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Altri cieli, altri colori nella pittura di Giuseppe Flangini
Giovanni Stipi
La bibliografia di un artista noto si sviluppa nel corso degli anni come un bosco fitto, nel quale è
anche possibile perdersi, tra segnalazioni, note d‟occasione, interventi di critica militante, riposate
riflessioni di carattere generale. Nel bosco cresciuto attorno a Flangini, e tuttora in continua espansione
dopo più di sessant‟anni dai primi germogli, mi pare utile individuare alcune acquisizioni critiche
ormai ben accreditate. Mi limito a presentarle succintamente, riservandomi di riprendere più avanti il
discorso su di esse.
1) Nella pittura di Flangini vi è una sostanziale continuità d‟ispirazione e di stile, pur nella graduale
evoluzione che accompagna lo scorrere degli anni. (Segala 1962; Monteverdi 1967)
2) La sua pittura manifesta una sensibilità “nordica”, intesa come qualità distintiva dell‟autore. (De
Grada 1956; Altichieri 1962)
3) Tra le opere ispirate ai paesaggi del Nord si trovano i risultati più alti della sua arte. (Portalupi
1956; Monteverdi 1967; Villani 1967)
4) I suoi dipinti rivelano una forte tensione morale. (Verzellesi 1959; Altichieri 1962; Stipi 1998; De
Grada 2002)
Detto questo va subito aggiunto che nella critica su Flangini è presente un vizio d‟origine al quale non
si è ancora posto riparo. Quando il pittore si trasferisce nel 1944 a Milano dalla nativa Verona, nella
capitale lombarda ferve la polemica tra i fautori della pittura figurativa tradizionale e i cantori
entusiasti delle molteplici sperimentazioni dell‟arte astratta. Dalle pagine autorevoli del Corriere della
Sera Leonardo Borgese condurrà una convinta battaglia contro gli “intellettualismi” dell‟arte
contemporanea e, dagli inizi degli anni Cinquanta, attirerà l‟attenzione dei lettori su Flangini,
proponendolo con empatico coinvolgimento come modello della buona pittura all‟antica in
opposizione alle fumisterie moderne. La lezione di Borgese fa scuola e diviene l‟interpretazione
vulgata. Il pittore veneto rifugge “dai vacui intellettualismi stancamente ancora in auge nelle
<grandi> esposizioni ufficiali”. (Balestrieri 1952) Egli “ancora resiste tra il brancolamento o lo
scettico o interessato camaleontismo di tanti artisti ormai succubi della moda”. (Verzellesi 1959)
E sarà lo stesso Borgese a definirlo con pochi aggettivi “autodidatta, istintivo, spontaneo, anzi naturale
artista”, riconoscendogli un “forte temperamento pittorico”. (Borgese 1967)
Flangini artista “naturale”. Per amor di polemica si torna al mito russoiano dell‟uomo-natura,
dell‟uomo libero da sovrastrutture culturali. Il critico scriverà pochi anni dopo: “Io credo che forse
nessun artista colto, nessun raffinato, nessuno dei nostri artistoni e <cannoni>, avrebbe saputo
illustrare pittoricamente, e anzi pitturare tanto bene, il Paese coi tipi del Van Gogh fiammingo, la
grigia e triste terra, l’inferno della noia pesante, gli uomini della pietà senza preghiera”. E ribadirà in
modo esplicito: “Nei suoi quadri Flangini non ha messo letteratura e simboli, non ha messo
vangoghismo, non ha messo né socialismo, né cristianesimo”. (Borgese 1970) Artista “naturale”
dunque, sostanzialmente sprovvisto di cultura.
Ascoltiamo di nuovo il critico: “Questo Giuseppe Flangini, pittore veronese, è un uomo semplice
eppure straordinario. Basso, scuro, con occhi acuti, fondi e sorridenti, provinciale e quasi contadino,
bonario o buono anzi, furbo e anche ingenuo. Flangini non sembra appartenere al nostro secolo.
[...] non sa poi di estetica, non di pittura pura, non di <valori> [...]. Flangini sa soltanto respirare e
fiutare. Respira i grandi cieli. Fiuta dov’è il buon colore della terra e se lo prende subito e lo rifà alla
svelta e bene”. In conclusione la qualità della sua pittura non può che essere il frutto di una grazia
innata, di un singolare, misterioso dono di natura: “A questo antico pittore naturale la delicatezza, la
comprensione, la misura, tutto il buon gusto, vengono non so proprio come”. (Borgese 1970)
Mi sono soffermato su questa tesi di un Flangini “bonhomme” e più precisamente di un pittore tutto
istinto e niente cultura, portata all‟estremo almeno in parte per una strumentalizzazione a fini polemici,
perché credo che essa sia all‟origine di un forte fraintendimento della sua opera, e ne ostacoli una più
calibrata ed esatta interpretazione.
Si vuol qui sostenere una tesi diametralmente opposta: quella cioè di un Flangini culturalmente e
ideologicamente strutturato, con un profilo interiore per certi versi drammatico, che non può non aver
condizionato in modo stringente la sua stessa pittura. Non s‟intende, com‟è ovvio, negare ch‟egli
avesse delle notevoli doti spontanee di artista, né attribuirgli la formulazione di una poetica ben
articolata in termini concettuali, cosa che in effetti non risulta documentabile. Il proposito è invece
quello d‟indagare per rapide prospezioni lo spessore culturale e morale della sua personalità per
individuare i nessi che la collegano in modo indissolubile alla pittura.
Ricordiamo che Flangini fu prima di tutto un educatore: maestro elementare per molti anni nelle scuole
pubbliche di Verona e di Milano. I ricordi dei suoi allievi, che “si consideravano una specie di
aristocrazia proprio per il fatto di appartenere alla sua classe” ci trasmettono l‟immagine di un “uomo
favoloso”, con qualcosa in più rispetto agli altri insegnanti (Cenni 1965), ma non ci dicono nulla di
particolare sui “valori”ch‟egli intendeva trasmettere ai ragazzi. Possiamo credere che i contenuti
educativi della sua attività didattica derivassero in sostanza dall‟educazione ch‟egli stesso aveva
ricevuto nell‟ambiente famigliare e sociale in cui era cresciuto.
Molto di più è possibile ricavare in proposito dalla conoscenza del suo impegno, durato a lungo, come
uomo di teatro. Manca purtroppo uno studio complessivo in questa direzione e mi auguro che tale
lacuna venga presto colmata. Da una rapida ricerca condotta sul materiale che mi è stato gentilmente
messo a disposizione dagli eredi, risulta ch‟egli sarebbe autore di almeno sedici testi teatrali, distribuiti
in un arco di tempo che va dal 1925 alla fine degli anni Quaranta. Venticinque anni circa di attività
teatrale che lo videro, oltre che autore, anche attore, sceneggiatore, regista.
