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AFRICO e CASALINUOVO Don Stilo e la vera storia dell’esodo. di Rocco Palamara Avrei preferito lasciare in pace i morti ma se altri, ricorrendo a vecchie menzogne, li portano avanti come esempi di vita per perpetuare falsi miti diviene doveroso informare i giovani della verità. Il mito di don Stilo. Mi ricordo quando ero studente negli anni ’60 e viaggiavo sul treno lungo la costa Jonica. Allora capitava spesso che altri viaggiatori forestieri mi ripetessero la litania su don Stilo “Benefattore e Padre degli africoti ”. Dicevano che era merito suo se ci avevano ricostruito il paese in sostituzione di quello distrutto sull’Aspromonte; che aveva avuto la preveggenza di farcelo fare nelle più progredite marine, invece che nella montagna; che aveva fatto costruire le scuole per istruirci; e che persino se il treno si fermava ad Africo era merito suo. Insomma a sentir loro qualunque cosa di buono noi avevamo era merito di don Stilo, e qualunque cosa egli avesse fatto, l’aveva fatta esclusivamente per aiutare tutti noi suoi paesani. Tutte frottole da male informati, in realtà. Da qualche parte una regia raffinata funzionava per pompare il personaggio, arrivando a concludere addirittura che si doveva farlo santo! Passato il tempo e morto (ma non in odore di santità) don Stilo, la leggenda del “ Padre , lungimirante, benefattore”, se non del santo, viene riproposta dai suoi irriducibili ammiratori, stavolta in pagine web, in libri e persino in manifestazioni di tipo culturale a lui dedicate, come quella di certi “poeti riconoscenti” di Africo e dintorni. Costoro non mancano persino di bacchettare gli altri africesi che non sarebbero – a sentir loro – abbastanza devoti alla sua memoria, dato che non gli hanno ancora dedicato una via, né innalzato una pubblica statua. Rinverdire falsi miti (e don Stilo è un falso mito) è un azzardo in tempi di internet; tuttavia i fautori, per motivi complessi e lunghi da raccontare, ripetono i concetti dei forestieri di una volta, con la differenza che essi sanno bene quanto quelle benemerenze siano fasulle. Quel che è peggio però è il fatto che nella loro forsennata opera di pompaggio attribuiscono a don Stilo conquiste che appartengono invece a tutto il popolo di Africo, che ha lottato e pagato per raggiungerle. Contro l’incredibile furto della Storia di un popolo, cui anche io appartengo, mi è doveroso fare un quadro veritiero del personaggio in questione e ricostruire il percorso dei fatti. Don Stilo e l’esodo La storia dell’esodo è complessa, non riducibile a facili semplificazioni, ma precisa e chiara nei suoi passaggi. Nel mese di ottobre del 1951, al culmine dell’alluvione, una frana causata da un torrente ostruito dilagò nel centro abitato del vecchio paese di Africo sull’Aspromonte meridionale, travolgendo alcune case e causando tre morti. Successe durante la notte; col fare del giorno quasi tutti gli abitanti abbandonarono il paese riparando in un posto più sicuro. Da lì partì per Reggio una delegazione di cittadini per chiedere aiuti e disposizioni presso la Prefettura. Gli stessi tornarono con l’ordine per la popolazione di allontanarsi dal sito pericoloso e riparare a Bova, a 16 chilometri di distanza, dove avrebbe ricevuto gli aiuti necessari. I più allora si misero in cammino per quel paese, che raggiunsero con qualche aiuto e non poche difficoltà, e dove vennero alloggiati alla meglio nelle scuole elementari. Tra i delegati che qualche giorno prima erano andati a Reggio, oltre al segretario comunale e al brigadiere, c’era anche l’allora giovane parroco don Giovanni Stilo. Ed ecco allora lo spunto per il primo “miracolo” da attribuire al prete: “Merito suo se è arrivato quell’ordine della Prefettura!”