Cass. 11/1/12 n. 153 - Rivista critica di diritto del lavoro

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Cass. 11/1/12 n. 153 - Rivista critica di diritto del lavoro
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-01-2012, n. 153
Svolgimento del processo
1. La Corte d'Appello di Cagliari, con la sentenza n. 9 del 2008, accoglieva l'appello
proposto, con ricorso dell'11 febbraio 2005, da M.G. nei confronti dell'azienda agricola
Sardaflora, società semplice, contro la sentenza 4 novembre 2004 del Tribunale di
Cagliari; in riforma della sentenza impugnata dichiarava che la M. aveva diritto
all'inquadramento di operaio qualificato, secondo quanto previsto dal C.C.N.L. operai
agricoli e florovivaisti, con decorrenza dal 1 novembre 1993 e condannava, per l'effetto,
la società appellata al pagamento in favore della M. della complessiva somma di Euro
6.124,02, al lordo delle ritenute di legge, con la rivalutazione monetaria e gli interessi
legali dalla data di maturazione dei singoli crediti.
2. La M. aveva adito il giudice del lavoro di Cagliari esponendo di operare fin dal 1990
alle dipendenze della Azienda agricola Sardaflora, esercente attività florovivaistica con
oltre sessanta dipendenti in agro di (OMISSIS), e di essere stata addetta, fin
dall'assunzione, allo svolgimento delle seguenti incombenze disimpegnate come da
schede tecniche:
taglio, scelta e confezione di gerbere, lilium, moufler, fresie, orchidee, anturium, iris,
gladioli, felci, calle, garofani, anemoni, tulipani e alstroemerie;
confezioni di mazzi di fiori misti (selezione manuale e formazione dei mazzi mediante
cellophane, nastro, carta lucida o colorata);
segnalazione di malattie parassitarie;
potatura e sbocciolatura delle fresie, dei garofani e dei lilium, ossia dell'operazione
diretta all'eliminazione dei boccioli gracili intorno al fiore migliore per consentirne il
pieno sviluppo;
scelta delle piante di orchidee da rinvasare e rinvaso delle stesse in appositi vasi previa
valutazione della qualità delle radici e delle piante;
lavori vari.
Deduceva, altresì, di avere osservato un orario di 40 ore settimanali (superiore di un'ora
a quello previsto dal C.C.N.L.) e di avere percepito a fronte di tali prestazioni,
corrispondenti alle declaratorie contrattuali dell'operaio qualificato di terzo livello del
C.C.N.L. del settore agricolo e florovivaistico, le retribuzioni indicate nei prodotti
prospetti paga e pari, da ultimo, alla somma lorda mensile di lire 1.470.624, inferiori ai
minimi sanciti dalla contrattazione collettiva e, comunque, non conformi ai criteri di
sufficienza e proporzionalità di cui all'art. 36 Cost..
Il datore di lavoro, aggiungeva, non applicava in modo integrale le previsioni del
contratto collettivo nazionale e dell'integrativo provinciale, avendo adottato un
particolare sistema di determinazione della retribuzione, contravvenendo al combinato
disposto dell'art. 2103 c.c. e art. 96 disp. att. c.c., inquadrando la quasi totalità dei
dipendenti nell'ambito della categoria operaia senza riconoscimento delle qualifiche (di
operaio qualificato e specializzato) previste dalla contrattazione collettiva.
Tanto premesso, la M. chiedeva, previo accertamento del diritto ad essere inquadrata,
fin dalla data dell'assunzione, nella qualifica di operaio qualificato di 3 livello,
attualmente di Area 2^ livello C, la condanna dell'azienda resistente, in persona del
titolare Mu.Gi., al pagamento della complessiva somma di Euro 34.512,99 ovvero di
quell'altra maggiore o minore che risultasse in corso di causa, liquidando la giusta
retribuzione ex art. 36 Cost., con la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla
data di maturazione dei crediti.
3. Il Tribunale rigettava il ricorso.
4. La Corte d'Appello, nell'accogliere, in parte, l'impugnazione, affermava, in particolare,
che anche il datore di lavoro che non intenda applicare ai proprii dipendenti la disciplina
prevista dalla contrattazione collettiva di settore, per ciò stesso non può considerarsi
libero nella gestione dei rapporti di lavoro con il proprio personale, restando comunque
soggetto al rispetto dei principi previsti in materia dalla disciplina legale. E, tra questi, il
disposto dell'art. 2103 c.c., che individua il diritto del lavoratore ad essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o a quelle successivamente acquisite; diritto che
deve essere posto in stretta correlazione con l'obbligo imposto a carico del datore di
lavoro dall'art. 96 disp. att. c.c. di far conoscere al lavoratore al momento
dell'assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono attribuite in relazione alle
mansioni per le quali è stato assunto.
