutazione (ex docenti mentor),
questi saranno almeno due e avranno premi prelevati dai 200 milioni di bonus. Per i
presidi ci saranno 35 milioni in più. I docenti di ruolo dovranno restare nell’istituto
assegnato almeno tre anni. Per tutte le nuove materie — elementari e superiori — ci
saranno i docenti specialisti. Per la definitiva immissione in ruolo a tempo indeterminato i
docenti dovranno sottoporsi all’anno di prova. I contratti dei supplenti non dovranno
superare i 36 mesi, come ha sentenziato la Corte di giustizia Ue.
LE NUOVE MATERIE
Il piano iniziale
L’organico funzionale servirà a gestire anche le materie nuove, rafforzate o ristabilite: sono
dieci in tutto alle elementari e alle medie. Diversi tagli della Gelmini — arte e musica —
sono risanati, entrano diritto ed economia.
Il ddl
Più inglese, economia e arte arriva il curriculum dello studente
MOLTE le materie scolastiche rafforzate o reintrodotte. Alle scuole elementari: inglese in
metodo Clil (si parla solo in lingua straniera), più musica, educazione motoria ed
educazione alla cittadinanza (legalità, valori culturali, ambientali, stili di vita). Alle superiori:
inglese in metodo Clil, arte in tutti i percorsi liceali dalla prima classe, arte e territorio in
diversi tecnici e professionali e nell’alberghiero. Poi diritto nel primo biennio di tutte le
scuole; economia nel secondo. Laboratori linguistici in italiano per stranieri. Nasce il
curriculum dello studente a fini orientativi (università) e di accesso al lavoro. Sarà formato
dai voti del ciclo scolastico e da esperienze extra: musicali, sportive, di volontariato. Se ne
terrà conto all’orale della maturità. Lo studente potrà crearsi un piano di studi
personalizzato scegliendo tra alcune materie offerte dall’istituto. La carta dello studente
consentirà ai ragazzi delle superiori (anche paritarie) di accedere a servizi culturali, di
mobilità, alla tecnologia utile per lo studio. Con l’approvazione dei genitori diventerà carta
di pagamento.
I TIROCINI
Il piano iniziale
Sei mesi fa era già un capitolo fondamentale delle linee guida: alternanza scuola-lavoro
alla tedesca contro il 44% di disoccupazione giovanile, i 2 milioni di Neet e tassi di
dispersione scolastica sopra il 17%.
Il ddl
Stage nel triennio delle superiori l’esito peserà sulla maturità
L’ALTERNANZA scuola-lavoro prevederà una educazione degli studenti
all’autoimprenditorialità. Nascerà il registro nazionale delle imprese dell’alternanza scuolalavoro: gli studenti di quarta e quinta superiore stipuleranno contratti di apprendistato. Nel
triennio finale dei tecnici e dei professionali il periodo lavorativo sarà di almeno 400 ore: si
potranno svolgere anche durante la sospensione delle attività didattiche. Almeno 200 ore
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l’impiego nell’ultimo triennio liceale. Stage e tirocini possono valere per l’esame di
maturità. Il tutor aziendale potrà essere presente alla maturità dello studente che in quella
realtà ha lavorato per alcuni periodi. Nelle scuole saranno sviluppati laboratori territoriali
del “Made in Italy”: potranno essere utilizzati fuori dall’orario scolastico. Negli istituti si
attiveranno centri di collocamento e riqualificazione dei giovani disoccupati. Saranno
rafforzati e collegati a Fondazioni gli Istituti tecnici superiori, che hanno funzionato bene
sul piano didattico e dell’accesso al lavoro.
LE SCUOLE NON STATALI
Il piano iniziale
Nel piano di settembre gli sgravi alle paritarie erano solo un accenno, anche se il ministro
Giannini in estate, a Rimini, davanti alla platea di Cl, li aveva annunciati. Sono stati uno dei
temi più dibattuti di questi mesi
Il ddl
Sconto fiscale fino a 400 euro per chi iscrive i figli alle paritarie
VIENE confermata la detraibilità delle spese sostenute dalle famiglie i cui figli frequentano
una scuola paritaria dell’infanzia o del primo ciclo. Lo sgravio finale non potrà essere
superiore a un importo annuo di 400 euro per alunno o studente. Il 5 per mille potrà essere
destinato anche alle scuole, di Stato o private, e con lo school bonus chi farà donazioni a
favore degli istituti per la costruzione di nuovi plessi, la loro manutenzione, per la
promozione di progetti dedicati all’occupabilità degli studenti avrà un beneficio fiscale —
credito di imposta — pari al 65% in sede di dichiarazione dei redditi. Cambia l’approccio
all’investimento sulla scuola: ogni cittadino viene incentivato a contribuire al miglioramento
dell’intero sistema scolastico. Il ddl prevede un bando per la costruzione di venti scuole
altamente innovative, green e caratterizzate da nuovi ambienti di apprendimento digitali.
Saranno recuperate le risorse fin qui non spese per investirle nella sicurezza degli edifici.
E si stanzieranno 40 milioni per finanziare indagini sui controsoffitti delle scuole.
IL PIANO DIGITALE
Il piano iniziale
La crescita digitale dei nostri bambini, già dalle scuole elementari era un asset già sei mesi
fa.
Un uso più consapevole, sicuro e con finalità culturali degli strumenti a disposizione, a
partire da internet.
