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Altri cieli, altri colori nella pittura di Giuseppe Flangini Giovanni Stipi La bibliografia di un artista noto si sviluppa nel corso degli anni come un bosco fitto, nel quale è anche possibile perdersi, tra segnalazioni, note d‟occasione, interventi di critica militante, riposate riflessioni di carattere generale. Nel bosco cresciuto attorno a Flangini, e tuttora in continua espansione dopo più di sessant‟anni dai primi germogli, mi pare utile individuare alcune acquisizioni critiche ormai ben accreditate. Mi limito a presentarle succintamente, riservandomi di riprendere più avanti il discorso su di esse. 1) Nella pittura di Flangini vi è una sostanziale continuità d‟ispirazione e di stile, pur nella graduale evoluzione che accompagna lo scorrere degli anni. (Segala 1962; Monteverdi 1967) 2) La sua pittura manifesta una sensibilità “nordica”, intesa come qualità distintiva dell‟autore. (De Grada 1956; Altichieri 1962) 3) Tra le opere ispirate ai paesaggi del Nord si trovano i risultati più alti della sua arte. (Portalupi 1956; Monteverdi 1967; Villani 1967) 4) I suoi dipinti rivelano una forte tensione morale. (Verzellesi 1959; Altichieri 1962; Stipi 1998; De Grada 2002) Detto questo va subito aggiunto che nella critica su Flangini è presente un vizio d‟origine al quale non si è ancora posto riparo. Quando il pittore si trasferisce nel 1944 a Milano dalla nativa Verona, nella capitale lombarda ferve la polemica tra i fautori della pittura figurativa tradizionale e i cantori entusiasti delle molteplici sperimentazioni dell‟arte astratta. Dalle pagine autorevoli del Corriere della Sera Leonardo Borgese condurrà una convinta battaglia contro gli “intellettualismi” dell‟arte contemporanea e, dagli inizi degli anni Cinquanta, attirerà l‟attenzione dei lettori su Flangini, proponendolo con empatico coinvolgimento come modello della buona pittura all‟antica in opposizione alle fumisterie moderne. La lezione di Borgese fa scuola e diviene l‟interpretazione vulgata. Il pittore veneto rifugge “dai vacui intellettualismi stancamente ancora in auge nelle <grandi> esposizioni ufficiali”. (Balestrieri 1952) Egli “ancora resiste tra il brancolamento o lo scettico o interessato camaleontismo di tanti artisti ormai succubi della moda”. (Verzellesi 1959) E sarà lo stesso Borgese a definirlo con pochi aggettivi “autodidatta, istintivo, spontaneo, anzi naturale artista”, riconoscendogli un “forte temperamento pittorico”. (Borgese 1967) Flangini artista “naturale”. Per amor di polemica si torna al mito russoiano dell‟uomo-natura, dell‟uomo libero da sovrastrutture culturali. Il critico scriverà pochi anni dopo: “Io credo che forse nessun artista colto, nessun raffinato, nessuno dei nostri artistoni e <cannoni>, avrebbe saputo illustrare pittoricamente, e anzi pitturare tanto bene, il Paese coi tipi del Van Gogh fiammingo, la grigia e triste terra, l’inferno della noia pesante, gli uomini della pietà senza preghiera”. E ribadirà in modo esplicito: “Nei suoi quadri Flangini non ha messo letteratura e simboli, non ha messo vangoghismo, non ha messo né socialismo, né cristianesimo”. (Borgese 1970) Artista “naturale” dunque, sostanzialmente sprovvisto di cultura. Ascoltiamo di nuovo il critico: “Questo Giuseppe Flangini, pittore veronese, è un uomo semplice eppure straordinario. Basso, scuro, con occhi acuti, fondi e sorridenti, provinciale e quasi contadino, bonario o buono anzi, furbo e anche ingenuo. Flangini non sembra appartenere al nostro secolo. [...] non sa poi di estetica, non di pittura pura, non di <valori> [...]. Flangini sa soltanto respirare e fiutare. Respira i grandi cieli. Fiuta dov’è il buon colore della terra e se lo prende subito e lo rifà alla svelta e bene”. In conclusione la qualità della sua pittura non può che essere il frutto di una grazia innata, di un singolare, misterioso dono di natura: “A questo antico pittore naturale la delicatezza, la comprensione, la misura, tutto il buon gusto, vengono non so proprio come”. (Borgese 1970) Mi sono soffermato su questa tesi di un Flangini “bonhomme” e più precisamente di un pittore tutto istinto e niente cultura, portata all‟estremo almeno in parte per una strumentalizzazione a fini polemici, perché credo che essa sia all‟origine di un forte fraintendimento della sua opera, e ne ostacoli una più calibrata ed esatta interpretazione. Si vuol qui sostenere una tesi diametralmente opposta: quella cioè di un Flangini culturalmente e ideologicamente strutturato, con un profilo interiore per certi versi drammatico, che non può non aver condizionato in modo stringente la sua stessa pittura. Non s‟intende, com‟è ovvio, negare ch‟egli avesse delle notevoli doti spontanee di artista, né attribuirgli la formulazione di una poetica ben articolata in termini concettuali, cosa che in effetti non risulta documentabile. Il proposito è invece quello d‟indagare per rapide prospezioni lo spessore culturale e morale della sua personalità per individuare i nessi che la collegano in modo indissolubile alla pittura. Ricordiamo che Flangini fu prima di tutto un educatore: maestro elementare per molti anni nelle scuole pubbliche di Verona e di Milano. I ricordi dei suoi allievi, che “si consideravano una specie di aristocrazia proprio per il fatto di appartenere alla sua classe” ci trasmettono l‟immagine di un “uomo favoloso”, con qualcosa in più rispetto agli altri insegnanti (Cenni 1965), ma non ci dicono nulla di particolare sui “valori”ch‟egli intendeva trasmettere ai ragazzi. Possiamo credere che i contenuti educativi della sua attività didattica derivassero in sostanza dall‟educazione ch‟egli stesso aveva ricevuto nell‟ambiente famigliare e sociale in cui era cresciuto. Molto di più è possibile ricavare in proposito dalla conoscenza del suo impegno, durato a lungo, come uomo di teatro. Manca purtroppo uno studio complessivo in questa direzione e mi auguro che tale lacuna venga presto colmata. Da una rapida ricerca condotta sul materiale che mi è stato gentilmente messo a disposizione dagli eredi, risulta ch‟egli sarebbe autore di almeno sedici testi teatrali, distribuiti in un arco di tempo che va dal 1925 alla