Valentina Fedele

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Valentina Fedele
3/2011
on-line
UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA
DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E
DI SCIENZA POLITICA
DAEDALUS
Quaderni di Storia e Scienze Sociali
Direzione scientifica
Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni,
Alberto Ventura
Redattori e collaboratori
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Direttore Responsabile Pia Tucci
Numero 3/2011 on-line
Numero 22/2011seguendo la numerazione della precedente edizione cartacea
Pubblicato on line nel Marzo 2011
Daedalus 2011
Sguardi incrociati sul Mediterraneo
VALENTINA FEDELE
LA GEO-TEOLOGIA MUSULMANA E I CONFINI DEL
MEDITERRANEO
IL DĀR AL-ISLĀM NELL‟EPOCA CONTEMPORANEA
LE CIVILTÀ DEL MEDITERRANEO
Negli ultimi decenni il Mediterraneo è diventato un campo di interesse
centrale dal punto di vista sociologico, storico, politologico e geopolitico: pur nella diversità di approcci e prospettive, la gran parte degli
studi sul tema converge sulla opportunità di considerarlo da tutti i
punti di vista un‟unità geopolitica, anche se estremamente frammentata. Come sottolinea Burke (2009), il Mediterraneo si configura come
un‟area suddivisa in mille regioni, uno spazio fatto di numerosissimi
micro-ambienti e multiple micro-etnicità, che cambiano nel tempo, ricostituendosi; mentre Braudel (1988, p.7) lo descrive come “non un
paesaggio, ma innumerevoli paesaggi, non un mare, ma un susseguirsi
di mari, non una civiltà, ma una serie di civiltà”. All‟interno di questa
ampia diversificazione, esistono e sono immediatamente individuabili
delle continuità e delle comunanze religiose, ecologiche, economiche,
sociali e storiche, che permettono di cogliere il Mediterraneo come
una unità molteplice (Cassano 2009).
L‟attenzione ai tratti comuni rende possibile, in termini analitici, avere una visione d‟insieme a fronte dell‟estrema diversificazione
delle storie locali, nonché percorrere le vicende del Mediterraneo, seguendo quelle delle civiltà che lo hanno attraversato e lo attraversano.
Braudel individua le civiltà mediterranee in tre “comunità culturali, tre
civiltà di grande vitalità ed estensione, tre peculiari modi di pensare,
di credere, di mangiare, di bere, di vivere” (1988, p.101): la prima è la
civiltà romana, il cui centro è appunto Roma, che ne abbraccia la parte
nord-occidentale, e, in modo più esteso, la civiltà cristiana, tutto il
mondo protestante al di fuori dei suoi confini geografici,
dall‟Oltremare Atlantico al Mare del Nord, dal Reno al Danubio; la
seconda è la civiltà islamica, che comprende le terre sud-orientali e va
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fino all‟Oceano Indiano, il cui centro di riferimento è al di fuori dal
Mediterraneo stesso, a Mecca. La terza è costituita dall‟universo greco
ortodosso – dalla penisola balcanica alla Romania, dalla Bulgaria alla
Grecia e alla Russia Ortodossa – una civiltà “senza padre” (Braudel
1988, p.103) e senza centro di riferimento, che è stata ed è spesso
schiacciata o inglobata dalle prime due realtà.
Le tre civiltà non hanno avuto storicamente lo stesso rapporto
con il mare interno: mentre per la civiltà romana e per quella ortodossa il mare mediterraneo è sempre stato mare nostrum, per quella araba
la sua centralità è un‟acquisizione postuma, risalente alla costituzione
dell‟Impero Ottomano, che, coniugando califfato ed eredità
dell‟Impero Romano di Oriente, assumeva di quest‟ultimo anche i riferimenti geopolitici (Salvatore 2007). Di conseguenza, sebbene esso
bagni per i due terzi le coste dei paesi arabi, al punto che Burke (2009)
parla di mediterraneo musulmano come componente centrale del progetto dell‟unità mediterranea, per essi il Mediterraneo è stato storicamente bahr rūmī, mare romano-bizantino1 (Zizola 1997). D‟altra parte, il centro del mondo islamico è Mecca, verso la quale l‟islām si dirige non solo quando compie il hajj, il pellegrinaggio, ma 5 volte al
giorno, ogni volta che compie la salāt, preghiera rituale, verso la qibla
(orientamento rituale): da questo deriva il fortissimo senso di appartenenza ad una comunità di fede il cui centro simbolico è fuori dal Mediterraneo. La diversa percezione rispetto alle acque del mare interno
si evidenzia anche nel diverso atteggiamento reciproco tra civiltà romana e civiltà islamica: per secoli, fino all‟epoca delle scoperte geografiche, la prima aveva avuto come sua controparte quasi esclusivamente la seconda, mentre per i musulmani l‟altra non era che una delle aree di contatto con il mondo non islamico, che si espandeva dalla
penisola indiana, alla Cina, all‟Asia Centrale, all‟Africa (Vercellin
1996).
1
Il fatto che il mare nostrum nel linguaggio geopolitico e geografico arabo fosse il bahr rūmī
segna linguisticamente la continuità e l‟unità di questo bacino marittimo, da sempre considerato
un unicum, anche dopo la divisione tra Impero Romano d‟Oriente ed Impero Romano
d‟Occidente: per i musulmani la decadenza dell‟Impero Romano ha avuto un significato relativo,
che ha riguardato solo la struttura delle provincie occidentali, lasciando invece intatto il Levante,
centro culturale della tarda antichità (Vercellin 1996).
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Ciononostante, civiltà romana e civiltà islamica si sono fortemente contrastate e confrontate nei secoli, con ciò che una contrapposizione comporta in termini braudeliani “rivalità, ostilità e acculturazione reciproca” (Braudel 1988, p.102) e le acque del Mediterraneo
devono loro guerre che le hanno insanguinate, ma anche “sacrificio,
irradiazione, accumulazione di beni culturali, eredità di intelligenza”
(Braudel 1988, p.112).
Il concetto di confine, ci ricorda Cassano (2007, p.80), così come quello di riva, è d‟altra parte da sempre “sberleffo alla purezza”,
avendo in sé una “porosità sconosciuta all‟essenza autarchica dei centri”, che decostruisce “ab initio le pretese integralistiche”. Il Mediterraneo è un confine fluido: costantemente scavalcato, ha permesso
l‟ibridazione delle culture e dei popoli, indebolendo ogni pretesa di
esclusività, purezza ed integrità.
AL-ANDALUS E LA FRONTIERA RELIGIOSA NEL MEDITERRANEO
La contrapposizione tra civiltà romana e civiltà islamica perdura fin
dall‟espansione dell‟Islām dall‟VIII al IX secolo dell‟era cristiana, espansione che modifica in maniera duratura la geografia politica e religiosa del Mediterraneo. Nei secoli essa ha assunto connotati diversi:
all‟inizio si tratta di un‟opposizione Oriente-Occidente,
un‟opposizione politica, economica e culturale, che diventa
un‟opposizione religiosa solo nell‟XI secolo, con l‟inizio delle Crociate, evento simbolico della nascita della nuova frontiera occidente cristiano e oriente musulmano (Khader 1996).