Il ddl
Dal wi-fi alla didattica hi-tech e in aula si diventerà artigiani
IL PIANO digitale nazionale prevede che gli alunni studino, tra l’altro: logica e pensiero
computazionale, utilizzo dei dati, cittadinanza digitale ed educazione ai media, artigianato
produttivo digitale. Il piano digitale prevede investimenti per il rafforzamento della banda
larga e del wi-fi in tutte le scuole, non ci saranno più investimenti sulle lavagne
multimediali, strumenti costosi e superati dai proiettori di ultima generazione. Si prevede,
poi, formazione tecnologica dei docenti e degli amministrativi, oggi in ritardo su questo
piano. Quindi, attenzione allo sviluppo delle competenze digitali degli studenti: pensiero
computazionale, utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media, artigianato
produttivo digitale. Si vuole sviluppare il cosiddetto “coding”, il linguaggio informatico che
consente l’acquisizione di una nuova lingua, un codice che consente la possibilità di
programmazione di computer e tablet. Il “coding”, come le nuove lingue, per dare risultati
efficaci deve essere appreso da bambini.
LA VALUTAZIONE
Il piano iniziale
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Le scuole - si diceva nel piano iniziale dovranno essere valutate, e lo saranno anche gli
insegnanti. Si creeranno nuove figure che si specializzeranno in questo ruolo e
nasceranno nuovi organismi adatti
Il ddl
Verifica anche per gli insegnanti niente aumento a chi non la supera
PIANI triennali di formazione del corpo docente: la formazione in servizio diventa
obbligatoria e per questa vengono stanziati 40 milioni l’anno. Il nucleo interno di
valutazione dei docenti è costituito da tre professori scelti dal dirigente scolastico sentito il
Consiglio di istituto. La valutazione triennale, che andrà in legge delega, si basa su:
autovalutazione annuale del docente, qualità della didattica. Il docente che per due
valutazione non supera i requisiti minimi non ha diritto ad aumenti stipendiali. Gli studenti
ogni fine anno compongono un questionario dove danno giudizi sull’insegnante. Nasce
l’Istituto per l’autonomia e la valutazione scolastica (Ipav) e saranno soppressi Invalsi
(valutazione) e Indire (didattica avanzata). Viene istituito un portale unico della scuola con
la pubblicazione in chiaro di tutti i dati relativi al sistema di istruzione: bilanci delle scuole,
Anagrafe dell’edilizia, Piani dell’offerta formativa, dati dell’Osservatorio tecnologico,
curriculum degli insegnanti, incarichi di docenza.
Del 13/03/2015, pag. 3
“Buona Scuola”, 50 mila studenti sfiduciano il
governo
Una mobilitazione inedita a marzo. In 40 città gli studenti hanno aderito
all’appello dell’Uds. L’opposizione alla precarietà del Jobs Act. A Milano
slogan contro Renzi e l’Expo. Lacrimogeni contro il corteo e lanci di
oggetti. Fermato un ragazzo di 15 anni
Riccardo Chiari
Dal muro di pinkfloydiana memoria eretto dagli universitari bolognesi, al flash mob dei
liceali romani truccati da clown, per denunciare le pagliacciate del governo sulla scuola.
Fantasia al potere nella mobilitazione studentesca organizzata, da un capo all’altro della
penisola, nel giorno del ddl sulla cosiddetta «buona scuola» renziana. Allo striscione «12
marzo, una generazione che non si arrende» che ha aperto il corteo nella capitale, ha fatto
eco quello dei milanesi: «Expo+ Jobs Act+ Buona Scuola = un futuro di merda».
Anche il presente, vista la reazione delle forze dell’ordine che, in assetto antisommossa,
hanno cosparso di lacrimogeni gli studenti che volevano avvicinarsi alla Regione Lombardia, in quella che è stata la manifestazione più movimentata. Soprattutto per la reazione
poliziesca, visto che gli agenti hanno trascinato via dal corteo un ragazzino di 15 anni, portato in Questura e denunciato per «lancio di oggetti». Che altro non erano che uova (fresche), dirette verso l’Expo Gate di largo Cairoli, e un po’ di vernice gettata sugli scudi gladiatorii di una celere asserragliata in piazza Einaudi, a protezione del palazzo lombardo
del potere. Tanto è bastato comunque, ai solerti aedi delle imprese governative, per
denunciare i «momenti di tensione» nei cortei studenteschi. Caratterizzati invece da una
significativa presa di coscienza anche del non certo roseo contesto in cui gli under 25 si
trovano, letteralmente, immersi. A riprova, nel corso della manifestazione romana,
all’incrocio fra via Cavour e via degli Annibaldi, dal muro di una scalinata è calato uno striscione con su scritto «#18M Block Bce see you on the barricades Frankfurt». Riferimento
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alla giornata di mobilitazione di mercoledì prossimo, quando nella capitale continentale
della finanza sarà inaugurata la nuova sede della Bce. Nel comunicato finale che riassume
una giornata vissuta in contemporanea anche a Torino, Napoli, Genova e tante altre città,
traspare la soddisfazione di Udu. Link e Rete della conoscenza: «In 40 piazze sono scesi
50mila studenti – commenta Danilo Lampis a nome dell’Unione degli studenti — il governo
non ha la loro fiducia. E le piazze di oggi devono essere ascoltate, basta con vuoti slogan
e populismo». Un populismo denunciato anche dai clown under 20 davanti al Miur in viale
Trastevere: «Siamo qui per rivendicare una scuola che sia buona per davvero, e non le
pagliacciate uscite in queste settimane». Anche gli universitari non sono stati a guardare.