fine degli anni Quaranta. Venticinque anni circa di attività teatrale che lo videro, oltre che autore, anche attore, sceneggiatore, regista. Si tratta di un teatro “edificante”, rivolto al pubblico delle parrocchie e degli oratori. A Verona il punto di riferimento del commediografo Flangini era la Sala Teatro Stimate, ma le sue opere vennero rappresentate in mezza Italia. Questo tipo di teatro si usava definirlo con l‟aggettivo “maschile”, perché la donna era rigorosamente espunta dalle scene. Dall‟epistolario di Flangini, composto di lettere da lui ricevute, mentre di quelle spedite sembra non essere rimasta traccia, si ricava l‟idea ch‟egli avesse, da un certo momento in avanti, messo in atto il tentativo di passare dal teatro “maschile” a quello “regolare”. Lo sollecitava in questo senso l‟amico attore, e suo grande estimatore, Nico Pepe, che, stando almeno alle parole, molto si spese per metterlo in contatto con capocomici, critici ed attori di livello nazionale. Nelle lettere si fa un gran parlare di copioni flanginiani da passare o passati dall‟uno all‟altro dei protagonisti del mondo del palcoscenico, ma, par di capire, senza nessun esito concreto. Forse anche per questo Flangini pose fine alla sua attività teatrale, per dedicarsi interamente alla pittura. Delle numerose opere da lui scritte per le scene ho potuto leggerne quattro, tra le più antiche: Sans-Père, dramma in tre atti della Rivoluzione francese, del 1925, la prima in assoluto (Milano, Ed. Àncora, 1949 , V ed.); Sposo mia moglie,grottesco in tre atti del 1928 (Milano, Ed.Àncora, 1945,IV ed.); Sua Maestà il Denaro, allegoria psicologica in tre tempi, del 1929 (Milano, Ed. Àncora, 1946, IV Ed.); Il Re Baldoria, favola in tre atti del 1932 (Pubblicata sulla rivista teatrale Controcorrente nel 1932). Sono solo la quarta parte circa della produzione complessiva del commediografo veronese, ma sufficiente a fornire preziosi indizi sulle componenti psicologiche, culturali e morali che si amalgano al fondo della sua personalità. In Sans-Père la nota forte, dominante, mi pare una concezione drammaticamente pessimistica dell‟umanità, che non può derivare unicamente dagli eccessi della Rivoluzione francese, perché viene ribadita nelle opere successive. Così l‟amico Lenfant si rivolge a Sans-Père: “Ma che speri col tuo sacrificio? che il popolo ritorni sul solco tracciato dal tuo ideale meraviglioso? Sei un ingenuo, perdonami! Volgiti e guarda davanti a te. Non amore governa, ma odio. Gli uomini modellati dalla rivoluzione diventano personaggi ambigui, uomini che sprigionano idee pazzesche, che valorizzano le proprie ambizioni tortuose, che guazzano nel sensualismo più bestiale, che gioiscono delle vendette più calcolate. Sono migliaia di cavalli selvaggi che, nella loro corsa sfrenata, calpestano un passato, si avvicinano nitrendo d’ebbrezza e spariscono nell’ignoto abbandonando lungo il terreno inaridito il dolore e la disperazione.” (p.17) Vi è in Flangini un ripudio sostanziale della rivoluzione, perché essa, nella lotta tra l‟amore e l‟odio, sacrifica il primo e scatena il secondo, liberando da ogni freno l‟innata malvagità dell‟uomo. E vi è, sia pure implicito, un invito alla rassegnazione, di fronte ai mali della vita e della storia. Il giovane autore usa tinte accese, così presenta nelle note di regia Crochart, personaggio ch‟egli amava interpretare sulla scena: “brutale, sanguinario: i suoi occhi fiammeggiano d’odio bestiale. Un tempo contadino, ora anima dannata di Robespierre ne approfitta per soddisfare le sue bramosie. Nei gesti, nello sguardo, in ogni suo atto fa comprendere la gioia interiore della vendetta che sta per compiere.” (p.7) Lo stesso Sans-Père, deputato del popolo, che è il personaggio positivo dell‟opera, non sa trovare l‟equilibrio tra passioni contrastanti: “figura virile. Il suo volto esprime, a vicenda, odio e amore. Ha scatti violenti, sfumature delicate. Irruente”. (p.15) Psicologia elementare, segnata da forti chiaroscuri. La vocazione drammatica, si potrebbe già dire espressionista, appare connaturata nell‟animo di Flangini. Osserviamo, accostandoli, due autoritratti da lui dipinti a distanza di anni. Il primo è del 1925, lo sesso anno di Sans-Père. Il secondo, si veda la marcata stempiatura che lo distingue, è di certo posteriore, ma non sappiamo con precisione di quanto. Del primo è stato scritto recentemente, con ragione, che ha i caratteri di una maschera. (Pontiggia 2004) Vi è dipinto un busto in gesso di Flangini realizzato dall‟amico Arturo Martini. Il senso dell‟artificio è accentuato dall‟incavo della base, messo in buona evidenza: è sì una “maschera”, che tuttavia riproduce fedelmente i tratti di un volto volitivo ed equilibrato. Nel secondo lo stesso volto rivela una carica espressiva ignota al primo. Vi emerge con forza dirompente il fondo buio di un‟intimità turbata, allucinata, con i segni di una strenua lotta per il dominio sulle passioni, ma ben lontana dall‟aver raggiunto la pace. Lineamenti fisionomici esasperati rispetto alla realtà: è il ritratto di un‟anima più che di un volto. Vi è qualcosa di pirandelliano in tutto questo: se il primo autoritratto nella sua consistenza di gesso è una maschera che nasconde il Flangini profondo, anche questo secondo, a suo modo, è una maschera che stravolge e tradisce il Flangini apparente, quello affabile conosciuto dagli amici. Disorienta la percezione di sé ch‟egli qui ci offre. Chi è quest‟uomo, questo educatore amato dagli allievi, questo autore di opere edificanti dal forte impatto emotivo, questo pittore di nordica tristezza? Le altre opere teatrali da me lette ci aiutano a capire meglio il pessimismo che gli abbiamo attribuito. E‟ il pessimismo “cristiano” disceso attraverso i secoli dai Padri della Chiesa, rinvigorito ai primi del Novecento da alcune correnti cattoliche rigoriste, diffuse soprattutto in provincia. In Sua Maestà il Denaro, l‟Amore non si scontra tanto con l‟Odio, quanto con la Cupidigia, la sete insaziabile di ricchezza e di piacere che divora tutti gli uomini: “Gli uomini... Ombre nere vaganti sugli alti sterpi... Li ho seguiti, senza rumore, chiudendo nel pugno il respiro [...] Ecco l’enorme grappolo umano, imprecante [...] E subito con le unghie a graffiarsi le carni, coi denti innalzarsi sulle spalle dei più deboli ... Volti deformi e lividi ... braccia attorcigliate ... muscoli schizzanti la loro impotenza; <Ritornate ... ritornate ... la voragine vi inghiotte!