La Corte d'Appello, quindi, riteneva di non poter condividere le argomentazioni del
Tribunale, il quale riconduceva le incombenze della ricorrente nell'ambito della
professionalità di operaio comune, ossia del lavoratore capace di eseguire, secondo la
declaratoria contrattuale, solo mansioni generiche non richiedenti specifici requisiti
professionali. Sussistevano, invece, tratti di specifica capacità, in quanto dipendente con
anzianità pluriennale nel settore, addetta ad una pluralità di incombenze, talune inerenti
alla produzione di fiori con accertata alternanza su tutte le diverse linee di coltivazione
ed altre concernenti più propriamente l'attività di valorizzazione e commercializzazione
della produzione.
La ricorrente, quindi andava inquadrata nell'ambito della qualifica di operaio qualificato
ai fini della indagine circa l'adeguatezza della retribuzione ex art. 36 c.c..
5. Ricorre per la cassazione della suddetta sentenza la Sardaflora, azienda agricola,
società semplice, prospettando sette motivi di impugnazione.
6. Resiste con controricorso M.G..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 39
Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3).
Deduce la ricorrente di non essere iscritta ad associazioni datoriali stipulanti le
contrattazioni collettive.
La sentenza impugnata, quindi, in contrasto con il citato art. 39 Cost., utilizza la
contrattazione collettiva, inquadrando la lavoratrice in una qualifica professionale
propria di quest'ultima, benchè la stessa sia inapplicabile al presente rapporto di lavoro.
Il quesito di diritto è il seguente:
ai sensi dell'art. 39 Cost., non può riconoscersi alla contrattazione collettiva di diritto
comune la possibilità di dispiegare efficacia vincolante nei confronti dei datori di lavoro
non aderenti ad alcuna associazione di categoria, e ciò neppure in via indiretta, e
neppure per istituti accessori di detta contrattazione, quali quelli relativi
all'inquadramento dei lavoratori in qualifiche professionali tipizzate dal contratto
collettivo inapplicabile al rapporto di lavoro non sottoposto all'applicazione della predetta
normativa contrattuale di diritto comune.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell'art.
2103 c.c. e art. 96 disp. att. c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).
Prospetta la ricorrente che, per un verso, è stata fatta erronea applicazione dell'art.
2103 c.c., dal momento che, da un lato, la lavoratrice indicava le mansioni svolte
dall'inizio del rapporto di lavoro, che non subivano modifiche nel corso dello stesso; per
altro verso, in ragione dell'organizzazione aziendale -tenuto conto del numero totale dei
dipendenti dell'azienda (60), dei dirigenti (3), degli impiegati (alcuni), degli operai con
funzioni direttive (4) e dei responsabili delle singole coltivazioni (almeno 4) -al massimo
per ogni 4/5 operai comune, vi era un preposto di grado superiore.
Il quesito di diritto ha il seguente tenore:
"ai sensi dell'art. 2103 c.c. e dell'art. 96 disp. att. c.c., la qualifica di appartenenza del
prestatore di lavoro nell'ambito delle categorie di cui all'art. 2095 c.c., non
necessariamente deve essere indicata dall'imprenditore, che legittimamente non applichi
gli istituti della contrattazione collettiva, mediante una ripartizione che, come in alcune
di tali contrattazioni, utilizzi la denominazione di specializzazioni, qualificazioni o
appartenenze professionali, essendo comunque soddisfatta la prescrizione normativa in
questione, anche mediante un semplice raggruppamento dei lavoratori per gradi,
secondo la loro importanza nell'ordinamento dell'impresa".
3. In ragione della loro connessione il primo, il secondo ed il quinto motivo d'impugnazione,
che di seguito si espone in sintesi, devono essere trattati congiuntamente.
4. Con il quinto motivo di ricorso è prospettato, con riferimento ai vizi di violazione di
legge di cui ai motivi sub 1 e 2, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto
decisivo e controverso per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).