Si tratta di un teatro “edificante”, rivolto al pubblico delle parrocchie e degli oratori. A Verona il punto
di riferimento del commediografo Flangini era la Sala Teatro Stimate, ma le sue opere vennero
rappresentate in mezza Italia. Questo tipo di teatro si usava definirlo con l‟aggettivo “maschile”,
perché la donna era rigorosamente espunta dalle scene. Dall‟epistolario di Flangini, composto di lettere
da lui ricevute, mentre di quelle spedite sembra non essere rimasta traccia, si ricava l‟idea ch‟egli
avesse, da un certo momento in avanti, messo in atto il tentativo di passare dal teatro “maschile” a
quello “regolare”. Lo sollecitava in questo senso l‟amico attore, e suo grande estimatore, Nico Pepe,
che, stando almeno alle parole, molto si spese per metterlo in contatto con capocomici, critici ed attori
di livello nazionale. Nelle lettere si fa un gran parlare di copioni flanginiani da passare o passati
dall‟uno all‟altro dei protagonisti del mondo del palcoscenico, ma, par di capire, senza nessun esito
concreto. Forse anche per questo Flangini pose fine alla sua attività teatrale, per dedicarsi interamente
alla pittura.
Delle numerose opere da lui scritte per le scene ho potuto leggerne quattro, tra le più antiche:
Sans-Père, dramma in tre atti della Rivoluzione francese, del 1925, la prima in assoluto (Milano, Ed.
Àncora, 1949 , V ed.); Sposo mia moglie,grottesco in tre atti del 1928 (Milano, Ed.Àncora, 1945,IV
ed.); Sua Maestà il Denaro, allegoria psicologica in tre tempi, del 1929 (Milano, Ed. Àncora, 1946, IV
Ed.); Il Re Baldoria, favola in tre atti del 1932 (Pubblicata sulla rivista teatrale Controcorrente nel
1932). Sono solo la quarta parte circa della produzione complessiva del commediografo veronese, ma
sufficiente a fornire preziosi indizi sulle componenti psicologiche, culturali e morali che si amalgano al
fondo della sua personalità.
In Sans-Père la nota forte, dominante, mi pare una concezione drammaticamente pessimistica
dell‟umanità, che non può derivare unicamente dagli eccessi della Rivoluzione francese, perché viene
ribadita nelle opere successive. Così l‟amico Lenfant si rivolge a Sans-Père: “Ma che speri col tuo
sacrificio? che il popolo ritorni sul solco tracciato dal tuo ideale meraviglioso? Sei un ingenuo,
perdonami! Volgiti e guarda davanti a te. Non amore governa, ma odio. Gli uomini modellati dalla
rivoluzione diventano personaggi ambigui, uomini che sprigionano idee pazzesche, che valorizzano le
proprie ambizioni tortuose, che guazzano nel sensualismo più bestiale, che gioiscono delle vendette
più calcolate. Sono migliaia di cavalli selvaggi che, nella loro corsa sfrenata, calpestano un passato,
si avvicinano nitrendo d’ebbrezza e spariscono nell’ignoto abbandonando lungo il terreno inaridito il
dolore e la disperazione.” (p.17) Vi è in Flangini un ripudio sostanziale della rivoluzione, perché essa,
nella lotta tra l‟amore e l‟odio, sacrifica il primo e scatena il secondo, liberando da ogni freno l‟innata
malvagità dell‟uomo. E vi è, sia pure implicito, un invito alla rassegnazione, di fronte ai mali della vita
e della storia. Il giovane autore usa tinte accese, così presenta nelle note di regia Crochart, personaggio
ch‟egli amava interpretare sulla scena: “brutale, sanguinario: i suoi occhi fiammeggiano d’odio
bestiale. Un tempo contadino, ora anima dannata di Robespierre ne approfitta per soddisfare le sue
bramosie. Nei gesti, nello sguardo, in ogni suo atto fa comprendere la gioia interiore della vendetta
che sta per compiere.” (p.7)
Lo stesso Sans-Père, deputato del popolo, che è il personaggio positivo dell‟opera, non sa trovare
l‟equilibrio tra passioni contrastanti: “figura virile. Il suo volto esprime, a vicenda, odio e amore. Ha
scatti violenti, sfumature delicate. Irruente”. (p.15) Psicologia elementare, segnata da forti chiaroscuri.
La vocazione drammatica, si potrebbe già dire espressionista, appare connaturata nell‟animo di
Flangini. Osserviamo, accostandoli, due autoritratti da lui dipinti a distanza di anni. Il primo è del
1925, lo sesso anno di Sans-Père. Il secondo, si veda la marcata stempiatura che lo distingue, è di certo
posteriore, ma non sappiamo con precisione di quanto. Del primo è stato scritto recentemente, con
ragione, che ha i caratteri di una maschera. (Pontiggia 2004) Vi è dipinto un busto in gesso di Flangini
realizzato dall‟amico Arturo Martini. Il senso dell‟artificio è accentuato dall‟incavo della base, messo
in buona evidenza: è sì una “maschera”, che tuttavia riproduce fedelmente i tratti di un volto volitivo
ed equilibrato. Nel secondo lo stesso volto rivela una carica espressiva ignota al primo. Vi emerge con
forza dirompente il fondo buio di un‟intimità turbata, allucinata, con i segni di una strenua lotta per il
dominio sulle passioni, ma ben lontana dall‟aver raggiunto la pace. Lineamenti fisionomici esasperati
rispetto alla realtà: è il ritratto di un‟anima più che di un volto. Vi è qualcosa di pirandelliano in tutto
questo: se il primo autoritratto nella sua consistenza di gesso è una maschera che nasconde il Flangini
profondo, anche questo secondo, a suo modo, è una maschera che stravolge e tradisce il Flangini
apparente, quello affabile conosciuto dagli amici. Disorienta la percezione di sé ch‟egli qui ci offre.
Chi è quest‟uomo, questo educatore amato dagli allievi, questo autore di opere edificanti dal forte
impatto emotivo, questo pittore di nordica tristezza?
Le altre opere teatrali da me lette ci aiutano a capire meglio il pessimismo che gli abbiamo attribuito.
E‟ il pessimismo “cristiano” disceso attraverso i secoli dai Padri della Chiesa, rinvigorito ai
primi del Novecento da alcune correnti cattoliche rigoriste, diffuse soprattutto in provincia.