A Bologna hanno costruito nella notte dei simbolici muri, fatti di scatoloni, davanti agli
ingressi della facoltà di economia in piazza Scaravilli, e delle aule universitarie di via Belmeloro. Accanto uno striscione: «Giù il muro, accesso agli studi per tutti». Alberto Campailla, portavoce di Link, segnala: «Anche in altre città abbiamo murato simbolicamente
l’ingresso delle facoltà, per rivendicare l’accesso all’università a partire dal finanziamento
del diritto allo studio, e chiedendo l’introduzione dei livelli essenziali di prestazioni».
Non solo protesta, anche proposta: «Non ci limitiamo a richiedere il ritiro de “la buona
scuola” – ricorda Lampis dell’Udu — abbiamo proposto l’altroieri in una conferenza stampa
alla Camera delle valide alternative. E chiediamo che si discuta della legge di iniziativa
popolare sulla scuola ripresentata ad agosto. Perché, se fosse implementata, sarebbe un
grande punto di partenza per una scuola inclusiva, laica e democratica».
Pieno appoggio alle mobilitazioni sia da Rifondazione che da Sel: «Siamo convinti anche
noi – osserva la senatrice Alessia Petraglia — che sia necessario cambiare verso alla
scuola, e siamo certi che Costituzione e Lip siano la strada maestra per cambiare una
situazione inaccettabile. Il governo ascolti queste piazze, perché è qui la “buona scuola” di
cui il paese ha bisogno». Ma Renzi & c. hanno idee opposte: «Un provvedimento che stravolge la funzione costituzionale del sistema scolastico – tirano le somme Paolo Ferrero
e Vito Meloni — e porta a compimento il disegno delle controriforme Moratti e Gelmini».
Da Riccardo Laterza della Rete della Conoscenza, uno sguardo finale a quello che è stato
il primo passo di una mobilitazione di lungo periodo: «Nei cortei abbiamo detto un secco
no a precarietà e austerità. Il governo Renzi è espressione di poteri che tengono sotto
scacco l’intera Europa. E’ necessaria una riscossa democratica che parta dalla gratuità
dell’istruzione, dal reddito di base, da un lavoro di qualità e pagato, da un modello di sviluppo fondato su giustizia ambientale, democrazia dei territori, rottura con le politiche di
austerità. Per questo le piazze di oggi hanno rilanciato la giornata del 18 marzo».
Del 13/03/2015, pag. 3
Buona Scuola, nasce il preside manager,
chiamata diretta dei docenti
"Buona Scuola". Il governo approva il Ddl. Marcia indietro sugli scatti di merito.
Assunti 107 mila precari dalle Gae, esclusi 23 mila della scuola primaria e idonei
2012. Confermati i fondi alle paritarie fino alla terza media. Tempi stretti per
l'approvazione in Parlamento
Roberto Ciccarelli
IL governo Renzi sarà ricordato per l’istituzione del «preside manager», una figura di
padre-padrone dotato del potere di chiamata diretta dei docenti, ma anche di quello di conferire un aumento stipendiale, dopo avere consultato gli organi del suo istituto. Lì dove non
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è riuscito Berlusconi e Gelmini, con il Ddl Aprea, lì è arrivato il governo guidato dal Pd che
realizza un vecchio sogno ricorrente: quello di una scuola compiutamente aziendalista,
gerarchica e produttivistica. Ma non basta: a questo dirigente dotato di super-poteri verrà
concessa la parola finale sulla formazione dei docenti che avverrà nell’istituto dove lavora.
Gli aumenti di stipendio basati sul «merito» saranno conferiti dal preside in base «ad un
raking degli insegnanti e dei team dei docenti che lui avrà scelto» ha detto ieri il presidente
del Consiglio Matteo Renzi nel corso di una conferenza stampa. A questo proposito, una
frase pronunciata dal ministro dell’Istruzione Stafania Giannini in un question time ieri alla
Camera, è utile per spiegare questa trasformazione genetica delle forme democratiche
nella scuola. L’autonomia funzionale e organizzativa delle scuole sarà «fortemente collegata al potenziamento delle responsabilità del dirigente scolastico». Al preside saranno
inoltre attribuiti strumenti sia finanziari sia funzionali collegati a un piano di valutazione dei
docenti scelti sulla base di un «progetto educativo» e al piano triennale dell’offerta
formativa. Questa trasformazione era già contenuta nelle «linee guida» della «Buona
Scuola» presentata il 3 settembre 2014. Il governo ha fatto tuttavia inversione a «U»
rispetto ai tanto decantati «scatti di merito» che avrebbero dovuto trasformare radicalmente la carriera dei docenti. Dopo la sonora bocciatura di questo progetto avvenuta nella
consultazione online (il 60% ha votato complessivamente contro) il governo ha mantenuto
gli «scatti di anzianità». «Il provvedimento è stato molto contestato — ha ammesso per la
prima volta Renzi — La scuola sarebbe stato l’unico settore della Pubblica amministrazione ad averli». Il presidente del Consiglio ha inoltre definito «speciose» le critiche di chi
ha descritto la sua sconfitta politica sulla «meritocrazia» annunciata per sei mesi e poi ritirata davanti alla sua manifesta incostituzionalità. In realtà si tratta di una battuta d’arresto
clamorosa che rappresentava il pilastro della riforma insieme alle assunzioni dei precari. In
più, a conti fatti, si sarebbe trattato di aumenti risibili. Scegliere di tornare agli scatti di
anzianità non risolve granché. Il contratto nazionale della scuola è bloccato dal 2009.