Nello stesso tempo in cui confini simbolici e territoriali venivano tracciati, però, si sviluppava, a dimostrazione dell‟inevitabile porosità delle frontiere, l‟esperienza vessillo dell‟ibridizzazione e
dell‟irradiazione delle civiltà mediterranee, ricca di contraddizioni, ma
anche di prosperità materiale ed intellettuale2: al-Andalus, durante i
2
Ricordiamo, in questo senso, che agli arabi di al-Andalus si devono le traduzioni di Platone ed
Aristotele, le conquiste nel campo della matematica, della tecnologia e dell‟architettura. Per un
approfondimento sociologico dell‟esperienza della Spagna musulmana, cfr. Curcio (2009).
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circa ottocento anni di presenza musulmana in Spagna, rappresentò
uno dei culmini culturali e commerciali in Europa, che vide fiorire,
fianco a fianco, le culture musulmana, cristiana ed ebraica (Fuller e
Lesser 1995).
Il valore simbolico di questa esperienza spiega le conseguenze
connesse alla sua conclusione, segnata dalla presa di Granada nel gennaio del 1492, che porta a compimento la Reconquista cristiana, durata più di due secoli3. Mentre le Crociate del X e del XII secolo, per
l‟Europa Medioevale un‟epoca storica, erano state considerate dal
mondo musulmano una momentanea perturbazione o, comunque, una
guerra regionale4, la perdita di al-Andalus fu un trauma, una ferita ancora aperta nell‟immaginario arabo, seconda solo a quella più recente
della Palestina (Donini 1996).
Il 1492 è una data cruciale per l‟intero Mediterraneo, che Burke
(2009) sceglie come data fondante della sua unità; essa, infatti, segna
l‟inizio dell‟economia mondo, con l‟apertura delle frontiere occidentali alla navigazione, che si accompagna ad una serie di cambiamenti
che riguarderanno tutta la regione: la decadenza economica, legata alla
marginalizzazione commerciale, la stagnazione demografica, le trasformazioni ecologiche e la diffusione della peste, che perdureranno
fino alla metà del „700. La sponda sud del Mediterraneo risentirà particolarmente di questi cambiamenti: le scoperte geografiche, che preparano la supremazia dell‟Europa Atlantica e modificano le vie commerciali, privando i musulmani dei vantaggi del commercio in transito, la perdita di controllo sugli scambi economici al volgere del XV
secolo, l‟ascesa degli imperi spagnolo e portoghese, provocano il progressivo isolamento del centro arabo in seno all‟impero musulmano e,
mentre il Mediterraneo perde lentamente la sua centralità, gli Arabi si
dileguano nell‟impero turco-ottomano, diventato, dopo la scomparsa
dei mamelucchi d‟Egitto, unico rappresentante dei musulmani (Donini
1996).
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Cordoba fu espugnata dai Cristiani nel 1236; poi fu la volta di Valencia nel 1238, di Siviglia nel
1248 e, a seguire, di tutte le altre città iberico-musulmane.
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Ben più cruciali e ricche di conseguenze per il mondo musulmano in quel periodo erano state
piuttosto le invasioni delle popolazioni turche, prima selgiuchidi – che decretarono la fine del
califfato abbaside nel 1258 – poi turcomanne e mongole (Vercellin 1996).
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Nella storia delle civiltà del Mediterraneo, la caduta di Granada
segna anche la fine della coabitazione religiosa, con il rigetto
dell‟islām sulla sponda sud del Mediterraneo, l‟espulsione degli ebrei5
e l‟affermazione della coincidenza tra confine politico e confine religioso come principio politico, che troverà piena conferma nel cuius
regio eius religio delle guerre religiose tra protestanti e cattolici (Riccardi 1997).
Nella civiltà romana, almeno fino alla Rivoluzione Francese,
non ci sarà spazio per il non cristiano che coabiti col cristiano, tranne
l‟ebreo, la cui esperienza finirà tragicamente con l‟Olocausto.
All‟interno della civiltà islamica, invece, la coabitazione tra musulmani e non musulmani rimane una realtà rilevante fino a gran parte del
„900, attraverso il sistema ottomano delle millet (Quattrucci 1997). La
co-abitazione religiosa affonda le sue radici nella concezione stessa
dell‟islām: ultima delle religioni storiche rivelate, esso non concepisce
le religioni precedenti come eresie, ma come stadi della rivelazione
divina, corrotta nel tempo, che viene ripristinata nella sua perfezione
da Muhammad, khātim al-anbiyā‟, Sigillo dei Profeti. Da questo principio deriva la posizione particolare che ebrei e cristiani ebbero sempre nel mondo musulmano, considerati ahl al-kitāb, gente del libro,
comunità di rivelazione. Pertanto era loro accordato una protezione –
dhimma - che se da un lato costituiva l‟accettazione di una ineguaglianza riconosciuta e permanente, dall‟altro era lo strumento grazie al
quale cristiani ed ebrei vedevano garantita loro la sopravvivenza, insieme ad una serie di diritti: riconoscimento della personalità giuridica, diritto di residenza e di svolgimento di attività economiche, garanzia delle libertà pubbliche. I dhimmī - persone appartenenti a comunità
con status di dhimma – potevano, se volevano, rivolgersi al giudice
islamico per le loro controversie, considerato che spesso la sharī„a –
legge islamica – risultava più conveniente rispetto alle norme contenute negli ordinamenti giuridici dei loro stessi credi. In cambio, attraverso il loro capo religioso/comunitario, i dhimmī erano tenuti a riconoscere la sottomissione all‟autorità musulmana e a pagare un‟imposta
speciale, la jiziya (Vercellin 1996).
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Gli ebrei di Spagna fuggirono in maggioranza verso il Nord Africa, dove diedero inizio alle comunità sefardite.
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Il sistema delle millet riprendeva questa struttura: ogni religione
- nazione-millet - era guidata dal suo capo religioso e costituiva quasi
un sub-stato non territoriale, nell‟ambito del quale c‟era completa autonomia nella gestione degli affari civili interni, che attraverso il suo
capo assicurava la lealtà al potere centrale. Il cittadino non musulmano, pur essendo considerato un cittadino di seconda categoria, era,
quindi, comunque percepito ed accettato in quanto membro di una
comunità culturalmente diversa: pur essendo un‟accettazione dell‟altro
in posizione subordinata, si trattava, comunque, di un‟accettazione,
che contrastava con la negazione europea del pluralismo (Persichetti
2007)6.
La Reconquista, avamposto di una generale campagna europea
di lunga durata per recuperare i territori finiti sotto il controllo musulmano, iniziata con le prime crociate-pellegrinaggio e che si perfeziona nel 1571 con la battaglia di Lepanto, consolida anche
nell‟immaginario popolare la contrapposizione tra due mondi: l‟islām
diventa l‟altro mediterraneo per definizione. L‟avanzata dell‟armata
cristiana e i 200 anni che precedono l‟espulsione definitiva dalla Spagna, inoltre, portano ampie comunità musulmane a vivere sotto un governo non musulmano, ponendo ai musulmani spagnoli un dilemma
teologico, legato ad una questione basilare nella geopolitica e nella
giurisprudenza musulmana del tempo7: è lecito per un musulmano
continuare a vivere in una terra governata da un non musulmano?