In Sua Maestà il Denaro, l‟Amore non si scontra tanto con l‟Odio, quanto con la Cupidigia, la sete
insaziabile di ricchezza e di piacere che divora tutti gli uomini: “Gli uomini... Ombre nere vaganti sugli
alti sterpi... Li ho seguiti, senza rumore, chiudendo nel pugno il respiro [...] Ecco l’enorme grappolo
umano, imprecante [...] E subito con le unghie a graffiarsi le carni, coi denti innalzarsi sulle spalle dei
più deboli ... Volti deformi e lividi ... braccia attorcigliate ... muscoli schizzanti la loro impotenza;
<Ritornate ... ritornate ... la voragine vi inghiotte!> Una nuova risata, lunga, interminabile. [...] Ah!
un tonfo, due ... e così, ancora ... cento ... mille ombre scompaiono nel pantano luccicante ... [...] La
medesima espressione di odio ... negli occhi ... e di peccato ... Tutti per godere, danzanti attorno al
loro idolo: l’oro! Ah! visione orrenda! ...” (p.21)
E più avanti, sempre l‟Amore: “E’ la mia condanna. Ieri, oggi, domani, sempre. Calpestato,
sputacchiato ...Come un cane rognoso ... che vaga randagio, lungo i muri e ti guarda con occhi
spauriti e pur buoni. Ti gettano un tozzo di pane nero ... si curvano per accarezzarti e poi ... con una
pedata rabbiosa ... ti schiacciano nel pantano sghignazzando sul tuo spasimo. Così ... sempre ... Gli
uomini ... tutti uguali ... E dentro e fuori ... [...] Tu devi lasciare il passo al vizio, che ti sfiora col suo
profumo peccaminoso ...” (p.40)
Difficile immaginare una visione più pessimistica di questa. Gli uomini, tutti uguali, queste “ombre
nere vaganti sugli alti sterpi” (quante ombre nere nella pittura di Flangini!) che precipitano nella
voragine del vizio e del peccato. Dove trovare allora una luce di salvezza? Sembra qui possibile intuire
una prospettiva agostiniana, o se si preferisce pascaliana. L‟uomo è impotente, grava su di lui una
colpa originaria, che lo ha esiliato dal Paradiso Terrestre. Per giunta egli ha osato alzare le mani su Dio
stesso, crocifiggendolo. Nulla potrà mai compensare una colpa così terribile. Solo Dio può salvarlo,
nella sua misericordia infinita. L‟uomo deve, per parte sua, fare quanto gli è possibile per fuggire il
peccato. In Sposo mia moglie, Piero, che ha la “colpa” di essersi innamorato di una donna divorziata,
così viene richiamato al dovere da don Gaetano: “Ascolta questo povero prete che ti vuol bene ... come
un padre. Ascoltalo. Piero, tu sei caduto in un abisso senza fine. Devi uscirne. Allontanati da quella
donna. Ella non può esserti fedele, non può amarti”. (p.53)
E a Piero, che si difende debolmente sostenendo che se perde l‟amore teme di perdere tutto, così
replica: “Nulla sparisce se l’espressione della nostra gioia è Dio, se il nostro desiderio, se le nostre
azioni, se tutto ciò che amiamo è benedetto da Lui. Piero quanta pace godesti fra queste montagne e
quanta purezza! Dimentica. La vita è tutta una rinuncia ... E nel silenzio ... piangeremo insieme ... un
poco. Ti aiuterò a dimenticare, se vuoi ...” (p.81) La vita come rinuncia, sacrificio, lacrime.
Questo pessimismo cristiano, questa visione penitenziale della vita, viene espressa non più a
parole, ma con la straordinaria efficacia del colore, nella pittura di Flangini. Di nuovo accostiamo due
dipinti: Il lago a Bardolino del 1952 e I minatori del 1955. Il primo ci presenta una delle rare
immagini , nel corpus pittorico flanginiano, di una natura mite e serena, sia pure venata di malinconia.
Non potrebbe essere l‟icona del Paradiso Perduto, ripensato attraverso il filtro della nostalgia? Mentre i
due minatori piegati dalla fatica (o da un‟oscura maledizione?) non paiono i rappresentanti di
un‟umanità esclusa per sempre dall‟Eden originario? Vi è qualcosa di masaccesco nel loro rassegnato
incedere. L‟accostamento tra le due opere può denunciare qualche forzatura, ma forse meno di quanto
possa apparire a prima vista. Dopo tutto una buona parte dei minatori del Belgio erano italiani,
costretti, per guadagnarsi il pane, a lasciarsi alle spalle la loro bella patria, il loro Eden.
Il tema del lavoro, della condanna biblica al sudore della fronte, accompagna tutta la pittura di
Flangini. Non mai il lavoro come gioco, come gioia ludica, come creazione gratificante; sempre invece
il lavoro come fatica, come espiazione, come condanna, come abbrutimento fisico.
Lo spalatore del 1940 conserva la dolce tonalità del colore veneto, che colma di poesia la natura
intorno, ma l‟uomo al lavoro non ha occhi per essa, concentrato nello sforzo di inarcare le reni per
sollevare la pala affondata nella terra. Nello stesso gesto è pure fissato un altro lavoratore, in un‟opera
sempre del „40, I sabbionai. Qui i tre uomini intenti al lavoro e indifferenti al vasto paesaggio d‟acque
e d‟alberi che li circonda sembrano racchiusi ognuno in una propria aura di silenzio che li rende soli
pur nella vicinanza. Anche il cavallo, col muso affondato nel sacco del fieno, ha il suo destino di duro
lavoro. Con Fatica del 1954 si prosciuga l‟idillio. Semplificazioni di colori e di masse; il blu antracite
della terra che si sfrangia lateralmente nel cielo e la massa della luce gialla al centro che investe
l‟uomo possente e lo piega sulla terra, con le mani come pale da lavoro. Egli appartiene
cromaticamente al cielo e alla terra, ma manca lo spazio per pensarlo ritto e rimane così, bloccato per
l‟eternità nella posa della fatica. Ma è nella regione mineraria del Borinage che il lavoro dell‟uomo
trova la sua collocazione perfetta. Negli Scaricatori di carbone i due spalatori fanno tutt‟uno con
l‟ambiente, fusi nel bigio chiarore di un cielo di cenere. Ha inizio la triste epopea del carbone, che
trasforma la terra in una valle di lacrime e gli uomini in condannati ai lavori forzati, nere ombre
vaganti tra montagne di scorie, povere creature che si muovono verso le fiamme infernali degli
altiforni, uomini trasformati in bestie da tiro che trainano nere chiatte lungo la Sambre, minatori sfiniti
dalla fatica che tornano all‟aperto abbacinati dalla luce. E la morte sempre in agguato. E‟ al Nord che
Flangini ha trovato le immagini più adatte ad esprimere la sua concezione penitenziale della vita. La
vita come espiazione. Si è affermato ch‟egli “ha descritto un momento del crescere della società
industriale e non è evaso verso l’astratto e il surreale”. (De Grada 2002) Può essere vero, ma va anche
detto che non vi è in lui nessuna retorica delle “magnifiche sorti e progressive”.