E sembra che lo resterà a lungo. Il sovradimensionamento del ruolo del dirigente scolastico è il segno che il governo non si è tuttavia rassegnato e continua a perseguire il suo
progetto neo-manageriale. Nel 2016 sono previsti 200 milioni di euro per la valutazione del
merito dei docenti: «Decideranno le singole autonomie scolastiche». L’altro capitolo, spinosissimo, è quello delle assunzioni. Dalle 148 mila annunciate a settembre il governo ha
fatto marcia indietro e assumerà 107 mila docenti precari nelle Graduatorie ad esaurimento (Gae), comprensivi degli ultimi vincitori del «concorsone» del 2012. Verranno inseriti nell’organico funzionale. «Le assunzioni saranno la fine di un percorso, non l’inizio» ha
aggiunto Renzi in maniera enigmatica. Tra gli assunti non ci sono i 23 mila docenti della
scuola dell’infanzia. Per questi ultimi si prepara un purgatorio di un anno e si è rimandato
alla legge delega. Nel frattempo gli idonei al «concorsone» promettono ricorsi a valanga
contro il governo e il blocco del concorso per il 2016. Cancellate le graduatorie di istituto:
«Chi non passerà il concorso andrà fuori e ciao» ha detto Renzi. È ufficiale: decine di
migliaia di docenti titolati, ma che sono rimasti fuori dalle Gae, rischiano seriamente di bruciare anni di studi e lavoro nella scuola. I loro diritti non verranno riconosciuti. Per Renzi «è
una rivoluzione strepitosa» che sana una «ferita ventennale». Non la penseranno così
i precari apolidi dell’insegnamento. Molti dei quali hanno svolto più di 36 mesi di insegnamento e dovrebbero essere assunti, come impone la sentenza della Corte Ue. Per il
governo le assunzioni rispondono a quella storica sentenza. Da oggi non «sarà possibile
stipulare contratti a termine superiori a 36 mesi» ha aggiunto Giannini. Insieme alla promessa di eliminare le «classi pollaio» e un bonus per i docenti da 50 euro al mese (500
all’anno) per consumi culturali e aggiornamento professionale (teatro, cinema e acquisto
libri) che ricorda gli 80 euro dell’Irpef, il governo conferma il regalo alle scuole paritarie (a
maggioranza cattolica). Anche qui c’è stata una parziale marcia indietro:durerà fino alla
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terza media. Confermato lo «School bonus» con credito di imposta per chi investe nella
scuola e la possibilità di destinare il 5xmille al singolo istituto. Al parlamento vengono
lasciati tempi ridottissimi per l’approvazione del Ddl. Renzi si è detto «ottimista» sui tempi.
Resta sembra in ballo un decreto d’urgenza sulle assunzioni se le camere non risponderanno al ricatto. Prevista anche una legge delega per la creazione di un testo unico.
del 13/03/15, pag. 4
“Il Parlamento corra, pronti a settembre”
Renzi chiede tempi rapidi per approvare il ddl scuola con l’assunzione
dei precari. “Occorre il senso dell’urgenza”. Dalla Ragioneria dubbi, poi
superati, sulla copertura del bonus di 500 euro ai docenti per
l’aggiornamento culturale
ALBERTO CUSTODERO
ROMA .
Messi in campo 200 milioni, sgravi per le paritarie, il 5 per mille e lo school bonus per chi
investe nella scuola, oltre 100.000 insegnanti assunti a settembre 2015, i curricula dei
professori e i bilanci delle scuole online. Tornano storia dell’arte e musica, e ci sarà la
nuova materia di “educazione ambientale”. Sono questi i punti principali del ddl “la buona
scuola” approvato ieri sera dal governo che «mette al centro lo studente e i suoi sogni di
essere un cittadino». Per il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, è «una giornata
storica per l’Italia». Sempre ieri — lo ha annunciato il premier — è arrivata la «bella
notizia» che dalla Banca Europea degli Investimenti arriveranno 940 milioni di euro per
l’edilizia scolastica. Il nuovo «modello di scuola» realizzerà quell’«autonomia che finora è
rimasta solo sulla carta». Ogni scuola farà un piano funzionale in base al fabbisogno: il
preside, come un allenatore, avrà la possibilità di individuare chi mettere in cattedra ad
inizio anno. «La scelta dell’organico funzionale — ha commentato Renzi — porta a
superare il meccanismo delle classi pollaio».
La giornata ieri era cominciata con cortei e manifestazioni di studenti in tutta Italia in
marcia «contro la scuola di classe». A Milano, i poliziotti hanno disperso il corteo con i
fumogeni dopo che alcuni manifestanti, stile black bloc, hanno lanciato fumogeni e vernice
rossa contro gli agenti.