LA FRONTIERA GEOPOLITICA TRA DĀR AL-HARB E DĀR ALISLĀM
In effetti, la teologia musulmana classica aveva spesso sostenuto, pur
con accenti diversi, che era necessario che i musulmani che si trovas-
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L‟accettazione di questo modello di coabitazione fu turbato, ancora prima che intervenisse il
nazionalismo, dall‟arrivo dei missionari cristiani, attraverso i quali i cristiani in terra musulmana
prenderanno coscienza di un nuovo mondo ed una nuova prospettiva (Quattrucci 1997).
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La questione era stata già dibattuta dai teologici musulmani, proponendosi in occasione
dell‟invio da parte del Profeta Muhammad di un gruppo di missionari musulmani meccani verso
l‟Europa Cristiana tra il 615 e il 622 (Ramadan 2004).
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sero in una terra conquistata da infedeli, la abbandonassero, nella convinzione che viceversa non fosse possibile vivere pienamente l‟islām
(Allievi 2002).
Dal punto di vista geopolitico, infatti, l‟islām stabilisce una
frontiera netta tra dār al-islām (letteralmente terra dell‟islām) e dār alharb (terra della guerra): il primo è il territorio musulmano in cui la
legge dell‟islām prevale e la cui unità risiede nella comunità di fede e
di legge8; il secondo sono le terre ostili nelle quali la sharī„a non è mai
penetrata o ha cessato di imperare (Ventura 2007)9.
Tale divisione non deriva direttamente dai testi sacri dell‟islām
- Corano e Sunna - i cui principi ed insegnamenti sono concepiti per
essere validi ed universali per tutti i tempi ed al di là delle frontiere:
come dice il Corano nella prima parte del versetto 115 della sura II
(sura della vacca) “A Dio appartiene l‟oriente e l‟occidente” (Trad.
Bausani 1997)10.
Furono i giuristi teologi fuqahā‟ e „ulamā‟ dei primi secoli
dell‟islām a tracciare criteri che permettessero di definire un territorio
come islamico, in modo da poter stabilire la natura delle relazioni politiche e strategiche con le altre nazioni o imperi, nonché lo status e le
prescrizioni specifiche per i musulmani che, per commercio o viaggio,
si trovassero in terre non musulmane. Non potendo riferirsi a prescrizioni esplicite del Corano, essi procedettero dall‟analisi dei comportamenti del Profeta nei confronti dei paesi confinanti e, in particolare,
del contegno tenuto in occasione della pace di Hudaybiyya11. Gli haVedi il lemma dār al-islām (curato da A. Abel) in EI².
Il dār al-islām è anche chiamato dār al-„adl – terra della giustizia – o dār al-tawhīd – terra della fede nell‟unicità di Dio. Il dār al-harb è detto anche dār al-shirk – terra dell‟idolatria/ politeismo – e dār al-kufr – terra della miscredenza (Ramadan 2004).
10
Indicazioni simili si trovano anche nella sura II (sura della vacca), 142: “ Gli stolti diranno:
“che cosa li ha stornati dalla qibla che avevano prima?” Rispondi dunque “A Dio appartiene
l‟oriente e l‟occidente, Egli guida chi vuole alla retta via”; nella sura XXVI (sura dei poeti), 28
“E diceva Mosè “E‟ il Signore dell‟Oriente e dell‟Occidente e di quel che v‟ha frammezzo se voi
ben comprendete!”; e nella sura LXXIII (sura dell‟avvolto nel manto), 9 “il Signore dell‟Oriente
e dell‟Occidente, non v‟è altro dio che Lui: Lui scegli tu a patrono!” (Trad. Bausani 1997).
11
La pace di Hudaybiyya fu stipulata fra i musulmani, guidati da Muhammad, e il clan meccano
dei Quraysh, nel 628, dopo la battaglia del Fossato, nella quale il Profeta e i suoi compagni emigrati a Medina avevano ottenuto una rilevante vittoria sui Meccani. Nel marzo del 628 Muhammad si mosse verso Mecca con 1600 uomini ufficialmente per effettuare la „umra – pellegrinaggio minore – alla Ka „ba. I Meccani lessero l‟arrivo dei Medinesi come propedeutico
all‟invasione della città e si prepararono alla battaglia. Ma Muhammad si fermò a Hudaybiyya, a
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dīth – raccolta di detti del Profeta che compongono il corpus della
Sunna - fanno risalire la concezione del dār al-hārb al periodo medinese, durante il quale la nuova comunità politica musulmana, guidata
da Muhammad, consolidò alcune pratiche rispetto alle relazioni da intrattenere con i propri vicini non musulmani, che, tradizionalmente,
consistevano nell‟invitare i principi dei territori limitrofi non musulmani a convertirsi; in caso di rifiuto, si instaurava un clima di guerra
latente o un‟aperta dichiarazione di belligeranza, con quelli che venivano definiti harbī o meglio ahl al-harb - popolo della guerra - per i
quali non valevano le protezioni previste per i dhimmī12. A partire
dall‟esame dei testi, i fuqahā‟ individuarono quattro elementi identificativi del dār al-islām e, per opposizione, del dār al-harb: la confessione della popolazione che viveva nel paese, la proprietà della terra,
la natura del governo, il sistema giuridico (Ramadan 2004).
Un‟applicazione congiunta dei quattro principi permetteva una
divisione manichea del mondo, secondo una frontiera ben definita, divisione che si adattava alla realtà che l‟islām viveva nei primi secoli
della sua espansione, nonché alla visione ristretta del jihād, inteso non
come sforzo individuale sulla via della fede (jihād maggiore), ma come effettivo stato di combattimento sulla via della fede (jihād minore). Tra i due territori, infatti, teoricamente non era possibile una vera
pace, ma, eventualmente, solo un armistizio necessario o una tregua
limitata, perché il compito dell‟islām era di rimanere in uno stato di
belligeranza permanente con gli infedeli, fino al suo trionfo finale ed
inevitabile (Ventura 2007).
Tuttavia, proprio l‟esempio del Profeta fece, fin da subito, emergere una terza categoria geopolitica, una zona intermedia tra dār
al-islām e dār al-harb, ovvero il dār al-„ahd, terra del patto, definizione che si riferiva allo stato giuridico-teologico in cui si trovavano
le terre conquistate dai musulmani, ai cui governanti era stato concesso di mantenere la gestione degli affari interni, in cambio della ricono-
15 km da Mecca, dando inizio ad una serie di lunghe trattative, che vertevano sostanzialmente
sulla possibilità per i musulmani di compiere il pellegrinaggio e che portarono, appunto, al trattato di Hudaybiyya, che evitò la guerra e assicurò ai musulmani di poter compiere l‟anno successivo il pellegrinaggio alla Ka„ba, nonché una tregua militare tra Muhammad e i Quraysh di 10 anni.
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Vedi lemma dār al-harb (curato da A. Abel) in EI².