Anzi può essere accostato a quella particolare forma di antiumanesimo che è propria di Leopardi e che
consiste nel corrodere alla base la vanagloriosa consapevolezza di sé dell‟uomo moderno. L‟uomo non
è che un essere fragile e impotente, in balia della natura. Allo “Sterminator Vesevo” Flangini
sostituisce la furia del Mare del Nord. Si veda appunto Tempesta sul Mare del Nord del 1951.
Una veduta di vaga reminiscenza turneriana. In una natura ribollente di luci e di violenza, i gusci di
noce dei pescherecci sono in balia delle onde. Lì sopra la vita dei pescatori è in grave pericolo.
Un‟altissima pietas verso le sorti dell‟uomo accomuna Flangini al poeta di Recanati. E un bisogno di
umana solidarietà. Ma a Leopardi rimane una riserva di orgoglio per invitare i suoi compagni di
sventura ad una resistenza morale contro la natura matrigna. Mentre la radice religiosa del pessimismo
flanginiano non gli consente altro che la rassegnazione.
In Giorno di pioggia del 1955 una lunga fila di uomini, con le mani in tasca e la testa china, mentre la
pioggia cade su di loro dal cielo, vanno rassegnati verso il loro destino. Ognuno chiuso in se stesso. Né
le tetre case lungo le quali sfilano paiono in grado di evocare nidi di affetti, oasi di serenità.
La presenza dell‟uomo non è sempre necessaria a Flangini per manifestare il proprio sconsolato
sentimento della vita. Molte volte la figura umana è assente, ma i paesaggi del Nord, sia quelli urbani e
industriali, sia quelli agresti, si intonano perfettamente con lo stato d‟animo dell‟autore. E il risultato
non muta.
Per conoscere più a fondo il pessimismo cristiano di Flangini è necessario riflettere su un altro suo
aspetto, che appartiene ad una secolare tradizione della cultura cattolica. Intendo parlare della sua
acuta misoginia e dei suoi riflessi in pittura. In Sposo mia moglie si allude a una attrice, Lulù, che
naturalmente non compare mai sulla scena. Di lei si sa solo che aspira a interpretare una parte, il che
non sembrerebbe una grave colpa, trattandosi della sua professione. Ma Roberto, uno dei personaggi
della commedia, parla di lei con violenza sproporzionata: “Ha una voce! Dio che voce! Una cagna!”
E a Piero, che teme di dargli disturbo, risponde: “Tu? Figurati! E’ quella cagna!” (p.16)
Lo stesso Piero, presentato come un giovane idealista, dai nobili sentimenti, con queste parole si
confida con Roberto, ricordando una passata disavventura d‟amore: “Taci...Taci... Non rammentare,
non rammentare...Vedi, il solo ricordo mi ... Sono ridicolo ...! Per una donna ... Per una donna nella
quale avevo riposto ignaro la mia anima fragile e per cui tutto il mio sogno intrecciato ora per ora con
fili d’oro è crollato paurosamente. Per una donna! E’ ridicolo, è ridicolo! Lo so, lo sento.” (p.19)
Quale considerazione della donna sia sottesa a questo discorso è facile capire. Naturalmente Flangini
considera a parte la figura “santa” della madre e di conseguenza quella della moglie, purché legittima.
Forse per questo una delle sue rarissime vedute nordiche liete o festose ritrae un corteo nuziale. In
Matrimonio nel villaggio perfino le case paiono rivestite di nuovi e più freschi colori, mentre sfilano i
convitati, ritratti con grazia affettuosa.
In Il Re Baldoria del 1932 il personaggio che rappresenta il Gioco, viveur dissoluto, quando si converte
in questi termini pensa alla propria madre: “E mia madre! Mia mamma! Invoco disperatamente il nome
santo di quella donna ... [...] Mia madre, che non mi abbandonò. Mia madre che mi protesse anche
nel male perché un atomo di bontà ardesse nel mio cuore e divampasse in un giorno lontano ... Oh!
Dimmi ch’ella da lassù mi vede ... che gioisce della mia guarigione. Che mi perdona ...” (p.57)
Con tali premesse non stupisce il fatto che di figure femminili nella pittura di Flangini ve ne
siano ben poche: la nonna Angela intenta alla lettura, in un lontano dipinto del 1923; alcune comparse
in costume per il film su Van Gogh del 1955; una signora borghese ritratta in posa farsesca in
Kermesse nel Borinage del 1958; alcune figurine senza volto, non più che macchie di colore lungo la
via o sulla spiaggia; e qualche tentativo di nudo. A questo proposito si ha l‟impressione che il nudo
femminile come tema pittorico attirasse e nello stesso tempo mettesse in difficoltà Flangini, che non
giunse mai a trattarlo come puro e semplice omaggio alla bellezza e all‟armonia del corpo della donna.
Ricordo un rapido schizzo a matita, con due nudini di spalle, quasi un furtivo appunto. Due belle figure
di bagnanti, protette da casti costumi, per cui è difficile farle rientrare nel genere del nudo. Ancora una
figura femminile distesa, probabilmente all‟aperto, sempre coperta da un costume da bagno, e una
donna seduta, con l‟immancabile protezione. Finalmente incontriamo un nudo integrale, ma si tratta di
un nudo di pietra, un nudo archeologico! Opera singolare, composta nel periodo „53-‟57 per il concorso
“La bella italiana”, porta il titolo Le perle. A sinistra, in piedi e scalza, ripresa di spalle di tre quarti,
una fanciulla fasciata da una veste aderente tiene alto nella mano destra uno specchio, come se volesse
vedervi riflesso il proprio volto. In realtà il suo sguardo è rivolto alla scultura, ritta accanto a lei, che
porta al collo una doppia fila di perle rosse. La statua, nel ginocchio sinistro avanzato, nella testa e
nella capigliatura ricorda il tipo della Venere Cnidia risalente a Prassitele (una copia si trova nei Musei
Vaticani a Roma), mentre nel busto eretto e nelle braccia mozze ricorda l‟Anadiomene stante di
Cirene, al Museo Nazionale di Roma, risalente a un famoso quadro di Apelle. Pare che sia il pittore
greco che lo scultore avessero usato come modella l‟etera Frine.
E‟ probabile che Flangini volesse significare che il tipo di bellezza italiana da lui proposto deriva
dall‟ideale classico, dato che siamo pure eredi della Magna Grecia. Inquietante il particolare del
doppio filo di perle rosse, che sarebbe stato più naturale attendersi al collo della fanciulla. Su quel
simulacro esso ha maggior risalto e potrebbe essere la spia di una censura inconsapevole: una pulsione
profonda avrebbe desiderato la donna viva al posto della statua.