> Una nuova risata, lunga, interminabile. [...] Ah! un tonfo, due ... e così, ancora ... cento ... mille ombre scompaiono nel pantano luccicante ... [...] La medesima espressione di odio ... negli occhi ... e di peccato ... Tutti per godere, danzanti attorno al loro idolo: l’oro! Ah! visione orrenda! ...” (p.21) E più avanti, sempre l‟Amore: “E’ la mia condanna. Ieri, oggi, domani, sempre. Calpestato, sputacchiato ...Come un cane rognoso ... che vaga randagio, lungo i muri e ti guarda con occhi spauriti e pur buoni. Ti gettano un tozzo di pane nero ... si curvano per accarezzarti e poi ... con una pedata rabbiosa ... ti schiacciano nel pantano sghignazzando sul tuo spasimo. Così ... sempre ... Gli uomini ... tutti uguali ... E dentro e fuori ... [...] Tu devi lasciare il passo al vizio, che ti sfiora col suo profumo peccaminoso ...” (p.40) Difficile immaginare una visione più pessimistica di questa. Gli uomini, tutti uguali, queste “ombre nere vaganti sugli alti sterpi” (quante ombre nere nella pittura di Flangini!) che precipitano nella voragine del vizio e del peccato. Dove trovare allora una luce di salvezza? Sembra qui possibile intuire una prospettiva agostiniana, o se si preferisce pascaliana. L‟uomo è impotente, grava su di lui una colpa originaria, che lo ha esiliato dal Paradiso Terrestre. Per giunta egli ha osato alzare le mani su Dio stesso, crocifiggendolo. Nulla potrà mai compensare una colpa così terribile. Solo Dio può salvarlo, nella sua misericordia infinita. L‟uomo deve, per parte sua, fare quanto gli è possibile per fuggire il peccato. In Sposo mia moglie, Piero, che ha la “colpa” di essersi innamorato di una donna divorziata, così viene richiamato al dovere da don Gaetano: “Ascolta questo povero prete che ti vuol bene ... come un padre. Ascoltalo. Piero, tu sei caduto in un abisso senza fine. Devi uscirne. Allontanati da quella donna. Ella non può esserti fedele, non può amarti”. (p.53) E a Piero, che si difende debolmente sostenendo che se perde l‟amore teme di perdere tutto, così replica: “Nulla sparisce se l’espressione della nostra gioia è Dio, se il nostro desiderio, se le nostre azioni, se tutto ciò che amiamo è benedetto da Lui. Piero quanta pace godesti fra queste montagne e quanta purezza! Dimentica. La vita è tutta una rinuncia ... E nel silenzio ... piangeremo insieme ... un poco. Ti aiuterò a dimenticare, se vuoi ...” (p.81) La vita come rinuncia, sacrificio, lacrime. Questo pessimismo cristiano, questa visione penitenziale della vita, viene espressa non più a parole, ma con la straordinaria efficacia del colore, nella pittura di Flangini. Di nuovo accostiamo due dipinti: Il lago a Bardolino del 1952 e I minatori del 1955. Il primo ci presenta una delle rare immagini , nel corpus pittorico flanginiano, di una natura mite e serena, sia pure venata di malinconia. Non potrebbe essere l‟icona del Paradiso Perduto, ripensato attraverso il filtro della nostalgia? Mentre i due minatori piegati dalla fatica (o da un‟oscura maledizione?) non paiono i rappresentanti di un‟umanità esclusa per sempre dall‟Eden originario? Vi è qualcosa di masaccesco nel loro rassegnato incedere. L‟accostamento tra le due opere può denunciare qualche forzatura, ma forse meno di quanto possa apparire a prima vista. Dopo tutto una buona parte dei minatori del Belgio erano italiani, costretti, per guadagnarsi il pane, a lasciarsi alle spalle la loro bella patria, il loro Eden. Il tema del lavoro, della condanna biblica al sudore della fronte, accompagna tutta la pittura di Flangini. Non mai il lavoro come gioco, come gioia ludica, come creazione gratificante; sempre invece il lavoro come fatica, come espiazione, come condanna, come abbrutimento fisico. Lo spalatore del 1940 conserva la dolce tonalità del colore veneto, che colma di poesia la natura intorno, ma l‟uomo al lavoro non ha occhi per essa, concentrato nello sforzo di inarcare le reni per sollevare la pala affondata nella terra. Nello stesso gesto è pure fissato un altro lavoratore, in un‟opera sempre del „40, I sabbionai. Qui i tre uomini intenti al lavoro e indifferenti al vasto paesaggio d‟acque e d‟alberi che li circonda sembrano racchiusi ognuno in una propria aura di silenzio che li rende soli pur nella vicinanza. Anche il cavallo, col muso affondato nel sacco del fieno, ha il suo destino di duro lavoro. Con Fatica del 1954 si prosciuga l‟idillio. Semplificazioni di colori e di masse; il blu antracite della terra che si sfrangia lateralmente nel cielo e la massa della luce gialla al centro che investe l‟uomo possente e lo piega sulla terra, con le mani come pale da lavoro. Egli appartiene cromaticamente al cielo e alla terra, ma manca lo spazio per pensarlo ritto e rimane così, bloccato per l‟eternità nella posa della fatica. Ma è nella regione mineraria del Borinage che il lavoro dell‟uomo trova la sua collocazione perfetta. Negli Scaricatori di carbone i due spalatori fanno tutt‟uno con l‟ambiente, fusi nel bigio chiarore di un cielo di cenere. Ha inizio la triste epopea del carbone, che trasforma la terra in una valle di lacrime e gli uomini in condannati ai lavori forzati, nere ombre vaganti tra montagne di scorie, povere creature che si muovono verso le fiamme infernali degli altiforni, uomini trasformati in bestie da tiro che trainano nere chiatte lungo la Sambre, minatori sfiniti dalla fatica che tornano all‟aperto abbacinati dalla luce. E la morte sempre in agguato. E‟ al Nord che Flangini ha trovato le immagini più adatte ad esprimere la sua concezione penitenziale della vita. La vita come espiazione. Si è affermato ch‟egli “ha descritto un momento del crescere della società industriale e non è evaso verso l’astratto e il surreale”. (De Grada 2002) Può essere vero, ma va anche detto che non vi è in lui nessuna retorica delle “magnifiche sorti e progressive”. Anzi può essere accostato a quella particolare forma di antiumanesimo che è propria di Leopardi e che