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scenza della supremazia musulmana e del pagamento di un tributo,
kharāj, che si aggiungeva alla jiziya.13
Col passare dei secoli ed il mutare delle condizioni sociali, politiche e strategiche, i madhāhib, scuole giuridiche musulmane14, enfatizzarono uno o più elementi dei quattro individuati come costitutivi
della frontiera tra i due territori, adattandosi alle esigenze e alle necessità del tempo in cui vivevano: l‟imām al-Dusūqī del madhhab malikita, per esempio, sostiene che basti che la proprietà della terra e il sistema giuridico siano islamici, per definire un territorio dār al-islām,
anche qualora il governo non sia musulmano, opinione sostenuta anche dal giurista hanbalita Ibn Taymiyya15 (Ramadan 2002). L‟imām
Abū Hanīfa (m.767), iniziatore del madhhab hanafita, disapprovava
del tutto la residenza permanente di un musulmano in territorio non
musulmano e sosteneva che non esistessero altre categorie geopolitiche possibili al di fuori di dār al-harb e dār al-islām: il dār al-„ahd
andava considerato come completamente annesso al dār al-islām, o,
viceversa, un territorio di guerra a pieno titolo. Gli hanafiti col tempo
hanno ammorbidito le loro posizioni a riguardo, arrivando a sostenere
che si potesse parlare di dār al-islām dovunque i musulmani fossero in
13
Vedi il lemma dār al-„ahd a cura di Halil İnalcik, in EI².
Le principali scuole giuridico-teologiche iniziarono a formarsi alla fine dell‟ VIII secolo e sono 4: hanafita, malikita, sciafiita e hanbalita. La scuola hanafita è basata soprattutto sull‟uso del
ragionamento e della speculazione nell‟interpretazione dei testi e dà largo spazio tra le fonti della
sharī „a all‟analogia (qiyās). Essa inoltre introduce tra i principi ispiratori l‟“approvazione” (istihsān) ovvero la prevalenza nell‟elaborazione della dottrina del singolo dottore, principio considerato troppo soggettivo dalle altre scuole. E‟ oggi quella numericamente più rilevante ed è estesa nel subcontinente indiano, in Asia Centrale, in Afganistan, in Turchia e in Siria. La scuola
malikita da molta importanza alla tradizione relativa alla vita del profeta (hadīth), riconoscendo
come base giuridica anche la nozione del consenso (ijmā„) inteso come consenso dei dotti di
Medina, considerati per la loro posizione geografica i continuatori della comunità islamica originaria. E‟ oggi diffusa in Africa settentrionale e in parte in Egitto e in Africa Orientale. La scuola
sciafiita tenta di fatto una mediazione tra soggettività e tradizione; seconda in termini di diffusione la troviamo in Egitto, Indonesia, Africa Orientale e Arabia Meridionale. La scuola hanbalita propugna il ritorno senza compromessi alla Sunna e al Corano, e proprio per la sua rigidità è
oggi la meno diffusa: la ritroviamo soprattutto in Arabia Saudita e in alcune zone della Penisola
Araba e del Golfo Persico (vedi Ventura 2007, p. 110-119).
15
Taqī al-Dīn Ahmad Ibn Taymiyya (1263-1328) è un giurista della scuola hanbalita che ha ricoperto un ruolo importante nel mondo siro-egiziano del suo tempo, prima di influenzare nel
XVIII secolo i futuri teorici del wahhabismo (Ramadan 2002).
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sicurezza e nulla ostacolasse le loro pratiche religiose16. Tale concezione aderisce a pieno a quella sostenuta dall‟imām creatore del madhhab shafi„ita, Muhammad Ibn Idrīs al-Shāfi„ī (m. 858), a proposito
della possibilità per i musulmani restare in terre precedentemente islamiche, poi riconquistate.
In genere, però, la teologia medioevale sosteneva l‟impossibilità
per i musulmani di rimanere in dār al-harb: ibn Rushd, imām della
grande moschea di Cordoba, nonno di Averroè, sosteneva, per esempio, che il dovere del‟hijra (emigrazione) per sfuggire alla dominazione degli infedeli, era da considerarsi permanente: i musulmani di una
terra conquistata da non musulmani avrebbero potuto ritornarvi solo
una volta restaurato l‟ordine islamico, così come ai compagni del Profeta, che da Mecca l‟avevano seguito a Medina, fu concesso di ritornare a Mecca solo dopo la sua conquista (Allievi 2002).
AL DĀR DĀR AL HARB: I CONFINI DELL‟ISLĀM NEL PERIODO
COLONIALE E POST-COLONIALE
Le definizioni dār al-harb e dār al-islām rimasero pressoché indiscusse per molti secoli, ma ritornarono centrali con le politiche coloniali
del XIX e XX secolo, quando i confini del Mediterraneo, ormai lago
interno, saranno varcati da un‟Europa, che, manifestando concretamente l‟asimmetria politica, economica e militare tra civiltà romana e
civiltà islamica, ampliava la cesura nelle sue acque (Curcio 2009).
Il Mediterraneo si trasformava in un progetto di modernizzazione da parte degli stati nord-occidentali rispetto a quelli sud-orientali,
rappresentati come antimoderni e irrazionali. La frontiera tra Oriente e
Occidente non è più la religione, soprattutto considerando che per la
civiltà romana da tempo essa non coincideva più con quella politica,
bensì la differenza politica e culturale: l‟Oriente viene sistematicamente costruito al fine di affermare e riaffermare la supremazia politica ed intellettuale dell‟Occidente, che percependosi in continuità con
l‟identità ellenistica – secondo la filiazione Grecia antica, Roma, Eu16
Questa posizione è stata sostenuta al punto da accettare che ai musulmani fosse concesso di
astenersi dal seguire alcune parti della sharī'a se era necessario a causa delle difficoltà (darūra),
delle forzature (ikrāh) o dei benefici (maslaha) (Ramadan 2002).
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ropa Feudale ed Europa capitalistica – arriva ad assimilare la Grecia
all‟Europa, sradicandola dal seno orientale in cui si è sviluppata e tagliando arbitrariamente il Mediterraneo in due parti. Il mare nostrum
diventa la barriera tra progresso e immobilismo, razionalità e metafisica, stato-nazione e umma islamica, ma anche tra colonizzatori e colonizzati, fra amministratori e sudditi dell‟imperialismo (Khader 1996).
La resistenza alla penetrazione coloniale dei popoli arabi, in
termini culturali, religiosi, linguistici o militari, fu rappresentata ed interpretata come dimostrazione evidente del fanatismo politicoreligioso dell‟islām: nello stesso tempo il mondo musulmano viveva
traumaticamente il rovesciamento palese del primato della civiltà islamica e la sensazione di accerchiamento da parte dell‟Occidente che
imponeva una condizione di debolezza e vulnerabilità (Burke 2009).