Il nodo più spinoso del disegno di legge resta il problema dell’assunzione dei 100 mila
precari, a rischio per i tempi stretti (entro settembre) necessari per l’approvazione da parte
delle Camere. Ma il premier è sicuro: «Il Parlamento riuscirà a fare in tempo». «Non ci
saranno più i supplenti — ha spiegato — ma il primo anno sarà di transizione». «Il testo
della legge è realizzabile abbastanza rapidamente — ha sottolineato l’inquilino di Palazzo
Chigi — se il Parlamento lavorerà con il senso dell’urgenza ». Il premier, dopo aver
assicurato che il Pd è pronto ad approvare alla Camera e al Senato il provvedimento «di
corsa», ha lanciato un appello affinché ci sia «un consenso ampio di molte forze
parlamentari sulla riforma». Il ddl «mantiene gli scatti di anzianità per i professori, ma con
una cifra aggiuntiva sul merito. Sono confermati gli sgravi per le paritarie «fino alle medie,
le secondarie di primo livello». I dubbi sorti in mattinata presso la Ragioneria Generale
dello Stato sulla copertura dei 500 euro per l’aggiornamento professionale dei docenti
sono stati poi superati: la nuova legge prevede il bonus per i docenti. Infine, l’inglese:
l’insegnante dovrà parlarlo in modo perfetto. Non poteva essere diversamente, chiosa
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Renzi, con «il ministro dell’istruzione prof d’inglese». E con il premier che «ne avrebbe
molto bisogno».
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CULTURA E SPETTACOLO
del 13/03/15, pag. 43
“Malavita” è un corto con Luca Argentero,
ispirato al racconto di un condannato, che la
Rai ha prodotto
Vite in carcere viste da dentro così la cultura diventa riscatto
GIANCARLO DE CATALDO
LUCA Argentero, faccia pulita e ironica, è un giovane delinquente. Non sappiamo — e non
sapremo sino alla fine — di che misfatto si sia macchiato, ma comprendiamo subito che la
galera “è casa sua”. Tanto ci è avvezzo che, affezionato alla sua vecchia cella e al suo
solito letto, fa di tutto per andarci in occasione dell’ennesimo arresto. Tragico errore.
Perché nella vecchia cella, accanto ai soliti compagni di pena, tutto sommato bonaccioni,
c’è una new entry: un boss della camorra, con il volto affilato, il tatuaggio rituale e l’istintiva
crudeltà di Francesco Montanari. Fra i due carcerati, così diversi da risultare totalmente
antitetici, è subito scontro.
Da questa situazione di partenza muove “Malavita”, il “corto” diretto da Angelo Licata
(produzione Rai/Riviera Film) ispirato al racconto “Pure in galera ha da passa’ a’ nuttata”,
vincitore del premio Goliarda Sapienza 2013. Giuseppe Rampello, l’autore del racconto, è
un condannato in espiazione di pena. Il premio, dedicato a una grande autrice scomparsa
che conobbe il carcere, ideato e animato dalla scrittrice e giornalista Antonella Bolelli
Ferrera, raccoglie storie scritte da carcerati, discusse ed elaborate con il concorso di tutor
(sarebbe lungo elencarli tutti, si va, per dire, da Carlo Verdone a Erri De Luca, passando
per Scurati, Lucarelli, Melandri, Parrella, Buticchi, Moccia), e infine pubblicate, con
scadenza annuale, dalle Edizioni Eri. E ora, a partire da “Malavita”, arrivano i “corti”.
L’idea di fondo è che il migliore antidoto all’alienazione della pena sia rappresentato dalla
cultura. È un’idea che affonda radici direttamente nella nostra Costituzione, che
nell’articolo 27 spiega come alla pena, oltre alle tradizionali funzioni di espiazione per il
reato commesso e di monito perché non se ne commettano in futuro, sia soprattutto
rimesso il compito di emendare il condannato in vista del suo ritorno alla vita civile.
Dovrebbe essere chiaro a tutti — ma quasi mai, purtroppo, lo è — che un carcere
concepito come mero strumento di esclusione non è suscettibile in alcun modo di
migliorare le persone condannate. Semmai, può solo incattivirle, e, dunque, peggiorarle. Al
contrario, un carcere che consenta di sfruttare la pena come occasione di crescita (e di
cambiamento) giova a tutti: soprattutto a chi i reati non li commette e, talora, ne è vittima.
E la cultura può rappresentare davvero una poderosa fonte di riscatto.
Sono idee difficili da digerire, ma per fortuna le vocazioni non mancano, come dimostrano,
da un lato, gli autori coinvolti, dall’altro l’adesione, sempre crescente, da parte dei carcerati
e il lavorio intenso di chi ha la responsabilità di mandare avanti il sistema penitenziario. Il
carcere non è la gehenna dei tempi andati, e nemmeno l’hotel a cinque stelle evocato,
anni fa, da un ministro della Giustizia. È, e resta, per sua natura, un luogo di sofferenza,
nel quale l’indifferenza può generare tragedie, ma che il concorso di slanci ideali e fattive
volontà può trasformare in laboratorio di progresso. Certo: scrivere un bel racconto o
prendere una laurea muovendo dall’anafalbetismo (accade anche questo, fra le mura dei
penitenziari italiani) non garantisce sulla riuscita del progetto di cambiamento. Ma può
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rappresentare un punto di partenza opportuno e necessario. Il resto del lavoro tocca farlo
a noi, alla società: esperimenti come il premio Goliarda Sapienza possono rivelarsi
preziose occasioni. Quanto al “corto” “Malavita” è, senza mezzi termini, un gioiellino.