consiste nel corrodere alla base la vanagloriosa consapevolezza di sé dell‟uomo moderno. L‟uomo non è che un essere fragile e impotente, in balia della natura. Allo “Sterminator Vesevo” Flangini sostituisce la furia del Mare del Nord. Si veda appunto Tempesta sul Mare del Nord del 1951. Una veduta di vaga reminiscenza turneriana. In una natura ribollente di luci e di violenza, i gusci di noce dei pescherecci sono in balia delle onde. Lì sopra la vita dei pescatori è in grave pericolo. Un‟altissima pietas verso le sorti dell‟uomo accomuna Flangini al poeta di Recanati. E un bisogno di umana solidarietà. Ma a Leopardi rimane una riserva di orgoglio per invitare i suoi compagni di sventura ad una resistenza morale contro la natura matrigna. Mentre la radice religiosa del pessimismo flanginiano non gli consente altro che la rassegnazione. In Giorno di pioggia del 1955 una lunga fila di uomini, con le mani in tasca e la testa china, mentre la pioggia cade su di loro dal cielo, vanno rassegnati verso il loro destino. Ognuno chiuso in se stesso. Né le tetre case lungo le quali sfilano paiono in grado di evocare nidi di affetti, oasi di serenità. La presenza dell‟uomo non è sempre necessaria a Flangini per manifestare il proprio sconsolato sentimento della vita. Molte volte la figura umana è assente, ma i paesaggi del Nord, sia quelli urbani e industriali, sia quelli agresti, si intonano perfettamente con lo stato d‟animo dell‟autore. E il risultato non muta. Per conoscere più a fondo il pessimismo cristiano di Flangini è necessario riflettere su un altro suo aspetto, che appartiene ad una secolare tradizione della cultura cattolica. Intendo parlare della sua acuta misoginia e dei suoi riflessi in pittura. In Sposo mia moglie si allude a una attrice, Lulù, che naturalmente non compare mai sulla scena. Di lei si sa solo che aspira a interpretare una parte, il che non sembrerebbe una grave colpa, trattandosi della sua professione. Ma Roberto, uno dei personaggi della commedia, parla di lei con violenza sproporzionata: “Ha una voce! Dio che voce! Una cagna!” E a Piero, che teme di dargli disturbo, risponde: “Tu? Figurati! E’ quella cagna!” (p.16) Lo stesso Piero, presentato come un giovane idealista, dai nobili sentimenti, con queste parole si confida con Roberto, ricordando una passata disavventura d‟amore: “Taci...Taci... Non rammentare, non rammentare...Vedi, il solo ricordo mi ... Sono ridicolo ...! Per una donna ... Per una donna nella quale avevo riposto ignaro la mia anima fragile e per cui tutto il mio sogno intrecciato ora per ora con fili d’oro è crollato paurosamente. Per una donna! E’ ridicolo, è ridicolo! Lo so, lo sento.” (p.19) Quale considerazione della donna sia sottesa a questo discorso è facile capire. Naturalmente Flangini considera a parte la figura “santa” della madre e di conseguenza quella della moglie, purché legittima. Forse per questo una delle sue rarissime vedute nordiche liete o festose ritrae un corteo nuziale. In Matrimonio nel villaggio perfino le case paiono rivestite di nuovi e più freschi colori, mentre sfilano i convitati, ritratti con grazia affettuosa. In Il Re Baldoria del 1932 il personaggio che rappresenta il Gioco, viveur dissoluto, quando si converte in questi termini pensa alla propria madre: “E mia madre! Mia mamma! Invoco disperatamente il nome santo di quella donna ... [...] Mia madre, che non mi abbandonò. Mia madre che mi protesse anche nel male perché un atomo di bontà ardesse nel mio cuore e divampasse in un giorno lontano ... Oh! Dimmi ch’ella da lassù mi vede ... che gioisce della mia guarigione. Che mi perdona ...” (p.57) Con tali premesse non stupisce il fatto che di figure femminili nella pittura di Flangini ve ne siano ben poche: la nonna Angela intenta alla lettura, in un lontano dipinto del 1923; alcune comparse in costume per il film su Van Gogh del 1955; una signora borghese ritratta in posa farsesca in Kermesse nel Borinage del 1958; alcune figurine senza volto, non più che macchie di colore lungo la via o sulla spiaggia; e qualche tentativo di nudo. A questo proposito si ha l‟impressione che il nudo femminile come tema pittorico attirasse e nello stesso tempo mettesse in difficoltà Flangini, che non giunse mai a trattarlo come puro e semplice omaggio alla bellezza e all‟armonia del corpo della donna. Ricordo un rapido schizzo a matita, con due nudini di spalle, quasi un furtivo appunto. Due belle figure di bagnanti, protette da casti costumi, per cui è difficile farle rientrare nel genere del nudo. Ancora una figura femminile distesa, probabilmente all‟aperto, sempre coperta da un costume da bagno, e una donna seduta, con l‟immancabile protezione. Finalmente incontriamo un nudo integrale, ma si tratta di un nudo di pietra, un nudo archeologico! Opera singolare, composta nel periodo „53-‟57 per il concorso “La bella italiana”, porta il titolo Le perle. A sinistra, in piedi e scalza, ripresa di spalle di tre quarti, una fanciulla fasciata da una veste aderente tiene alto nella mano destra uno specchio, come se volesse vedervi riflesso il proprio volto. In realtà il suo sguardo è rivolto alla scultura, ritta accanto a lei, che porta al collo una doppia fila di perle rosse. La statua, nel ginocchio sinistro avanzato, nella testa e nella capigliatura ricorda il tipo della Venere Cnidia risalente a Prassitele (una copia si trova nei Musei Vaticani a Roma), mentre nel busto eretto e nelle braccia mozze ricorda l‟Anadiomene stante di Cirene, al Museo Nazionale di Roma, risalente a un famoso quadro di Apelle. Pare che sia il pittore greco che lo scultore avessero usato come modella l‟etera Frine. E‟ probabile che Flangini volesse significare che il tipo di bellezza italiana da lui proposto deriva dall‟ideale classico, dato che siamo pure eredi della Magna Grecia. Inquietante il particolare del doppio filo di perle rosse, che sarebbe stato più naturale attendersi al collo della fanciulla. Su quel simulacro esso ha maggior risalto e potrebbe essere la spia di una censura inconsapevole: una pulsione profonda avrebbe desiderato la donna viva al posto della statua. Ci si avvicina di più al nudo vero nell‟opera Maschere del 1952, in cui al centro