Le reazioni teologiche rispetto al dominio dei non musulmani
furono diverse: alcuni imām, per giustificare la convivenza con i governi europei, assunsero come unico criterio di definizione del dār alislām quello della confessione della popolazione, altri invece, per sostenere la resistenza, sottolinearono la necessità della presenza di un
governo musulmano (Ferjani 2003). Quando per esempio, negli anni
„20, il governo francese promulgò i primi provvedimenti che offrivano
la cittadinanza alle popolazioni delle colonie in cambio della scelta di
farsi governare dalla legge civile anziché dalla legge islamica, la risposta degli „ulamā‟ della Moschea al-Zaituna di Tunisi e di al-Azhar
del Cairo, fu di assimilare l‟acquisizione della cittadinanza
all‟apostasia (Allievi 1996).
I paesi arabi furono gestiti diversamente a seconda del colonizzatore e delle condizioni di colonizzazione, ma in genere il colonialismo trans-mediterraneo fu diverso, per esempio, da quello francese in
Africa o inglese in Asia Minore: il confine del Mediterraneo era immediatamente contiguo il che, come sottolinea Khader (1996) spiega
la potenza della memoria coloniale mediterranea; la fluidità della frontiera non permetteva di sfuggire l‟intimità geografica di tali relazioni
sbilanciate e i popoli arabi del Mediterraneo hanno semplicemente
sperimentato il contatto con l‟Europa più di qualunque altro popolo
del mondo.
Colonizzazione e post-colonialismo portarono con loro la creazione di stati-nazione dai confini e dalle identità artificiali, che com-
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portarono l‟adozione di terminologie, nozioni ed ideologie – come il
nazionalismo – nuove nel mondo islamico, che ebbero come prima
vittima la coabitazione con le comunità religiose non musulmane.17
Nel mondo musulmano, tradizionalmente, la forma più compiuta della società è la umma (comunità dei credenti)18 che si estende su
tutti i paesi in cui è stabilito il dominio e la legge islamica, senza distinzioni etniche o regionali. Paesi e nazioni non erano stati mai concepiti come costitutivi di identità collettiva o come fonte di legittimazione del potere politico: il concetto di nazione era, effettivamente, entrato nella mentalità islamica con la legge ottomana sulla nazionalità
del 1869, ma, di fatto, l‟Impero Ottomano, ponendosi su una linea di
continuità con il califfato, aveva continuato a rappresentare l‟unione e
l‟unità della umma islamica.
É la stessa creazione degli stati nazionali che impone il concetto
di nazione: per indicare la nazione come paese e terra tangibile viene
scelto il termine watan, termine che, nell‟uso classico, indica luogo di
nascita e di residenza, spesso con senso nostalgico e che, solo a partire
dal XVIII secolo, acquista un significato patriottico. In maniera significativa la parola umma continua ad essere usata per definire la nazione araba (Lewis 1988).
Lo sviluppo del sistema degli stati si perfezionò durante la decolonizzazione, attraverso un processo che creò e rafforzò l‟intrinseca
contraddizione tra ideologia del nazionalismo arabo e universalismo
islamico. Come sottolinea Fouad Allam (2002), la nazione nel pensiero islamico non consacra immediatamente la nascita di uno spazio autonomo del politico e, dunque, di un concetto di cittadinanza: al contrario, essa si struttura sulla visione dell‟islām in quanto fattore aggregante non solo di diverse comunità, ma della nazione stessa. I governanti degli stati arabi, da Ibn Badis a Gamal Abdel Nasser, usarono
17
Come sottolinea Vercellin (1996) la nascita dello stato nazione e i movimenti nazionalistici
svuotarono totalmente di significato il concetto di dhimma e quindi le basi teoriche del trattamento tradizionale delle minoranze non musulmane.
18
Il termine umma è preislamico e si trova sia nell‟arabo primitivo, che in altre lingue semitiche.
Esso è usato per indicare gruppi di persone, che sono però variamente definiti. Nel Corano ricorre più volte con diversi significati: di tipo etnico, quando si riferisce alla umma degli arabi; di
tipo morale, quando si riferisce alla umma dei giusti in contrapposizione alla umma dei malvagi;
di tipo ideologico, quando si riferisce alla umma di coloro tra i cristiani che operano il bene (Lewis 1988).
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Sguardi incrociati sul Mediterraneo
come filo conduttore della legittimazione del loro potere il ruolo e la
funzione del patrimonio e della tradizione arabo-islamica: che fosse
l‟arabità a racchiudere l‟islamità o viceversa, la costruzione ideologica
del nazionalismo si fondò su queste due colonne portanti, accentuando
l‟aspetto etnico della nazione e rafforzando l‟idea di una dominante
araba nell‟islām. L‟ideologia panaraba venne utilizzata per prevenire
la dispersione delle entità nazionali in un‟entità panislamica con la
spinta verso l‟unità araba come l‟ideologia del sistema arabo degli stati, mentre la difesa dell‟autenticità arabo-islamica, dei suoi valori, delle sue specificità come un muro contro l‟invasione intellettuale
dell‟occidente (Fouad Allam 2002).
All‟interno della contrapposizione tra panarabismo e panislamismo, la divisione tra dār al-harb e dār al-islām viene ripresa e arricchita di significati, soprattutto ad opera del pensiero riformista, partendo da un nuovo uso del termine classico jāhiliyya19, ignoranza.
Questo termine nel pensiero riformista passa, dall‟indicare le credenze
e le strutture antropologiche del mondo preislamico, ad indicare il degrado e l‟ignoranza sia dei governi occidentali che dei governi laici i
quali, in quanto corrotti, non potevano più essere considerati vessillo
del dār al-islām. Il pakistano Abū al-A„lā al-Mawdūdī (1903-1979)
sosteneva che l‟unità e le virtù dell‟antica civiltà islamica non erano
più identificabili con gli stati-nazionali arabi, perché essa non era mai
stata rappresentata da una nazione, ma solo dalla umma musulmana
(Partner 1997): l‟islām non poteva essere rinchiuso entro uno statonazione, perché quest‟ultimo avrebbe potuto costituire un freno alla
rivoluzione islamica; stato e nazione erano considerati solo momenti
storici, propedeutici alla rivoluzione totale, che avrebbe portato
19
Il termine jāhiliyya usato come oppositivo del termine islām si riferisce allo stato dell‟Arabia
prima della missione profetica, al paganesimo, al periodo preislamico e agli uomini di quel tempo. Il termine non ha una precisa connotazione: nel Corano stesso è usato sette volte come jāhil e
4 come jāhiliyya, con significati che vanno da “barbaro” e “tempo di barbari” a “non conoscenza
di Dio” e quindi “tempo della non conoscenza di Dio”. In particolare la sura XXXIII (sura delle
fazioni alleate), 33 “Rimanetevene quiete nelle vostre case e non v‟adornate vanamente come
avveniva ai tempi dell‟idolatria; compite la vostra preghiera, pagate la Decima e obbedite a Dio
e al Suo Messaggero” la parola jāhiliyya, tradotta qui da Bausani (1997) col termine idolatria,
sembra indicare chiaramente una cesura temporale tra due periodi: il primo da Adamo a Noè, la
seconda il tempo tra Gesù e Muhammad (lemma Djahiliyya (Ed.) EI²).
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Sguardi incrociati sul Mediterraneo
l‟islām a governare i suoi territori. Per l‟umanità, infatti, esistono soltanto due vie da seguire: quella che considera Dio il sovrano e legislatore unico e quella che rifiuta o ignora questa strada riconoscendo
qualsiasi forma di governo; quest‟ultima è la via della jāhiliyya
(Fouad Allam 2002).