La storia scritta da Rampello è brillante e ben sceneggiata, è così la “confezione”. Tutto si
svolge nell’antico, ormai dismesso carcere delle “Nuove” di Torino. Chi non ha mai varcato
la soglia di una prigione si renderà conto di che cosa significa vivere in quegli spazi. Di
quale paradossale e inestimabile valore possa avere il possesso di un letto dal quale
penetra la luce del mondo esterno, il profumo della rugiada, il canto di un uccello.
Immagini che spiegano molto più di qualunque dotto dibattito sul nesso pena/redenzione:
che la RAI abbia deciso di produrre questa storia fa onore alla mission del servizio
pubblico.
Grandi sentimenti in piccole azioni: il “corto” è un formato difficile da maneggiare, un po’
come accade per il racconto, si deve lavorare su tempi brevi, emozioni bruciate in rapida
sequenza. In questo caso gli autori ci sono riusciti benissimo, aiutati da interpreti in stato di
grazia: accanto ai protagonisti — bravissimi, ispirati — merita una menzione la maschera
dolente di Hedy Krissane, che impersona un detenuto extracomunitario complice, suo
malgrado, del feroce Montanari.
del 13/03/15, pag. 50
Bussola anti spaesamento nelle rivoluzioni
continue
Una «cinque giorni» di incontri: oltre 120 i relatori
L e dimensioni, la velocità e la profondità del cambiamento che sta trasformando il mondo
sotto i nostri occhi rischiano di travolgere le certezze, rendere vane le speranze, perfino
impedire la comprensione della vita in cui siamo immersi, generando da una parte
spaesamento, insicurezza e paura, dall’altra indifferenza e apatia. Come nel caso
dell’Europa: è ancora una speranza o è già un’illusione?». È questa una parte del quadro
di vita contemporanea dipinto da Gustavo Zagrebelsky su cui è costruita la quarta edizione
di Biennale Democrazia, da lui presieduta, che fin dal titolo — «Passaggi» —, evoca la
grande complessità del dibattito che ha tutta l’intenzione di sollevare, a Torino dal 25 al 29
marzo, su questi nostri tempi tanto tormentati quanto ricchi di opportunità.
Tempi i cui «passaggi» sono stati suddivisi in quattro categorie, quattro aree di tensione
tra il reale e le nostre aspettative attraverso le quali interrogarsi su quali retaggi del
passato tendiamo a rifiutare e quali vogliamo invece accettare e tramandare ai posteri:
«Transiti e barriere» (flussi di uomini, merci, dati e denaro), «Eredità e inizi» (le riflessioni
su due anniversari: i cento anni dall’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale e i 70
dalla liberazione dal nazi-fascismo), «Velocità e lentezza» (le difficoltà della politica di
fronte a una società in grande accelerazione) e «Possibilità» (l’inquinamento e la nuova
coscienza ecologica, i governi di fronte alla crisi, i «Big Data» e i rischi della società
«trasparente»).
Nei cinque giorni di incontri (ma anche di spettacoli, vedi box in alto) verranno poste le
domande del caso con l’aiuto di oltre 120 relatori tra scienziati, economisti, giornalisti,
giuristi, scrittori e filosofi (l’assenza dei politici non è casuale) che garantiranno il
pluralismo delle risposte e delle soluzioni, da sempre vero marchio di fabbrica della
manifestazione. «Poi ognuno trarrà le sue conclusioni e si porterà a casa quello che avrà
trovato interessante, ma l’importante sarà ragionare insieme analizzando questi “passaggi”
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con lo sguardo di chi vuole vederne tutte le sfaccettature e affrontarne tutte le
contraddizioni, nella maniera meno accademica possibile — dice Angela La Rotella,
direttrice organizzativa di Biennale Democrazia —. Il nostro è un laboratorio pubblico
permanente dove si insegna la cultura della democrazia, del confronto e dell’ascolto. E
devo dire che è quasi commovente vedere persone di ogni età chiuse nei teatri torinesi
anche nei sabati e nelle domeniche di sole. Evidentemente c’è un bisogno di profondità
che probabilmente rappresenta anche la voglia di fuga dallo scontro esasperato proposto
all’infinito dai talk show televisivi. Ed è guardando quelle persone attente, che prendono
appunti e che al termine si fermano a discutere, che ci si accorge che siamo un Paese
fortunatamente ancora dotato di una dimensione civile importante, che va coltivata».
Una «coltivazione» che, nell’anno tra un’edizione e l’altra, la Biennale ha preso molto sul
serio, da una parte stringendo accordi a vantaggio degli universitari (quattro dipartimenti
riconosceranno crediti formativi ai frequentatori), dall’altra preparando 200 studenti delle
scuole superiori (ospitati in un campus residenziale durante la manifestazione) a vivere al
meglio l’evento attraverso la documentazione preparata da uno staff di formatori dedicato,
che si tratti, come capiterà quest’anno, di un incontro col Cardinale di Milano Scola o con
Benny Tai Yiu-Ting, ispiratore dell’Umbrella Revolution di Hong Kong.