Ci si avvicina di più al nudo vero nell‟opera Maschere del 1952, in cui al centro di una sarabanda di
maschere, che vede anche la presenza di un teschio a cavallo, troviamo una donna seminuda, inerme
prigioniera esposta al ludibrio. Infine in un‟opera presumibilmente coetanea, Pagliacci, la donna al
centro appare con più forte rilievo e priva di veli. E‟ forse l‟unico vero nudo dipinto da Flangini. Ma è
ben lontano dal rappresentare un invito alla contempazione della bellezza. L‟apparente allegro
omaggio che le maschere, tra le quali compare di nuovo uno scheletro, tributano alla donna, è in realtà
una sgangherata farsa, che fa affiorare su volto della fanciulla una sconsolata malinconia, la
consapevolezza della fragilità della bellezza e della morte inevitabile. Il memento mori diviene
esplicito nella Kermesse a Gilly I , del 1952, dove in luogo della donna nuda troviamo il grottesco
fantasma della morte che, con il suo bastone di comando in mano, regna sugli uomini. Il significato
alla fine è lo stesso. Mi vengono in mente i versi del grande Ciro di Pers: “Oggi sei vecchia e fosti ier
fanciulla,/
diman Lachesi ria t’avrà disciolta / in terra in polve in fumo in ombra in nulla”. (Ciro di Pers, Poesie,
a cura di Michele Rak, Torino 1978, p.186)
E‟ il tema della vanitas, della tristezza senza fondo che in Flangini contagia anche quelli che
dovrebbero essere i momenti dell‟allegria e della gioia di vivere. Nella già citata Kermesse nel
Borinage la sagra popolare si trasforma nella messa in scena di una sguaiata, quasi atterrita presa di
coscienza di ciò che ci attende. Nel pittore veronese la stessa, ripetuta figura di Arlecchino, “deposto il
vitalismo della maschera teatrale con i suoi lazzi scostumati, i suoi gesti acrobatici, la sua fame
atavica”, ci comunica una mestizia senza fine, trasformandosi in “una figura di morte”. (Artioli 2002)
Perfino un‟immagine che per radicata tradizione evoca l‟idea della spensieratezza inconsapevole,
quella della giostra con i cavallucci, riservata ai bambini, assume in Flangini l‟aspetto di un funebre
baldacchino. Ed anche quando mette in mostra i cavallucci in cerchio, non offre traccia di gioiosa
presenza infantile.
Che le caratteristiche di questa pittura rispondano assai più a profonde esigenze interiori che a
sollecitazioni esterne, dovrebbe essere ormai chiaro. Vorrei ribadire questa certezza in modo specifico
anche per quanto riguarda la componente espressionista dell‟arte di Flangini, per la quale è stato
spesso avanzato il nome di Ensor. L‟esasperazione dei tratti fisionomici e la caricatura sono evidenti, e
in parte lo si è già mostrato, nelle commedie giovanili del pittore veronese. Diamo qui altre
testimonianze. In Sua Maestà il Denaro del 1929, il personaggio del Gioco viene presentato con
queste indicazoni per la regia: “Vent’anni. Pallidissimo. Occhiaie profonde limitate da due cerchi blu.
Sguardo fisso nel vuoto. Porta il frak stilizzato ed il monocolo. Il gesto elegante. E’ il viveur, il
nottambulo”. (p.16) Mentre per il personaggio della Cupidigia si delinea in questo modo l‟aspetto
esteriore: “Figura tozza, volgare. Testa enorme su ampie spalle quadrate. Un ventre voluminoso, su cui
spiccano ori e decorazioni, è sostenuto da gambe piccole e grasse. Sulla fronte giungono,
faticosamente, radi capelli, divisi con cura per coprire la calvizie. Sugli occhi, troppo piccoli, formano
arco due folte sopracciglia: naso floscio, bocca abbondante. Ostenta i grossi brillanti che gli coprono
le dita. Il gesto esagerato, la voce alta, l’incedere devono essere una caricatura dell’uomo arricchito,
dello speculatore”. (p.13)
Infine, per quanto riguarda le “atmosfere” espressioniste vorrei indicare un brano esemplare nelle note
di regia presenti in Il Re Baldoria, che è del 1932 : “E’ notte oscura, pesante, una notte che non ha
fine. Ombre vaghe, maschere informi si sfiorano danzanti al suono epilettico del jazz-band. A tratti
un’ondata gonfia di risa, di voci incomprensibili, penetra, violenta, nell’interno. All’alzarsi della tela,
la musica in un ritmo spasmodico opprime; la risata diabolica soffoca. Una coppia, avvolta nella seta,
avvitichiata, ubriaca, presa nel turbinio della danza è proiettata nella scena. S’ode lo strisciare veloce
dei passi nervosi; il respiro simile al rantolo. Improvvisamente il Vestito Nero, colpito da paralisi
cardiaca, cade, come un mucchio di cenci ingombrante, sul pavimento. Il Pagliaccio eleva acutissimo
un grido di dolore”. (p.22)
Anche questo brano, che per certi versi sembra ispirato da un attardato gusto decadente, rimanda a mio
parere a una sincera necessità spirituale, come se il chiaroscuro drammatico e l‟esasperazione
espressionista costituissero una sorta di categoria a priori dell‟animo di Flangini, connaturata con
l‟originario pessimismo cristiano che lo distingue. Che poi questa necessità interna, nel suo
manifestarsi, tenda, com‟è naturale, ad utilizzare i materiali che la moda e le occasioni culturali le
mettono a disposizione, è cosa più che probabile. Si potrebbe persino pensare che su certe pagine di
teatro, come quelle qui utilizzate, si eserciti l‟influenza della pittura espressionista nordica, considerato
che Flangini aveva cominciato a frequentare il Belgio negli anni Venti. Ma la ritengo un‟ipotesi assai
poco verosimile: per quanto la cronologia delle sue opere sia incerta, il vero connubio con la cultura
artistica del Nord non pare che si manifesti prima degli anni Quaranta e più ancora Cinquanta,
quand‟egli si dedica interamente alla pittura.
In questa prospettiva, riconosciua a Flangini una risentita personalità morale e culturale, può essere più
agevolmente affrontata la questione, sollevata dai critici, dell‟influenza di questo o quel pittore sulla
sua arte. Nessuno, artista o non artista, può essere considerato immune da influenze. In misura e in
gradi diversi. Come uomo Flangini è stato plasmato dall‟ideologia e dalla cultura cattolica dominante,
ai primi del Novecento, nella provincia veneta. E manterrà per sempre tale impronta.