La Corte d'Appello avrebbe omesso di considerare le prospettazioni difensive, alla luce di
quanto emerso dalle prove testimoniali rese all'udienza del 10 maggio 2006, secondo le
quali la Mu. svolgeva mansioni di carattere elementare prive di qualsivoglia spazio di
autonomia, assimilabili a quelle dei cosiddetti operai comuni, secondo le mansioni
contemplate per tale qualifica dalla contrattazione collettiva.
Né poteva assumere rilievo, come invece ritenuto dal giudice di appello, la pluriennale
esperienza o la pluralità di incombenze, non essendosi effettuato alcun riconoscimento
da parte di esso datore di lavoro dell'attribuzione del compito di segnalare malattie
parassitarie.
5. I suddetti motivi non sono fondati e devono essere rigettati.
Occorre ricordare che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. n.
18584 del 2008), in tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., il
giudice del merito, anche se il datore di lavoro non aderisca ad una delle organizzazioni
sindacali firmatarie, ben può assumere a parametro il contratto collettivo di settore, che
rappresenta il più adeguato strumento per determinare il contenuto del diritto alla
retribuzione, anche se limitatamente ai titoli contrattuali che costituiscono espressione,
per loro natura, della giusta retribuzione, con esclusione, quindi, dei compensi aggiuntivi
e delle mensilità aggiuntive oltre la tredicesima. La giusta retribuzione deve essere
adeguata anche in proporzione all'anzianità di servizio acquisita, atteso che la
prestazione di lavoro, di norma, migliora qualitativamente per effetto dell'esperienza; ne
consegue che il giudice può ben attribuire gli scatti di anzianità non per applicazione
automatica, ma subordinatamente all'esito positivo dell'indagine volta a garantire
l'adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost. in considerazione del miglioramento
qualitativo nel tempo della prestazione. Ed infatti, il contratto collettivo, in quanto
norma formulata, in condizioni che garantiscono la formazione del libero consenso, dalle
stesse parti che sono immerse nella realtà da disciplinare, è il più adeguato parametro
per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione.
La Corte d'Appello, con congrua e logica motivazione, ha fatto corretta applicazione di
tali principi.
Ed infatti, il giudice di secondo grado, dato atto della circostanza dedotta da parte
ricorrente della mancata iscrizione ad associazioni datoriali stipulanti le contrattazioni
collettive e del conseguente inquadramento dei dipendenti nell'ambito delle categorie
legali di cui all'art. 2095 c.c., richiama la contrattazione collettiva, ma tale richiamo,
correttamente, è limitato alla individuazione del parametro per la determinazione della
giusta retribuzione ex art. 36 Cost., in ragione delle mansioni svolte.
Nella sentenza resa in secondo grado assume, dunque, rilievo l'art. 2103 c.c., nonchè
l'art. 96 disp. att. c.c., ma non come prospetta parte ricorrente - nel dedurre che la Mu.
non aveva mai cambiato mansioni nel corso del tempo -per quanto previsto nella parte
finale della suddetta disposizione, quanto, come messo congruamente in luce nella
motivazione, con riguardo al diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le
quali è stato assunto e a percepire la connessa retribuzione; diritto che ha come
presupposto essenziale, per poter essere esercitato, l'obbligo del datore di lavoro di far
conoscere al lavoratore, al momento dell'assunzione, categoria e qualifica attribuitagli in
relazione alle suddette mansioni. Pertanto accanto alla categoria legale ex art. 2095
c.c., il datore di lavoro deve far conoscere anche la qualifica convenzionale relativa alle
mansioni in questione.
Come questa Corte, a Sezioni Unite, ha avuto modo di affermare (Cass. S.U., n. 5454
del 2009) l'esercizio del potere direttivo si colloca sul piano dei poteri privati ascrivibili
alla categoria dei diritti potestativi. Con l'assegnazione delle mansioni è il contenuto
dell'obbligazione di svolgere la prestazione lavorativa che viene determinato sicchè con
un atto unilaterale del datore di lavoro si hanno effetti giuridici nella sfera del lavoratore
il quale, in tal caso, versa in una situazione di soggezione. Proprio perchè si tratta di un
potere privato, tipico della subordinazione, il legislatore circonda il suo esercizio di
limitazioni e prescrizioni a garanzia del lavoratore e per bilanciare la sua situazione di
soggezione. Sotto più profili l'esercizio di tale potere può appalesarsi illegittimo: perchè
le mansioni cosi come conformate non sono corrispondenti alla qualifica; o perchè in tal
modo si determina una discriminazione; o perchè c'è un motivo illecito quale quello di
indiretto contrasto dell'attività sindacale del dipendente. In tal caso il lavoratore può
reagire all'esercizio illegittimo di tale potere allegando circostanze di fatto volte a dare
fondamento alla denuncia di illegittimità.