di una sarabanda di maschere, che vede anche la presenza di un teschio a cavallo, troviamo una donna seminuda, inerme prigioniera esposta al ludibrio. Infine in un‟opera presumibilmente coetanea, Pagliacci, la donna al centro appare con più forte rilievo e priva di veli. E‟ forse l‟unico vero nudo dipinto da Flangini. Ma è ben lontano dal rappresentare un invito alla contempazione della bellezza. L‟apparente allegro omaggio che le maschere, tra le quali compare di nuovo uno scheletro, tributano alla donna, è in realtà una sgangherata farsa, che fa affiorare su volto della fanciulla una sconsolata malinconia, la consapevolezza della fragilità della bellezza e della morte inevitabile. Il memento mori diviene esplicito nella Kermesse a Gilly I , del 1952, dove in luogo della donna nuda troviamo il grottesco fantasma della morte che, con il suo bastone di comando in mano, regna sugli uomini. Il significato alla fine è lo stesso. Mi vengono in mente i versi del grande Ciro di Pers: “Oggi sei vecchia e fosti ier fanciulla,/ diman Lachesi ria t’avrà disciolta / in terra in polve in fumo in ombra in nulla”. (Ciro di Pers, Poesie, a cura di Michele Rak, Torino 1978, p.186) E‟ il tema della vanitas, della tristezza senza fondo che in Flangini contagia anche quelli che dovrebbero essere i momenti dell‟allegria e della gioia di vivere. Nella già citata Kermesse nel Borinage la sagra popolare si trasforma nella messa in scena di una sguaiata, quasi atterrita presa di coscienza di ciò che ci attende. Nel pittore veronese la stessa, ripetuta figura di Arlecchino, “deposto il vitalismo della maschera teatrale con i suoi lazzi scostumati, i suoi gesti acrobatici, la sua fame atavica”, ci comunica una mestizia senza fine, trasformandosi in “una figura di morte”. (Artioli 2002) Perfino un‟immagine che per radicata tradizione evoca l‟idea della spensieratezza inconsapevole, quella della giostra con i cavallucci, riservata ai bambini, assume in Flangini l‟aspetto di un funebre baldacchino. Ed anche quando mette in mostra i cavallucci in cerchio, non offre traccia di gioiosa presenza infantile. Che le caratteristiche di questa pittura rispondano assai più a profonde esigenze interiori che a sollecitazioni esterne, dovrebbe essere ormai chiaro. Vorrei ribadire questa certezza in modo specifico anche per quanto riguarda la componente espressionista dell‟arte di Flangini, per la quale è stato spesso avanzato il nome di Ensor. L‟esasperazione dei tratti fisionomici e la caricatura sono evidenti, e in parte lo si è già mostrato, nelle commedie giovanili del pittore veronese. Diamo qui altre testimonianze. In Sua Maestà il Denaro del 1929, il personaggio del Gioco viene presentato con queste indicazoni per la regia: “Vent’anni. Pallidissimo. Occhiaie profonde limitate da due cerchi blu. Sguardo fisso nel vuoto. Porta il frak stilizzato ed il monocolo. Il gesto elegante. E’ il viveur, il nottambulo”. (p.16) Mentre per il personaggio della Cupidigia si delinea in questo modo l‟aspetto esteriore: “Figura tozza, volgare. Testa enorme su ampie spalle quadrate. Un ventre voluminoso, su cui spiccano ori e decorazioni, è sostenuto da gambe piccole e grasse. Sulla fronte giungono, faticosamente, radi capelli, divisi con cura per coprire la calvizie. Sugli occhi, troppo piccoli, formano arco due folte sopracciglia: naso floscio, bocca abbondante. Ostenta i grossi brillanti che gli coprono le dita. Il gesto esagerato, la voce alta, l’incedere devono essere una caricatura dell’uomo arricchito, dello speculatore”. (p.13) Infine, per quanto riguarda le “atmosfere” espressioniste vorrei indicare un brano esemplare nelle note di regia presenti in Il Re Baldoria, che è del 1932 : “E’ notte oscura, pesante, una notte che non ha fine. Ombre vaghe, maschere informi si sfiorano danzanti al suono epilettico del jazz-band. A tratti un’ondata gonfia di risa, di voci incomprensibili, penetra, violenta, nell’interno. All’alzarsi della tela, la musica in un ritmo spasmodico opprime; la risata diabolica soffoca. Una coppia, avvolta nella seta, avvitichiata, ubriaca, presa nel turbinio della danza è proiettata nella scena. S’ode lo strisciare veloce dei passi nervosi; il respiro simile al rantolo. Improvvisamente il Vestito Nero, colpito da paralisi cardiaca, cade, come un mucchio di cenci ingombrante, sul pavimento. Il Pagliaccio eleva acutissimo un grido di dolore”. (p.22) Anche questo brano, che per certi versi sembra ispirato da un attardato gusto decadente, rimanda a mio parere a una sincera necessità spirituale, come se il chiaroscuro drammatico e l‟esasperazione espressionista costituissero una sorta di categoria a priori dell‟animo di Flangini, connaturata con l‟originario pessimismo cristiano che lo distingue. Che poi questa necessità interna, nel suo manifestarsi, tenda, com‟è naturale, ad utilizzare i materiali che la moda e le occasioni culturali le mettono a disposizione, è cosa più che probabile. Si potrebbe persino pensare che su certe pagine di teatro, come quelle qui utilizzate, si eserciti l‟influenza della pittura espressionista nordica, considerato che Flangini aveva cominciato a frequentare il Belgio negli anni Venti. Ma la ritengo un‟ipotesi assai poco verosimile: per quanto la cronologia delle sue opere sia incerta, il vero connubio con la cultura artistica del Nord non pare che si manifesti prima degli anni Quaranta e più ancora Cinquanta, quand‟egli si dedica interamente alla pittura. In questa prospettiva, riconosciua a Flangini una risentita personalità morale e culturale, può essere più agevolmente affrontata la questione, sollevata dai critici, dell‟influenza di questo o quel pittore sulla sua arte. Nessuno, artista o non artista, può essere considerato immune da influenze. In misura e in gradi diversi. Come uomo Flangini è stato plasmato dall‟ideologia e dalla cultura cattolica dominante, ai primi del Novecento, nella provincia veneta. E manterrà per sempre tale impronta. Come artista egli si è formato in una temperie post-impressionista, aperta in direzioni diverse, ma centrata sul rapporto privilegiato con la natura e il paesaggio. Se in teatro egli mirava a far agire degli attori - stati d‟animo più che