L‟egiziano Sayyid Qutb (1906-1966) esplicitò nei suoi scritti la
convinzione che anche paesi a maggioranza musulmani non fossero
necessariamente dār al-islām, visto che erano rappresentati da governi
falsamente musulmani. Per Qutb, l‟ideologia dell‟islām è un progetto
totalizzante, che non può essere spezzato, diviso: si deve ammetterlo
per intero o rifiutarlo per intero. Essa è un insieme immutabile e lo
stato islamico non può avere altri fondamenti che i principi della sharī„a. La civiltà occidentale è assimilata all‟idea della decomposizione
come si manifesta - sul piano etico - nella mercificazione degli esseri,
nella morale utilitaristica, nel consumismo sfrenato ed egoista; sul piano politico, nella divisione degli uomini in nazioni antagoniste, contraria alla nozione di fratellanza universale20 (Fouad Allam 2002).
La concezione della divisione tra dār al-harb e dār al-islām legata all‟opposizione a governi musulmani di paesi musulmani non è
nuova: anzi Khader (1996) considera che, storicamente, essa sia precedente all‟applicazione teorica dei concetti a terre non musulmane. Il
binomio oppositivo tra le due terre nascerebbe, in questo senso, non
tanto dalla divisione del mondo in due parti, quanto dall‟opposizione
kharigita21 contro le autorità musulmane colpite d‟anatema, contro cui
20
Anche Hasān al-Bannā (1906-1949), fondatore del movimento dei Fratelli Musulmani, criticava il mondo occidentale per i suoi costumi e per la perdita di identità che ingeneravano nei
paesi arabi: per questo proponeva una re-islamizzazione dal basso della società attraverso la
da„wa, propaganda missionaria. Per un approfondimento del pensiero riformista nell‟epoca coloniale e post coloniale, cfr. Fouad Allam 2002.
21
I kharijiti sono un gruppo musulmano, sorto nel 657 quando, nel corso della battaglia di Siffin,
il quarto califfo „Alī ibn Abī Tālib, genero di Muhammad, accettò di venire a patti con il suo
rivale Mu„āwiya I, governatore della Siria e poi primo califfo degli Omayyadi. I kharigiti rifiutarono la tregua e abbandonarono (da cui il nome, dal verbo arabo kharaja, uscire) il partito di Ali.
Contrapposti sia ai sunniti che agli sciiti, essi sostenevano l'idea di un califfato elettivo conferito,
senza restrizioni di casta, tribù, famiglia, razza, al più degno dei musulmani, e si distinguevano
per rigore morale soprattutto per quella parte della loro dottrina che vincola strettamente fede e
opere. Presenti per un certo tempo soprattutto nel Maghreb e nell'Oman, ove riuscirono a creare
delle proprie entità statuali (Ibaditi), furono però nel giro di pochi secoli quasi interamente annientati. Oggi sopravvivono in piccoli nuclei in alcune località dell'Algeria, della Tunisia, a Zan-
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era legittimo e obbligatorio il ricorso alla guerra, entro il dominio territoriale delle autorità medesime (al-dār dār al- harb: la terra – musulmana – è terra di guerra).
L‟ ISLĀM DEL DĀR AL-HARB
Il post-colonialismo comporta anche un nuovo attraversamento del
confine mediterraneo dalla civiltà meccana a quella romana: a partire
dagli anni ‟50 il Mediterraneo si fa espressione di transito, costruisce
nuovi percorsi, nuovi confini e nuove frontiere, dalla congenita porosità (Curcio 2009). Come sottolinea Gallina (2007) è difficile avere
dati precisi su quanti migranti della riva sud orientale vivano oggi nella parte nord occidentale, vista la non congruenza delle statistiche dei
paesi di destinazione rispetto a quelle dei paesi di partenza e l‟alta
percentuale di migranti privi di documenti di identità: facendo riferimento ai dati dell‟Unione Europea, circa 6 milioni sono gli immigrati
provenienti dai paesi dell‟area, dieci milioni se, contando i loro discendenti, si vogliano considerare le persone che hanno legami diretti
con i paesi del Mediterraneo meridionale e orientale. La coabitazione,
quasi scomparsa sulla riva sud, si ripropone in maniera inedita sulla
riva nord22, in un contesto dove, come già sottolineato, i confini religiosi e geografici non coincidono più. Questa esperienza è ancora più
inedita nell‟immaginario musulmano. Come sottolinea Allievi (1996),
l‟islām nasce migrante, non solo in quanto religione di un popolo di
nomadi, beduini in continuo movimento, il cui Profeta era un carovaniere, ma perché nasce naturalmente con una migrazione e data il suo
calendario non con la nascita o la morte di Muhammad, ma con la sua
hijra da Mecca a Medina. Questa migrazione fondante non è un fine
in sé, ma il mezzo attraverso il quale costruire una società islamica.
Negli ultimi decenni, però, i musulmani sono emigrati non per seguire
un percorso di fede, ma, pur nella differenza di progetti e percorsi mizibar e nell'Oman. Sono molto rigorosi dal punto di vista morale e vincolano strettamente la fede
e le opere (Ventura 2007b).
22
L‟islām migrante non è che una delle componenti di quello europeo; quella più antica è legata
all‟eredità dell‟espansione turca in Grecia, Bulgaria, Albania, Jugoslavia, comunità fino a qualche decennio fa considerate “tranquille” o quantomeno investite da un processo di disaffezione
religiosa (Riccardi 1997).
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gratori, per cause temporali, legate al divario economico tra nord e sud
del mediterraneo, al calo demografico delle popolazioni europee, a
questioni politiche. L‟islām arriva in Europa chiuso nelle valigie degli
immigrati, che per lo più giungono in Europa in cerca di un lavoro
temporaneo, come un elemento di identità culturale e religiosa che
portano con loro e che con loro sarebbe ripartito quando fossero andati
in pensione: questi migranti vivevano nel dār al-harb per il benessere
personale in una situazione anomala che sarebbe rientrata solo al loro
ritorno (Michel 1996).
Ben presto però l‟Europa si trasforma da luogo di lavoro a luogo di residenza, come espresso in maniera evidente dai ricongiungimenti familiari: l‟islām esce allora dalle valigie e viene espresso, socializzato, vissuto, trasmesso e reso pubblico; si costruiscono moschee, centri di studio, appaiono le macellerie halāl, il velo diventa evidente.
L‟islām è oggi la seconda religione d‟Europa sia nei paesi cattolici che in quelli protestanti, comportando lo svuotamento di senso
della contrapposizione – patente o latente che sia – tra mondo occidentale e islām, e non solo perché, come spesso sottolineato, sono due
realtà ontologicamente non comparabili, ma perché non sono più
nemmeno identità territorialmente separate.