In linea con tali principi, quindi, proprio in quanto la Sardaflora si era limitata ad
inquadrare la M. nell'ambito della categoria operaio, senza alcuna ulteriore
specificazione, nè della qualifica convenzionalmente attribuita, nè delle mansioni in
concreto assegnate, la Corte d'Appello riteneva necessaria l'indagine diretta ad
accertare la natura delle mansioni di fatto svolte dall'appellante, sempre "in vista
dell'individuazione del corretto inquadramento contrattuale, seppure ai soli fini della
tutela retributiva di cui all'art. 36 Cost." -e solo a tali fini, come si legge nella
motivazione della sentenza d'appello citata, dunque, veniva dichiarato in dispositivo il
diritto della Mu. all'inquadramento di operaio qualificato, secondo quanto previsto dal
CCNL operai agricoli e florovivaisti, con decorrenza dal 1 novembre 1993.
In ordine al quinto motivo di impugnazione, relativo al mancato rilievo attribuito ad
alcune risultanze istruttorie occorre ricordare che in tema di valutazione delle prove, nel
nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non
esiste una gerarchia di efficacia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano
necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo rimessa la
valutazione delle prove al prudente apprezzamento del giudice (Cass., n. 9245 del
2007). Sotto altro profilo, detta censura, che non si specifica, peraltro, come richiesto
anche in ordine al vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, in un momento di sintesi del
motivo stesso ex art. 366-bis c.p.c. (Cass., S.U. n. 20603 del 2007), concernendo la
valutazione della prova assunta, involge in realtà la valutazione di specifiche questioni di
fatto, non consentita in sede di giudizio di legittimità.
Ed invero, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso
per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito
dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo,
sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico -formale, delle
argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito
di individuare le fonti del proprio convincimento e di dare adeguata contezza dell'iter
logico -argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione. Ne
consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione,
insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo
quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del
mancato o insufficiente esame di punti "decisivi" della controversia, ovvero quando
esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da
non consentire l'identificazione del procedimento logico -giuridico posto a base della
decisione (ex multis, Cass. n. 1754 del 2007). In altri termini, il controllo di logicità del
giudizio di fatto -consentito al giudice di legittimità -non equivale alla revisione del
"ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una
determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si
risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato
al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata
dall'ordinamento al giudice di legittimità il quale deve limitarsi a verificare se siano stati
dal ricorrente denunciati specificamente -ed esistano effettivamente -vizi (quali, nel
caso di specie, la carente, insufficiente o contraddittoria motivazione) che, per quanto si
è detto, siano deducibili in sede di legittimità.
Nella specie, in ragione, alla luce dei principi sopra richiamati, della congrua e coerente
motivazione della Corte d'Appello, la censura si traduce nella richiesta di un riesame del
merito della controversia, non ammissibile in sede di legittimità. 6. Con il terzo motivo
di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 1997, art. 1,
lett. f), (art. 360 c.p.c., n. 3).
Ad avviso della ricorrente, la Corte d'Appello si sarebbe fermata ad una lettura parziale
della suddetta disposizione, secondo la quale l'obbligo d'informazione del lavoratore può
riguardare anche solo le caratteristiche e la descrizione sommaria del lavoro, circostanze
di cui la M. era informata. La stessa, sentita liberamente dal giudice del lavoro di
Cagliari, aveva, altresì, riconosciuto che gli ordini di servizio venivano affissi ogni giorno
per indicare le incombenze affidate ad ogni lavoratore.
Il quesito di diritto è stato formulato come segue:
"il D.Lgs. n. 152 del 1997, art. 1, lett. f), e segnatamente la seconda preposizione dello
stesso, è pienamente soddisfatta da parte del datore di lavoro privato il quale, fin
dall'assunzione del lavoratore, lo abbia adibito alle medesime mansioni, non mutando
negli anni l'oggetto della prestazione, e specie quando quotidianamente abbia impartito
al lavoratore degli ordini di servizio scritti e affissi nei locali aziendali riportanti le
incombenze attribuitegli, sempre conformi e tali riconosciute dal lavoratore stesso, si
che questi sia stato posto in condizioni di conoscere quotidianamente le attività
lavorative assegnategli e così poterne accertare eventuali variazioni".