dei personaggi - attori, in pittura mira a fissare delle visioni - stati d‟animo più che delle visioni oggettive. Da autodidatta punta su una pittura veloce, decisa, che riesca a bloccare il tempo e la luce contemporaneamente alla propria emozione. L‟uomo e l‟artista formano un tutt‟uno, in una compattezza tale che non lascia grandi spazi per le influenze esterne, che potranno, in tanti anni di pittura, manifestarsi qua e là come stimoli e suggestioni, reali sì, ma non in grado di incidere sul nucleo di fondo. Sono stati avanzati vari nomi di artisti che potrebbero aver avuto influenza sulla pittura di Flangini. Tra i tanti vorrei accantonarne subito alcuni, citati per evocare un clima artistico particolare, perché mi paiono troppo periferici rispetto all‟esperienza del pittore veronese. Alludo a Theo Van Rysselberghe (1862-1926), Morgan Russel (1886-1953), André Fougeron (1913-1998), richiamati da un critico. (De Grada 1956) I nomi sui quali è giusto soffermarsi sono quelli di Vincent Van Gogh (I853-1890), James Ensor (1860-1949), Maurice Vlaminck (1876-1958), Maurice Utrillo (1883-1955). Tra le poche nature morte dipinte da Flangini ve ne sono due che paiono un omaggio esplicito a Van Gogh: una di girasoli e una con due pesci che possono ricordare le Aringhe salate su carta gialla del pittore olandese. Altri girasoli compaiono all‟interno di alcune composizioni flanginiane. Quando nel 1955 il regista Vincente Minelli si recò a Wasmes per una serie di riprese del film Brama di vivere sulla vita di Van Gogh, Flangini potè seguire la troupe e ritrarre personaggi, comparse e ambienti vari. Tra le sue carte vi è una pagina di appunti in cui si trova scritto: “Ho visto Van Gogh! Intendiamoci bene; non visto negli autoritratti ormai riprodotti ed esposti in tutti gli angoli del mondo, ma visto proprio lui, vivo, davanti a me, e gli ho anche parlato. Era curvo su un mucchio di cianfrusaglie, cercava qualcosa che gli avrebbe servito per la sua cucina: un tubo arrugginito. Lo trova, lo considera, scambia qualche parola con un minatore che passa, entra nella sua capanna. Ciak. Si ripete la scena. Di fronte, presso alla macchina da presa, il regista Minelli è soddisfatto. Io non m’accorgo del trucco cinematografico, dimentico che quell’uomo che porta nella capanna il tubo arrugginito è Kirk Douglas, io vedo soltanto il pittore Van Gogh”. L‟acuta sensibilità morale di Flangini lo portava di certo a vedere nel maestro olandese, nel suo mistico apostolato tra i minatori del Borinage, un modello di vita eroico e inimitabile. Non ci si può che sentire impotenti di fronte ad un esempio siffatto. L‟imitazione consapevole viene inibita, sia nella vita che nell‟arte. “Non ha rifatto Van Gogh nemmeno in una pennellata”. (Borgese 1970) Giudizio, questo, ripetuto in genere dalla critica (Ghilardi 1987; De Grada 2002; Pontiggia 2004). Solo una voce ipotizza dubitativamente qualche traccia di imitazione formale (Altichieri 1962). Credo non vi sia nulla di male nel cogliere, raramente devo dire, in certi mulinelli cromatici dei cieli flanginiani, o nella tessitura di alcune siepi, o nei riccioli filamentosi delle onde reminiscenze anche formali della pittura vangoghiana. La stessa cosa può dirsi per Ensor. Grande ammirazione da parte di Flangini, che finì per conoscerlo di persona, quando il pittore di Ostenda aveva ormai raggiunto un‟età molto avanzata. La componente grottesca della sua pittura, il tema della maschera dovettero affascinare Flangini, che tuttavia non poteva fare sua la corrosiva satira della borghesia, frutto di una mescolanza ideologica di cristianesimo e socialismo, che caratterizzava l‟arte ensoriana. Le Kermesse di Flangini possono essere interpretate come un omaggio a Ensor: gli umini sono in tuba e compare anche la figura volgare di una donna in abiti da sera. Ma proprio qui, nella Kermesse nel Borinage, si comprende come la polemica sociale si vanifichi, riassorbita all‟interno di un pessimismo esistenziale, che guarda con pena alla creatura umana. Anche in Maschere e in Pagliacci la presenza di scheletri pare rimandare a Ensor, che di questo simbolo fece grande uso, a partire almeno dalla sua famosa opera Entrata di Cristo a Bruxelles del 1888. Ma i tratti delle maschere di Flangini assomigliano più a certi volti di Vlaminck che alle vere e proprie maschere di Ensor. Naturalmente sarà sempre possibile individuare con pazienza in Flangini tracce formali anche dell‟opera ensoriana. Più importante mi sembra l‟influsso esercitato su di lui da Vlaminck, in genere riconosciuto dai critici in relazione al periodo finale della sua attività , all‟uso ch‟egli fece tra il „59 e il „61 dei “pigmenti fauves”. (Monteverdi 1967) Credo che questo influsso vada retrodatato a partire dagli inizi degli anni Cinquanta. E‟ probabile che già allora Flangini avesse scoperto con sottile inquietudine la violenza cromatica dei “fauves”, il vitalismo sfrenato di Vlaminck che esplodeva nei vermiglioni accesi in acre contrasto coi verdi. E qualche risonanza profonda questa pittura deve aver provocato in lui, non ancora pronto tuttavia ad accogliere tale cromatismo infuocato. Preferì premere sul tasto della deformazione espressionista. Se in Vlaminck le case, allineate in lunghe parate, sono già delle creature vive (si veda ad esempio Case a Chatou del 1904 o Pont a Chatou del 1905), in Flangini esse soffrono, piangono, si torcono dal dolore, come in Catastrofe nella miniera. Per il resto egli sperimenta in quegli anni un cauto rinnovamento cromatico e compositivo, guardando ad Utrillo. Già avanzato in passato (Monteverdi 1967) questo nome è stato ripreso di recente. Utrillo “è evidente soprattutto nei primi anni cinquanta, quando Flangini alleggerisce i volumi e le masse delle sue composizioni in una grafia precisa, ma lieve”. (Pontiggia 2004) Da qui una serie di vedute in cui i colori si illimpidiscono, le architetture si fanno più fragili, dando vita a sospese atmosfere, in prevalenza urbane. In particolare a Utrillo ci richiama il tema più volte ripetuto (almeno venti) della cattedrale di Ostenda. Se la tela presentata al concorso nazionale Città di Cantù del 1958 nel nitore architettonico rimanda alla Cattedrale