. Figuriamoci! E se non ci fosse andato lui a Reggio? Le autorità avrebbero ordinato alla gente di tornare sotto le frane? E la gente ci sarebbe tornata? C’è da dire inoltre che il progetto di trasferire l’abitato di Africo in un posto più sicuro non era nemmeno nuovo dato che risaliva agli anni ’30, quando altre frane si erano abbattute sul paese. Proseguendo nell’esodo gli africoti rimasero solo alcuni giorni a Bova dove, data la mancata solidarietà dei locali (errore che costerà a Bova S. la decadenza), furono trasferiti in vari centri di raccolta di Reggio e provincia. A quel punto però si mossero anche gli abitanti di Casalinuovo, paese a 4 chilometri da Africo, distinto per popolazione ma accumunato dalle stesse misere condizioni di vita e dall’appartenenza allo stesso Comune. Il territorio di Casalinuovo era stato devastato non meno dell’altro; i morti, periti nelle campagne, erano stati 6 (il doppio di quelli di Africo) ma nessuna casa era caduta, per cui – a differenza dei primi – venne a mancare l’autorizzazione prefettizia per lo sfollamento. Allora l’iniziativa la presero i più poveri tra i paesani , a cominciare da Giuseppe Palamara, futuro sindaco comunista, e Paolo Modafferi, mastro stagnaro, che posero a tutti la domanda/ risposta : “E noi che ci stiamo a fare quassù se non ci è rimasto più niente?”. Dal territorio devastato dalle frane infatti non si poteva ricavare più nemmeno quel minimo per la sopravvivenza, come nei secoli passati. I due, con le loro famiglie, furono i primi a lasciare Casalinuovo esprimendo una speranza: “Qualcuno ci deve aiutare pure a noi!”. E, superata una frana apocalittica che isolava completamente il paese, raggiunsero pure essi Bova , dove furono alloggiati nelle stesse scuole appena sgombrate dagli africoti. I due padri di famiglia mandarono poi a Casalinuovo l’ambasciata che a Bova si era bene accolti dalle autorità, e che si era forniti pure di cibo e vestiti; ciò incoraggiò nei giorni seguenti altri nuclei famigliari a mettersi in cammino, e poi altri ancora, fino a che l’intero popolo (tra cui la mia famiglia) si mise in marcia verso Bova. Tutti i casalinoviti vennero alloggiati nello stesso edificio scolastico, dove si arrivò a stipare 15 famiglie per ogni aula. Ma i disagi erano nulla a confronto con i patimenti passati nel vecchio e isolato paese. La cosa più interessante era che lo Stato si faceva carico anche di noi, e non solo degli africoti, e ciò era molto incoraggiante. Nei mesi seguenti i più furono trasferiti nel vecchio seminario di Bova Marina e nei baraccamenti costruiti in aggiunta, dove successivamente furono concentrati tutti i casalinoviti sfollati. Fin qui la prima fase dell’esodo con i due popoli ( quello di Africo e quello di Casalinuovo) in movimento ma in modo distinto e separato e don Stilo profugo insieme agli altri dalla parte africota. Egli, come abbiamo visto, non ebbe nessun ruolo per quanto riguarda l’esodo della frazione di Casalinuovo, che – attenzione ! – equivaleva per numero di abitanti alla stessa Africo. Promotori e protagonisti dell’esodo casalinovita furono esclusivamente contadini, pastori e artigiani. Nessun diplomato, impiegato o ecclesiastico del paese “guidò” il popolo, che fece tutto senza di loro e, anzi, vincendo la loro ostilità. Altri problemi ci furono col governo che, passata la prima emergenza, voleva negare ai casalinoviti lo status di profughi. Per ottenere il diritto si dovettero fare lotte molto dure, con tanta gente incarcerata e manifestazioni in cui si portava un unico ed eloquente cartello con la scritta “O LA CASA O LA TOMBA”. Alla fine le autorità – visto inutile il tentativo di ricacciarci indietro – ricorsero a un sotterfugio per appianare le cose con buona pace di tutti: mandarono dei geologi per un sopralluogo a Casalinuovo e questi, prendendo a pretesto un insignificante torrentello asciutto che costeggia la