Come artista egli si è formato in una temperie post-impressionista, aperta in direzioni diverse, ma
centrata sul rapporto privilegiato con la natura e il paesaggio. Se in teatro egli mirava a far agire degli
attori - stati d‟animo più che dei personaggi - attori, in pittura mira a fissare delle visioni - stati
d‟animo più che delle visioni oggettive. Da autodidatta punta su una pittura veloce, decisa, che riesca a
bloccare il tempo e la luce contemporaneamente alla propria emozione. L‟uomo e l‟artista formano un
tutt‟uno, in una compattezza tale che non lascia grandi spazi per le influenze esterne, che potranno, in
tanti anni di pittura, manifestarsi qua e là come stimoli e suggestioni, reali sì, ma non in grado di
incidere sul nucleo di fondo.
Sono stati avanzati vari nomi di artisti che potrebbero aver avuto influenza sulla pittura di Flangini.
Tra i tanti vorrei accantonarne subito alcuni, citati per evocare un clima artistico particolare, perché mi
paiono troppo periferici rispetto all‟esperienza del pittore veronese. Alludo a Theo Van Rysselberghe
(1862-1926), Morgan Russel (1886-1953), André Fougeron (1913-1998), richiamati da un critico. (De
Grada 1956) I nomi sui quali è giusto soffermarsi sono quelli di Vincent Van Gogh (I853-1890), James
Ensor (1860-1949), Maurice Vlaminck (1876-1958), Maurice Utrillo (1883-1955).
Tra le poche nature morte dipinte da Flangini ve ne sono due che paiono un omaggio esplicito a Van
Gogh: una di girasoli e una con due pesci che possono ricordare le Aringhe salate su carta gialla del
pittore olandese. Altri girasoli compaiono all‟interno di alcune composizioni flanginiane. Quando nel
1955 il regista Vincente Minelli si recò a Wasmes per una serie di riprese del film Brama di vivere
sulla vita di Van Gogh, Flangini potè seguire la troupe e ritrarre personaggi, comparse e ambienti vari.
Tra le sue carte vi è una pagina di appunti in cui si trova scritto: “Ho visto Van Gogh! Intendiamoci
bene; non visto negli autoritratti ormai riprodotti ed esposti in tutti gli angoli del mondo, ma visto
proprio lui, vivo, davanti a me, e gli ho anche parlato. Era curvo su un mucchio di cianfrusaglie,
cercava qualcosa che gli avrebbe servito per la sua cucina: un tubo arrugginito. Lo trova, lo
considera, scambia qualche parola con un minatore che passa, entra nella sua capanna. Ciak. Si
ripete la scena. Di fronte, presso alla macchina da presa, il regista Minelli è soddisfatto. Io non
m’accorgo del trucco cinematografico, dimentico che quell’uomo che porta nella capanna il tubo
arrugginito è Kirk Douglas, io vedo soltanto il pittore Van Gogh”.
L‟acuta sensibilità morale di Flangini lo portava di certo a vedere nel maestro olandese, nel suo mistico
apostolato tra i minatori del Borinage, un modello di vita eroico e inimitabile. Non ci si può che sentire
impotenti di fronte ad un esempio siffatto. L‟imitazione consapevole viene inibita, sia nella vita che
nell‟arte. “Non ha rifatto Van Gogh nemmeno in una pennellata”. (Borgese 1970)
Giudizio, questo, ripetuto in genere dalla critica (Ghilardi 1987; De Grada 2002; Pontiggia 2004).
Solo una voce ipotizza dubitativamente qualche traccia di imitazione formale (Altichieri 1962).
Credo non vi sia nulla di male nel cogliere, raramente devo dire, in certi mulinelli cromatici dei cieli
flanginiani, o nella tessitura di alcune siepi, o nei riccioli filamentosi delle onde reminiscenze anche
formali della pittura vangoghiana.
La stessa cosa può dirsi per Ensor. Grande ammirazione da parte di Flangini, che finì per
conoscerlo di persona, quando il pittore di Ostenda aveva ormai raggiunto un‟età molto avanzata. La
componente grottesca della sua pittura, il tema della maschera dovettero affascinare Flangini, che
tuttavia non poteva fare sua la corrosiva satira della borghesia, frutto di una mescolanza ideologica di
cristianesimo e socialismo, che caratterizzava l‟arte ensoriana. Le Kermesse di Flangini possono essere
interpretate come un omaggio a Ensor: gli umini sono in tuba e compare anche la figura volgare di una
donna in abiti da sera. Ma proprio qui, nella Kermesse nel Borinage, si comprende come la polemica
sociale si vanifichi, riassorbita all‟interno di un pessimismo esistenziale, che guarda con pena alla
creatura umana. Anche in Maschere e in Pagliacci la presenza di scheletri pare rimandare a Ensor, che
di questo simbolo fece grande uso, a partire almeno dalla sua famosa opera Entrata di Cristo a
Bruxelles del 1888. Ma i tratti delle maschere di Flangini assomigliano più a certi volti di Vlaminck
che alle vere e proprie maschere di Ensor. Naturalmente sarà sempre possibile individuare con
pazienza in Flangini tracce formali anche dell‟opera ensoriana.
Più importante mi sembra l‟influsso esercitato su di lui da Vlaminck, in genere riconosciuto dai critici
in relazione al periodo finale della sua attività , all‟uso ch‟egli fece tra il „59 e il „61 dei “pigmenti
fauves”. (Monteverdi 1967) Credo che questo influsso vada retrodatato a partire dagli inizi degli anni
Cinquanta. E‟ probabile che già allora Flangini avesse scoperto con sottile inquietudine la violenza
cromatica dei “fauves”, il vitalismo sfrenato di Vlaminck che esplodeva nei vermiglioni accesi in acre
contrasto coi verdi. E qualche risonanza profonda questa pittura deve aver provocato in lui, non ancora
pronto tuttavia ad accogliere tale cromatismo infuocato. Preferì premere sul tasto della deformazione
espressionista. Se in Vlaminck le case, allineate in lunghe parate, sono già delle creature vive (si veda
ad esempio Case a Chatou del 1904 o Pont a Chatou del 1905), in Flangini esse soffrono, piangono, si
torcono dal dolore, come in Catastrofe nella miniera. Per il resto egli sperimenta in quegli anni un
cauto rinnovamento cromatico e compositivo, guardando ad Utrillo. Già avanzato in passato
(Monteverdi 1967) questo nome è stato ripreso di recente. Utrillo “è evidente soprattutto nei primi anni
cinquanta, quando Flangini alleggerisce i volumi e le masse delle sue composizioni in una grafia
precisa, ma lieve”. (Pontiggia 2004)
Da qui una serie di vedute in cui i colori si illimpidiscono, le architetture si fanno più fragili, dando
vita a sospese atmosfere, in prevalenza urbane. In particolare a Utrillo ci richiama il tema più volte
ripetuto (almeno venti) della cattedrale di Ostenda. Se la tela presentata al concorso nazionale Città di
Cantù del 1958 nel nitore architettonico rimanda alla Cattedrale di Chartres del 1910 circa di Utrillo,
altre cattedrali di Flangini sembrano monumenti all‟antracite, e richiamano La Basilica di Saint-Denis
del 1908 circa.