di Chartres del 1910 circa di Utrillo, altre cattedrali di Flangini sembrano monumenti all‟antracite, e richiamano La Basilica di Saint-Denis del 1908 circa. Anche nella vita degli artisti si colgono delle curiose coincidenze. Alla morte di Vlaminck, avvenuta nel 1958, Flangini apre ai “pigmenti fauves”. E‟ il punto di arrivo di un lento processo di crescita, che lo conduce a una sintesi nuova, artistica e morale, in perfetta coerenza con tutto il cammino già percorso. Questi, dal 1958 al 1961, sono anni di grande fermento creativo. Vi incontriamo anche un omaggio all‟amato impressionismo, quasi un ritorno al primo Monet. In La Sambre a Montigny Veduta dal ponte, del 1960, della Galleria d‟Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Forti a Verona, Flangini evoca la matrice stessa della sua pittura, esercitandosi con la scioltezza dovuta a tanti anni di lavoro. Così può misurare il distacco e chiarire meglio a se stesso il senso del nuovo approdo. Che non è né una rivoluzione, né un‟abiura. I “pigmenti fauves” s‟accendono entro visioni-stati d‟animo connotate dal pessimismo di sempre, reso più drammatico, più lucido, più definitivo. Il colore diviene un sigillo dai toni più alti e freddi, usati con estremo controllo ed equilibrio. La mestizia che intrideva tante vedute nordiche di Flangini, le lacrimae rerum che dilatavano la sofferenza dell‟uomo, si prosciugano in un distacco virile, cui è sottesa una rinnovata energia morale. E‟ come fissare un grido spezzato, una maledizione immutabile, una realtà pietrificata. In Notturno sulla Sambre, del 1960, la luce lunare disseppellisce neri profili inframmezzati da lividi biancori, mentre sulla destra due nere figurine frugate dalla luce si bloccano in un disperato tentativo di fuga verso un impossibile altrove. Nella Cattedrale di Ostenda del „58-‟59 un primo piano profilato di nero s‟apre su una visione drammatica: la vita umana che s‟intuisce prigioniera nelle vampe spettrali delle case, le guglie della chiesa che s‟alzano inutilmente verso un cielo riottoso. In Paesaggio a Loverval, del „61, i bianchi fantasmi delle case stendono un silenzio di morte sul lavoro dell‟uomo. Mentre in Paesaggio a Gilly, sempre del „61, le case sono mute testimoni di una violenza inconfessabile. Infine in Il faro i “pigmenti fauves” si rapprendono in tasselli marmorei, frammenti lucenti di una realtà sorpresa da un sortilegio che le strappa l‟anima. Purtroppo l‟ultimo Flangini è documentato da un numero ristretto di opere, perché il colore tanto amato da tempo meditava la sua cieca vendetta, se è vero, come pare probabile, che gli aveva già invaso e avvelenato il sangue e di lì a poco gli avrebbe repentinamente troncato la vita. Prima di chiudere queste note mi pare opportuno segnalare un tema da poco posto in rilievo dalla critica: quello del rapporto in Flangini fra teatro e pittura. Nel 2002 venne allestita a Palazzo Te a Mantova una bella mostra con il titolo: Giuseppe Flangini - Realtà e immaginario. Si voleva in modo specifico indagare sulla presenza del teatro nelle opere del pittore. Venne concesso ampio spazio espositivo alle Maschere, a quella di Arlecchino in particolare. Il catalogo Electa, curato da Raffaele De Grada, portava un saggio del critico, intitolato: Teatro e pittura -Flangini, un’esemplare convivenza. In esso, partendo da alcuni cenni alla presenza delle “maschere” nelle opere pittoriche di Flangini, si arriva alla conclusione che la “sua pittura si è sempre nutrita della sublime coscienza che la vita degli uomini si svolge come su un grande teatro cui egli partecipa non come spettatore, ma come protagonista”. La stessa tesi viene ripresa poco dopo, e in modo più stringente, nel catalogo di un‟altra mostra dedicata a Flangini, autore nel quale ci sarebbe “la consapevolezza che ogni paesaggio, ogni ambiente è un teatro: un teatro in cui va in scena (mascherato o no, non importa) lo spettacolo della vita. La pittura di Flangini, le sue città e le sue campagne nasceranno sempre dall’intuizione che il paesaggio è sì una parte della natura, ma è soprattutto il palcoscenico dell’azione dell’uomo, il fondale della sua recita, ora faticosa, ora dolorosa, ora grottesca. [...]La sua pittura, insomma, presuppone sempre la commedia umana”. (Pontiggia 2004) Ho l‟impressione che questi giudizi non siano esenti dal rischio di un equivoco semantico, il sovrapporsi di due aree espressive contigue ma diverse, una di senso proprio (cosa c‟è di “proprio” del teatro nella pittura di Flangini?) e una di senso metaforico (il paesaggio come luogo, scena, dove si svolge l‟azione dell‟uomo) . La sovrapposizione, o anche solo la somma delle due aree giustapposte, non aiuta a raggiungere una migliore comprensione della pittura di Flangini. Per secoli nella pittura il paesaggio ha fatto da sfondo, è stato la scena sulla quale si accampavano santi, madonne e celebri personaggi storici o mitologici. Solo nell‟Ottocento esso ha raggiunto in pittura una sua concreta autonomia. Ma questo non significa che per secoli la pittura sia stata in qualche modo legata al teatro. L‟uso metaforico è legittimo, se condotto con discrezione, come consuetudine espressiva, altrimenti si potrebbe arrivare a dichiarare che anche una natura morta di Flangini, come di chiunque altro, ha una valenza teatrale, perché quel mazzo di fiori nel vaso, ad esempio, presuppone la mano dell‟uomo che ha compiuto l‟azione di comporlo. La tendenza a fare di ogni erba un fascio non porta lontano. Più che legittima è la ricerca nella pittura di Flangini di elementi che la collegano allo “specifico” teatrale, come nel caso delle maschere, e su questo sono state stese ottime note. (Artioli 2002) Va qui notato che il rapporto pittura-teatro in Flangini si rivela assai più sul piano dei contenuti (le maschere appunto) che non su quello dell‟impostazione formale. A questo proposito è ancora valida una voce del passato: “Nei paesaggi flanginiani si possono notare prospettive ed elementi architettonici in funzione costruttiva. Neghiamo però che essi tendano ad effetti scenici e spaziali, come avviene, e con certa qual ghiottoneria, in De Chirico e in Carrà, né che prevalgano sui valori di colore, di