parte a monte dell’abitato, “certificarono” che da lì l’acqua piovana avrebbe, nel tempo, “segato” la montagna e fatto franare il paese (!). Una panzana, si può dire, ma servì per il riconoscimento dello “stato di necessità”, secondo gli standard di legge; e fu così che anche ai casalinoviti venne riconosciuto il diritto a una nuova casa in un nuovo paese. In tutte quelle lotte con epicentro il campo profughi di Bova Marina non si vide mai Don Stilo. Egli anzi era ritenuto ostile alla causa dei casalinoviti che nelle elezioni comunali del 1956 e del 1960 votarono in massa contro il candidato a sindaco da lui sostenuto, che era poi un suo stesso fratello. Designato il sito del nuovo paese (nell’attuale Africo Nuovo) vennero, già nel 1953, costruite le prime case e un buon numero di baracche prefabbricate donate dalla Croce rossa svedese; e le prime famiglie di africoti e di casalinoviti furono là trasferite. Poi tutto si fermò per quasi un decennio, con la maggior parte della gente ancora alloggiata nei campi profughi. I ritardi possono essere imputati a quelli che macchinavano per farci ritornare in montagna o anche semplicemente alla solita inefficienza dei governi; in ogni modo la gente lasciò correre per il semplice fatto che finché si stava nei campi si aveva diritto all’assistenza per il proprio sostentamento; e ciò, in tempi di incertezze lavorative , costituiva una priorità rispetto alla casa stessa. L’ Attesa – a parte i disagi di vivere nelle baracche – non fu proprio tranquilla, perché ci furono altri scioperi e agitazioni, ma solo quando tentavano di sospendere quei sussidi. Nessuno più dubitava della ricostruzione delle case che, si sapeva, sarebbe avvenuta prima o poi (come in effetti fu). L’Alluvione del 1951 e quella successiva del 1953, oltre ad Africo e a Casalinuovo, danneggiarono anche altri centri della Calabria , come ad esempio Natile e Careri a cui il governo – proprio come a noi – alla fine fece rifare case e paese . E se le case le fecero a tutti, com’è che a noi – a sentire gli estimatori di don Stilo - non le avrebbero costruite se non ci fosse stato lui? La scelta della “marina” Nel tripudio di riconoscimenti, un altro dei “meriti” attribuiti a don Stilo è quello sulla scelta dell’ubicazione in “marina” del nuovo paese. “Liberando il popolo dalle capre e portandolo nella civiltà”, si dirà. Scelta tutto sommato lungimirante, solamente che non fu affatto don Stilo a farla. La scelta della “marina” fu invece fatta, sin dal primo momento, dalla quasi totalità del popolo di Casalinuovo, e successivamente anche dalla parte più povera della popolazione di Africo, uscita vincente dopo ripetuti referendum popolari. Fu una scelta drammatica ma obbligata dopo i gravissimi danni dell’alluvione che si aggiungevano però a quelli più antichi del completo abbandono da parte dei governi; dall’usurpazione del territorio da parte di baroni e Comuni limitrofi; e dal fatto che il 67% del territorio comunale rimasto era sotto i vincoli delle leggi Forestali, e quindi poco utilizzabile. Il risultato era la miseria; ed è per questo che l’alluvione venne presa dalla popolazione come una opportunità per scappare da quei posti sperduti, così da liberarsi una volta per tutte sia dagli immani sacrifici di quella vita, che dalla classe dirigente (e “ acculturata”) dei due paesi. Per la parte esecutiva il portavoce delle esigenze popolari presso il governo fu allora il deputato comunista Eugenio Musolino, che in un'interrogazione parlamentare del 25 marzo 1952 (appena 6 mesi dopo l’alluvione) insistendo sul luogo prescelto “ Lacco della Quercia” nel territorio di Bianco (lo stesso in cui è ora Africo Nuovo), ricevette la risposta affermativa del governo nella persona del Sottosegretario di Stato per i Lavori Pubblici, Ludovico Camangi. Don Stilo invece nel febbraio