Il motivo non è fondato e pertanto va rigettato. Ed infatti, il richiamo al D.Lgs. n. 152
del 1997, art. 1, la cui finalità è quella di consentire al lavoratore di conoscere i termini
della propria posizione lavorativa in modo da poter tutelare i connessi diritti, si aggiunge
ad una motivazione che è già di per sè corretta ed esaustiva, tanto da superare il vaglio
di questa Corte (vedi esame motivi uno, due e cinque), senza dare luogo ad una
autonoma "ratio decidendi". 6. Con il quarto motivo di impugnazione è prospettata
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo
per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5). La motivazione avrebbe eluso l'esame critico di un
fatto controverso, consistente nell'espletamento vantato dalla lavoratrice di incombenze
più elevate (segnalazione malattie parassitarie, invasature di piante di orchidee),
contestato dall'azienda e rilevante ai fini della controversia, giacchè ha indotto la Corte
d'Appello ad un giudizio di qualificazione professionale a vantaggio della lavoratrice
senza considerare le effettive risultanze probatorie (testi C., M., L., P.).
La suddetta censura nel suo complesso non può essere accolta. Come si è accennato,
costituisce principio del tutto pacifico che la deduzione di un vizio di motivazione della
sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il
potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio,
bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della
coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale
spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di
assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di
scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente
idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente
prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente
previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione -sotto il profilo
della omissione, dell'insufficienza e della contraddittorietà -può legittimamente dirsi
sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia
evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia,
prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto
tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire
l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione.
In aderenza alla suddetta regola di diritto, rileva questa Corte che il giudice del merito
ha fatto corretta applicazione della legge e della logica per pervenire all'accertamento
dell'espletamento da parte della M. di mansioni richiedenti specifici requisiti di capacità
professionale.
In particolare la Corte d'Appello ha attribuito rilievo a quanto riferito dai testi escussi
circa il fatto che le procedure di confezionamento dei fiori avvenivano a seconda della
tipologia dei fiori trattati con sistemazione in apposite pipette sistemate su carrello per
gli anturiuym, ovvero con utilizzo di apposite scatole di cartone per quanto riguarda le
gerbere, o ancora, con realizzazione di mazzi di fiori misti mediante cellophane, nastro e
carta lucida o colorata -previa scelta e separazione dei diversi esemplari in relazione
alla loro qualità (di prima scelta, di seconda scelta o di terza) ed alle loro dimensioni.
Sotto altro profilo, la Corte d'Appello attribuiva rilievo anche all'ammessa attività di
segnalazione di talune malattie parassitarie semplici (cfr. libero interrogatorio del Mu.
dinanzi al Tribunale) che postula il possesso in capo alla M. di una specifica capacità
professionale, seppure acquisita a seguito di pluriennale pratica di lavoro.
Alla luce delle complessive risultanze processuali, quindi, il giudice di appello ha
ritenuto, con motivazione congrua, che proprio la natura eterogenea delle mansioni di
produzione e di valorizzazione della produzione stessa disimpegnate in via del tutto
prevalente dalla M., poichè richiedenti per il loro corretto svolgimento requisiti di
specifica capacità professionale, ne comportava l'inquadramento nell'ambito della
qualifica di operaio qualificato, almeno ai fini della adeguatezza della retribuzione ex art.
36 Cost..
7. Con il sesto motivo d'impugnazione è dedotta la violazione degli artt. 3 e 36 Cost., e
dell'art. 2099 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).
Deduce parte ricorrente come, all'esito della CTU, è emerso che lo scostamento
esistente tra la retribuzione corrisposta alla M. e quella presa a parametro dalla Corte
d'Appello per il lavoratore comune contemplato dalla contrattazione collettiva,
nell'ambito della quale devono essere inquadrate le mansioni svolte dalla suddetta
lavoratrice, è di appena l'1,81 per cento inferiore. Per la ridotta dimensione di tale
differenza, dunque, non può esprimersi un giudizio di insufficienza rispetto alla
prescrizione di cui all'art. 36 Cost..