tonalità e d’altro genere”. (Altichieri 1962) In sostanza l‟influenza del teatro nella pittura di Flangini si riduce in senso proprio a poca cosa, anche se significativa, né serve gonfiarla con l‟uso generico di una metafora. Quando si dice che nei quadri del pittore veronese l‟uomo è spesso presente anche quando è assente (De Grada 2002; Pontiggia 2004), si afferma una verità che ha molto più a che fare con la tensione morale implicita nella sua pittura che non con il teatro. “Sui suoi dipinti, ancorché nudi aspetti della natura, sembra rifrangersi una presenza fuori quadro, il senso della fatica e del logoramento dei viventi. [...] Possono apparire paesaggi integri, senza traccia d’esseri vivi, però gravati, incisi dall’uomo. [...]l’energia e l’inflessione del colore contribuiscono a trasmettere, con una sorta di rilievo plastico, l’ombra portata dell’uomo. Questa, a nostro avviso, è la dimensione morale, il carattere segreto dell’opera pittorica di Flangini”. (Altichieri 1962) Vi è un altro modo di parlare dei rapporti tra il teatro e la pittura di Flangini; è il modo, finora trascurato, che ho tentato di sperimentare in queste pagine. Consiste, come dovrebbe risultare chiaro, nella ricerca di un substrato comune, a livello ideologico, culturale e morale, che non può non coinvolgere insieme sia il teatro che la pittura, essendo Flangini un personaggio totalmente immune da qualsiasi sintomo di dissociazione interiore. In questa direzione della ricerca la “parola” del teatro può essere di grande aiuto per una comprensione più significativa dell‟ “immagine” della pittura, perché la prima è concettualmente più trasparente e diretta. A questo punto dell‟analisi può essere utile concludere tornando brevemente all‟inizio, a quelle enunciazioni critiche sulla pittura di Flangini da me presentate come pacificamente accettabili e che ora, forse, potranno essere accolte con maggiore consapevolezza. Riprendiamole una per una. 1) Nella pittura di Flangini vi è una sostanziale continuità d‟ispirazione e di stile, pur nella graduale evoluzione che accompagna lo scorrere degli anni. Non si tratta più solo di una constatazione, ora questo giudizio è possibile motivarlo più internamente. La personalità di Flangini è radicata in una sfera di valori che trae la sua origine in una precisa visione religiosa della vita. La sua pittura testimonia il fatto che tale visione rimase salda lungo tutto il corso della sua esistenza e costituì il nucleo essenziale che orientò non solo le sue propensioni culturali e morali, ma le stesse inclinazioni e i gusti artistici. Questo spiega anche la sostanziale stabilità del suo percorso creativo, la sua capacità di metabolizzare in modo personale le influenze e le suggestioni che provenivano dall‟esterno. E‟ stato scritto che la sua pittura si è evoluta “dal dolce tono veneto a una sorta di nordico romanticismo o perfino di espressionismo”. (Borgese 1967) Con qualche più sottile articolazione, ad esempio sulle influenze francesi negli anni Cinquanta e sull‟uso personale dei “pigmenti fauves” nel periodo finale, questo giudizio è sostanzialmente accettabile. Conta qui rilevare che l‟unità della sua pittura si manifesta tecnicamente nella preminenza accordata al “colore” su ogni altro elemento, scenografico, teatrale o di struttura compositiva. Per tutta la vita Flangini lavorò con amore e passione orchestrando e dosando sapientemente i “toni” del colore, da quelli freddi a quelli caldi, da quelli alti a quelli bassi, in sintonia profonda con i colori della sua anima. 2) La sua pittura manifesta una sensibilità “nordica”, intesa come qualità distintiva dell‟autore. Flangini incontra al Nord, lui che proveniva dalla solarità quasi mediterranea del lago di Garda, i cieli tristi e caliginosi del Borinage e istintivamente li sente in sintonia con la sua visione pessimistica della vita. Come a dire ch‟egli scopre quello che aveva già dentro di sé. 3) Tra le opere ispirate ai paesaggi del Nord si trovano i risultati più alti della sua arte. Questo è una conseguenza diretta di quanto si è appena detto. E‟ infatti facilmente intuibile che un artista possa dare il meglio di sé quando utilizza un materiale espressivo che fa vibrare le corde più segrete del suo animo. Perché allora egli è in intima, profonda, totale coerenza con se stesso. 4) I suoi dipinti rivelano una forte tensione morale. Dovrebbe essere ormai chiarissimo: Flangini non è un pittore della domenica che trova nei pennelli la felice occasione per evadere momentaneamente dalla monotonia quotidiana. Per lui dipingere divenne la sua vita. Nella pittura trovò una possibilità espressiva che superava di gran lunga quella sperimentata nel teatro. Nei suoi testi per le scene balzano evidenti gli impacci dei pregiudizi, dei condizionamenti ideologici ch‟egli aveva assorbito crescendo nella cultura degli oratori e delle parrocchie veronesi. Sono testi contraddittori, dove a una impostazione duramente pessimistica si giustappone inopinatamente un lieto fine di maniera; dove la volontà di edificazione si traduce in schemi di vita rigidamente caricati e innaturali e il bianco è solo bianco e il nero è solo nero. Nella pittura tutto questo si scioglie, le sovrastrutture lasciano il via libera alla sensibilità, che è sì segnata per sempre dall‟atmosfera respirata in giovane età, ma che può esprimersi liberamente nelle nuvole di un cielo tempestoso, nei tratti di un volto tormentato dall‟inquietudine, nella postura di un corpo rassegnato a vivere. Ciò che questa sensibilità esprime mediante il magistero dell‟arte non è la ricerca della bellezza nella sua sovrana autonomia, ma un‟attenzione costante per l‟uomo e la sua sorte. La pittura di Flangini ci introduce con tutta naturalezza in una dimensione etica inestricabilmente congiunta alla dimensione estetica. Questo “compatire”, questa solidarietà verso la sofferenza e il dolore dell‟uomo, questa pietà verso un destino comune che ci sgomenta, ma che non possiamo eludere, questo giungere a contemplare con sguardo fermo una realtà che non può più essere l‟Eden che abbiamo lasciato alle spalle, tutto questo ci comunica la sua pittura, facendo di lui un personalissimo grande artista.