E chi l’anno prossimo si sentirà orfano di Biennale Democrazia, in attesa dell’edizione
2017 potrà consolarsi con la consultazione online dell’archivio multimediale che contiene
tutto il materiale prodotto nelle edizioni precedenti (archivio.biennaledemocrazia.it).
Dulcis in fundo, gli incontri sono gratuiti fino a esaurimento posti, ma da quest’anno sarà
possibile prenotare la propria poltrona online al prezzo di 5 euro (info: tel. 011/4424777,
[email protected], www.vivaticket.it).
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ECONOMIA E LAVORO
del 13/03/15, pag. 30
Pensioni, enti locali e sussidi riparte la
spending review Gutgeld a caccia di 10
miliardi
Il governo nomina a commissario il consigliere di Renzi Tagli
indispensabili per scongiurare il rincaro dell’Iva
FEDERICO FUBINI
ROMA .
C’è una nube sospesa su questo Paese, ora che sta coprendo l’ultima tappa di una lunga
marcia fuori dalla recessione. È solo una macchia in una visuale che da anni non si
presentava così nitida. La finanza pubblica è rimasta sotto controllo, malgrado la
tentazione di Matteo Renzi un anno fa di disfarsi delle regole europee. L’area euro ha
scelto di credere al percorso di modernizzazione del premier, malgrado la tentazione
strisciante a Bruxelles (e Berlino) di rimettere l’Italia nella gabbia di qualche procedura di
sorveglianza. I tassi sui titoli di Stato sono bassissimi, malgrado un debito che dal 2007
non ha mai smesso di salire. E il deprezzamento dell’euro, insieme a quello del petrolio,
promettono una crescita che qui ormai era diventata una parola straniera.
Resta quella nube, compressa in una nota a piè di pagina nell’ultima nota di
aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) dell’autunno scorso. Se i conti
nei prossimi anni non torneranno, dovrebbe scattare un aumento dell’Iva da 12,4 miliardi
nel 2016 e 17,8 nel 2017. L’asticella è esattamente lì: posta all’altezza di un deficit
pubblico da ridurre in teoria dal 3% del Pil dell’anno scorso all’1,8% del prossimo. Non è
impossibile. Ma se il premier e il ministro dell’Economia ora pensano di far ripartire una
revisione della spesa pubblica, è in primo luogo perché sperano di mettersi al riparo da
quella clausola che somiglia da vicino a una trappola.
Un’economia convalescente non può rimettersi in cammino sotto la minaccia di una doccia
fredda da almeno 12 miliardi di tasse in più su consumi e investimenti. Intervenire sulla
spesa, con l’operazione lanciata ieri dal Consiglio dei ministri che vedrà Yoram Gutgeld
alla guida della spending review , in questa luce appare più una scelta obbligata che un
atto di eroismo. È vero che il calo degli interessi sul debito dovrebbe arrivare a 10 miliardi
in due anni, almeno secondo le stime della Corte dei Conti sulla base degli interventi della
Banca centrale europea sui titoli di Stato italiani. Ma l’esperienza degli Stati Uniti mostra
che i tassi a lungo termine possono persino salire, una volta che una banca centrale inizia
davvero a comprare e dunque fa crescere le aspettative di inflazione.
Di qui, in primo luogo, la scelta di riattivare la spending review.
Quella preparata a suo tempo dal vecchio “zar” del settore, Carlo Cottarelli, tra non molto
(meglio tardi che mai) sarà visibile in Rete. Ma lì in gran parte resterà. Gutgeld, con l’aiuto
dell’economista della Bocconi Roberto Perotti e l’appoggio del presidente dell’Inps Tito
Boeri, con ogni probabilità pensa a un disegno diverso. Non tanto nelle dimensioni degli
interventi che non si discostano molto da quelle su cui aveva lavorato Cottarelli:
probabilmente 8 o 10 miliardi di tagli da iscrivere nella Legge di stabilità per il 2016 e un
altro intervento per l’anno successivo. A quel punto, ammesso che vada davvero così, i
vari governi di questa legislatura avrebbero ridotto la spesa di quasi il 2% del Pil. L’unica
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certezza è che per ora non è successo, al contrario: il costo dello Stato nel 2014, in
crescita continua, ha superato di netto il 51% del fatturato dell’economia.
Ma se la taglia della spending review ricorda quella di Cottarelli, l’approccio promette di
essere diverso. I settori questa volta dovrebbero guardare sempre agli enti locali, ma
ancora di più allo Stato centrale: le mille articolazioni dei ministeri nei territori, mai raccolte
in singoli immobili; i sussidi alle imprese e al trasporto pubblico, spesso inefficienti; la
nebulosa delle società partecipate dagli enti locali, sulle quali le giunte dovranno
presentare piani di “razionalizzazione”.
Poi c’è il capitolo della spesa sociale. Uno dei grandi punti di rottura fra Renzi e Cottarelli
furono le pensioni, sulle quali il secondo voleva intervenire: secondo le stime del Def, il
loro peso aumenta di 28 miliardi tra l’anno scorso e il 2018. Il premier resta contrario a un
taglio degli assegni già maturati, ma magari non proprio di tutti. Esistono aree nelle quali
gli abusi sono ormai visibili a occhio nudo, benestanti che incassano doppia e tripla
protezione sociale; nel frattempo, ormai 6 milioni di persone in Italia versano in povertà e
spesso restano senza sostegno dall’Inps o dall’assistenza sociale. Era un riequilibrio da
tentare prima. Ora Gutgeld, Perotti e Boeri hanno la chance di rendere l’Italia più simile a
qualunque altro Paese europeo dove il welfare serve a proteggere i deboli. Non i furbi, i
fortunati o quelli con più numeri di telefono nell’agenda del cellulare.