del 1952 si ribatteva ancora nelle sue ambiguità e scriveva a Fanfani per la scelta della ricostruzione in montagna; cambiando idea solo successivamente. Egli in quel frangente critico stava col partito dei notabili, di cui faceva parte, e con i padroni delle mandrie; le uniche categorie in condizioni di fare una vita decente lassù. Per la parte di Casalinuovo lo stesso partito dei retrogradi era composto dal minuscolo gruppo di notabili con a capo il vecchio segretario del fascio Francesco Mollica. Contro gli uni e gli altri alla fine (seppure tra fatali rinunce) vinse la parte più povera della popolazione e, checché ne dirà dopo una certa storiografia romantica e/o piagnona, il popolo fu trasferito dove scelse di andare, senza essere né “deportato” né condotto per mano dai “patriarchi” alla don Stilo. Don Stilo benefattore Chiarito – con quello già detto – il capitolo su Don Stilo “guida del popolo” e “padre fondatore di Africo Nuovo”, passo ora all’altra favola, del don Stilo “benefattore” ed “educatore ”. Tornando ai primi tempi del nuovo paese, la creazione del mito produceva un tornaconto all’interessato, il quale con i paesani faceva valere le sue relazioni esterne: se arrivava qualcosa per il paese, tipo i cantieri-scuola, poteva vantarsi che era per merito suo e grazie alle sue amicizie; mentre agli altri faceva intendere che aveva tutto il paese disposto a seguirlo come un sol uomo, e ciò valeva anche in termini elettorali. Questo lo aiutò a tessere la sua formidabile rete di amicizie nel mondo delle istituzioni, della politica e del clero, che furono la base del suo potere nel sottogoverno dell’era democristiana. Esse, per incominciare, gli furono utili per iniziare la costruzione del suo grande complesso scolastico ”Serena Juventus” proprio nella nuova Africo: per elevare culturalmente il Suo popolo – disse lui – e ripetuto a pappagallo dai suoi vecchi e nuovi estimatori; perché costituiva un ottimo investimento per lui medesimo – dicono i fatti – dato che le lezioni non erano affatto gratis ma a pagamento, ed ancor di più remunerativi sarebbero risultati i famigerati “Diplomi Facili” per i quali l’istituto divenne famoso in tutta Italia . Ma, come si dice, non si vive di solo pane, perché i diplomi si sarebbero rivelati anche eccellente merce per lo scambio di favori nel sistema clientelare. Tra i beneficiati, oltre a varie migliaia di asini sguinzagliati a far danni per mezza Italia, vi furono il fior fiore dei mafiosi calabro- siciliani, tra i quali don Coppola, nipote di Frank Tre Dita, e ben due futuri sindaci di Palermo (tra i famigerati autori dello scempio edilizio, negli anni ’60 e ’70 , di quella città). Per quanto ci riguardò come ragazzi di Africo, la maggior parte di noi preferì frequentare le più economiche scuole pubbliche negli altri paesi raggiungendole col treno. Al dunque, per il “don Stilo educatore” molto business e beneficenza zero! Lavoro & diritti E se allora non ci ha agevolati nello studio, che era il suo mestiere di prete e di insegnate, in che cos’altro avrebbe favorito il “suo” Popolo don Stilo? Prendiamo il problema del lavoro, mai risolto ad Africo Nuovo, ma assai più grave all’inizio, nel 1953. A quel tempo persino i comunisti del paese si rivolsero a lui, per la creazione di una cooperativa agricola-pastorale, che avrebbe dovuto sostenere una sessantina di famiglie. Nello spirito della “nuova frontiera”, dove ci si doveva aiutare l’un l’altro senza badare alle differenze ideologiche, gli stessi pensarono di appoggiarsi al prete, ritenuto (e forse a ragione) l’unico che per cultura e amicizie era nelle possibilità di accedere ai contributi pubblici. Si acquistarono così, grazie a quei contributi, ben 180 ettari di terreno, sufficienti – si riteneva – per sostenere le decine di famiglie dei soci; ma quando si trattò