Anche nella vita degli artisti si colgono delle curiose coincidenze. Alla morte di Vlaminck, avvenuta
nel 1958, Flangini apre ai “pigmenti fauves”. E‟ il punto di arrivo di un lento processo di crescita, che
lo conduce a una sintesi nuova, artistica e morale, in perfetta coerenza con tutto il cammino già
percorso. Questi, dal 1958 al 1961, sono anni di grande fermento creativo. Vi incontriamo anche un
omaggio all‟amato impressionismo, quasi un ritorno al primo Monet. In La Sambre a Montigny Veduta dal ponte, del 1960, della Galleria d‟Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Forti a Verona,
Flangini evoca la matrice stessa della sua pittura, esercitandosi con la scioltezza dovuta a tanti anni di
lavoro. Così può misurare il distacco e chiarire meglio a se stesso il senso del nuovo approdo. Che non
è né una rivoluzione, né un‟abiura. I “pigmenti fauves” s‟accendono entro visioni-stati d‟animo
connotate dal pessimismo di sempre, reso più drammatico, più lucido, più definitivo. Il colore diviene
un sigillo dai toni più alti e freddi, usati con estremo controllo ed equilibrio. La mestizia che intrideva
tante vedute nordiche di Flangini, le lacrimae rerum che dilatavano la sofferenza dell‟uomo, si
prosciugano in un distacco virile, cui è sottesa una rinnovata energia morale.
E‟ come fissare un grido spezzato, una maledizione immutabile, una realtà pietrificata. In Notturno
sulla Sambre, del 1960, la luce lunare disseppellisce neri profili inframmezzati da lividi biancori,
mentre sulla destra due nere figurine frugate dalla luce si bloccano in un disperato tentativo di fuga
verso un impossibile altrove. Nella Cattedrale di Ostenda del „58-‟59 un primo piano profilato di nero
s‟apre su una visione drammatica: la vita umana che s‟intuisce prigioniera nelle vampe spettrali delle
case, le guglie della chiesa che s‟alzano inutilmente verso un cielo riottoso.
In Paesaggio a Loverval, del „61, i bianchi fantasmi delle case stendono un silenzio di morte sul lavoro
dell‟uomo. Mentre in Paesaggio a Gilly, sempre del „61, le case sono mute testimoni di una violenza
inconfessabile. Infine in Il faro i “pigmenti fauves” si rapprendono in tasselli marmorei, frammenti
lucenti di una realtà sorpresa da un sortilegio che le strappa l‟anima.
Purtroppo l‟ultimo Flangini è documentato da un numero ristretto di opere, perché il colore tanto
amato da tempo meditava la sua cieca vendetta, se è vero, come pare probabile, che gli aveva già
invaso e avvelenato il sangue e di lì a poco gli avrebbe repentinamente troncato la vita.
Prima di chiudere queste note mi pare opportuno segnalare un tema da poco posto in rilievo dalla
critica: quello del rapporto in Flangini fra teatro e pittura. Nel 2002 venne allestita a Palazzo Te a
Mantova una bella mostra con il titolo: Giuseppe Flangini - Realtà e immaginario. Si voleva in modo
specifico indagare sulla presenza del teatro nelle opere del pittore. Venne concesso ampio spazio
espositivo alle Maschere, a quella di Arlecchino in particolare. Il catalogo Electa, curato da Raffaele
De Grada, portava un saggio del critico, intitolato: Teatro e pittura -Flangini, un’esemplare
convivenza. In esso, partendo da alcuni cenni alla presenza delle “maschere” nelle opere pittoriche di
Flangini, si arriva alla conclusione che la “sua pittura si è sempre nutrita della sublime coscienza che
la vita degli uomini si svolge come su un grande teatro cui egli partecipa non come spettatore, ma
come protagonista”. La stessa tesi viene ripresa poco dopo, e in modo più stringente, nel catalogo di
un‟altra mostra dedicata a Flangini, autore nel quale ci sarebbe “la consapevolezza che ogni paesaggio,
ogni ambiente è un teatro: un teatro in cui va in scena (mascherato o no, non importa) lo spettacolo
della vita. La pittura di Flangini, le sue città e le sue campagne nasceranno sempre dall’intuizione che
il paesaggio è sì una parte della natura, ma è soprattutto il palcoscenico dell’azione dell’uomo, il
fondale della sua recita, ora faticosa, ora dolorosa, ora grottesca.
[...]La sua pittura, insomma, presuppone sempre la commedia umana”. (Pontiggia 2004)
Ho l‟impressione che questi giudizi non siano esenti dal rischio di un equivoco semantico, il
sovrapporsi di due aree espressive contigue ma diverse, una di senso proprio (cosa c‟è di “proprio” del
teatro nella pittura di Flangini?) e una di senso metaforico (il paesaggio come luogo, scena, dove si
svolge l‟azione dell‟uomo) . La sovrapposizione, o anche solo la somma delle due aree giustapposte,
non aiuta a raggiungere una migliore comprensione della pittura di Flangini. Per secoli nella pittura il
paesaggio ha fatto da sfondo, è stato la scena sulla quale si accampavano santi, madonne e celebri
personaggi storici o mitologici. Solo nell‟Ottocento esso ha raggiunto in pittura una sua concreta
autonomia. Ma questo non significa che per secoli la pittura sia stata in qualche modo legata al teatro.
L‟uso metaforico è legittimo, se condotto con discrezione, come consuetudine espressiva, altrimenti si
potrebbe arrivare a dichiarare che anche una natura morta di Flangini, come di chiunque altro, ha una
valenza teatrale, perché quel mazzo di fiori nel vaso, ad esempio, presuppone la mano dell‟uomo che
ha compiuto l‟azione di comporlo. La tendenza a fare di ogni erba un fascio non porta lontano.