Del 13/03/2015, pag. 10
Guadagnare licenziando, le imprese fanno i
conti
LA STIMA DELLA UIL SUI VANTAGGI DELLA RIFORMA DEL LAVORO È MATERIA
DI STUDIO DEGLI IMPRENDITORI ANCHE AI CONVEGNI DI CONFARTIGIANATO
Che il mix tra sgravi contributivi per le nuove assunzioni e nuovo contratto “a tutele
crescenti” fosse vantaggioso per le aziende, lo aveva già segnalato la Uil. Che questo
beneficio venga orgogliosamente sponsorizzato da un’associazione come Confartigianato,
è però il sintomo del tempo. Il segnale, cioè, che il mondo delle imprese, delle professioni,
si sta preparando alla grande occasione avendo colto al volo il vantaggio dato dalla
combinazione tra incentivi e possibilità di licenziare. Il cartellone che reca la “simulazione
dei costi” di una nuova assunzione fa bella mostra di sé sul sito di informazione finanziaria
Professionefinanza. com. Ed è inequivocabile. SI PRENDE a modello l’ipotesi di una
nuova assunzione dal reddito annuo di 25 mila euro. Divisa per 13 mensilità se ne ricava
un costo mensile, per l’impresa, di 1. 923 euro. Grazie alla legge di Stabilità del 2015,
però, che “per un periodo massimo di trentasei mesi riconosce l’esonero dal versamento
dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro”, quella stessa
assunzione, dal primo gennaio, produce un risparmio di 7. 875 euro. Il cartello di
simulazione conteggia poi lo sgravio del contributo Irap, anch’esso deciso nella legge di
Stabilità, che permette un ulteriore risparmio di 1. 278 euro con un totale di beneficio a
favore dell’azienda pari a 9. 153 euro. Veniamo così ai costi. La simulazione presume che
il licenziamento avvenga dopo un anno e così si conteggiano due mensilità per un totale di
3. 846 euro. In realtà, la simulazione compie un errore perché la legge prevede un
indennizzo in ragione di due mensilità l’anno ma comunque “non inferiore a 4 e non
superiore a 24 mensilità”. La somma indicata nello schema, quindi, che alla fine produrrà
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un beneficio stimato per l’azienda di 4. 817 euro va sostituita producendo così un beneficio
di “soli” 971 euro. Al di là dell’errore, però, la sostanza non cambia. E proiettato sui 36
mesi, cumulando così il risparmio in termini di decontribuzione e Irap, si raggiungono cifre
che vanno dai 9 ai 18 mila euro a seconda del reddito. I vantaggi sono evidenti e non è un
caso se tutti i siti di consulenza alle imprese in questi giorni siano occupati da proiezioni
che offrono la giusta valutazione delle nuove possibili assunzioni. Tutti hanno capito il
vantaggio e tutti si stanno adeguando alle nuove opportunità. Da qui, la previsione che
l’occupazione possa davvero aumentare – Renzi ha parlato di almeno 200 mila posti
aggiuntivi nell’anno – è realistica perché finanziata. “Il contratto a tutele crescente – dice
Guglielmo Loy della Uil, autore dello studio sui benefici per le aziende – io lo definisco un ‘
contratto a termine finanziato’”. “Quello che sta avvenendo è tutto legale – aggiunge Loy –
e, in fondo, questi consulenti li capisco, stanno facendo il loro lavoro anche se osserviamo
il fenomeno con una certa amarezza. Il punto, conclude, è capire davvero cosa avverrà al
termine dei 36 mesi previsti per la decontribuzione”. LA PERMANENZA o meno del
vantaggio fiscale sarà in effetti decisiva. Lo sa il governo, lo sanno le imprese. Ma la
politica economica e del lavoro degli ultimi decenni non è mai sembrata guardare al lungo
periodo. Si preferisce prendere i soldi e scappare via e così sarà anche questa volta. Va
però detto che l’aspetto decisivo sarà l’andamento dell’economia nel suo complesso. Le
migliori previsioni per il 2015 al momento si attestano a un più 0, 8 % e se non ci saranno
segnali evidenti di ripresa è difficile che le aziende possano mettersi ad assumere
nonostante gli incentivi. Sembra accorgersi di queste contraddizioni uno dei migliori
consiglieri di Matteo Renzi, quell’Andrea Guerra, già amministratore della Luxottica,
additato dal presidente del Consiglio come uno dei migliori manager italiani e divenuto il
consigliere strategico di Palazzo Chigi per la politica industriale. Ieri, ai microfoni di Mix 24
di Giovanni Minoli, ha detto: “Penso che dentro al Jobs act ci siano tante cose buone ma
credo che manchi ancora qualcosa di fondamentale che è la protezione del lavoratore nel
lungo periodo”. “La flessibilità – prosegue Guerra – ce la chiede il mondo, ma è
fondamentale la qualificazione e riqualificazione.” “La linea Marchionne sulle relazioni
industriali non è la mia”.
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