Il quesito di diritto ha il seguente tenore: "qualora la retribuzione corrisposta al
lavoratore dall'imprenditore, e quella indicata dalla contrattazione collettiva presa a
riferimento dal giudice di merito, sussista una differenza minima, nella specie di appena
l'1,81 per cento, tale scostamento di così ridotta dimensione non può censurarsi come
violazione dei parametri di proporzionalità e di sufficienza della retribuzione ex art. 36
Cost.". 7.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato, in quanto Io stesso non
coglie la ratio decidenti della pronuncia in esame.
Ed infatti, la Corte d'Appello, ha posto a fondamento della decisione di condanna
l'accertato scostamento dell'11,001 per cento della retribuzione corrisposta dalla
Sardaflora in favore della M., rispetto a quella dovuta per la figura professionale
dell'operaio qualificato, sulla base del cd. minimo costituzionale, considerato che tale
dato non poteva essere neutralizzato dal fatto che la predetta retribuzione attribuita alla
lavoratrice fosse risultata superiore del 6,986 per cento rispetto a quella prevista dal
contratto di riallineamento ai salari della contrattazione collettiva nazionale e di quella
integrativa provinciale per l'operaio qualificato (in quanto tale contratto era diretto a
consentire ai soggetti aderenti il graduale rientro nell'ambito dei parametri salariali,
secondo predeterminate quote di maggiorazione e sequenze, nell'arco di un
quadriennio).
8. Con il settimo motivo di impugnazione è dedotta la violazione degli artt. 3 e 36 Cost.
e dell'art. 2099 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).
Il quesito di diritto ha il seguente tenore: "qualora le organizzazioni sindacali dei
lavoratori e dei datori di lavoro, maggiormente rappresentative sul piano nazionale,
regolino con un accordo collettivo stipulato a livello decentrato che contempli per i
dipendenti di una determinata attività produttiva una retribuzione anche inferiore
rispetto a quella generale della contrattazione collettiva, può fondatamente ritenersi che
essa sia contraria al precetto costituzionale di cui all'art. 36 Cost., mentre non può
discriminarsi tale giudizio di compatibilità, con l'anzidetto precetto costituzionale tra
imprenditori che aderiscono ad una organizzazione sindacale di categoria che sottoscriva
l'anzidetto accordo, e quelli che invece non vengono rappresentati da alcuna
associazione datoriale, nel senso che il giudizio di osservanza della norma costituzionale
deve essere esteso a tutti i rapporti di lavoro riguardanti l'attività produttiva in
argomento". 8.1. Il motivo non è fondato e pertanto deve esser rigettato.
Anche la suddetta censura non coglie la rario decidendi della decisione della Corte
d'Appello, incentrata, nello specifico, sulla determinazione della retribuzione equa ex art.
36 Cost. e non sulla comparazione tra imprenditori iscritti o non iscritti ad organizzazioni
sindacali.
Ed infatti, la Corte d'Appello ha affermato come, in ragione dello scostamento positivo
tra retribuzione erogata e quella prevista dal contratto di riallineamento, non era lecito
operare alcuna riduzione dei minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva di
settore in vista della determinazione della retribuzione equa di cui all'art. 36 Cost.. Nè,
potevano assumere rilievo la dedotta crisi strutturale, nazionale e locale, del settore
agricolo e florovivaistico, nè la pure dedotta, generalizzata evasione dei minimi salariali
previsti dalla contrattazione collettiva nazionale e provinciale.
Ciò tenuto conto, altresì, della peculiare natura del processo produttivo realizzato dalla
Sardaflora (produzione, commercializzazione di fiori), e anche della consistenza
dimensionale medio-grande rivestita dalla medesima, che aveva sempre occupato, nel
periodo per cui è causa, oltre sessanta dipendenti.
Dunque, nel ragionamento motivazionale del giudice d'appello, residuale e non
integrante la ratio decidendi del relativo capo della pronuncia, è l'affermazione che i
soggetti aderenti al contratto di riallineamento, si impegnano a riconoscere, a differenza
della Sardaflora, la vincolatività della contrattazione collettiva nazionale e provinciale.
9. In ragione delle considerazioni svolte, pertanto, il ricorso deve essere rigettato.
10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio
che liquida in Euro duemilacinquecento per onorario, Euro 40,00 per esborsi, oltre spese
generali, IVA e CPA.
Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2011.