Il superamento di questo confine è incarnato dalla nascita di europei di confessione musulmana, figli e figlie di immigrati, che esprimono in loro stessi il superamento della frontiera. L‟islām in Europa,
l‟islām d‟Europa, partecipa così di nuove istanze e ha bisogno di nuove categorie. La stessa nozione di dār, lo stesso concetto di territorio,
viene rimesso in discussione, laddove la religione musulmana europea
si dimostra de-culturata, de-tradizionalizzata e de-territorializzata,
frutto stesso della frattura tra islām e territorio. La comunità territoriale di partenza che definiva il tradizionale dār al-islām è assente, lo stato non struttura più i credenti sul piano politico e religioso, l‟islām che
ne deriva è orfano del suo territorio: il dār al-islām è assente
dall‟orizzonte europeo, perché quello che si sta sviluppando è un islām di tipo minoritario. La stessa umma non è più un‟aggregazione di
differenze etniche e nazionali, ma è una ideologia universale e virtuale, priva di dār, di definizione territoriale (Fouad Allam 2002).
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Alle istanze dell‟islām in Europa cercano di dare risposta elaborazioni teologiche e giuridiche nuove, che mirano a riconcettualizzare
il dār al-harb e il dār al-islām: come sostiene Tariq Ramadan (2004,
p.7) “In Occidente siamo a casa nostra” e per questo “il discorso e il
vocabolario vanno cambiati. Ad ogni epoca il suo vocabolario”
(Ramadan, 2004, p.20, TdR)
Oggi, non c'e' dubbio che i musulmani residenti in paesi non
musulmani siano a tutti gli effetti nel loro paese, il che fa perdere la
rilevanza alle nozioni classiche di dār al-islām e del dār al-harb. La
maggior parte dei musulmani in Occidente trova piuttosto facile praticare la propria fede, in quanto, almeno teoricamente, in Occidente la
libertà religiosa è un diritto riconosciuto, nell‟ambito di un assetto da
molti secoli pluralista.
Sia un riformatore come Bencheikh che un riformista ortodosso
come Yūsuf al-Qaradāwī possono concordare sul fatto che una divisione dicotomica classica tra i due territori non sia più sufficiente e sia
spesso arcaica e pericolosa. Anzi, considerando in ottica hanafita la
sicurezza nella pratica come tratto distintivo della dār al-islām, si potrebbe ipotizzare che, visto che alcuni musulmani potrebbero sentirsi
più al sicuro in Occidente, il concetto di dār al-islām si estenderebbe a
tutti i paesi in cui ci sia libertà di religione. A tal proposito, in Francia
si è sviluppato un acceso dibattito tra chi come lo sheikh Mannā„ alQattān mette in discussione che paesi musulmani, in cui repressione
ingiustizia e dittatura sono moneta corrente, possano essere ancora
considerati come dār al-islām, e chi, come il già citato Yūsuf alQaradāwī, enfatizzando i criteri della confessione della popolazione e
dell‟ordinamento normativo, li considera ancora tali (Ramadan 2002).
Lo Shaykh Faysal Mawlawī dell‟Alta Corte Sunnita di Beirut è
tra coloro che sostengono l‟imprescindibilità della questione della sicurezza nelle pratiche: in questo senso, riprendendo la terminologia di
al-Shāfi„ī, propone che l‟Europa possa essere considerata di fatto dār
al-„ahd, territorio non musulmano che ha firmato un trattato di pace
con una o più nazioni musulmane. In effetti una lettura di questo genere sembrerebbe adattarsi alla situazione contemporanea, considerando
i numerosi trattati internazionali che legano i paesi musulmani ai paesi
non musulmani, e ancor più porterebbe a considerare il Mediterraneo
come dār al-islām sulla base della sottoscrizione della Dichiarazione
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Finale della Conferenza di Barcellona del 199523, l‟acte fondateur de
la Méditerranée du XXI siècle (Zolo 2007, p. 23).
Ma lo stretto riferimento al concetto di trattato non permette di
superare una visione geopolitica dicotomica: perché ci sia un trattato è
necessario che ci siano state due terre separate, con delle caratteristiche tali da permettere la distinzione tra dār al-harb e dār al-islām e,
soprattutto, che ci sia stata una dichiarazione di guerra e un successivo
stato di belligeranza (Ramadan, 2002). Considerando che contro i paesi del nord del mediterraneo non esistono dichiarazioni di guerra, ma
semplicemente trattati, lo stesso Mawlawī propone successivamente di
superare anche il concetto di dār al-„ahd sostituendolo con il termine
dār al-da„wa, terra della predicazione, con riferimento diretto alla posizione del Profeta e dei suoi compagni prima dell‟hijra da Mecca a
Medina: il dār al-da„wa sarebbe uno spazio in cui presentare l‟islām e
trasmettere il suo messaggio, mettendo i musulmani europei contemporanei nella situazione in cui erano effettivamente il Profeta e i suoi
compagni a Mecca, dove, essendo in minoranza, era loro richiesto non
solo di credere in Dio, ma anche di predicare, chiamare a Dio, presentare e spiegare la religione ai popoli e alle tribù vicine. In questo modo, come sottolinea Ramadan (2002), tornando alle fonti coraniche si
superano divisioni binarie, ricordando ai musulmani un dovere fondamentale: “E te non abbiamo inviato che in segno di grazia per il
mondo” (Corano XXI, 107 Trad. Bausani 1997).
La centralità che la hijra riveste nella concettualizzazione di
Mawlawī pone però alcuni dubbi rispetto alla possibilità che essa sia
adattabile alla condizione dei figli e delle figlie di immigrati, che rischiano di essere rimandati alla condizione di immigrati, pur non essendosi mai mossi dal loro paese natale. L‟analisi, quindi, partendo da
queste premesse, si è spinta oltre. Ramadan (2002) parte per la sua elaborazione dalla doppia considerazione della dimensione universale
dell‟insegnamento coranico da un lato, dall‟altro della possibilità accordata generalmente ai musulmani d‟Europa di vivere la loro fede a
23
Il 27 novembre del 1995 si riunì a Barcellona la prima Conferenza Euro-mediterranea, cui parteciparono, sottoscrivendo la dichiarazione finale, i Ministri degli Esteri di 27 paesi: 15 in rappresentanza della Comunità Europea e 12 in rappresentanza di paesi dell‟area mediterranea.
18
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pieno. D‟altra parte, il Profeta stesso diceva che dovunque un musulmano possa testimoniare e vivere la sua fede lì è una moschea: laddove in Europa è possibile l‟esplicitazione della fede islamica i musulmani sono chiamati alla responsabilità di testimoniare questa fede attraverso le loro azioni e la loro vita. “Gli individui come le comunità
(…) sono portatori di una grande responsabilità: devono fornire alla
loro società una testimonianza di fede, di spiritualità di valori, di senso
del limite, di impegno umano e sociale permanente” (Ramadan 2002,
p. 61). É questo il significato che soggiace alla teorizzazione di un
nuovo concetto geopolitico universale, il dār al-shahāda, terra della
testimonianza, che racchiude in essa due aspetti centrali: da un lato la
presa di coscienza dell‟essere musulmani richiamando esplicitamente
il primo pilastro dell‟islām, la shahāda24 appunto, la testimonianza di
fede; la seconda è la testimonianza nella vita quotidiana della propria
fede, secondo quanto esplicitato dal Corano, nella prima parte del versetto 143 della sura II “Abbiam fatto di voi una nazione che segue il
medio cammino acciocché siate testimoni di fronte a tutti gli uomini e
il messaggero di Dio sia testimone di fronte a voi” (Bausani 1997).