Più che legittima è la ricerca nella pittura di Flangini di elementi che la collegano allo “specifico”
teatrale, come nel caso delle maschere, e su questo sono state stese ottime note. (Artioli 2002)
Va qui notato che il rapporto pittura-teatro in Flangini si rivela assai più sul piano dei contenuti (le
maschere appunto) che non su quello dell‟impostazione formale. A questo proposito è ancora valida
una voce del passato: “Nei paesaggi flanginiani si possono notare prospettive ed elementi
architettonici in funzione costruttiva. Neghiamo però che essi tendano ad effetti scenici e spaziali,
come avviene, e con certa qual ghiottoneria, in De Chirico e in Carrà, né che prevalgano sui valori di
colore, di tonalità e d’altro genere”. (Altichieri 1962)
In sostanza l‟influenza del teatro nella pittura di Flangini si riduce in senso proprio a poca cosa, anche
se significativa, né serve gonfiarla con l‟uso generico di una metafora. Quando si dice che nei quadri
del pittore veronese l‟uomo è spesso presente anche quando è assente (De Grada 2002; Pontiggia
2004), si afferma una verità che ha molto più a che fare con la tensione morale implicita nella sua
pittura che non con il teatro. “Sui suoi dipinti, ancorché nudi aspetti della natura, sembra rifrangersi
una presenza fuori quadro, il senso della fatica e del logoramento dei viventi. [...]
Possono apparire paesaggi integri, senza traccia d’esseri vivi, però gravati, incisi dall’uomo.
[...]l’energia e l’inflessione del colore contribuiscono a trasmettere, con una sorta di rilievo plastico,
l’ombra portata dell’uomo. Questa, a nostro avviso, è la dimensione morale, il carattere segreto
dell’opera pittorica di Flangini”. (Altichieri 1962)
Vi è un altro modo di parlare dei rapporti tra il teatro e la pittura di Flangini; è il modo, finora
trascurato, che ho tentato di sperimentare in queste pagine. Consiste, come dovrebbe risultare chiaro,
nella ricerca di un substrato comune, a livello ideologico, culturale e morale, che non può non
coinvolgere insieme sia il teatro che la pittura, essendo Flangini un personaggio totalmente immune da
qualsiasi sintomo di dissociazione interiore. In questa direzione della ricerca la “parola” del teatro può
essere di grande aiuto per una comprensione più significativa dell‟ “immagine” della pittura, perché la
prima è concettualmente più trasparente e diretta.
A questo punto dell‟analisi può essere utile concludere tornando brevemente all‟inizio, a quelle
enunciazioni critiche sulla pittura di Flangini da me presentate come pacificamente accettabili e che
ora, forse, potranno essere accolte con maggiore consapevolezza. Riprendiamole una per una.
1) Nella pittura di Flangini vi è una sostanziale continuità d‟ispirazione e di stile, pur nella graduale
evoluzione che accompagna lo scorrere degli anni. Non si tratta più solo di una constatazione, ora
questo giudizio è possibile motivarlo più internamente. La personalità di Flangini è radicata in una
sfera di valori che trae la sua origine in una precisa visione religiosa della vita. La sua pittura
testimonia il fatto che tale visione rimase salda lungo tutto il corso della sua esistenza e costituì il
nucleo essenziale che orientò non solo le sue propensioni culturali e morali, ma le stesse inclinazioni e
i gusti artistici. Questo spiega anche la sostanziale stabilità del suo percorso creativo, la sua capacità di
metabolizzare in modo personale le influenze e le suggestioni che provenivano dall‟esterno.
E‟ stato scritto che la sua pittura si è evoluta “dal dolce tono veneto a una sorta di nordico
romanticismo o perfino di espressionismo”. (Borgese 1967) Con qualche più sottile articolazione, ad
esempio sulle influenze francesi negli anni Cinquanta e sull‟uso personale dei “pigmenti fauves” nel
periodo finale, questo giudizio è sostanzialmente accettabile. Conta qui rilevare che l‟unità della sua
pittura si manifesta tecnicamente nella preminenza accordata al “colore” su ogni altro elemento,
scenografico, teatrale o di struttura compositiva. Per tutta la vita Flangini lavorò con amore e passione
orchestrando e dosando sapientemente i “toni” del colore, da quelli freddi a quelli caldi, da quelli alti a
quelli bassi, in sintonia profonda con i colori della sua anima.
2) La sua pittura manifesta una sensibilità “nordica”, intesa come qualità distintiva dell‟autore.
Flangini incontra al Nord, lui che proveniva dalla solarità quasi mediterranea del lago di Garda, i cieli
tristi e caliginosi del Borinage e istintivamente li sente in sintonia con la sua visione pessimistica della
vita. Come a dire ch‟egli scopre quello che aveva già dentro di sé.
3) Tra le opere ispirate ai paesaggi del Nord si trovano i risultati più alti della sua arte. Questo è una
conseguenza diretta di quanto si è appena detto. E‟ infatti facilmente intuibile che un artista possa dare
il meglio di sé quando utilizza un materiale espressivo che fa vibrare le corde più segrete del suo
animo. Perché allora egli è in intima, profonda, totale coerenza con se stesso.
4) I suoi dipinti rivelano una forte tensione morale. Dovrebbe essere ormai chiarissimo: Flangini non è
un pittore della domenica che trova nei pennelli la felice occasione per evadere momentaneamente
dalla monotonia quotidiana. Per lui dipingere divenne la sua vita. Nella pittura trovò una possibilità
espressiva che superava di gran lunga quella sperimentata nel teatro. Nei suoi testi per le scene balzano
evidenti gli impacci dei pregiudizi, dei condizionamenti ideologici ch‟egli aveva assorbito crescendo
nella cultura degli oratori e delle parrocchie veronesi. Sono testi contraddittori, dove a una
impostazione duramente pessimistica si giustappone inopinatamente un lieto fine di maniera; dove la
volontà di edificazione si traduce in schemi di vita rigidamente caricati e innaturali e il bianco è solo
bianco e il nero è solo nero. Nella pittura tutto questo si scioglie, le sovrastrutture lasciano il via libera
alla sensibilità, che è sì segnata per sempre dall‟atmosfera respirata in giovane età, ma che può
esprimersi liberamente nelle nuvole di un cielo tempestoso, nei tratti di un volto tormentato
dall‟inquietudine, nella postura di un corpo rassegnato a vivere.
Ciò che questa sensibilità esprime mediante il magistero dell‟arte non è la ricerca della bellezza nella
sua sovrana autonomia, ma un‟attenzione costante per l‟uomo e la sua sorte. La pittura di Flangini ci
introduce con tutta naturalezza in una dimensione etica inestricabilmente congiunta alla dimensione
estetica. Questo “compatire”, questa solidarietà verso la sofferenza e il dolore dell‟uomo, questa pietà
verso un destino comune che ci sgomenta, ma che non possiamo eludere, questo giungere a
contemplare con sguardo fermo una realtà che non può più essere l‟Eden che abbiamo lasciato alle
spalle, tutto questo ci comunica la sua pittura, facendo di lui un personalissimo grande artista.