di raccogliere i frutti, lui li lasciò tutti a bocca asciutta, salvo alcuni suoi fidi che favorì (si fa per dire) facendogli comprare parte di quella terra che, in quanto soci, era già di loro proprietà. Il suo stile era sempre lo stesso: ricavare per sé la parte del leone, accontentare gli amici e fregarsene di tutti gli altri. In una seconda fase, dopo il 1963, quando con l’arrivo ad Africo Nuovo degli ultimi profughi dei campi si cominciò una lunga stagione di lotte (per il lavoro, il diritto allo studio ed i servizi che ancora mancavano), don Stilo non fu per nulla accanto al “suo“ popolo che, senza di lui, diede invece prova di quella grande combattività e partecipazione che ci è da tutti riconosciuta. Io, che feci parte di tutte quelle lotte, non lo vidi mai né nelle fasi preparatorie, né sul campo, salvo una volta che ricordo molto bene: Don Stilo arrivò, buon ultimo, quando da molte ore stavamo bloccando un treno e la ferrovia, ed i carabinieri cercavano di trattare per lo sgombero. Si fece avanti lui cercando di fare la primadonna e disse: “Io rappresento il popolo di Africo!” ma fu subito redarguito da Rosario Bruzzaniti, vicesindaco comunista, che gli disse : “ Voi qua rappresentate la vostra sola ed unica persona!”. Dopo di allora (offeso?) non si vide più nelle manifestazioni , né si ricordano suoi interessamenti per “riscattarci”, almeno dalla repressione, presso i suoi amici e compari magistrati ed i carabinieri (quest’ultimi li teneva in pugno, giacché poteva farli trasferire) i quali, per quelle manifestazioni, ci schedarono e denunciarono in massa, a partire dai ragazzini. Bisogna dire che il nostro modo deciso e collettivo di reclamare i diritti non appassionava don Stilo, uomo dei particolarismi e campione delle raccomandazioni. Nel suo modo arcaico di intendere i rapporti le cose si dovevano chiedere con ossequio ai dispensatori: a Dio e ai santi per le cose celesti e a Lui medesimo per quelle della “sua” Africo. Il suo modo di fare, legittimo se rapportato tra privati, risultava però devastante in un contesto pubblico, dove il suo favoritismo intrigante calpestava la giustizia e spaccava la comunità. Altro che Padre degli africoti! Egli fu l’uomo delle divisioni; ad esempio sul punto del lavoro nell’Ente Forestale (maggior risorsa di Africo) mentre il popolo compatto faceva gli scioperi nel segno di “PIU’ LAVORO PER TUTTI”, strappando di volta in volta delle giornate lavorative per la comunità, egli si incuneava negli spazi aperti e, tramite i suoi amici negli uffici di Reggio, faceva assumere stabilmente i suoi fidi. Dato però che i posti erano razionati a rimetterci erano gli altri paesani con le porzioni di lavoro a loro spettanti (per l’alto numero di disoccupati vigeva la turnazione di 2 mesi per volta). Si coniò allora ad Africo una nuova parolaccia: “I RACCOMANDATI ”, riferita ai ladri del lavoro altrui, ”grazie” a don Stilo. Con gli stessi metodi, negli anni tra ‘60 e ‘70, fece assegnare a parenti e suoi fidi quasi tutti i posti pubblici del paese e , almeno in un caso, uno che il posto già lo aveva dovette lasciarlo con la prepotenza. Mi riferisco al bravo e competente medico condotto dott. Nucera di Condofuri, che dovette sloggiare per lasciare posto a un nipote del prete , appena laureato. Senza andare a rinvangare nel capitolo mafia, che tutti già conoscono, ed i rapporti solidali con i fascisti di Ordine Nuovo (che per lui, nel 1971, occuparono e devastarono l’Università di Messina), questo era dunque l’Uomo a cui dovremmo essere anche grati, e che qualcuno di cui sopra, in un recente libro, ha osato mettere appena un gradino sotto San Leo tra i figli di Africo. Blasfemia di cui gli lascio la completa paternità, a memoria del fondo raggiungibile dai soggetti come lui, dei quali – purtroppo – è piena la storia della Calabria.