Questo mutamento di prospettiva, cambia anche il concetto
stesso di dār, territorio, che nel suo significato letterale Ramadan giudica troppo restrittivo nel contesto contemporaneo di globalizzazione
e mondializzazione, a meno che non venga considerato come territorio
l‟intero mondo: egli, quindi, propone una nuova traduzione di dār,
non più territorio, ma spazio, parola, che, pur continuando a fare riferimento alla geografia e all‟ambiente, esprime più chiaramente
l‟apertura sul mondo nel quale la popolazione musulmana è ormai dif24
Shahāda aggettivo verbale di shahīda verbo che significa essere presente opposto ad essere
assente (ghāba) o essere testimone, portare testimonianza, attestare. Shahāda può significare
quindi “che è presente” o che è “visibile” come nella formula coranica in cui Dio è descritto come “„Ālim al-ghayb wa al-shahāda”, colui che conosce cosa è invisibile e cosa è visibile (Corano VI, 73; IX, 94, 105; XIII, 9). Un altro uso presente anche nel Corano riguarda il testimoniare
un evento al fine di validarne l‟effettivo accadimento in senso legale (Corano II 282-3 relativamente al debito; XXIV 4,6 relativamente all‟adulterio, LXV, 2 relativamente al divorzio). Il terzo significato non direttamente coranico ma implicito nella sura III,19; VI,19 e LXIII,1 è la professione di fede, l‟atto di dichiarare “Attesto che non c‟è divinità all‟infuori di Dio e che Muhammad è l‟inviato di Dio”, in arabo “Ashhadu an lā ilāha illā Allāh wa ashhadu anna Muhammadan rasūl Allāh”. Un ultimo significato si riferisce all‟affermazione suprema delle fede,
nel senso di martirio per la causa dell‟islām (mashhad e shahīd). Cfr. lemma Shahāda, a cura di
D. Gimaret, in EI².
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fusa e in cui non ha più senso parlare di relazione dicotomica tra due
territori, ma di relazione tra individui e comunità che appartengono a
diverse civilizzazioni, religioni, culture e morali. “In questo spazio
molto specifico al centro e in modo più esigente ancora che nella periferia i musulmani devono portare testimonianza, devono essere i testimoni di quello che sono e dei valori che appartengono loro”
(Ramadan 2002, p.72).
In questo senso la parte nord del mediterraneo diventa dār alshahāda, come parte del dār al-islām, considerato a partire dalla confessione della popolazione, nient‟altro che la parte europea della umma, col nuovo significato di terra dell‟islām tra gli altri (Allievi 1996).
Partendo da riflessioni simili a quelle di Ramadan, ma spostando la
riflessione su altre categorie, una successiva elaborazione è quella di
Mohamed Beshari25. Anche lui muove dalla critica della divisione geopolitica classica e condivide la messa in discussione della stessa nozione di dār: questa definizione è risultata dalla contrapposizione storica tra mondo musulmano e mondi non musulmani vicini che ne contrastavano l‟espansione. E‟ su questa base e, in quel preciso tempo,
che i fuqahā‟ hanno prodotto la giurisprudenza e la teologia relativa al
jihad, che presuppone una naturale relazione di scontro tra islām e resto del mondo, non più applicabile al mondo contemporaneo. Come
Ramadan, egli sostiene la non pertinenza del concetto di dār al-„ahd,
perché una tregua deve essere necessariamente preceduta da uno stato
di guerra dichiarata, ma, nel proporre il superamento della categoria
classica di dār, si spinge oltre: nella concettualizzazione delle relazioni tra islām e mondo non musulmano è necessario abolire ogni riferimento geografico. L‟unico tipo di categorie possibili sono categorie
geoculturali, in cui non ci sono territori ma solo comunità (ummat). In
questo senso egli propone la coabitazione contemporanea di due comunità, la umma al-da„wa e la umma al-istijāba‟: la prima, comunità
della predicazione, rimanda al concetto di Mawlawī di diffusione del
Direttore dell‟Institut de Formation en Sciences Humaines Avicenne de Lille, fondatore e vicepresidente del CFCM (Conseil Français du Culte Musulman), membro del direttivo della European Islamic Conference nonché unico rappresentante europeo dell‟Islamic Fiqh Academy di
Jedda. Il contributo al dibattito di Muhammad Bechari è stato raccolto durante un‟intervista nel
mese di febbraio del 2010.
25
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messaggio; la seconda, comunità dell‟obbedienza, si riferisce a coloro
che posseggono già il messaggio.
Queste categorie sono applicabili a tutti i territori in tutti e tempi e a tutte le religioni: d‟altra parte la umma stessa oggi è naturalmente dispersa e de-territorializzata. E‟ per questo che non può essere più
considerata come un insieme di credenti, tanto più se legato a confini
geografici, perché, come insegna la figura Abramo nel Corano, una
umma è costituita da un uomo e il suo messaggio.
CONCLUSIONI
La coabitazione religiosa in una sponda o nell‟altra del Mediterraneo è
oggi la dimostrazione della compenetrazione di fatto tra le civiltà che
si sono sviluppate intorno ad esso, malgrado i confini di volta in volta
religiosi, politici, culturali che sono stati tracciati nei secoli.
Le civiltà di Braudel, alla luce dei processi contemporanei, sono
chiamate a ripensare categorie di frontiera tradizionali e a proporre
nuove concettualizzazioni geo-politiche, che tengano in considerazione la fluidità endogena di ogni definizione intorno al mare nostrum.
Per il mondo musulmano, alla ricerca costante negli ultimi due
secoli di un‟identità, laddove le auto-percezioni tradizionali sono state
messe in discussione dalla storia, questo rappresenta un‟opportunità
nuova di elaborare risposte: come sottolinea Ventura (2009) spesso
queste risposte sono venute proprio dalle periferie geografiche
dell‟islām, ma procedendo da là e considerando le contemporanee relazioni di interdipendenza a livello mondiale e soprattutto mediterranea, esse possono innescare riflessioni e processi di elaborazione teologica globali.
Nello stesso tempo il superamento della dimensione dicotomica
tradizionale in termini di dār al-da„wa, dār al-shahada o di umma alistijāba‟, rappresenta un avanzamento ed un contributo importante
all‟elaborazione teorica costante che Cassano (2007), riprendendo il
filosofo Mohamed Arkoun, considera fondamentale nella decostruzione dello scontro di civiltà descritto da Huntington e nella reinvenzione
dell‟ espace méditerranéen.
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In questo senso, l‟esperienza dell‟islām d‟Europa, e il suo eventuale impatto sull‟elaborazione teologica del mondo musulmano, in
generale, e dell‟islām del bahr rūmī, in particolare, nonché il tipo di
relazione che questo intratterrà in futuro con i paesi tradizionalmente
musulmani, può rappresentare l‟avamposto della realizzazione
dell‟utopia mediterranea.
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